Aprile-Giugno 2019
Diritto e pratica clinica 2 RESPONSABILITÀ MEDICA
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ISSN 2532-7607
RESPONSABILITÀ MEDICA
Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Responsabilità medica e istituti alternativi negli ordinamenti europei, di Giovanni D’Amico La legge sulle decisioni di cura e la figura del medico, di Donato Carusi La legge Gelli-Bianco e il regime binario, di Raffaella De Matteis Quarant’anni dalla legge Basaglia, di Angelo Venchiarutti e Beppe Dell’Acqua Rifiuto alla trasfusione ematica per motivi religiosi, di Matteo Bolcato, Marianna Russo e Anna Aprile
Aprile-Giugno 2019 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella
Pacini
INDICE Saggi e pareri Giovanni D’Amico, Responsabilità medica e istituti alternativi negli ordinamenti europei di civil law.............................................................................................................................................p. 147 Donato Carusi, La legge sulle decisioni di cura e la figura del medico: una lettura critica..........» 167 Raffaella De Matteis, La legge Gelli-Bianco e il regime binario: presupposti, implicazioni e questioni irrisolte...............................................................................................................................» 175 Italo Partenza, Buon compleanno Legge Gelli, anzi no...................................................................» 195 Stefano Rossi, Il contratto di Ulisse. Costruzioni giuridiche e tutela costituzionale del sofferente psichico..............................................................................................................................» 205 Stefano Corso, Sul trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario: l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali.............................................................................» 225
Giurisprudenza Trib. Milano, 28 gennaio 2019, con nota di commento di Sergio Belloni Peressutti, La “possibilità di sopravvivere”, tra nesso di causa, perdita di chance e danni non patrimoniali....» 243 Trib. Milano, 10 dicembre 2018, con nota di commento di Roberta Victoria Nucci, Il Tribunale di Milano conferma il suo orientamento circa l’applicazione della legge Gelli oltre il tempus regit actum: la questione rimane aperta..........................................................................» 255 Trib. Parma, 4 marzo 2019, con nota di commento di Matteo Leonida Mattheudakis, Un’applicazione giudiziale dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. La giurisprudenza di merito percorre la strada delle buone pratiche clinico-assistenziali..........................................................» 261
Dialogo medici-giuristi Angelo Venchiarutti e Beppe Dell’Acqua, Riflessioni attorno alla legge n. 180/78 a quarant’anni dalla sua approvazione.............................................................................................» 271
Osservatorio medico-legale Matteo Bolcato, Marianna Russo, Anna Aprile, Rifiuto alla trasfusione ematica per motivi religiosi. Considerazioni medico-legali a margine di una recente sentenza.................................» 279
Saggi e pareri
Saggi e pareri
Responsabilità medica e istituti alternativi negli ordinamenti europei di civil law*
g g sa re e a p
Giovanni D’Amico
Professore nell’Università Mediterranea di Reggio Calabria Sommario: 1. Premessa. Responsabilità medica ed istituti alternativi per affrontare il problema dei “danni” connessi allo svolgimento dell’attività sanitaria. In particolare: i c.d. sistemi no-fault. – 2. Segue: cenni al “modello svedese” in materia di riparazione dei pregiudizi dell’attività sanitaria. – 3. La recente riforma della responsabilità medica in Francia (loi Kouchner) e in Belgio, e l’introduzione di un sistema no-fault parzialmente sostitutivo del meccanismo della responsabilità civile. – 3.1. Segue. – 4. Gli ordinamenti europei di civil law che non hanno sostituito il (o affiancato al) tradizionale “sistema di responsabilità civile” con un sistema no-fault: a) la responsabilità medica in Germania. – 5. Segue: b) la responsabilità medica in Spagna. – 6. Segue: la responsabilità medica in Italia. – 7. Sintesi delle principali linee emerse dall’indagine compiuta.
Abstract: L’autore analizza i meccanismi di “no-fault compensation” di recente introdotti in alcuni ordinamenti di civil law al fine di integrare i tradizionali sistemi di responsabilità medica. Sebbene questi meccanismi non prevedano un ristoro completo del danno sofferto, essi sono cionondimeno idonei ad ovviare ad alcuni ricorrenti inconvenienti dei tradizionali sistemi di responsabilità medica. The Author examines the no-fault compensation schemes recently introduced in some civil law countries to complement traditional medical liability systems. Although in no-fault schemes the claimant cannot receive full compensation for the loss suffered, they are nonetheless able to overcome some recurrent inconveniences of traditional medical liability systems.
1. Premessa. Responsabilità medica ed istituti alternativi per affrontare il problema dei “danni” connessi allo svolgimento dell’attività sanitaria. In particolare: i c.d. sistemi no fault Il problema di rimediare ai pregiudizi che si producono nello svolgimento dell’attività sanitaria può ricevere diverse soluzioni, tra le quali un ruolo sicuramente significativo ha la soluzione basata sulla “responsabilità” civile (del medico e/o della struttura sanitaria). Non si tratta, tuttavia, dell’unica risposta possibile1, perché – come vedremo subito – gli ordi-
Un quadro assai accurato delle “risposte istituzionali” (alternative alla responsabilità civile) al problema di rimediare alla produzione di determinati danni (in ispecie, dei danni non patrimoniali, o danni alla persona) è fornito dal volume di Comandé, Risarcimento del danno alla persona e alternative istituzionali. Studio di diritto comparato, Torino, 1999, passim. 1
Si pubblica, con l’aggiunta delle note, il testo della Relazione svolta dall’a. nell’ambito del VI Congreso de Derecho Civil Patrimonial, dedicato al tema “La responsabilidad civil en la experencia ítalo-peruana” (Lima, 21-24 maggio 2018).
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namenti giuridici (e, in particolare, quelli di civil law, ai quali sarà circoscritta la presente Relazione) affiancano a questo tipo di risposta, altre soluzioni, che – in alcuni casi – hanno assunto un carattere preminente. Le ragioni che hanno condotto al ridimensionamento del ruolo della responsabilità civile in favore di altre soluzioni, sono note, e si sono evidenziate (ancor prima che nel campo sanitario) in altri settori, come quello degli infortuni sul lavoro o quello degli incidenti derivanti dalla circolazione di autoveicoli. In alcuni casi è stato sufficiente “adattare”, per così dire, le regole di responsabilità alla natura particolare di alcune attività fonti di rischio (ad es. perché si tratta di attività per le quali è difficile, sovente, individuare una precisa colpa “individuale” nella produzione del danno)2 o dei pregiudizi che da tali attività possono derivare (ad es. perché si tratta di pregiudizi aventi un carattere ricorrente, e, per così dire, “di massa”3). Tale adattamento è avvenuto, talora, abbandonando il criterio della “colpa” come criterio di imputazione (“soggettiva”) della responsabilità, e adottando criteri di imputazione “oggettiva” (come il c.d. “criterio del rischio”, particolarmente adatto a governare l’imputazione della responsabilità derivante dallo svolgimento di attività di impresa), altre volte imponendo a chi svolge determinate attività l’obbligo di assicurarsi (in particolare nella forma della assicurazione della responsabilità civile)4.
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L’introduzione di meccanismi di “responsabilità oggettiva” (in luogo della tradizionale responsabilità per colpa), tuttavia, non sempre – né incontestatamente – è stata ritenuta soluzione bastevole5, in quanto accusata da un lato di non realizzare in maniera adeguata (anche per l’abbinamento con l’assicurazione) la funzione “preventiva”, che si ritiene (tra le altre) propria della responsabilità civile, e dall’altro di non essere comunque idonea ad eliminare gli inconvenienti per converso riferibili alla tecnica della responsabilità civile, inconvenienti tra i quali se ne sottolineano soprattutto due: 1) il fatto che (a causa dell’operare di alcune regole, sia di diritto sostanziale che di diritto processuale) spesso non sia del tutto prevedibile l’ammontare del risarcimento, e 2) il fatto che il più delle volte l’iter per ottenere tale risarcimento sia insopportabilmente lungo. Di qui l’idea6 di sostituire il meccanismo della responsabilità civile con sistemi di compensation (statale) che prescindano non solo dall’accertamento della colpa, ma anche da quello della responsabilità, riconoscendo comunque (se pure con riferimento ad alcuni danni soltanto) un “indennizzo” a chi dimostri (semplicemente) di aver
dizio in caso di iniziativa giudiziale del danneggiato), ovvero possa essere chiamata in giudizio direttamente con la c.d. “azione diretta”. Oltre tutto, l’analisi economica del diritto sembrerebbe pervenire alla conclusione che, in assenza di costi transattivi, tanto le regole di responsabilità oggettiva quanto quelle della responsabilità per colpa sono idonei a promuovere livelli ottimali di diligenza (la responsabilità oggettiva può incentivare anche corretti livelli di attività) (Comandé, op. cit., 290 s.), anche se si obietta (non solo che – nella realtà – i costi transattivi sono presenti, ma anche) che per valutare gli effetti (in termini di promozione di uno standard di diligenza adeguato) di una regola di responsabilità per colpa bisognerebbe includere nei costi imposti al danneggiante anche quelli causati alla vittima che non avanza pretese risarcitorie (altrimenti il danneggiante non avrà gli incentivi necessari ad indurlo ad esercitare un livello di diligenza socialmente ottimale) (cfr. Comandé, op. cit., 293).
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Si tratta del fenomeno dei c.d. “danni anonimi”.
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Si pensi al settore degli incidenti stradali.
Vedremo più avanti come il meccanismo dell’assicurazione della responsabilità civile (c.d. third party insurance, in contrapposto alla first party insurance o assicurazione contro i danni, che si associa solitamente all’operare di meccanismi di sicurezza sociale) incida non poco sul modo di funzionare delle stesse regole di responsabilità (ad es.: sulla funzione preventiva di queste regole) (v. part. Comandé, op. cit., spec. 299 ss.). Si aggiunga che questo meccanismo può, a propria volta, operare diversamente a seconda che l’assicurazione copra (corrispondendo il relativo importo all’assicurato) i risarcimenti che il danneggiante abbia dovuto eseguire a favore del danneggiato (con modalità che di solito prevedono la partecipazione dell’assicurazione sia alla gestione “extracontrattuale” delle controversie, sia la necessaria chiamata in giu-
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Che ha – sinora – trovato una realizzazione “piena” in un unico paese, la Nuova Zelanda (dove, peraltro, il sistema originario si è andato nel tempo parzialmente modificando), secondo un modello che ha trovato un qualche riscontro anche nell’ordinamento svedese. Per una breve descrizione dell’esperienza neozelandese, v. Comandé, op. cit., 163 ss.
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subito un “pregiudizio”7, connesso ad un accident rientrante tra quelli ricompresi nel programma di indennizzo8. La soluzione (quale adottata, ad es., in Nuova Zelanda) prevede che, se il danno rientra tra quelli ricompresi nel “programma di indennizzo”, il danneggiato perda il diritto di agire in r.c.9, ma
Va da sé che anche in questi sistemi conserva rilevanza l’elemento “causale” (nesso di causa), il quale consente di “distinguere tra l’evento lesivo involontariamente patito e quello cui ci si è volontariamente sottoposti (uno stile di vita, ad esempio)” (cfr. Comandé, op. cit., 339).
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Peraltro anche nei Paesi che lo hanno adottato, questo sistema (no-fault) “svolge solo una funzione secondaria di protezione poiché i danneggiati ricevono buona parte della compensation connessa ad una personal injury attraverso programmi di sicurezza sociale» (Comandé, op. cit., 340). Più in generale, va osservato che l’esistenza di istituti di “sicurezza sociale” (ad es. sanità pubblica, più o meno gratuita; operare di meccanismi di “sostegno al reddito”, etc.) contribuisce – anche in sistemi basati sul meccanismo della responsabilità civile – ad “assorbire” (alcune del)le conseguenze pregiudizievoli degli “accidenti”, modificando non poco (almeno in fatto) il funzionamento delle stesse regole di responsabilità civile (v. Id., op. cit., 70 e nt. 46). Ad es. può essere fuorviante effettuare – senza questa avvertenza preliminare – confronti tra i sistemi-Paese europei e il sistema-Paese statunitense: i risarcimenti che vengono liquidati negli ordinamenti europei sono – sì – inferiori (a volte sensibilmente) rispetto a quelli a cui si assiste nell’ordinamento nord-americano, ma perché il confronto non sia falsato bisognerebbe anche computare nella compensation che la vittima ottiene l’assistenza sanitaria, che in Europa è assicurata a favore di tutti i cittadini (anche dei lavoratori autonomi), i quali non pagano (o pagano solo in parte) il costo delle singole prestazioni, ma finanziano il sistema di assistenza sanitaria pubblica attraverso la tassazione (cfr. Id., op. cit., 266). Il che significa che nei Paesi europei una gran parte dei danni viene rifusa dalle assicurazioni sociali, e il contenzioso di responsabilità civile «rimane la fonte risarcitoria primaria solamente per le perdite non pecuniarie o per le ipotesi di minore gravità non contemplate dagli istituti di sicurezza sociale» (Id., op. cit., 269). Del resto, nemmeno negli Stati Uniti (dove pure il risarcimento in tort assume una maggiore centralità, rispetto a quanto accade altrove) si può dire che l’illecito extracontrattuale occupi sotto il profilo quantitativo uno spazio prevalente nel sistema globale di risposta del danno alla persona (v. Id., op. cit., 282 e nt. 4, dove si afferma che “dei 176 miliardi di dollari spesi annualmente negli USA per il ristoro del solo lucro cessante, connesso ad un danno alla persona, solamente 8 provengono dal tort system. Peraltro, il pagamento di 8 miliardi di dollari genera costi di gestione pari a 7 miliardi di dollari”). 8
Diritto che egli mantiene solo per le fattispecie che non rientrano nel “programma di indennizzo” (o per le quali si sia
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possa ottenere un “indennizzo” che viene bensì erogato in tempi rapidissimi10, e con costi amministrativi decisamente più bassi di quelli propri di un sistema di r.c.11, ma che “copre” voci di danno predeterminate (lucro cessante, nei limiti di una somma massima periodicamente aggiornata; costo dell’assistenza sanitaria e riabilitativa; spese comunque dovute al sinistro; spese funerarie o di assistenza infermieristica; infine, un pagamento una tantum per le perdite non patrimoniali, ricomprendendo in questa formulazione permanent physical disability, pain ad suffering, disfigurement e loss of enjoyment of life). Dunque, la caratteristica di questo sistema è quella di ristorare pressoché integralmente le perdite pecuniarie12 (arrivando a coprirle sino all’80-90% del loro effettivo ammontare), mentre le non pecuniary losses sono risarcite con somme capitali una tantum in base a tabelle che liquidano una data percentuale della somma massima risarcibile per ogni perdita non economica13. Un meccanismo, dunque, i cui
comunque visto respingere la richiesta di indennizzo). È questo il meccanismo della versione c.d. pura di no-fault plan. Gli add-non fault plan, invece, non precludono l’azione in responsabilità, ma richiedono, su base volontaria od obbligatoria, l’acquisto di una polizza assicurativa “con l’obiettivo di mantenere sui creatori di maggior rischio il più elevato onere assicurativo da loro provocato e di garantire comunque un livello minimo di risarcimento. Alternativamente, l’eliminazione dell’azione di responsabilità civile investe solamente le lesioni di minore entità lasciando pienamente in vigore le tradizionali regole di r.c. per le lesioni più gravi” (Comandé, ibidem). Misurabili in qualche settimana dalla presentazione della richiesta. 10
11 Comandé, op. cit., 164, riferisce che in Nuova Zelanda, i costi di gestione del sistema di compensation (statale) che stiamo descrivendo si aggirano intorno al 6% delle risorse che vengono raccolte per essere destinate al finanziamento del sistema (dunque, il 94% delle risorse raccolte ritornano ai cittadini). 12 Sostanzialmente le perdite (temporanee o permanenti), anche parziali, della capacità lavorativa, con la conseguenza che restano fuori da questo tipo di risarcimento i non occupati o le casalinghe.
Così Comandé, op. cit., 166, il quale ricorda che unico requisito per ottenere l’assegnazione di queste voci di danno (non patrimoniale) «consiste(va) nell’addurre una lesione sufficientemente grave dal punto di vista medico da giustificare il pagamento».
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esiti sono alquanto lontani da quelli che potrebbero conseguire all’applicazione della tecnica della responsabilità civile14, specie se questa tecnica si basi (come è avvenuto, ad es., nell’ordinamento italiano negli ultimi decenni) su uno «spostamento del baricentro del sistema di liquidazione dal reddito al valore uomo nel suo complesso»15.
Anche per questo motivo – sebbene il meccanismo di “indennizzo” riceva (complessivamente) un largo gradimento da parte delle vittime (che ricevono in temi rapidissimi, e senza grandi difficoltà, gli indennizzi previsti, ove ne ricorrano i presupposti), non mancano per altro verso insoddisfazioni rispetto alla (sensibile) limitazione dei benefici conseguibili, e tentativi dei singoli di sottrarre il proprio caso all’applicazione del compensation scheme, per attingere (nuovamente) alle regole di responsabilità civile (Comandé, op. cit., 172). In generale, le caratteristiche comuni dei meccanismi no-fault (sia pure variamente articolati) sono sostanzialmente tre (v. Id., op. cit., 327): “a) generalmente prescindono dall’accertare la colpevolezza del danneggiante; b) offrono un ristoro dei danni in misura economica tendenzialmente inferiore rispetto a quella offerta dalle regole di responsabilità civile e, solitamente, secondo criteri rigidamente tabellari; c) tributano minore attenzione alla riduzione del costo dei sinistri scoraggiando la creazione di rischi”.
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A parte ciò, si sono avanzati dei dubbi circa l’efficienza di un sistema che, per finanziare il programma di compensation si basa su meccanismi di tassazione indiscriminata, inidonei ad agire efficacemente “sia sulla condotta potenzialmente causativa di danni sia sui livelli di attività”16, e ciò ha portato ad alcune modifiche dell’originario modello, che hanno affiancato a settori nei quali
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Lo rileva, ancora, Comandé, op. cit., 168. Ivi anche l’osservazione, secondo la quale ulteriori elementi che concorrono a “contenere” le somme erogate in occasione di “accidenti” rilevanti ai sensi del “programma di indennizzo”, sono la sensibile riduzione delle somme liquidabili ai familiari della vittima deceduta, il ridimensionamento della nozione di “infortunio medico” (medical misadventure), l’introduzione di meccanismi assicurativi per i lavoratori subordinati, una parziale forma di autoassicurazione contro i danni alla persona per i datori di lavoro. Nonostante ciò il modello neozelandese ha posto nel tempo problemi di tenuta finanziaria, e connesse esigenze di contenimento dei suoi costi. Va ricordato che il meccanismo di finanziamento del sistema si basa su specifiche tasse (ora, significativamente, chiamate “premi”) gravanti su determinate categorie di soggetti (i datori di lavoro per il risarcimento dei lavoratori, i proprietari dei veicoli a motore per il risarcimento delle vittime di sinistri stradali, i cittadini in genere per il risarcimento delle vittime non produttrici di reddito); Id., op. cit., 170. Un severo giudizio sui risultati (definiti “disastrosi”) esibiti dall’esperienza neozelandese e svedese, si legge in Busnelli, Premesse giuridiche, in Aa.Vv., La responsabilità medica in ambito civile, a cura di Fineschi, Milano, 1988, 42 (ove si mette in guardia da quella che viene definita «l’orgia dei sistemi no fault»). L’illustre autore indica piuttosto nell’operare “combinato” degli istituti di sicurezza sociale e di responsabilità una possibile “terza via”, capace di superare l’alternativa (secca) tra “sistemi no fault ” e “responsabilità civile” (cfr. Busnelli, Modelli e tecniche di indennizzo del danno alla 15
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persona. L’esperienza italiana a confronto con l’alternativa svedese, in Jus, 1986, 238 s.; e, sulle sue orme, Poletti, Danni alla persona negli accidenti da lavoro e da automobile, Torino, 1996, 62) (si noti come la stessa previsione di “meccanismi di indennizzo no fault” per determinati “accidenti”, sia suscettibile – in un certo senso – di essere ricompresa nell’ambito in senso lato degli istituti di “sicurezza sociale”; sicché – sotto questo profilo – quei meccanismi costituiscono effettivamente una “alternativa” alla responsabilità civile, pur se inidonea a sostituire integralmente il sistema di tort law ; v. quanto diremo più avanti a proposito della “loi Kouchner”, in Francia). In generale, si pronuncia contro l’uso di “sistemi chiusi, che si avvalgono di una sola risposta istituzionale”, Comandé, op. cit., spec. 100 ss. Nello specifico, questo a. sostiene che – nella realtà storica – non si riscontra mai il ricorso ad un’unica soluzione, applicata – per così dire – in purezza: e così, ad es., il meccanismo “responsabilità civile+assicurazione (privata)” (che si dovrebbe contrapporre a soluzioni basate su congegni di “assicurazione sociale”), è un meccanismo che quasi sempre risulta “più o meno manipolato dalla mano pubblica, vuoi sotto il profilo dell’obbligatorietà dell’assicurazione vuoi sotto quello della disciplina pubblicistica delle imprese che le gestiscono o delle modalità di finanziamento del sistema”, che lo avvicinano a quello di un sistema di “assicurazione sociale” (sebbene tecnicamente non possa essere definito tale, costituendo piuttosto un parziale trapianto di alcune caratteristiche dei sistemi di assicurazione sociale nel tessuto originario della responsabilità civile, che finisce così per assumere caratteri “ibridi”: Id., op. cit., 105 s.). Per altro verso, si osserva che i benefici in termini di (maggiore) deterrenza, che generalmente si associano ai meccanismi della tort law, non sono poi così certi, se è vero da un lato che essi possono essere vanificati dall’esistenza di una assicurazione della r.c., e, dall’altro, che la deterrenza non ha modo di operare “per gli accadimenti realmente accidentali o quando, in ipotesi, il potenziale danneggiante non conosca le norme che gli impongono la responsabilità, o quando non sia in grado di operare efficacemente la necessaria analisi costi/benefici per decidere dell’adozione di uno strumento di prevenzione” (Comandé, op. cit., 290). Sotto altro profilo, alcuni studiosi suggeriscono di non inserire, tra quelli da prendere in considerazione, obiettivi di deterrence, affidando la realizzazione di tali obiettivi alla normativa amministrativa di sicurezza concernente le singole attività regolamentate (cfr. Id., op. cit., 336). 16
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è stato mantenuto un completo no-fault plan (ad es. il settore dei sinistri stradali), altri ambiti – tra cui quello, per noi maggiormente interessante, degli “accidenti” relativi allo svolgimento di un’attività sanitaria – nei quali si è adottato un modello misto di “sicurezza sociale/no-fault/responsabilità civile”.
2. Segue: cenni al modello svedese 17 in materia di riparazione dei pregiudizi dell’attività sanitaria In Europa l’esperienza che maggiormente si è avvicinata a quella neo-zelandese, nel prevedere, in materia di danni alla persona, un meccanismo “sostitutivo” di quello (tradizionale) della responsabilità civile, è stata (almeno sino a poco tempo fa) l’esperienza svedese18, alla quale è dedicato il presente paragrafo. Nonostante fosse stata approvata qualche anno prima (nel 1972) una nuova “Legge sulla responsabilità civile” (Skadeständslag), nel 1975 in Svezia19 è diventata operativa (sebbene non sulla base di una legge20) la c.d. “Assicurazione per i pazien-
Si omette qui di richiamare la discussione circa la classificazione dei diritti nordici alla stregua della contrapposizione civil law /common law, dibattito che – di recente – è stato considerato “poco fecondo, perché le vicende storiche non hanno offerto occasione di rilevanti scambi con il diritto inglese o americano, se non in epoca recentissima e in settori molto specifici” (così Simoni, Una macchina risarcitoria. Regole, attori, problemi nel “modello svedese” di riparazione del danno alla persona, XVII, Torino, 2001; ivi anche l’osservazione secondo cui i diritti nordici – ossia il diritto di paesi come Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Islanda – “mostrano come è possibile l’affermazione di un positivismo legislativo molto marcato, pur in assenza di codificazioni nel senso proprio dell’esperienza continentale”).
ti” (Patientförsäkring), il cui scopo era quello di «coprire tutte quelle situazioni ove un danno alla persona era causato da un intervento valutabile a posteriori come errato o comunque non ottimale, escludendo, salvo eccezioni definite, quelle situazioni in cui il danno apparisse, tanto in generale quanto nel caso specifico, una naturale o probabile conseguenza, lege artis inevitabile, della patologia di base o della misura da questa indotta»21. L’assicurazione mirava alla riparazione integrale del danno (se ricompreso tra quelli risarcibili)22, così come previsto dal diritto comune (compresa la detrazione dei benefici corrisposti da altri strumenti risarcitori). La previsione dello strumento assicurativo ha, da un lato, consentito l’emersione di esigenze risarcitorie che prima non venivano coltivate (in via giudiziaria), dall’altro la drastica riduzione delle controversie giudiziarie di responsabilità medica (quelle poche che continuano ad essere promosse si spiegano con la «valenza “simbolica” che la pronuncia giudiziaria può rivestire per alcune vittime di danni alla persona attribuiti alla malpractice»). Circa vent’anni fa l’Assicurazione per i pazienti – originariamente nata per iniziativa autonoma degli operatori del settore – è stata regolata con una legge23 (denominata “Legge sui danni ai pazienti”
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Sulla quale, oltre al volume di Simoni, citato nella nota precedente, cfr. Procida Mirabelli di Lauro, I danni alla persona tra responsabilità civile e sicurezza sociale, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 783.
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19 In quello stesso anno, la Svezia aveva approvato anche una nuova “Legge sui danni del traffico”, che optava – in tema di danni alla persona – per una soluzione no-fault (sancendo l’obbligo di assicurazione a carico dei proprietari di autoveicoli). 20
Bensì sulla base di un impegno autonomamente assunto
dalla comunità dei potenziali offensori per garantire, tramite il ricorso ad un assicuratore, la riparazione dei danni alla persona cagionati dalla loro attività (cfr. Simoni, op. cit., 129, ove si precisa altresì che, in questo caso, i garanti erano le associazioni degli enti territoriali – contee e comuni –, quali principali datori di lavoro del personale sanitario; ad essi si sono poi aggiunti gli altri soggetti fornitori di servizi sanitari, compresi i liberi professionisti). 21
Simoni, ibidem.
Dai casi coperti dall’indennizzo corrisposto dall’assicurazione erano esclusi (e l’esclusione è stata mantenuta anche dalle legge del 1996/97 che ha regolamentato la materia) i danni derivanti da violazione del diritto del paziente al “consenso informato”, sia per il timore che un obbligo risarcitorio sanzionato legislativamente possa (in questo caso) incrinare la relazione di fiducia tra personale sanitario e pazienti, sia perché si è ritenuto che l’accertamento della (eventuale) violazione possa in questo caso essere meglio effettuato dal giudice ordinario (cfr. Simoni, op. cit., 136). 22
23 La necessità di intervenire legislativamente è scaturita da diversi fattori: la generale diminuzione delle prestazioni fornite dallo Stato; l’apertura del mercato svedese ad operatori
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– Patienntskadelag, entrata in vigore il 1° gennaio 1997), che stabilisce (fra l’altro) il diritto del singolo assicuratore di rivalersi sull’offensore nei casi in cui il danno sia stato cagionato con dolo o con colpa grave (PSL, § 20). È esplicitamente lasciata alle vittime – a differenza di quanto accade nella soluzione neozelandese – la possibilità (di non valersi della “indennità per i pazienti”, e) di agire in via ordinaria per ottenere il risarcimento24 giudizialmente25. Va, comunque, segnalato che il ricorso alla responsabilità civile per la riparazione dei pregiudizi nei settori coperti dal sistema “assicurativo” sopra descritto è di fatto estremamente limitato, e sostanzialmente marginale, anche se esiste una certa insoddisfazione per il livello (ritenuto quantitativamente basso) della riparazione dei pregiudizi non patrimoniali26.
sanitari esteri; l’incompatibilità con il nuovo diritto della concorrenza di matrice comunitaria della forma in cui era originariamente gestito lo schema assicurativo volontario (ossia un consorzio di compagnie assicurative operante congiuntamente con gli enti territoriali fornitori di servizi sanitari). Cfr. Simoni, op. cit., 132. La legge impone la costituzione di una “Associazione per l’Assicurazione ai pazienti” tra gli assicuratori del settore. I membri della suddetta Associazione costituiscono e finanziano una “Commissione per i danni ai pazienti” (comprendente rappresentanti degli interessi dei pazienti), la quale ha il compito di esprimere (su richiesta della vittima, di un prestatore di servizi sanitari, o di un assicuratore) un parere (formalmente non vincolante) sulle domande di indennizzo. 24 Le Corti intervengono anche nei casi in cui (anziché rivolgersi ad esse per ottenere il risarcimento sulla base delle regole comuni di r.c.) la vittima contesti la violazione del proprio diritto “all’indennità per i danni ai pazienti”.
In caso di soccombenza, l’offensore subentra al danneggiato nel diritto all’ammontare dell’indennità (PSL §§ 18-19). 25
Tanto che – come riferisce Simoni, op. cit., 240 s. – una Commissione di studio istituita alcuni anni fa ha proposto (nel Rapporto finale, pubblicato nel 1995) un aumento di circa il 50% delle somme spettanti per menomazioni e lesioni permanenti, oltre a proporre il risarcimento delle sofferenze (il “pain and suffering”) provate nello stadio acuto della malattia. Inoltre si propone di considerare trasmissibili per via ereditaria tutti i diritti al risarcimento di danni non patrimoniali che siano stati fatti valere prima del decesso. 26
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3. La recente riforma della responsabilità medica in Francia (loi Kouchner), e in Belgio, e l’introduzione di un sistema nofault parzialmente sostitutivo del meccanismo della responsabilità civile In materia di danni connessi allo svolgimento dell’attività sanitaria, alle ragioni di crisi (della risposta articolata attraverso la tecnica) della responsabilità civile27 – esaminate (in generale) nei paragrafi precedenti – si aggiungono altri motivi, tra cui ad esempio la sempre più diffusa percezione che spesso la fonte del danno va ricercata non tanto in un errore individuale (quale si ritiene debba individuarsi in una indagine volta ad accertare una condotta “illecita”), ma piuttosto ad una “falla” organizzativa (che potrebbe non essere connotata, necessariamente, da colpa individuale)28. Per converso, proprio il timore di poter essere coinvolto in un giudizio di responsabilità, «disincentiva il personale sanitario anche dal partecipare attivamente ai meccanismi di gestione del rischio clinico»29, motivo ulteriore che deporrebbe – secondo alcuni autori – per l’abbandono del tort system e per la sua sostituzione con un no-fault system.
27 Queste ragioni – lo ricordiamo – si legano alla lunghezza, ai costi e alle incertezze del processo, a fronte di danni che richiederebbero una riparazione immediata (soprattutto quando il patrimonio del paziente non sia sufficiente ad affrontare le conseguenze pregiudizievoli dell’illecito, ad es. con riferimento alla perdita della capacità di produrre reddito per un tempo più o meno lungo, o sostenere spese per prestazioni mediche non coperte dal sistema sanitario pubblico). In questi casi, un meccanismo di “indennizzo” (oggettivo), che prescinda dall’accertamento di una “responsabilità”, può costituire una soluzione più adeguata.
Lo evidenzia Nocco, Un no-fault plan come risposta alla “crisi” della responsabilità sanitaria? Uno sguardo all’“alternativa francese” a dieci anni dalla sua introduzione, in Riv. it. med. leg., 2012, 449 ss. (ed ivi in particolare, 452 e nt. 13 dove vengono ricordate – fra l’altro – le riflessioni generali di Geneviève Viney sulla moderna “anonimizzazione” del danno: cfr. Viney, le déclin dela résponsabilité individuelle, Paris, 1965). 28
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Così, ancora, Nocco, op. cit., 456.
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Queste ragioni hanno fatto breccia anche nell’ordinamento francese, dove una legge risalente a sedici anni or sono (legge n. 303 del 4 marzo 2002 – c.d. “loi Kouchner”)30 ha inserito il settore dei danni da attività sanitaria nell’ambito del sistema di “sicurezza sociale”31, prevedendo che un organo amministrativo32, sottoposto al controllo del Ministero della Sanità, provveda ad indennizzare i pazienti che abbiano subito un danno, purché si tratti di un danno grave e anormale, ed esso non appaia legato allo stato di salute del paziente precedente al trattamento e alla sua prevedibile evoluzione33. Questo meccanismo non si sostituisce al sistema della “responsabilità medica”: infatti, è solo quando non venga in gioco (id est: non sia contestata o non sia provata dal paziente) una “responsabilità” sulla base di una “colpa” – ma tuttavia risulti la connessione causale tra l’atto e/o la cura medica e il danno – che entra in gioco il sistema “indennitario”34. Detto altrimenti, se il paziente ri-
tiene che sussista una “colpa” del medico (o della struttura)35 egli mantiene il diritto di far valere in giudizio la “responsabilità”, chiedendo il pieno ristoro dei danni sofferti36; altrimenti, egli potrà rivolgersi al sistema di sicurezza sociale (solidarietà nazionale) per ottenere il previsto ristoro parziale (indennizzo) per il danno comunque sofferto37.
comma 1°, c.s.p.) la riaffermazione della centralità della colpa nel sistema della responsabilità sanitaria, rendendo non più necessario ricorrere, come in precedenza era stato fatto, alla responsabilità oggettiva della struttura sanitaria per il c.d. “rischio terapeutico” (aléa thérapeutique)». Una responsabilità “oggettiva” della struttura sanitaria (salva la prova della causa étrangère) è prevista per le infections nosocomiales, per le quali il sistema “indennitario” entra in gioco solo ove la struttura abbia provato la “causa estranea”. Quest’ipotesi mostra (a nostro avviso) assai bene la differenza tra un sistema no-fault e un sistema di responsabilità “oggettiva”: in quest’ultimo caso il danno viene risarcito integralmente; nel primo, invece, si dà luogo ad un semplice “indennizzo”. L’art. l. 1142-1 del Code de la Santé publique stabilisce, al comma 1°, che «[…] les professionnels de santé […] ainsi que tout établissement […] ne sont responsables des conséquences dommageables d’actes de prévention, de diagnostic ou de soins qu’en cas de faute», e aggiunge al 2° comma che «Lorsque la responsabilité d’un professionnel, d’un établissement […] n’est pas engagée, un accident médical, une affection iatrogène ou une infection nosocomiale […] ouvre droit à la réparation des préjudices du patient […] lorsqu’ils sont directement imputables à des actes de prévention, de diagnostic ou de soins et qu’ils ont eu pour le patient des conséquences anormales au régard de son état de santé comme de l’évolution prévisible de celui-ci et présentent un caractère de gravité, fixé par décret […]». 35
30 Sulla “loi Kouchner” (così chiamata, dal nome del Ministro della sanità francese, che ne è stato il promotore) v., nella dottrina italiana, Cacace, Loi Kouchner: problemi di underdeterrence e undercompensation, in Danno e resp., 2003, 435 ss.; Amodio, Il modello francese di indennizzo dei danni no-fault connessi all’attività sanitaria (brevi note a proposito della loi n. 2002-303, in Riv. crit. dir. priv., 2003, 745 ss.; Nocco, Lezioni dall’Europa (l’esperienza francese), in Aa.Vv., La responsabilità sanitaria. Valutazione del rischio e assicurazione, a cura di Comandé e Turchetti, Padova, 2004, 105 ss. Sul dibattito che, in Francia, aveva preceduto l’emanazione della loi Kouchner cfr. Andrei, Assicurazione e responsabilità medica in Francia, in Danno e resp., 2000, 16 ss. Può essere utile ricordare che l’idea di istituire, in relazione agli incidenti medici, un sistema di indennizzo sganciato dalla colpa era stata formulata già nel 1966 da André Tunc, in occasione di un Congresso internazionale di morale medica, svoltosi a Parigi. 31 L’art. L 1142-1 del Code de la Santé publique parla espressamente di un «droit de reparation des préjudices aux titre de la solidarité nationale». 32 Si tratta dell’Office national d’indemnisation des accidents médicaux, des affections iatrogènes et des infections nosocomiales (ONIAM). 33 Così l’art. 1142-II del Code de la santé publique, quale novellato dalla loi Kouchner. 34 Come osserva Nocco, Un no-fault plan, cit., 460 s., «l’introduzione della “valvola di sfogo” costituita dal sistema di indennizzo no-fault, consente al legislatore (v. art. 1142-1,
La soluzione non è diversa – sotto questo profilo – da quella svedese, e rifiuta il modello “neozelandese” nel quale è prevista la perdita della possibilità di agire in giudizio per i pregiudizi che rientrano nel “programma di indennizzo”. 36
37 La legge francese prevede che in ciascuna regione sia istituita una Commission régionale de conciliation (art. 1142-5 c.s.p.), cui è assegnato il compito di facilitare la composizione amichevole delle controversie, oltre che di fornire un parere preliminare in merito alle «circonstances, les causes, la nature et l’étendue des dommages ». In definitiva – come osserva Nocco, Un no-fault plan, cit., 461, la Commissione ha (in buona sostanza) la funzione di “instradare il paziente verso un’azione di responsabilità civile, qualora emerga una colpa medica o non vi siano comunque le condizioni per l’accesso all’indennizzo, oppure verso la richiesta di indennizzo (art. 1142-15 c.s.p.)”. In tal caso si facilita comunque la soluzione “stragiudiziale” della (potenziale) controversia, in quanto si prevede che – entro 4 mesi dal ricevimento del parere della Commissione – l’assicura-
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La soluzione adottata dal legislatore francese si inserisce a pieno titolo nell’alveo di quella soluzione “articolata” (ossia basata su una pluralità di risposte “istituzionali”, variamente combinate tra di loro), che sembrerebbe raccogliere il consenso più diffuso38. Ciò non esclude che, accanto ai vantaggi riconosciuti (ad es., in termini di riduzione del contenzioso), si profilino i soliti inconvenienti che vengono imputati ai sistemi “no-fault” (anche se parziali, come quello francese), in particolare sotto il profilo della scarsa efficacia “deterrente” (sebbene il fatto di aver lasciata aperta la via della responsabilità, in caso di colpa del medico, serva ad attenuare in qualche modo questo inconveniente39). Per altro verso, una critica (abbastanza frequente) alla soluzione adottata dal legislatore francese, si è appuntata sulla soglia di gravità (un’invalidità permanente superiore al 24%, e dunque pari ad almeno il 25%) necessaria per accedere all’indennizzo, soglia che – da un lato – lascia fuori dal sistema “indennitario” una parte notevole di “incidenti sanitari” (che non raggiungono la soglia di gravità prevista)40, e dall’altro finisce per lasciare
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“sotto-compensate” (perché semplicemente “indennizzate”, ma non pienamente “risarcite”) proprio le lesioni che determinano le conseguenze più gravi sulla vittima41. A quest’ultimo proposito deve evidenziarsi come un ulteriore aspetto “critico” del sistema indennitario previsto dalla loi Kouchner sia dato dal basso livello degli indennizzi liquidati42: se da un lato il soggetto danneggiato ha il vantaggio di ottenere ristoro in tempi (abbastanza) rapidi e senza sopportare l’alea di un giudizio, dall’altro egli deve (in molti casi) accettare che una parte del danno subito non venga risarcito, ma rimanga a carico del suo patrimonio. Nonostante queste “criticità”, il modello francese ha raccolto non pochi consensi, e un sistema analogo è stato per es. introdotto di recente anche nell’ordinamento belga, con la loi du 31 mars 2010, relative à l’indemnisation des dommages résultant de soins de santé43. Come nel sistema francese, la legge prevede l’indennizzo per gli “accidents médicaux d’origine non fautive” (ossia, detto altrimenti, per gli accidents médicaux sans résponsabilité44). In sostanza, per essere indenniz-
Osserva – non senza fondamento – Nocco, Un no-fault plan, cit., 466, che forse sarebbe più logico prevedere un meccanismo “indennitario” (cioè un regime di quantificazione standardizzata) – semplificato, veloce, e meno costoso – proprio per le “microrpermanenti”, piuttosto che per le lesioni più gravi.
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tore debba inoltrare al danneggiato (o ai suoi aventi causa, in caso di decesso) un’offerta idonea a consentire l’integrale riparazione del pregiudizio, offerta che può essere accettata (in tal caso risulterà conclusa una transazione), oppure essere rifiutata (qualora il danneggiato la ritenga insufficiente, e decida di rivolgersi ad un giudice, il quale – oltre a liquidare la somma dovuta a titolo di risarcimento del danno – condannerà l’assicurazione al pagamento anche di una penale, se risulterà che l’offerta formulata era manifestamente insufficiente). 38 Ma v., nel senso della preferenza per una totale sostituzione della responsabilità civile con un sistema di sicurezza sociale, nella dottrina francese, ad es. Laurent, La responsabilité médicale sans faute et les systèmes d’indemnisation (2009) 30 Revue générale de droit médical 191 ss.
Si veda l’esempio portato da Nocco, Un no-fault plan, cit., 466: secondo il référentiel francese approvato il 1° settembre 2011, in un ipotetico caso di un ventenne con il 25% di invalidità permanente, si prevede un indennizzo di € 43.949,00, mentre la vigente Tabella per il risarcimento del danno non patrimoniale adottata dal Tribunale di Milano – a parità di condizioni – arriva a risarcire (per il danno biologico) la ben diversa cifra di € 86.993,00 (ossia, poco meno del doppio!).
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39 Si aggiunga che la garanzia di un certo livello (minimo) di deterrence è assicurata anche dalla previsione di un diritto di regresso da parte dell’ONIAM nei confronti del o dei responsabili che abbiano agito con “faute caracterisée” (cfr. Nocco, Un no-fault plan, cit., 462 s.).
Per una prima informazione sulla legge in questione si veda Genicot, Le nouveau régime belge d’indemnisation des dommages résultant de soins de santé (2011) 38 Revue générale de droit médical 269 ss. Un quadro di sintesi sul diritto della responsabilità medica in Belgio si legge in Genicot, Droit médical e biomédical, Bruxelles, 2010.
Come osserva Nocco, Un no-fault plan, cit., 464, ha pesato (probabilmente) sulla scelta del legislatore francese il timore che, allargando troppo l’ambito di applicazione del sistema “indennitario”, aumentassero le difficoltà di tenuta finanziaria dello stesso (come dimostra l’esperienza neozelandese).
Con tale nozione il legislatore fa riferimento a «un accident lié à une prestation de soins de santé, qui n’engage pas la responsabilité d’un prestataire de soins, qui ne résulte pas de l’état du patient et qui entraîne pour le patient un dommage anormal», con la precisazione che «le dommage est
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zato, è sufficiente al paziente provare di aver subito un danno, e che esso trova causa nella prestazione di cura. Deve altresì trattarsi di un danno comportante un’invalidità permanente (déficit fonctionnel) uguale o superiore al 25% (oppure di una impossibilità temporanea di lavorare che si protragga per almeno sei mesi consecutivi, o per almeno sei mesi anche non consecutivi nell’arco di un anno) ovvero la morte del paziente. Se la domanda di indennizzo viene ritenuta ammissibile (cioè vengono ritenuti sussistenti i presupposti richiesti dalla legge), il Fonds des accidents médicaux, previsto dalla legge, invia (entro tre mesi dalla domanda) al danneggiato una proposta di indennizzo (definitiva o provvisoria), che può – nei tre mesi successivi – essere accettata o meno dall’interessato, il quale può (in questo secondo caso) o contestare l’offerta fatta dal Fondo, o decidere di agire in responsabilità secondo le norme ordinarie. 3.1. Segue Come chiarito nel paragrafo precedente, il sistema no-fault, introdotto in Francia dalla loi Kouchner, non ha sostituito integralmente il tradizionale meccanismo della responsabilità civile, che rimane tecnica di riparazione del pregiudizio (conseguente allo svolgimento di un’attività sanitaria) quando non sussistano i presupposti per l’operare della soluzione “indennitaria”. Giova, allora, descrivere brevemente su quali presupposti sia costruita la responsabilità medica nell’ordinamento francese. Si è soliti far risalire alla famosa sentenza Mercier del 1936 la c.d. “contrattua-lizzazione” della responsabilità medica, ossia la riconduzione di detta responsabilità (che sino a quel momento era stata ascritta al paradigma della responsabilità extracontrattuale) nell’alveo della responsabili-
tà contrattuale o per inadempimento45. Oltre alla doverosa precisazione secondo cui tale riconduzione riguardava il caso dell’attività medica svolta individualmente (ipotesi nella quale era – ed è – del tutto ovvio ipotizzare l’esistenza di un rapporto “contrattuale” tra il medico e il paziente che a lui si sia rivolto per essere curato)46, va sottolineato come la suddetta “contrattualizzazione” non aveva comunque messo in discussione due elementi che caratterizzavano anche la situazione precedente, vale a dire: a) la circostanza che il medico rispondesse soltanto per colpa, e b) la regola secondo cui incombeva sul paziente l’onere di provare la “colpa” del medico. Questi due aspetti discendevano – a loro volta – dall’inquadramento dell’obbligazione (contrattuale) medica nell’ambito di quelle che si cominciarono a chiamare “obligations de moyens”47, configurate come obbligazioni aventi ad oggetto una “prestazione di diligenza”, e con riferimento alle quali quindi l’inadempimento (che è certamente onere del creditore provare, nel giudizio volto a far valere la responsabilità del debitore) consiste nella
45 La scelta incideva, nella specie, soprattutto sul termine di prescrizione applicabile. Nella sentenza Mercier si riconobbe al paziente (in conseguenza della diversa qualificazione della responsabilità del medico) il beneficio del termine prescrizionale di 30 anni (ben più ampio di quello applicato in precedenza, sulla base della qualificazione dell’azione come extracontrattuale, e del principio sull’unicità di prescrizione tra l’azione civile e quella penale).
In altre parole, il riconoscimento dell’esistenza di un “contratto” tra il medico e il paziente, e la conseguente qualificazione della responsabilità del primo come responsabilità per inadempimento (e non per mera violazione dell’art. 1382 code civil, come sino a quel momento si era ritenuto), riguardava lo svolgimento (allora assai frequente) dell’attività medica in forma individuale (e, comunque, al di fuori dell’appartenenza del medico ad un “sistema sanitario” pubblico, o ad una struttura sanitaria privata). 46
La terminologia e la distinzione risalgono a Demogue, Traité des obligations en général, I, Sources des obligations, t. V, Paris, 1925, 1237. Successivamente, nella dottrina francese, v., tra gli altri: Mazeaud, Essai de classification des obligations, 1936, 1; Tunc, Distinction des obligations de résultat et des obligations de diligence (1945) 1 Juris-Classeur périodique 449; Frossard, La distinction des obligations de moyens et des obligations de résultat, Paris, 1965; Maury, Réflexions sur la distinction entre obligations de moyens et obligations de résultat (1998) Revue de la Recherche Juridique 1243. 47
anormal lorsqu’il n’aurait pas dût se produire compte tenu de l’état acquis de la science, de l’état du patient et de son évolution objectivement prévisible. L’echec thérapeutique et l’erreur non fautive de diagnostic ne constituent pas un accident médical sans résponsabilité» (art. 2, comma 7°, l. 31 mars 2010).
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violazione della diligenza dovuta (e dunque nella “colpa”). Vedremo fra poco come si sia sviluppata, nell’ordinamento francese, l’idea che in alcuni casi la responsabilità medica si atteggi come una “responsabilità oggettiva”. Ma, prima ancora di ciò, occorre accennare ad un altro aspetto che caratterizza questo ordinamento, vale a dire la differente competenza giurisdizionale, a seconda che la prestazione medica sia fornita da strutture private ovvero da ospedali pubblici. In quest’ultimo caso si ritiene che il paziente sia utente di un pubblico servizio, e che il rapporto che si instaura tra lui e l’ospedale pubblico non possa essere considerato espressione di autonomia contrattuale, ma vada ricondotto (quanto alla sua origine) al novero delle fonti “non volontarie” di obbligazione48; la competenza giurisdizionale, pertanto, non appartiene al giudice civile, bensì al giudice amministrativo. Tutto ciò non è stato privo di conseguenze sulla più generale evoluzione della responsabilità medica nel diritto francese. Infatti – come è stato osservato – «la tutela pubblicistica incentrata sulla relazione di spedalità si rivelò più efficace rispetto al modello privatistico costruito sul rapporto personale di cura», anche perché «la situazione di diseguaglianza, alla base della relazione di pubblico servizio dell’utente, giustificava un dovere di riparazione da parte dello Stato»49.
In Italia, invece, il carattere “pubblico” della struttura sanitaria non ha impedito (almeno da un certo punto in poi) di ricondurre ad un “contratto” (il c.d. contratto di spedalità o di prestazione sanitaria), interamente riconducibile alle regole di diritto privato, la relazione tra il paziente e l’ospedale pubblico. V. infra, nel § 6. Ciò non toglie che anche in Italia, per diverso tempo, si sia ritenuto che la responsabilità della struttura sanitaria pubblica andasse inquadrata nell’ambito della responsabilità extracontrattuale (per lesione del diritto assoluto alla salute), proprio perché si opinava che l’ammissione del paziente dipendesse non da un contratto, ma da un atto unilaterale (anche se dovuto) della struttura pubblica. Senza, peraltro, che ciò abbia spostato sul giudice amministrativo la competenza a conoscere delle cause di responsabilità sanitaria, che sono sempre state affidate al giudice ordinario in quanto relative a “diritti soggettivi” (e non ad interessi legittimi). 48
49 Così Klesta, La responsabilità medica in Francia: l’epilogo di un percorso movimentato?, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 479 ss., spec. 488 e nt. 74 (ove è richiamato anche
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È, appunto, in alcune pronunce dei giudici amministrativi francesi che cominciano ad affermarsi principi, se non di vera e propria responsabilità “oggettiva”, comunque di agevolazione della posizione del paziente, attraverso il riconoscimento di presunzioni di colpa50, con soluzioni che poi sono state adottate (in casi analoghi) anche dal giudice civile51. In particolare, alla fine del secolo scorso, la Cassazione civile francese ha elaborato la tesi dell’esistenza, in materia di “infezioni nosocomiali”, di “une obligation de sécurité de résultat”, dalla quale la struttura sanitaria si può
il contributo monografico di Id., Assistenza sanitaria e tutela del cittadino – Modelli privatistici e orizzonte europeo, Torino, 2008, 32 ss.). Nel famoso arrêt Cohen (Conseil d’État, 9 dicembre 1988: si trattava di una “inféction meningée” che era stata contratta nel corso di un intervento chirurgico di ernia del disco, e non risultava alcuna colpa grave dei medici che avevano eseguito l’intervento) i giudici affermano che “le fait qu’une telle infection ait pu néanmoins se produire, révèle une faute dans l’organisation ou le fonctionnement du service hospitalier à qui il incombe de fournir au personnel médical un matériel et des produits sterile”. Nell’ arrêt Gomez (deciso dalla Cour Admnistrative d’Appel, Lyon, 20 dicembre 1990) viene affermata la responsabilità del servizio ospedaliero, anche in assenza di colpa, quando sia utilizzata (senza che il ricorso ad essa sia imposto da “raisons vitales”) una terapia nuova, le cui conseguenze non sono ancora interamente conosciute (terapia, dunque, sperimentale), e che crea pertanto “un risque spécial pour les malades qui en sont l’objet” (i giudici affermano che, in tal caso, «les complications exceptionnelles et anormalement graves, qui en sont la conséquence directe, engagent, même en l’absence de faute, la responsabilité du service public hôspitalier»). Nell’arrêt Bianchi (Conseil d’État, 9 aprile 1993), si afferma la responsabilità dell’ospedale «lorsq’un acte médical nécessaire au diagnostic ou au traitement du malade présente un risque dont l’existence est connue, mais dont la réalisation est exceptionnelle et dont aucune raison ne permet de penser que le patient y soit particulièrement exposé, la responsabilité du service public hôspitalier est engagée si l’exécution de cet acte est la cause directe des dommages sans rapport avec l’état initial du patient comme avec l’évolution prévisible de cet état, et présentant un caractère d’extrême gravité». 50
51 Cfr. ad es. Cass., 21.5.1996, n. 94-16.586 (arrêt Bonnici), in Bull. Civ., 1996, n. 219, 152, ove – in un caso di infezione nosocomiale (come nell’ arrêt Cohen) – la Corte reputa la clinica privata presunta responsabile per l’infezione contratta da un paziente durante un intervento praticato in sala operatoria.
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liberare solo con la prova dell’intervento di una “cause étrangère”52. Quest’evoluzione in senso sempre più favorevole al paziente è stata, del resto, non estranea all’intervento del legislatore francese attuato nel 2002 con la loi Kouchner (di cui si è sopra parlato). La legge – come già ricordato – introduce un meccanismo (alternativo al sistema della responsabilità civile) di “indennizzo” per le vittime di accidents médicaux sans faute, lasciando che le ordinarie regole risarcitorie continuino ad operare (solo) quando si sia in presenza di una “responsabilità”, per la quale è stato possibile in tal modo ribadire (salvo casi – da considerarsi eccezionali – di “responsabilità oggettiva”53) il criterio di imputazione soggettivo della “colpa”. La loi Kouchner ha, poi, unificato la disciplina della responsabilità medica, prima differenziata a seconda che la prestazione medica fosse erogata in una struttura sanitaria pubblica ovvero privata: ferma restando, infatti, la diversa competenza giurisdizionale (in un caso spettante – come abbiamo già detto – ai giudici amministrativi, nell’altro ai giudici civili), si sono uniformate le regole sostanziali (ad es. il termine prescrizionale, che è stato fissato per tutti in 10 anni: cfr. art. l. 1142-28 del Code de la Santé publique), e si è stabilito altresì l’obbligo di assicurazione a carico dei medici e delle strutture sanitarie tanto pubbliche che private, prevedendo un correlativo obbligo a contrarre delle compagnie assicurative (art. l. 1142-2 Code de la Santé publique).
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4. Gli ordinamenti europei di civil law che non hanno sostituito il (o affiancato al) tradizionale “sistema di responsabilità civile” con un sistema no-fault: a) il caso della Germania Anche in Germania la materia della responsabilità medica54 è oggetto di un’ampia elaborazione giurisprudenziale (soprattutto da parte del Bundesgerichtshof), alla quale ha ampiamente attinto la recente «Legge sul miglioramento dei diritti del paziente» (Patientenrechtegesetz) del 25 febbraio 2013, che ha disciplinato la materia (a dispetto di un’opinione, alquanto diffusa, che contestava l’opportunità di procedere a detta “codificazione”, manifestando la preferenza perché la materia rimanesse affidata ad una evoluzione della giurisprudenza, non condizionata da vincoli troppo rigidi di natura legislativa55). Nell’ordinamento tedesco è decisamente prevalente l’ipotesi che il risarcimento dei danni provocati nello svolgimento dell’attività sanitaria avvenga sulla base delle regole della responsabilità contrattuale (anziché di quella aquiliana56), basandosi su un rapporto contrattuale intercorrente tra
54 Nella letteratura tedesca, per un quadro della materia della responsabilità medica, alla vigilia della legge del 2013, cfr. Geiβ e Greiner, Arzthaftplichtrecht, München, 2009; Laufs, Katzenmeier, Lipp, Arztrecht, München, 2009 e Deutsch e Spickhoff, Medizinrecht, Dordrecht-Heidelberg, 2008. 55 Questo orientamento aveva prevalso in passato: ad es., in occasione della Schuldrechtmodernisierung del 2002, nonostante qualche proposta in tal senso, si escluse l’inserimento nel B.G.B. della disciplina del contratto di cura.
Cass., 29.6.1999, n. 97-14254, in Bull. Civ., 1999, I, n. 220, 141. 52
I casi di “responsabilità oggettiva” sono quelli in cui il danno derivi da un “défaut de produits de santé” (farmaci difettosi), oppure sia conseguenza di una “infezione nosocomiale” (ma se l’infezione nosocomiale abbia provocato una invalidità permanente superiore al 25% o il decesso del paziente, il Consiglio di Stato francese ha ritenuto che la fattispecie rientri nel campo di applicazione del “sistema indennitario” gestito dall’ONIAM: cfr. Conseil d’État, del 21 marzo 2011). 53
56 Il richiamo alle norme della responsabilità extracontrattuale è, comunque, teoricamente possibile (sebbene non sia, nella pratica, frequente), non vigendo in Germania la regola del non-cumul, operante invece nell’ordinamento francese (v. Von Sachsen Gessaphe, La responsabilità delle aziende ospedaliere private nel diritto tedesco, in Resp. civ. e prev., 2001, 533 ss., 534, ove si ricorda che il termine di prescrizione della responsabilità contrattuale è – ai sensi del § 195 BGB – di 30 anni, mentre la responsabilità per fatto illecito si prescrive dopo 3 anni dalla conoscenza del danno e dell’identità del suo autore ex § 835 BGB; inoltre, è possibile richiedere il risarcimento dei danni morali ex § 847 BGB soltanto sulla base della responsabilità per fatto illecito, ma non della responsabilità contrattuale).
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il paziente da un lato e il medico e/o la struttura sanitaria dall’altro. La tipologia di rapporti contrattuali “di trattamento (medico)” che potevano (e ancor oggi possono) essere posti in essere è alquanto varia: si va dal contratto concluso esclusivamente con il medico-libero professionista, al contratto che viene concluso con una clinica (e nel quale unica controparte del paziente è la clinica stessa: c.d. totaler Krankenhausvertrag), al contratto che si instaura tra il paziente da un lato e, dall’altro, contemporaneamente, un libero professionista (che, senza essere dipendente della clinica, e senza operare quale ausiliario della stessa, si avvale delle strutture poste a disposizione da parte della medesima) e la clinica, con la conseguenza che quest’ultima risponderà esclusivamente dell’organizzazione dei mezzi e del personale necessari per lo svolgimento della prestazione medica, della quale ultima (in senso stretto) risponderà invece il medico (c.d. gespaltenerKrankenhausaufnahmevertrag). Il contratto di trattamento (medico) – che, come vedremo, è stato adesso “tipizzato” dalla legge del 2013 – è un contratto che veniva per lo più inquadrato (con qualificazione oggi confermata dal legislatore) nell’ambito dello schema del Dienstvertrag (o “contratto di servizio”), piuttosto che in quello del Werkvertrag (o “contratto d’opera”), e ciò sulla base della considerazione che il debitore non si obbliga ad un “risultato” bensì - come recita adesso il novellato § 630-a B.G.B. - ad un “trattamento” conforme agli standard generalmente riconosciuti dalla medicina57 (e, dunque, ad un trattamento che possa qualificarsi come diligente, prudente, e, soprattutto, perito). Anche nell’ordinamento tedesco - e soprattutto con riguardo all’ipotesi di contratto con una
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struttura sanitaria - si sono venute elaborando, da parte della giurisprudenza, varie agevolazioni probatorie per il paziente58. Inizialmente – per la verità – la giurisprudenza si era mostrata restia a porre a carico del medico (debitore della prestazione) la prova dell’assenza di colpa, salvo che in ipotesi di danni connessi al malfunzionamento di apparecchiature sanitarie o (più in generale) a difetti di organizzazione della struttura sanitaria59. In prosieguo di tempo, però, hanno cominciato ad essere elaborate regole probatorie miranti a spostare sul medico (con riferimento alla prestazione sanitaria vera e propria) l’onere di provare di avere adempiuto (ossia di aver eseguito con la diligenza richiesta la prestazione dovuta) ovvero di dimostrare che il danno al paziente sia stato provocato da una “causa estranea”. Ciò è stato affermato, in particolare, quando il danneggiato - pur non avendo fornito la prova piena di una “responsabilità” (colpa) del debitore nel prodursi del danno – abbia cionondimeno fornito la c.d. “prova prima facie” (Anscheinbeweis), ossia abbia allegato una serie di elementi indicativi – secondo regole di esperienza consolidate - di un certo verisimile svolgimento degli eventi: con la conseguenza che spetta a controparte contestare che le circostanze addotte siano idonee a fornire una spiegazione dell’evento (dannoso), e che il giudice possa su di esse fondare il proprio giudizio (convincimento) circa la responsabilità. Si ritiene che l’istituto dell’Anscheinbeweis non abbia trovato applicazioni diffuse in materia di responsabilità medica60, mentre maggiore spazio
58 Sul punto cfr. l’attenta analisi di Ciatti, Responsabilità medica e decisione sul fatto incerto, Padova, 2002, spec. 109 ss.
Come osserva Ciatti, op. cit., 115, nelle ipotesi di cui nel testo non veniva in gioco un problema di “alea terapeutica” (in senso stretto), e dunque non poteva valere la preoccupazione di non addossare al medico il rischio connaturato alla cura. Si trattava, invece, di un “rischio” pienamente sotto il controllo del gestore della clinica, onde si giustificava per questo il far ricadere l’onere della prova in capo a questo soggetto (richiedendo appunto da lui la dimostrazione della “estraneità” dell’evento dannoso all’ambito di rischio - Gefahrenbereich - assunto con la conclusione del contratto di trattamento sanitario).
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57 630-a BGB. Vertragstypische Pflichten beim Behandlungsvertrag. “(1) Durch den Behandlungsvertrag wird derjenige, welcher die medizinische Behandlung eines Patienten zusagt (Behandelnder), zur Leistung der versprochenen Behandlung, der andere Teil (Patient) zur Gewährung der vereinbarten Vergütung verpflichtet, soweit nicht ein Dritter zur Zahlung verpflichtet ist. (2) Die Behandlung hat nach den zum Zeitpunkt der Behandlung bestehenden, allgemein anerkannten fachlichen Standards zu erfolgen, soweit nicht etwas anderes vereinbart ist”.
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Cfr. Ciatti, op. cit., 122 e nt. 320 (ove citazioni della letteratura al riguardo).
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(come criterio di regolazione della distribuzione degli oneri probatori) ha avuto l’istituto del groβer Behandlungsfehler. Con tale formula si intende alludere ad ipotesi in cui ci si trova di fronte ad “errori gravi” (quale potrebbe essere – ad es. –, nel campo diagnostico, il non riconoscere i sintomi tipici di un infarto, o di una meningite, o dell’infezione ad una ferita; oppure, nel caso dell’esecuzione di interventi medici, il trasmettere un’infezione in occasione di una iniezione, o il non suturare correttamente un soggetto operato di appendicectomia, o perforare l’intestino nel corso di una rettoscopia, o ledere il nervo alveolare estraendo un molare; etc.)61, tali da indurre a ritenere sussistente un legame causale tra l’evento dannoso lamentato dal paziente e la condotta “gravemente colposa” del medico (allegata dal paziente), salvo che quest’ultimo (su cui si ribalta l’onere della prova) dimostri “una sequenza eziologica anomala” che spieghi il prodursi del danno62. Come già accennato, la Legge sul miglioramento dei diritti del paziente ha, in gran parte, codificato alcune delle acquisizioni giurisprudenziali in materia di responsabilità medica. Prescindendo qui dalle disposizioni che disciplinano l’obbligo di informazione (ai fini di rendere possibile la prestazione di un consenso consapevole da parte del paziente) e da quelle che concernono le modalità di documentazione del trattamento effettuato (cartella clinica: v. §§ 630-f e 630-g B.G.B.), giova qui soffermarsi soprattutto sulla disposizione introdotta attraverso il § 630-h B.G.B., che disciplina il punto centrale relativo all’onere della prova nell’ambito della responsabilità per errori medici. In particolare tale disposizione stabilisce al 1° comma che “Si presume un errore del soggetto erogatore del trattamento quando si verifica un comune rischio (allgemeines Behandlungsrisiko) connesso al trattamento che era completamente dominabile (voll beherrschbar) da parte di chi
Gli esempi riportati nel testo sono tratti da Ciatti, op. cit., 123, 125 (ed ivi l’indicazione delle sentenze tedesche che hanno deciso i “casi” in questione).
presta il trattamento e che ha causato una lesione alla vita, al corpo o alla salute del paziente”. Il 4° comma dispone, poi, che “Se il medico non era idoneo al trattamento eseguito, si presume che l’inidoneità abbia causato la lesione alla vita, al corpo o alla salute del paziente”. Infine, il 5° comma dispone che “Nel caso in cui sia stato commesso un grave errore di trattamento (ein groβer Behandlungsfehler), di regola idoneo a produrre una lesione alla vita, al corpo o alla salute, quale si è effettivamente verificata, si presume che questo errore abbia causato la lesione. Ciò vale anche quando il medico abbia omesso di effettuare in tempo un’analisi necessaria sul piano medico o di documentarla, nella misura in cui quest’analisi, se effettuata, avrebbe con sufficiente probabilità comportato un risultato in base al quale adottare altre misure, l’omissione delle quali avrebbe rappresentato un grave errore”. Come si vede, la disposizione del § 630-h stabilisce – seguendo indicazioni che si sono nel tempo consolidate nella giurisprudenza – una serie di regole di distribuzione degli oneri probatori (regole che invertono quella che sarebbe la distribuzione normale, e quindi pongono delle “presunzioni”), in particolare prevedendo: a) una presunzione di errore quando il danno consegue all’avverarsi di un “rischio di trattamento pienamente dominabile” (vollbeherrschbares Behandungsrisiko), quale potrebbe essere ad es. il rischio di contrarre infezioni in ambiente ospedaliero, o il rischio di complicazioni che richiedano la presenza (in ospedale) di un anestesista-rianimatore (presenza che, dunque, deve essere assicurata), etc.63; b) una presunzione di responsabilità (salva la prova che la causa del danno non è riconducibile alla prestazione omessa o gravemente difettosa) se si sia in presenza di un “errore grave” (del medico o della struttura). A parte l’accusa di aver “burocratizzato” l’attività medica (soprattutto attraverso la minuta regolamentazione delle informazioni da fornire al pa-
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Cfr., ancora, Ciatti, op. cit., 127.
Cfr. Stagl, La “Legge sul miglioramento dei diritti del paziente” in Germania, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 35 ss.
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ziente e della documentazione da riversare nella cartella clinica), un’altra critica che da più parti si è rivolta al legislatore tedesco è di avere configurato una sorta di responsabilità quasi “oggettiva” del medico, gettando un’ombra di sospetto su un’intera categoria professionale64. Per il che, anche con riferimento all’ordinamento tedesco, non mancano voci che sollecitano l’introduzione – a questo punto – di meccanismi (no-fault) di “indennizzo” dei pregiudizi connessi allo svolgimento dell’attività sanitaria, che riducano il peso della responsabilità civile che attualmente grava sulla categoria dei medici65.
5. Segue: b) la responsabilità medica in Spagna Non esiste in Spagna una disciplina specifica della responsabilità medica66, disciplina che non è stata introdotta neanche dalla recente Ley 41/2002 (básica reguladora de la autonomía del paciente y de derechos y obligaciones en materia de información y documentación clínica), che si occupa essenzialmente del diritto del paziente ad essere informato ai fini della prestazione del consenso al trattamento medico. La responsabilità medica è regolata, dunque, dalle norme generali: sia da quelle contenute nel codigo civil (artt. 1101-1108, per quanto riguarda la responsabilità contrattuale; artt. 1902-1910, per quel che concerne la responsabilità aquiliana), sia da quelle che si rinvengono nel TRLGDCU (Texto refundido de la Ley general para la Defensa de los Consumidores y Usuarios, di cui al Decreto n. 1 del 16.11.2007), applicabili ove la prestazione sanitaria sia eseguita nei confronti di un “consuma-
Così Stagl, op. cit., 47, il quale non nasconde la propria preferenza per un sistema di sicurezza sociale, che superi il meccanismo fondato sulla ricerca di una “responsabilità” (individuale), ed eviti di riversare l’intero rischio della prestazione sanitaria sulla categoria dei medici. 64
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V. la nota precedente.
Si faceva, pertanto, riferimento alle norme generali contenute nel codice civile (disciplina generale della responsabilità contrattuale ed extracontrattuale) e in altri testi normativi (come ad es. il Codice del consumo). 66
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tore” o “utente”, sia – infine – da quelle contenute negli artt. 139-146 della LRJ-PAC (Ley 30/1992 de 26 de novembre, de Régimen Juridico de las Administraciones Publicas y del Procedimiento Administrativo Común) applicabili quando entri in gioco una Amministrazione pubblica. L’applicazione di queste discipline porta a risultati alquanto diversi. Ad es., il termine di prescrizione della responsabilità civile contrattuale è di 15 anni, mentre per quella extracontrattuale tale termine è di un anno; nell’ordinamento spagnolo si ammette, tuttavia, il concorso dei due tipi di responsabilità (consentendo al danneggiato di scegliere se avvalersi dell’una o dell’altra forma di tutela), sebbene si tratti di opinione non unanime, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. Va considerato altresì che la dottrina e la giurisprudenza spagnola recepiscono la categoria dell’ “obbligazione di mezzi” – quale tipo di prestazione da considerarsi, in linea di principio, dovuta dal medico –, e questo attenua la differenza tra le due forme di responsabilità, in quanto, anche quando si discorra in termini di responsabilità contrattuale (per inadempimento del contratto di prestazione medica) spetterà al paziente (creditore) provare l’inadempimento, prova che – nel caso di specie – coincide con quella della “colpa” (=difetto della diligenza dovuta) da parte del debitore67. Cionondimeno, anche in Spagna si registra la tendenza a venire incontro al paziente, attenuando
Cfr. Jordano Fraga, Obligaciones de medios y de resultado (1991) 1 Anuario de derecho civil 5 ss.; Lobato, Contribución al estudio de la distinción entre obligaciones de medios y las obligaciones de resultado (1992) ivi 651 ss.; e, più recentemente, Lourdes Blanco Pérez-Rubio, Obligaciones de medios y obligaciones de resultado: ¿Tiene relevancia jurídica su distinción? (2014) 6 Cuadernos de derecho transnacional 50 ss. Per alcuni tipi di interventi (c.d. trattamenti sanitari di elezione: chirurgia estetica, sterilizzazione, odontoiatria) c’è una tendenza a considerarli oggetto di una “obbligazione di risultato” (v. Ciatti, op. cit., 93; Monterroso Casado, Diligencia médica y responsabilidad civil, consultabile all’indirizzo: www.asociacionabogadosrcs.org, 3 s., ove si sottolinea che in tal caso il contratto anziché come “un arrendamiento de servicio” si avvicina al “arrendamiento de obras”). 67
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le difficoltà probatorie cui egli è soggetto, attraverso la posizione di presunzioni di responsabilità68, specialmente in presenza di interventi di facile esecuzione che non ottengano il risultato atteso, ovvero di interventi a cui si associno delle conseguenze anormali e sproporzionate. In tal caso si presume la responsabilità dell’operatore sanitario, salvo che egli non provi che il mancato conseguimento del risultato (ovvero l’esito anormale conseguito all’intervento) dipenda(no) da caso fortuito, forza maggiore o negligenza della vittima. Un regime di sostanziale responsabilità “oggettiva” (esclusa solo dalla prova – che deve essere fornita dal medico o dalla struttura – della “causa estranea”, che abbia determinato l’evento dannoso) si afferma anche in materia di infezioni nosocomiali (id est: contratte nel periodo di permanenza in ospedale)69. “Oggettiva” è anche la responsabilità per i danni causati a seguito dell’erogazione dei servizi sanitari menzionati dall’art. 28, 2° comma del TRLDCU, nei limiti in cui si ritenga sussistere l’applicabilità di tale disposizione70.
68 In argomento cfr. De Angel Yagüez, Responsabilidad civil por actos medicos. Problemas de prueba, Civitas, 1999. Si veda anche Monterroso Casado, Diligencia médica, cit., 11 ss. (e la giurisprudenza del Tribunal Supremo spagnolo ivi richiamata).
Come evidenzia Ciatti, op. cit., 97, la tendenza alla “obiettivazione della responsabilità” è particolarmente visibile con riferimento alle prestazioni sanitarie offerte presso strutture ospedaliere pubbliche (che si ritengono affidatarie di un “servizio pubblico”, in relazione al quale – fra l’altro – la giurisdizione, almeno in passato, veniva ritenuta sussistente in capo al giudice amministrativo), e viene basata sull’art. 40 della LRJAE (Ley de Régimen jurídico de la Adiministración del Estado) – che imputa all’Amministrazione il danno patito dal cittadino in conseguenza del funcionamiento anormal di un servizio pubblico –, letto anche alla luce del 2° comma dell’art. 106 della Costituzione spagnola, secondo il quale “Los particulares, en los términos establecido por la ley, tendrán derecho a ser indemnizados por toda lésion que sufran en cualquiera de sus beines y derechos, salvo en los casos de fuerza mayor, siempre que la lesión sea consecuencia del funcionamiento de los servicios publicos”. Si tratta, peraltro, di una tendenza che non ha mancato di suscitare critiche, a parte di chi continua a preferire un sistema di responsabilità basato sulla colpa.
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Cfr., sulla questione, Monterroso Casado, Diligencia médica, cit., 14, la quale ritiene che la norma in questione sia
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6. Segue: la responsabilità medica in Italia L’ultimo ordinamento europeo di civil law che prenderemo in considerazione è l’ordinamento italiano, nel quale la materia della responsabilità sanitaria è stata oggetto di una recente riforma legislativa (la c.d. “legge Gelli-Bianco”, l. 8 marzo 2017, n. 24)71. Sebbene il settore della sanità sia da tempo oggetto anche in Italia (come negli altri Paesi) di una notevole produzione normativa72, mancava nel nostro ordinamento una disciplina organica che regolasse specificamente73 il profilo della responsabilità connessa allo svolgimento dell’attività sanitaria, sicché la materia è stata per lungo tempo affidata agli sviluppi dell’elaborazione dottrinale e (soprattutto) giurisprudenziale. Detta elaborazione ha seguito in gran parte il percorso che abbiamo visto svilupparsi in altri ordinamenti (in particolare, in quello francese): dall’originario inquadramento della responsabilità medica in ambito extracontrattuale (come conseguenza della lesione del diritto assoluto alla salute) si è passati alla “contrattualizzazione” di tale responsabilità, affermata dapprima nei confronti del medico che, nell’esercizio della la libera
applicabile soltanto alla responsabilità dell’ospedale, ma non anche a quella del singolo medico. 71 La riforma del 2017 è stata preceduta da un intervento normativo più limitato (la l. n. 189 del 2012: c.d. “legge Balduzzi”, che si occupava del profilo della responsabilità sanitaria nell’art. 3), che aveva – in qualche modo – anticipato alcuni contenuti della successiva riforma (se pure in forma tecnicamente alquanto approssimativa, tanto da richiedere il nuovo intervento del legislatore). 72 Per limitarci solo a qualche indicazione essenziale, basti ricordare la fondamentale legge n. 833 del 23.12.1978, che ha istituito il Servizio Sanitario Nazionale, riordinando l’intero settore della sanità (non solo pubblica). La riforma sanitaria realizzata 40 anni fa, è stata poi ulteriormente modificata ed integrata con successivi interventi legislativi (primo fra tutti il d.lgs., n. 502 del 30.12.1992 che ha sancito la centralità del ruolo delle Regioni in materia sanitaria; e, poi, il d.lgs. n. 229 del 19.6.1999, che ha perfezionato il meccanismo di integrazione/coordinamento della sanità privata con la sanità pubblica, introducendo il sistema del c.d. “accreditamento”). 73 Ossia con una disciplina ad hoc, e non sulla base delle regole generali del diritto delle obbligazioni e dei contratti.
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professione, concluda un contratto di prestazione sanitaria nei confronti del paziente (contratto dal quale si è, per lungo tempo, ritenuto che scaturisse una obbligazione “di mezzi”), e, successivamente, nei confronti della struttura sanitaria (pubblica o privata) con la quale il paziente concluda un “contratto di cura”74 (il c.d. “contratto di spedalità”75). Con riferimento a quest’ultima fattispecie – che è sicuramente quella di gran lunga più rilevante (in quanto la stragrande maggioranza delle prestazioni sanitarie viene ormai erogata presso “strutture organizzate”76 e gestite in forma imprenditoriale – ospedali, case di cura, laboratori di analisi, etc. –, mentre l’esercizio individuale della professione medica copre una parte assolutamente
74 Per la verità, con riferimento alle strutture sanitarie pubbliche, ha prevalso fino ad alcuni decenni or sono l’idea che l’accettazione del paziente (presso la struttura) fosse da ricondurre non ad un atto “contrattuale”, bensì ad un provvedimento unilaterale dell’ente sanitario, la cui responsabilità veniva pertanto ricondotta all’ambito aquiliano (atteso che il bene tutelato - la salute - costituisce un diritto soggettivo pieno, e l’attività svolta è un’attività materiale, non espressivo dell’esercizio di poteri autoritativi di stampo pubblicistico). Da tempo, tuttavia, si ritiene ormai che (anche) con la struttura sanitaria pubblica intercorra un vero e proprio rapporto contrattuale, regolato dalle norme di diritto comune.
Il “contratto di spedalità” è stato, per diverso tempo, costruito ad instar del contratto d’opera professionale che intercorre tra il paziente e il (singolo) medico esercente la libera professione, applicando ad esso (in via analogica) le disposizioni che disciplinano quest’ultimo rapporto contrattuale. Oggi la giurisprudenza e la dottrina tendono a differenziare i due contratti, sia per il fatto di riconoscere al primo una natura “mista” (comprensiva non solo di prestazioni mediche in senso stretto, ma anche di prestazioni di “servizi” di altra natura), sia perché si tende a configurare la responsabilità della struttura (anche con riferimento alle prestazioni strettamente sanitarie: diagnostiche, terapeutiche, riabilitative, etc.) come una responsabilità avente carattere “semi-oggettivo” (attesa la natura “imprenditoriale” del soggetto che organizza l’erogazione delle prestazioni in questione). Sul contratto di spedalità cfr. in giurisprudenza, inter alia: Cass., sez. un., 1.7.2002, n. 9556; Cass., 14.7.2004, n. 13066; Cass., 26.1.2006, n. 1698; Cass. 13.4.2007, n. 8826. 75
Pubbliche o private. In quest’ultimo caso, è molto frequente che la struttura sanitaria privata sia una struttura “convenzionata” con il Servizio Sanitario Nazionale (SSN). Parimenti, è inserita nel SSN l’attività dei c.d. “medici di famiglia”. 76
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minoritaria del “mercato” dei servizi sanitari) – la giurisprudenza aveva (sino al 1999) abbracciato la tesi, secondo la quale il medico dipendente della struttura sanitaria risponde anch’egli direttamente dell’eventuale danno cagionato al paziente77, ma ne risponde a titolo di responsabilità extracontrattuale, atteso che non esiste alcun contratto tra lui e il paziente (il quale invece instaura la relazione contrattuale con la struttura sanitaria). Questa tesi è stata abbandonata a seguito di un’importante sentenza della Corte di cassazione italiana del gennaio 1999 (la sentenza n.589)78, la quale – riprendendo alcuni spunti contenuti in un contributo dottrinale di qualche anno prima79 – ha ritenuto di qualificare la responsabilità del medico dipendente come una responsabilità “contrattuale”, rinvenendo la fonte di tale responsabilità non nell’inadempimento di un’obbligazione nascente da contratto, bensì di un’obbligazione scaturente dal “contatto sociale” qualificato che si crea tra il paziente e il medico80 e che sarebbe idoneo a far sorgere un rapporto obbligatorio ex art. 1173 c.c., ultimo inciso. Questo mutamento giurisprudenziale – che si è rapidamente consolidato – è stato una delle cause del notevole incremento delle cause di responsabilità medica, atteso il regime più favorevole per il paziente che consegue alla qualificazione della responsabilità come “contrattuale”, specie sotto il profilo dell’onere della prova, in quanto – secondo la giurisprudenza più recente 81 – nella respon-
77 Del resto, questa responsabilità diretta è imposta – nell’ordinamento giuridico italiano – dall’art. 28 Cost., secondo il quale «I funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili, secondo le leggi penali, civili e amministrative, degli atti compiuti in violazione di diritti. In tal caso la responsabilità civile si estende allo Stato e agli enti pubblici». 78 Cass., 22.1.1999, n. 589, in Corr. giur., 1999, 446 ss., con nota di Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione. 79 Il riferimento è a Castronovo, L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Le ragioni del diritto, Milano, 1995, 197 ss.
In realtà, secondo la dottrina (Castronovo, cit. nella nota precedente), a cui si ispira tale giurisprudenza, il medico assumerebbe solo “doveri di protezione”. 80
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Cfr. Cass., sez. un., 30.11.2001, n. 13533, in Corr. giur.,
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sabilità contrattuale il creditore ha solo l’onere di allegare (non anche di provare) l’inadempimento del debitore, mentre spetta a quest’ultimo dimostrare di avere adempiuto, oppure dimostrare che l’inadempimento (o l’inesatto adempimento) è stato determinato da una “impossibilità sopravvenuta” derivante da una “causa estranea”, imprevedibile ed inevitabile. Poiché l’incremento delle cause di responsabilità sanitaria ha determinato una reazione da parte dei medici, dando luogo al fenomeno della c.d. “medicina difensiva”, il legislatore ha ritenuto di dover intervenire anche su questo punto, smentendo la giurisprudenza sulla “responsabilità da contatto sociale” e tornando a qualificare la responsabilità del medico “dipendente” come una responsabilità extracontrattuale (rimane, invece, contrattuale la responsabilità della “struttura sanitaria” presso la quale il medico lavora, sicché sussiste oggi un regime che viene definito “di doppio binario”82, alla luce del quale il paziente è spinto ad agire nei confronti della struttura, piuttosto che del singolo medico, da cui è stato curato, anche perché – molto spesso – risiede proprio in un deficit “organizzativo”, imputabile appunto alla struttura, la causa del fallimento della prestazione sanitaria). Inoltre, la legge “Gelli-Bianco” – nel tentativo di ancorare ad un parametro il più possibile “oggettivo” (e, dunque, maggiormente “controllabile”) la responsabilità medica, sancisce all’art. 5 l’obbligo per gli esercenti le professioni sanitarie di attenersi «salve le specificità del caso concreto, alle raccomandazioni previste nelle linee-guida» o, in mancanza (di linee guida), di conformarsi alle «buone pratiche clinico-assistenziali». Ciò è molto rilevante ai fini della responsabilità penale (posto che il successivo art. 6 – che introduce nel codice penale italiano il nuovo art. 590- sexies – esclude
la punibilità per i reati di omicidio colposo e lesioni personali colpose in ambito sanitario, “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia», epperò risultino rispettate le raccomandazioni previste dalle linee-guida), ma anche per quanto riguarda la responsabilità civile (e il connesso obbligo di risarcimento del danno) l’osservanza delle linee guida acquista un qualche rilievo, se non per escludere la responsabilità, quanto meno per mitigare l’obbligo risarcitorio (come prevede l’art. 7 comma 3° della legge, ai sensi del quale “il giudice, nella determinazione del risarcimento del danno, tiene conto della condotta dell’esercente la professione sanitaria ai sensi dell’art. 5 della presente legge, e dell’art. 590-sexies del codice penale»). Altro aspetto importante della riforma della responsabilità sanitaria in Italia è l’obbligo che viene imposto alle strutture sanitarie di stipulare polizze assicurative83 (o – in alternativa – di adottare “analoghe misure”) per la copertura della responsabilità civile verso i terzi, anche per i danni cagionati dal personale a qualunque titolo operante presso la struttura (art. 10 e 11 l. n. 24/2017)84; ulteriore novità è, poi, rappresentata dalla concessione ai terzi danneggiati di un’azione “diretta” nei confronti delle imprese di assicurazione, prevista dall’art. 12 l. n. 24/2017 sul modello costituito dall’azione diretta disciplinata dall’art. 144 del Codice delle assicurazioni private (C.A.P.) per la r.c.a. (responsabilità civile automobilistica). Ma quel che, forse, costituisce la novità principale della “legge Gelli-Bianco”85 – per quel che concerne il profilo della responsabilità civile (in materia sanitaria) – è la disposizione dell’art. 7, comma 4°, secondo cui il danno conseguente all’attività della
Non è, tuttavia, previsto (diversamente da quanto accade in altri ordinamenti) un obbligo delle compagnie assicurative di concludere contratti di assicurazione con le Aziende sanitarie che ne facciano richiesta. 83
2001, 1565. 82 Così, ad es., De Matteis, Le responsabilità civili in ambito sanitario: dal modello unitario di disciplina al sistema a doppio binario, in Le responsabilità in ambito sanitario, a cura di Aleo, De Matteis, Vecchio, Padova, 2014, 127 ss.; e, più di recente, Id., Le responsabilità in ambito sanitario. Il regime binario: dal modello teorico ai risvolti applicativi, Padova, 2017.
84 L’obbligo di assicurazione si allinea ad una tendenza che è comune alla gran parte degli ordinamenti che abbiamo analizzato nelle pagine precedenti, e che naturalmente incide sulla stessa funzione della responsabilità civile. 85 Novità che era stata anticipata dalla “legge Balduzzi” del 2012.
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struttura sanitaria (pubblica o privata) e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle Tabelle di cui agli artt. 138 e 139 del C.A.P. 86 (art. 3, comma 3°). In altre parole, la quantificazione del danno (sanitario) dovrà essere effettuata attraverso i valori utilizzati nel settore della r.c.a. (responsabilità civile automobilistica), mentre in precedenza (nell’assenza di alcuna disposizione normativa che disciplinasse la liquidazione del danno biologico in campo sanitario) si ritenevano applicabili (analogicamente) le Tabelle milanesi sul danno biologico (più generose di quelle previste dal C.A.P., che in qualche modo hanno la funzione di “calmierare” i risarcimenti). Emerge dunque un’esigenza di ridurre l’ammontare dei risarcimenti 87 (e di assicurare la prevedibilità dei loro importi), anche se si è lontani da quelle forme di “forfetizzazione” del danno che abbiamo visto praticate negli ordinamenti che hanno optato (almeno in parte) per sistemi di “indennizzo” c.d. no-fault.
7. Sintesi delle principali linee emerse dall’indagine compiuta Se, a conclusione dell’indagine, si volessero indicare – in estrema sintesi – alcune linee che paiono emergere nell’evoluzione degli ordinamenti considerati, si potrebbe anzitutto osservare come il tema della responsabilità medica abbia dapper-
L’art. 139 disciplina la formazione della c.d. Tabella unica nazionale per il risarcimento delle “lesioni di lieve entità” (c.d. “micro permanenti”), mentre l’art. 138 è relativo alle “lesioni di non lieve entità” (c.d. “macropermanenti”, corrispondenti a percentuali di invalidità dal 10% al 100%). 86
87 Sul raggiungimento effettivo di questo obiettivo si possono tuttavia sollevare non poche perplessità, che muovono dal dubbio circa l’ effettiva esistenza di una analogia significativa tra il settore della RCA, nel quale i danni che vengono prodotti colpiscono assai spesso delle persone “sane” determinando “invalidità” prima affatto inesistenti, e il settore della responsabilità medica, dove la regola invece è quella che la prestazione sanitaria (ad es. la prestazione chirurgica) interviene su un paziente che è già affetto da una patologia (più o meno grave, e più o meno invalidante). Sicché applicare tout court al settore della responsabilità medica Tabelle costruite per il (ben diverso) settore della RCA potrebbe fallire clamorosamente la finalità di contenimento della spesa per risarcimenti dei danni da attività medica.
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tutto subito incisive trasformazioni, che riflettono peraltro le profonde modifiche che nel corso dell’ultimo secolo (e con un’accelerazione che diventa – negli anni – sempre maggiore) ha subito la medicina, sia sotto il profilo degli enormi progressi compiuti nella conoscenza delle varie malattie e della loro origine (basti pensare all’ultima – e più promettente – frontiera che si è cominciato ad esplorare in questi ultimi anni: quella della ricerca genetica), sia sul piano della capacità di riconoscere ed individuare tali malattie avvalendosi di strumentazioni sempre più sofisticate (si pensi all’Ecografia, alla TAC, alla RMN, e così via), e di combatterle attraverso cure farmacologiche (ma non solo) sempre più efficaci, oltre che di tecniche (ad es. operatorie, ma anche riabilitative) che solo pochi anni prima apparivano magari del tutto avveniristiche88. Ciò ha comportato, anzitutto, la trasformazione dell’attività medica da attività prevalentemente esercitata in forma individuale (come ancora avveniva agli inizi del secolo scorso) in attività “organizzata”, che si svolge ormai all’interno di “strutture” sanitarie complesse (ospedali, cliniche, laboratori, etc.), che si avvalgono di una pluralità di competenze specialistiche e che mettono a disposizione dei propri medici apparecchiature e strumenti diagnostici e terapeutici alquanto sofisticati e costosi, che certamente il singolo professionista non avrebbe altrimenti la possibilità di utilizzare. Si accentua, in tal modo, un profilo “imprenditoriale” connesso allo svolgimento dell’attività sanitaria, che avvicina sempre di più tale attività (o una parte di essa) ad un “servizio”, piuttosto che alla tradizionale “professione” o “arte”, di cui si era abituati a discorrere. Al contempo diviene sempre più evidente che l’origine di molti “fallimenti” dell’attività sanitaria va ricercata non tanto in errori “individuali” (dei singoli medi-
88 Basti ricordare la grande impressione che fece la notizia della prima operazione di trapianto del cuore, realizzata il 3 dicembre 1967 (poco più di cinquant’anni fa), a Città del Capo, dal cardiochirurgo sudafricano Chris Barnard, laddove oggi le operazioni di trapianto del cuore sono diventate del tutto comuni (anche se non può dirsi – ovviamente – che si tratti di interventi … di routine).
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ci), quanto piuttosto in un deficit organizzativo (onde, in un certo senso, si può parlare - spesso - di danni “anonimi”, per i quali sarebbe impossibile o inutile la ricerca di una “colpa” individuale). Risiede anche qui la ragione che ha spinto – come abbiamo visto nelle pagine precedenti – molti ordinamenti giuridici ad introdurre sistemi di “indennizzo” c.d. no-fault, che mirano ad assicurare ai pazienti danneggiati una forma di ristoro per il pregiudizio subito, evitando al contempo le lungaggini e gli altri inconvenienti che sono connessi all’applicazione della tecnica della responsabilità civile. Si tratta, peraltro, di sistemi che – nella maggior parte dei casi – non sostituiscono integralmente il meccanismo della responsabilità civile, bensì si affiancano ad esso (sia pure con la tendenza ad acquisire – almeno quantitativamente – un ruolo preminente nella riparazione dei pregiudizi). D’altra parte, neanche il sistema della responsabilità civile (contrattuale ed extracontrattuale) permane in vita immutato, soprattutto negli ordinamenti che continuano a basarsi fondamentalmente su di esso (non avendo introdotto meccanismi di indennizzo no-fault). Se è vero, infatti, che tale sistema continua ad apparire legato al presupposto tradizionale della “colpa” (connotando in senso soggettivo la relativa responsabilità), è anche vero che l’accoppiamento tra “responsabilità” e “assicurazione” determina di per sé una profonda modificazione del modo di funzionare del sistema (si pensi ad es. al modificarsi della c.d. “funzione preventiva”, che viene solitamente considerata coessenziale ai meccanismi di responsabilità “soggettiva”)89. Si aggiunga che l’aumento delle aspettative circa la possibilità di diagnosticare e di curare buona parte delle malattie (che magari erano, fino a poco tempo fa, sconosciute
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oppure considerate “inguaribili”) ha alimentato una sorta di “oggettivazione” della responsabilità, che si realizza soprattutto (anche questa è una “costante”, che abbiamo riscontrato in quasi tutti gli ordinamenti analizzati) attraverso il ricorso da parte della giurisprudenza a “presunzioni”, che finiscono per trasformare la responsabilità da “soggettiva” in “oggettiva”, connettendola tout court all’esistenza del danno, allorché si sia in presenza di circostanze particolari che (al di là di un accertamento concreto) inducano ad addossare sul medico e/o sulla struttura la responsabilità del peggioramento (o del mancato, possibile, miglioramento) delle condizioni del paziente.
Sul tema (classico, ma continuamente ricorrente) delle “funzioni della responsabilità civile” cfr. – nella dottrina peruviana – Fernandez Cruz, Las transformaciones funcionales de la responsa-bilidad civil: la óptica sistématica. Análisis de las funciones de incentivo o desincentivo y preventiva de la responsabilidad civil en los sistemas del civil law , in Ius et veritas, 2001, 11 ss., consultabile all’indirizzo: www.works. bepress.com. 89
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Saggi e pareri
Saggi e pareri
La legge sulle decisioni di cura e la figura del medico: una lettura critica
g g sa re e a p
Donato Carusi
Professore nell’Università di Genova Sommario: 1. Prologo: un’impresa pluridecennale. – 2. Lo status quo ante. – 3. Il paziente capace: rifiuto di cure e rifiuto di informazioni. – 4. Inesigibilità di trattamenti stravaganti. Terapia del dolore e sedazione profonda. – 5. Le DAT. – 6. L’ufficio del fiduciario. – 7. A proposito di revoca e modifica delle DAT. – 8. La «pianificazione condivisa delle cure» e l’incoerenza di fondo della legge. – 9. Epilogo: Ippocrate in ribasso.
Abstract: L’autore critica il testo della legge n. 219/2017 sotto vari aspetti, e principalmente per non prevedere che le Disposizioni anticipate di cura vengano dichiarate con l’assistenza di un medico. Con ciò la legge non solo non coltiva la pubblica fiducia nella medicina, ma manca l’obiettivo di garantire efficacemente il rispetto delle volontà del dichiarante. The author criticizes the Italian Act about Advance Health Care Decisions (AHCD) for many reasons, and mostly for not disposing AHCDs to be formulated with the assistance of a doctor. By doing so, the Act does not endorse public trust in medicine, neither succeeds in assuring full respect of the patient’s self-determination.
1. Prologo: un’impresa pluridecennale I primi progetti parlamentari italiani in tema di «eutanasia passiva» e dignità della vita nel suo «stadio terminale» risalgono al 1984 (proposta d’iniziativa Fortuna e altri) e 1985 (Del Donno e altri). A più di trent’anni di distanza e dopo che decine e decine di altri disegni e proposte si sono succeduti, contrapposti, ricalcati, per
arenarsi immancabilmente a più o meno breve distanza dall’approvazione, ha finalmente visto la luce la legge detta «sul testamento biologico». Questa denominazione implicitamente evocativa della fine dell’esistenza umana individua il nucleo più rilevante o comunque più avvertito della materia incisa; ma conformemente al titolo ufficiale Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, la legge 219 del 2017 non riguarda soltanto la disponibilità delle procedure di sostegno in vita in condizioni estreme, e investe invece il rifiuto di qualunque trattamento sanitario in qualunque condizione clinica. A dispetto di un così lungo periodo di gestazione, a me pare che si tratti di una legge dai pregi assai limitati. Essa segna un progresso importante, perché è idonea a dissipare ogni incertezza in situazioni simili al caso Welby, in cui il paziente capace manifesta il desiderio che non vengano praticate o che vengano interrotte cure anche vitali (cfr. art. 1, co. 5° e 6°). Mi sembra però che sia costellata di espressioni inutili, ambigue o senz’altro infelici, e che presenti difetti e incoerenze destinati a farsi avvertire specialmente con riguardo alle «disposizioni anticipate», da eseguire quando il paziente non sia in grado di esprimere consenso o rifiuto dei trattamenti.
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Tra le ragioni di questo esito deludente va senza dubbi annoverata la fiera rivalità tra i così detti fronti cattolico e laico, e per dire meglio tra i più bellicosi portainsegne dell’una e dell’altra parte. Quasi sempre le polemiche fortemente polarizzate finiscono per impoverire i dibattiti, riducendoli a un sordo scontro di parole d’ordine. Qui c’erano da un lato i fautori dell’indisponibilità della salute e della vita umana – intolleranti nella misura in cui pretendano che il loro legittimo sentimento morale o religioso si trasformi in regola giuridica cogente per tutti; dall’altra i legionari delle libertà, indisponibili ad ammettere che quella del rifiuto di cure è certo una questione di riconoscimento del sacrosanto diritto dell’individuo all’autodeterminazione, ma è anche una questione politica dalla sostanza delicata e complessa. Un altro fattore di scarsa qualità del prodotto finale può essere indicato nella difficoltà di impiantare il disegno della nuova legge su una chiara e franca rappresentazione del diritto previgente. Questo problema si intreccia con il precedente, perché è stato tipico di certi settori del «pensiero cattolico», durante tutti questi anni, negare che il principio di libertà delle cure già risultasse dalla Carta costituzionale. Sul fronte avverso, per amore o per forza, ci si è piegati a tale schema di ingaggio: si è dato per scontato che il tema da trattare e da decidere fosse se e entro quali limiti istituire il diritto a rifiutare cure mediche, e si è di fatto rinunciato a sviluppare un più evoluto ordine di idee.
2. Lo status quo ante Il reiterato riconoscimento nella giurisprudenza della Cassazione e della Corte costituzionale del «consenso informato» quale «fondamento» del rapporto terapeutico implica necessariamente che ai trattamenti indicati dai medici si può non consentire – dunque che ad essi ci si può sottrarre. Intorno a casi di pazienti che rifiutavano l’amputazione di un arto mettendo a rischio la vita, e anzi in sostanza disponendosi a dismetterla, si sono accesi grandi clamori mediatici, ma nessun giudice ha osato emettere ordini di accompagnamento in sala operatoria. In compenso, e a conResponsabilità Medica 2019, n. 2
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ferma del difficile radicamento nel Paese di una cultura veramente laica e liberale, pazienti come Pier Giorgio Welby sono stati costretti a troppi, millenari giorni di sopravvivenza loro malgrado, e le loro sofferenze hanno avuto strascichi surreali. Sul presupposto della libertà delle cure la Cassazione aveva già riconosciuto – in linea di principio – anche la rilevanza delle disposizioni anticipate: nel caso Englaro i trattamenti di mantenimento in vita sono stati infine interrotti non in ragione della richiesta del padre o del tutore in sé considerata, ma reputandosi accertato che in tal senso avesse espresso le sue intenzioni, al tempo in cui era ancora capace, l’interessata. Ricordo anche certe sentenze rese dalla Corte suprema in relazione a trasfusioni praticate a testimoni di Geova: le domande risarcitorie dei trasfusi sono state respinte affermandosi non che le disposizioni anticipate di cura non abbiano valore, e neanche che non si possano rifiutare trattamenti necessari alla sopravvivenza, bensì che nei casi di specie i medici non avevano certezza della provenienza della dichiarazione di rifiuto consegnata a un cartellino prestampato, o del fatto che l’interessato l’avesse resa con consapevole riferimento anche all’ipotesi che fosse in gioco la propria vita1. Questa giurisprudenza può piacere o meno, ma il suo messaggio era chiaro e coerente: compito della legge a venire non sarebbe stato di fondare o rifondare la relazione consensuale tra medico e malato, ma di elevare il grado di effettività del principio di libertà delle cure, garantendo in particolare – a beneficio in primo luogo dei cittadini potenziali pazienti, ma anche dei medici – conoscibilità, certezza e ponderatezza delle dichiarazioni preventive di rifiuto.
Cfr. Cass., 23.2.2007, n. 4211, in Foro it., 2007, I, 1711; Cass., 15.9. 2008, n. 23676, ivi, 2009, I, 36, con nota di Casaburi; e su di esse Alpa, Bioetica, biodiritto e rifiuto di cure, in Carusi, Castignone e Ferrando (a cura di), Rifiuto di cure e direttive anticipate. Diritto vigente e prospettive di regolamentazione, Torino, 2012, 9 s.; Carusi, Libertà dei trattamenti terapeutici e direttive anticipate: lo status quo, ivi, 14 ss. 1
Una lettura critica della legge sulle decisioni di cura
3. Il paziente capace: rifiuto di cure e rifiuto di informazioni Non avrò tempo di commentare integralmente il testo della legge ora approvata. A costo di rendermi antipatico a quanti – giustamente stanchi di aspettare – la hanno salutata come una svolta pressoché epocale, mi soffermerò principalmente sulle sue pecche, o quelli che a me paiono i suoi più rilevanti aspetti problematici. Ho già fatto riferimento a quella parte dell’art. 1 che spazza ogni incertezza circa il rispetto da prestare alla volontà del paziente capace, senza eccezione dell’ipotesi che sia in gioco la sua vita e indipendentemente dalla cavillosa distinzione fra trattamenti da intraprendere e trattamenti in atto. Per il caso di rifiuto di trattamenti necessari alla sopravvivenza, sempre nel comma 5° si trova l’opportuna codificazione di prassi già normalmente in uso: «il medico prospetta al paziente e, se questi acconsente, ai suoi familiari, le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative e promuove ogni azione di sostegno al paziente medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica». Non senza qualche sfumatura di residuo tentennamento la legge scioglie anche il nodo dell’idratazione e alimentazione «artificiali», cavallo di battaglia di tanti bioeticisti sottilissimi: nei limiti in cui si tratti di «somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici», anche questi sono da considerarsi «trattamenti medici» (art. 1, co. 5°), e la loro rifiutabilità (e «rinunciabilità») non potrà più essere messa in discussione. Vorrei adesso retrocedere al comma 3° dell’art. 1, nel quale – dopo avere detto che il paziente ha diritto d’essere informato in modo esauriente e comprensibile – si è voluto regolare anche il suo diritto di non sapere. Ciò si è fatto in modo decisamente disinvolto, scrivendo che l’interessato «può rifiutare in tutto o in parte di ricevere le informazioni ovvero indicare i familiari o una persona di fiducia incaricata di riceverle». Come la figura di un interessato che rifiuti ogni informazione, o che deleghi ad altri di riceverla, possa convivere con il programma di «valorizzare» la «relazione» di cura e con l’enfatica indicazione del
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«consenso informato» quale «base» di essa (comma 2° dell’art. 1) a me sembra francamente un mistero. Si può e si deve convenire che il paziente – se lo vuole – vada tenuto finché possibile all’oscuro di certe prognosi, e fors’anche di qualche diagnosi. Ma l’informazione circa tutti i comportamenti indicati per vincere o anche solo per contenere efficacemente la malattia meriterà di rimanere doverosa da parte dei medici. L’ovvietà di questa interpretazione correttiva non esime dal criticare le formule testuali della legge, perché esse oggettivamente si prestano a alimentare dubbi negli operatori sanitari e a fomentare litigiosità nei loro confronti. Figurarsi che il familiare o la persona di fiducia possa aver l’incarico di ricevere tutta l’informazione ha condotto gli artefici della legge a prevedere che il paziente possa attribuirgli pure il potere di «esprimere il consenso in sua vece», o quindi di negarlo, in costanza della propria (del paziente) capacità (sempre art. 1, co. 3°). Temo che questa ipotizzata delega contrasti con i principi della Costituzione: per quanto l’incaricato possa esser stretto al paziente da saldi vincoli di affetto e solidarietà, vi si colgono gli estremi di un atto di sottomissione personale, e per dire in altro modo di abdicazione dell’interessato al proprio status personae.
4. Inesigibilità di trattamenti stravaganti. Terapia del dolore e sedazione profonda Mentre consente di sottrarsi a qualunque trattamento, anche vitale, la legge non permette di pretendere dai medici trattamenti che non abbiano superato la soglia giuridica minima di collaudo o attendibilità, o che addirittura siano ripudiati dalla comunità scientifica: pare questo, e solo questo, il significato da riconoscere all’ultima parte del comma 6° dell’art. 1, a termini della quale «il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali». L’art. 2 prevede il dovere del medico di «adoperarsi», con i «mezzi appropriati allo stato del paziente», per alleviarne le sofferenze anche quando le cure indicate siano state rifiutate, e richiama in Responsabilità Medica 2019, n. 2
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proposito l’importante legge 15 marzo 2010, n. 38, in materia di «cure palliative». Sulla scia di quest’ultima, il secondo comma dello stesso articolo ammette apertamente – in casi in cui ricorrano «prognosi infausta a breve termine» e «sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari», e sempre «con il consenso del paziente» – la «sedazione palliativa profonda continua», vale a dire l’accompagnamento del paziente alla morte attraverso il sonno. Fatta salva la doverosità dell’azione interruttiva di tutti i trattamenti «rinunciati», che risulta dall’art. 1, altri comportamenti positivi del personale sanitario che, su richiesta del paziente, abbiano per conseguenza il suo decesso non sono contemplati. Nei salotti televisivi si è spesso equivocato su questo punto: il grave e delicatissimo problema dell’«assistenza al suicidio» può dirsi solo lambito dalla presente legge, e richiederà presto o tardi un nuovo intervento legislativo.
5. Le DAT Non mi diffondo sul lungo art. 3, perché ho l’impressione ch’esso non introduca alcuna sostanziale novità in materia di cure degli incapaci legali e rischi solo, con un paio di infortuni nascosti nel testo dei commi 4° e 5° – uno riguardante la figura dell’inabilitato, un altro più grave concernente il sottoposto ad amministrazione di sostegno – di confondere le acque. Passo invece senz’altro a parlare delle norme dedicate alle disposizioni anticipate, che – come ho già detto – mi paiono costituire la parte più criticabile della legge. La rinuncia all’istituzione di un registro o archivio informatico nazionale, risultante dai commi 6° e 7° dell’art. 4, è coerente con la «clausola di invarianza finanziaria» di cui all’art. 7 e anche sotto questo profilo deve esser parsa utile a facilitare l’approvazione della legge. Ma essa è anche un oggettivo fattore di depotenziamento della nuova disciplina: il registro informatico unico è di certo il mezzo più efficace per assicurare che a tempo debito le disposizioni anticipate vengano a conoscenza dei curanti. Il notaio che abbia ricevuto la dichiarazione in forma d’atto pubblico non assume certo solo per questo l’improbabile obbligo di farsene latore, nel momento in cui serva, ai meResponsabilità Medica 2019, n. 2
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dici del dichiarante! Del registro comunale, «ove istituito», e della raccolta di copia delle DAT che le regioni «possono regolamentare», resta da vedere come siano resi accessibili ai medici, e in quali limiti territoriali. L’istituzione del registro nazionale è stata poi prevista – come è noto - dalla legge «di bilancio». Fino a quando non verrà attuata, il cittadino dichiarante dovrà molto confidare nell’efficienza degli uffici dello stato civile e dei servizi regionali, e se vive nel luogo sbagliato potrà scegliere fra due strategie: portare la sua dichiarazione sempre indosso, augurandosi che nel momento del bisogno essa sporga abbastanza in vista dalle tasche; oppure pregare i santi che la persona cui abbia affidato copia del documento abbia pronta notizia del bisogno (del trovarsi cioè l’autore della dichiarazione sottoposto a cure mediche in condizioni di incapacità) e in quel momento si trovi in grado di avvertire i responsabili delle cure. A considerare le cose in quest’ottica pragmatica, il riconoscimento al disponente della «libertà» di non depositare la dichiarazione presso la Regione, intonata ad alta devozione per la riservatezza dei cittadini, assume il suono di una blandizie beffarda. Posto che le disposizioni anticipate giungano in qualche maniera a conoscenza del medico curante, questi è in linea di principio tenuto a rispettarle. A termini del comma 5° dell’art. 4 le DAT «possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico (…) in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita». Questo enunciato ha un nucleo minimo di significato da considerarsi sicuro: se l’autore della dichiarazione anticipata soffre di patologie o disturbi differenti da quelli cui si era riferito nel documento, o se disponibili e indicate sono cure significativamente diverse da quelle che il paziente ha preventivamente dichiarato di non volere, non c’è che da riconoscere che le direttive non sono applicabili. Il surplus di parole e l’uso dell’espressione «disattendere» lasciano però intravedere altre possibili attribuzioni di sen-
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so: «palesemente incongrue» potranno giudicarsi anche dichiarazioni di rifiuto indiziabili di fondarsi su falsi presupposti cognitivi, che appaiano ispirate da superstizioni o timori idiosincratici? E anche disposizioni formulate in termini tecnicamente atipici? Oltre quale limite di genericità o inappropriatezza si potranno e dovranno «disattendere» le espressioni dell’interessato? «In accordo con il fiduciario» significa che, se un fiduciario vi è, la responsabilità che le disposizioni anticipate vengano eseguite o «disattese» nel rispetto della legge è condivisa dal medico con lui: nel caso di «conflitto» tra i due, la chiusa di questo comma prevede che si proceda «ai sensi del comma 5° dell’art. 3», il che significa che la decisione va rimessa al giudice.
6. L’ufficio del fiduciario Secondo la lettera dell’art. 4, co. 1°, il fiduciario è «indicato» nelle DAT perché «faccia le veci» del dichiarante e lo «rappresenti» nelle relazioni con i medici e con le strutture sanitarie. Dal comma 4° dell’art. 4 risulta che l’indicazione del fiduciario non è un elemento necessario delle DAT; e risulta che la mancanza di indicazione, come pure la rinuncia o la sopravvenuta morte o incapacità dell’indicato, potrebbero determinare un «caso di necessità»: in tale evenienza è previsto che il giudice tutelare provveda alla nomina di un amministratore di sostegno. Il modo ipotetico sembra implicare che, quanto meno se nessun fiduciario sia stato nominato, ben possa il medico curante portar da solo la responsabilità di dare séguito alle DAT secundum legem; ma anche che, quante volte il medico nutra plausibili dubbi circa il significato delle disposizioni, possa egli chiedere la nomina dell’amministratore di sostegno. Questa sorta di flessibile procedimentalizzazione della fase esecutiva delle DAT ha una sua ragionevolezza, e si potrebbe riconoscere in essa un vero e proprio pregio della legge. Sfortunatamente si è ritenuto necessario, con le formule del primo comma dell’art. 4 che ho appena riportate, dare delle mansioni del fiduciario una sorta di definizione generale, la quale suscita perplessità analoghe a quelle di cui ho parlato a proposito della «persona di fiducia» del paziente capace: e
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ciò tanto più in quanto qui - come già a proposito dei conviventi nella legge sulle unioni civili (l. 20 maggio 2016, n. 76, art. 1, co. 40° e 41°) - è stato scomodato apertamente il concetto di «rappresentanza», il quale, da che mondo è mondo, evoca l’espressione, con effetti per altri, di una volontà propria. Immaginate un caso come questo: viene ricoverato in ospedale un individuo in condizioni di incoscienza; i medici diagnosticano un tumore al colon e reputano urgente un intervento chirurgico, il quale comporterà con certezza, oppure rischia di comportare, una grave menomazione; il coniuge o un parente esibisce una dichiarazione autenticata di disposizioni anticipate che lo designa quale fiduciario; dalla dichiarazione risulta la volontà dell’interessato di non venire alimentato artificialmente, ove caduto in stato vegetativo, per un periodo superiore a un anno, ma nulla che abbia a che fare con operazioni chirurgiche invalidanti; il fiduciario dichiara di rifiutare l’intervento. In circostanze simili la lettera dell’art. 4, co. 1°, («faccia le veci e lo rappresenti») sembrerebbe obbligare i medici a astenersi dall’operazione, ma sarà difficile che la loro coscienza non avverta un problema: l’investitura di questa persona può davvero considerarsi una «delega in bianco», comprensiva del potere di rifiutare cure che l’interessato non ha dichiarato di non volere? Questo prevedibile scrupolo degli operatori sanitari non mi sembra liquidabile come una forma di paternalismo, e piuttosto corrisponde a un’idea elementare o basica di personalismo: auspicabile e a sua volta prevedibile mi pare anche qui un’interpretazione correttiva della lettera della legge, costituzionalmente orientata, che al fiduciario riconosca titolo a rifiutare, in considerazione della situazione clinica in essere, trattamenti pre-individuati dall’interessato ora incapace («ove mi capitasse di versare in stato vegetativo da oltre un anno, sia mia moglie a decidere fino a quando vadano protratte alimentazione e idratazione artificiali»; «ove si prospettino interventi chirurgici invalidanti, sia il mio amico – nella mia incapacità – a decidere se procedervi»). Al fiduciario si potrà anche riconoscere titolo a risolvere dubbi dei curanti circa diverse possibili interpretazioni di espressioni presenti nelle DAT: non invece il potere indiscriminato di
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opporsi a cure circa le quali l’interessato non si è mai pronunciato.
7. A proposito di revoca e modifica delle DAT Uno degli addebiti che mi sentirei di muovere ai redattori della legge 219 è di aver sottovalutato le ineludibili questioni di forma poste dalle disposizioni anticipate, e con ciò di aver finito per elevare poco o nulla i livelli di effettiva garanzia del dichiarante: ne parlerò tra breve, ma fin d’ora avanzo il dubbio malizioso che proprio questo possa spiegare l’improvvisa attenuazione delle resistenze del fronte proibizionista e l’approvazione della legge in un clima quasi pacificato. Per altro verso spicca nel testo una palese difficoltà a tener distinti profili di validità di una dichiarazione, esigenze di conoscibilità e problemi di prova. Vengono al riguardo in considerazione già l’ansiosa ed ansiogena raffica di predicati riferiti al «consenso informato» dal comma 4° dell’art. 1 («acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente»; «documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare»; «in qualunque forma espresso», «inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». Il tutto con salvezza delle «norme speciali che disciplinano l’acquisizione del consenso informato per determinati atti o trattamenti sanitari»: art. 1, co. 11°); poi la norma sulle disposizioni anticipate delle persone impedite a recarsi da un notaio o presso l’ufficio dello stato civile, ove ritorna lo sbrigativo accostamento tra «videoregistrazione» (che allude a un modo di documentare la dichiarazione) e «dispositivi che consentano alla persona con disabilità di comunicare» (che allude a modi di dichiarare). La più pericolosa – ed anche pittoresca - manifestazione del fenomeno sta però nel chilometrico comma 6° dell’art. 4, laddove culmina con la seguente statuizione: «nei casi in cui ragioni di emergenza e urgenza impedissero di procedere alla revoca delle DAT con le forme previste dai periodi precedenti, queste possono essere revocate con dichiarazione verbale raccolta o videoregistrata da un medico, con l’assistenza di due Responsabilità Medica 2019, n. 2
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testimoni». Più che mai in questo caso mi sento in dovere di dire ai medici presenti in sala che non sempre le parole della legge vanno prese per oro colato: ove un paziente Vi manifesti in qualunque forma il suo ripensamento circa un rifiuto di cure precedentemente espresso - vi siano o non vi siano testimoni - è Vostro preciso obbligo giuridico procedere a curarlo.
8. La «pianificazione condivisa delle cure» e l’incoerenza di fondo della legge Mi avvio alla conclusione accennando alla così detta «pianificazione condivisa delle cure», disciplinata nell’art. 5. Parlarne mi consentirà di mettere in evidenza quella che a me pare un’obiettiva incoerenza della legge. La pianificazione condivisa – che precedenti progetti avevano messo in campo come figura di nebulosa utilità2 – è in sostanza divenuta, nel testo ora varato, un’ipotesi speciale di formulazione di disposizioni anticipate, contraddistinta dall’aver luogo non in un qualunque momento della vita dell’interessato, ma in presenza «di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta» (art. 5, co. 1°). In tale caso è previsto che la dichiarazione venga fatta nel confronto dialettico con il medico curante. Questa previsione ha una sua singolarità, perché quando in esperienze straniere si è prevista o caldeggiata la partecipazione di un medico alla stesura delle disposizioni, proprio nei confronti del curante si è ipotizzata una ragione di preclusione, consistente nel pericolo che egli incoraggi il paziente a rifiutare certi trattamenti allo scopo di alleviare le proprie incombenze. A me non pare che questo pericolo sia particolarmente grave, e propendo a pensare che se il paziente ha fiducia nel medico che lo ha in cura, ben possa ammettersi che a lui dichiari le proprie disposizioni anticipate. Trovo però sorprendente
Si veda S-13, XVII, 2013, Manconi e Corsini, artt. 15-17, e al riguardo il mio Tentativi di legiferazione in materia di «testamento biologico». Contributo a un dibattito da rianimare, Torino, 2016, 56 s.
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che il coinvolgimento di un medico sia previsto proprio e solo in riferimento a questa situazione controversa. Richiamo la Vostra attenzione sul comma 1° dell’art. 4, nella parte in cui dice che le disposizioni anticipate sono dichiarate «dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche». Bisogna constatare che a questa affermazione di buon senso – perfettamente coerente con la logica del consenso informato – solo nell’ipotesi speciale della pianificazione condivisa la legge associa una effettiva garanzia procedimentale. Non sarebbe stato più lineare e coerente, evitando la duplicazione di figure, sopprimere la «pianificazione», scrivere nella legge che la dichiarazione delle disposizioni è ricevuta da un medico, e di séguito eventualmente prevedere che il medico si occupi di una qualche forma di registrazione? Qualunque paziente in condizioni di capacità esprime il consenso o il rifiuto di cure non in isolamento e neppure recandosi in uno studio notarile, bensì colloquiando con un medico. A maggior ragione il confronto con un esperto in medicina si raccomanderebbe – mi pare - quale condizione o modalità dell’espressione di decisioni non relative a una circostanziata proposta di trattamento, ma suscettibili di riguardare qualunque situazione clinica e qualunque trattamento; e ciò più che mai in una società come la attuale, in cui il cittadino-disponente è particolarmente esposto alle insidie del conformismo, del linguaggio vago, dell’informazione superficiale o senz’altro sbagliata, del pensiero antiscientifico e del chiacchiericcio new age. Così come il medico curante deve rispettare l’eventuale rifiuto della terapia che propone (art. 1, commi 1°, 5° e 6°), nemmeno il medico ricevente dovrebbe avere titolo a sindacare preventive dichiarazioni di rifiuto sotto il profilo morale, religioso e simili: suo compito precipuo dovrebbe essere invece (e una buona legge ben potrebbe precisarlo) di assistere il disponente e garantirgli - non molto diversamente da come è già in uso che il curante faccia con il malato capace - che le sue determinazioni non si basino su false rappresentazioni degli effetti di una patologia o di una terapia, né tradiscano, per scarsa padronanza del linguaggio tecnico, le sue effettive intenzioni.
È molto significativo che a proposito della pianificazione condivisa la legge non ripeta le equivoche formule dell’art. 4, co. 5°, circa i limiti di vincolatività delle disposizioni anticipate (cfr. supra, par. 5): alla pianificazione condivisa – cioè alle disposizioni preventive rese dall’interessato nel rapporto dialogico con il medico – la legge dice puramente e semplicemente che ci si deve attenere (cfr. art. 5, co. 1°). Fare della ricezione da parte di un medico la modalità tipica di dichiarazione delle disposizioni anticipate avrebbe sortito l’effetto di dare a tutte le disposizioni la stessa inequivoca garanzia di operatività. Sarebbe equivalso a collocare generalmente prima, al momento della dichiarazione, quella messa a confronto con le obiettive risultanze e con i codici espressivi del sapere medico cui la legge lascia spazio dopo, nella fase dell’esecuzione. I vantaggi che avrebbe avuto tale scelta mi paiono evidenti: quello ex ante sarebbe un confronto costruttivo, che potrebbe dar luogo a un avanzamento del grado di informazione del dichiarante, a una migliore consapevolezza delle sue deliberazioni o a una più precisa formulazione dei suoi desideri; mentre il confronto ex post può per forza di cose metter capo solo a un fin de non recevoir per le espressioni giudicate insignificanti, troppo generiche o comunque sospette. Per come la legge effettivamente è fatta, resta alta la probabilità che al momento di eseguire le disposizioni qualcuno (medici curanti, familiari, ecc.) metta in dubbio che esse furono espresse «dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche» (cito sempre l’art. 4, co. 1°) e con ciò metta in causa la loro validità; oppure che le disposizioni vengano disapplicate in ragione o sotto pretesto del loro incerto significato; o ancora che esse vengano semplicemente fraintese.
9. Epilogo: Ippocrate in ribasso Di eventuale partecipazione di un medico alla «formazione» delle dichiarazioni anticipate parlavano ad esempio i disegni di legge S-3, XV legislatura, 2006, d’iniziativa Tomassini; S-51, XVI, 2008, Tomassini e altri; S-433, XVII, 2013, Rizzotti, tutti egualmente all’art. 13, co. 1°. Il disegno S-687, XV, 2006, Marino e altri, presentava all’art. Responsabilità Medica 2019, n. 2
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10, co. 2°, tale partecipazione come necessaria: la stessa previsione non si trova in S-10, XVI, 2008, Marino e altri, né in S-5, XVII, 2013, Marino e altri. La «raccolta» delle dichiarazioni era «esclusivamente» riservata al «medico di medicina generale» nel pessimo, e per molti aspetti grottesco, «progetto Calabrò», approvato dal Senato della Repubblica il 26 marzo 2009 e modificato dalla Camera dei Deputati il 12 luglio 2011, che sembrò sul punto di diventare legge dello Stato alla fine della XVI legislatura (art. 4, co. 1°), poi seguìto da C-2229, XVII, 2014, Roccella e altri (anche qui art. 4, co. 1°). Forse siamo davanti a uno degli effetti dello scontro militarizzato: l’accantonamento di un’idea tutt’altro che peregrina potrebbe essere avvenuto per reazione polemica al suo impossessamento da parte dei negatori dell’autodeterminazione. L’immagine del cittadino che, con l’assistenza di un iniziato alla materia, misuri le parole per dare voce preventivamente e cautelativamente al proprio desiderio di non sottostare a certi trattamenti medici in alcun caso o in condizioni determinate suscita non di rado da parte delle persone comuni espressioni di diffidenza, da parte dei maestri del progresso alti strali di riprovazione. Si chiede: chi è lo Stato, chi è il legislatore, per chiamare me, adulto e vigile soggetto deliberante, a render conto a un medico di mia fiducia dei miei desideri e delle mie scelte di cura?; e non ci si avvede di pensare così da «individuo assoluto», «sciolto» dal legame con gli altri. La legge non è una questione personale tra chi è incaricato di scriverla e me, ma un atto della polis. Anche se vivessimo in una società di luminari, perfettamente padroni – beati loro – di concetti come «demenza senile» (spesso evocato nei moduli prestampati di «testamento biologico») e «stato vegetativo permanente», il rischio che uno solo su sessanta milioni adoperi queste formule nelle proprie disposizioni con qualche leggerezza o approssimazione varrebbe il disturbo che il rispetto dell’iter burocratico rappresenterebbe per tutti gli altri. Il mondo in cui viviamo – peraltro – ha caratteristiche un po’ diverse: è un mondo in cui sempre più spesso ci si cura – e si curano i propri figli – navigando in rete; da poco abbiamo vissuto il caso Stamina e ancora intorno a noi infuria una tenace e demagogica campagna antivaccini. La legge che indicasse Responsabilità Medica 2019, n. 2
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la dichiarazione a un medico come modalità tipica d’espressione delle volontà preventive di cura veicolerebbe un chiaro riconoscimento al metodo scientifico, sperimentale, della medicina «classica»: e questo avrebbe un certo valore civile, che eccede lo specifico tema del consenso alle cure3.
Rievoca la vicenda Stamina la senatrice a vita Elena CatOgni giorno. Tra scienza e politica, Milano, 2016, 56 ss. In un paragrafo del libro, intitolato alla «scienza come antidoto allo scollamento della politica», trovo questo pensiero: «una società siffatta [a «bassa alfabetizzazione scientifica»] vede assottigliarsi, via via, la capacità critica della cittadinanza e crescere la disabitudine al dubbio metodico e alla pacata discussione civile. Tutte abilità essenziali per la democrazia, senza le quali le società (…) passano dal dogma (ideologico o politico) alle false certezze degli imbonitori di turno». 3
taneo,
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Saggi e pareri
La Legge Gelli-Bianco e il regime binario: presupposti, implicazioni e questioni irrisolte*
g g sa re e a p
Raffaella De Matteis
Professoressa nell’Università di Genova Sommario: 1. La legge Gelli-Bianco nel contesto europeo. – 2. La responsabilità sanitaria come regime speciale: tra passato e futuro. – 3. Il regime binario: presupposti, implicazioni e questioni irrisolte. – 3.1. Presupposti. – 3.2. Implicazioni. – 3.3 Questioni irrisolte. – 4. La responsabilità del medico. – 5. La responsabilità della struttura.
Abstract: Con la l. n. 24/2017 il Legislatore ha inteso introdurre, per i giudizi concernenti la responsabilità in ambito sanitario, un diverso approccio valutativo. Giudizi da svolgere attraverso una inversione di prospettiva che porta alla ribalta, non più l’atto del singolo esercente la professione sanitaria (come accadeva in passato), quanto l’attività di assistenza sanitaria nella complessità dei fattori umani, strutturali, tecnologici che concorrono ad esaltarne la sua dimensione organizzativa. Da ciò l’abbandono del modello unitario di responsabilità, eretto sull’agire professionale del medico a favore di un modello ispirato alla logica del doppio binario, con cui si è inteso, non semplicemente optare per inquadramenti differenti delle diverse responsabilità facenti capo a medici e strutture, quanto esprimere l’esigenza di trasferire l’attenzione dall’agire “individuale” dei singoli medici all’agire “organizzato” della struttura. Per tale via, invertendo la tradizionale impostazione del giudizio, l’agire della struttura potrà essere valutato in base alle norme di disciplina che regolano le attività, caratterizzate da una organizzazione posta al servizio della salute della persona (ex artt. 1218 c.c.) per risalire all’agire “individuale” del medico e eventualmente decretare (anche)
Il presente saggio con modifiche e ampliamenti nasce da uno studio dal titolo Il regime binario; dal modello teorico ai
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la responsabilità personale di chi con la sua condotta (dolosa o colposa) sia stato causa esclusiva di un danno alla salute del paziente (ex art. 2043 c.c.). Da qui parte l’analisi, condotta nel presente studio, sulle implicazioni conseguenti sul piano operativo a siffatta impostazione, e sulle soluzioni, prospettabili, per questioni rimaste irrisolte a livello legislativo, che si pongano in linea di continuità con la ratio sottesa alla legge Gelli-Bianco. With the L. n. 24/2017 the Legislator has intended to introduce, for the judgments concerning health responsibilities, a different evaluation approach. Judgments to be carried out through a reversal of perspective that brings to the forefront, no longer the act of the individual operating the health profession (as happened in the past), as well as the activity of health care in the complexity of the human, structural and technological factors that contribute to enhance its organizational dimension. Hence the abandonment of the unitary model of responsibility, erected on the professional behaviour of the doctor, in favour of a model inspired by the logic of the “double track”, with the acquisition of which the system is intended, not simply opting for different frameworks of the different responsibilities referring to doctors and
risvolti applicativi, pubblicato in Aa.Vv., Responsabilità sanitaria, a cura di Aleo et al., Milano, 2018, 107.
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facilities, as well as expressing the need to transfer the attention from the “individual” action of the individual doctors to the “organized” action of the structure. In this way, by reversing the traditional approach to judgment, the structure’s action can be evaluated based on the rules governing the activities, characterized by an organization at the service of personal health (pursuant to articles 1218 c.c.) to trace back to the ‘acting’ as an individual ‘of the doctor and possibly decreeing (also) the personal
1. La Legge Gelli-Bianco nel contesto europeo Se sul finire del secolo scorso era possibile constatare1 come nessuno Stato europeo avesse dedicato alla responsabilità medica un regime speciale di regole e come la stessa, nelle diverse esperienze, finisse per essere retta da un corpo di regole di formazione giurisprudenziale che, nel ricorso a presunzioni di colpa o a tecniche di inversione dell’onere probatorio, miravano ad agevolare il paziente nella difesa dei suoi diritti in giudizio; oggi, all’inizio del nuovo millennio e nel medesimo contesto dell’Europa continentale, è possibile registrare una decisa inversione di tendenza, che caratterizza diversi Paesi nella preferenza accordata alla legge “piuttosto che alle decisioni dei giudici”, per una regolamentazione di tale settore della responsabilità civile (sempre) all’insegna (del riconoscimento e della tutela) dei Diritti dei pazienti. Leggi che comunque si collocano in continuità con la giurisprudenza posto che talvolta nascono da casi giudiziari controversi talaltra accreditano soluzioni già elaborate dalle Corti sul piano applicativo. In Francia nel 2012 è la Loi Kouchner che, intitolata Aux droits des malades et à la qualità du système de la santé. La
responsibility of those who with his conduct (intentional or negligent) were the sole cause of damage to the health of the patient (pursuant to art. 2043 c.c.). From here the analysis, carried out in the present study, on the implications consequent on the operational plan to such an approach, and on the solutions, which can be proposed, for questions remained unresolved at the legislative level, which are placed in continuity with the ratio underlying the Gelli-Bianco law.
solidarité envers les personnes handicapé2, nasce dal caso Perruche3 allo specifico fine di sottrarre alla via giudiziaria la tutela dei diritti dei nati con handicap (per errore nella diagnosi prenatale) e istituire per essi un Fondo di solidarietà; in Germania nel 2013 è la legge Patientenrechtsgesetz, intitolata «Al miglioramento dei diritti del paziente»4, con la quale, nell’obiettivo di dare certezza e
Loi Kouchner (Loi n. 2002-303 du 4 mars 2002 relative aux droits des malades et à la qualità du système de la santé. La solidarité envers les personnes handicapés), con la quale è stata introdotta una organica e articolata disciplina della responsabilità civile in campo sanitario. Con tale riforma si è dato vita ad un sistema che, fondato sulla colpa, indirizza verso soluzioni articolate per la responsabilità della struttura onde evitare che i rischi sanitari, correlati agli atti di cura, di prevenzione e di diagnosi, debbano essere sopportati, quanto meno sotto il profilo economico, esclusivamente dai pazienti.
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Per una ricostruzione del dibattito in Francia sull’affaire Perruche si rinvia al commento alla Legge di Y. Lambert-Faivre, in D. 2002, 1217; parimenti in Italia sul tema delle nascite indesiderate: dalle origini al caso Perruche v. De Matteis, La responsabilità medica per omessa diagnosi prenatale. Interessi protetti e danni risarcibili, in Nuova giur. civ. comm., 2003, I, 630 ss; Id., Wrongful life: problemi e falsi dilemmi, in Dalla disgrazia al danno, I, Quaderni dell’alambicco, diretto da Lupoi, Milano, 2002, 455 ss; Id., Danno esistenziale e tutela della vita prenatale: dai torts wrongful life ai torts wrongful birth, in La nuova disciplina del danno non patrimoniale, Milano, 2005, 299 ss. 3
Diversi i commenti della legge apparsi nelle riviste italiane, tra i quali si rinvia a quello di Stagl, La legge sul miglioramento dei diritti del paziente in Germania, in Nuova giur. civ. comm., 2014, II, 35 ss. Nell’emanazione di tale legge, la Germania è stata preceduta da alcuni stati dell’UE, tra i quali si annoverano la Danimarca, la Finlandia, la Spagna, la Slo4
Alla fine del secolo scorso Giesen nella Introduzione alla sua opera “International Medical Malpractice Law, A Comparative Study of Civil Responsability Arising from Medical Care, Netherlhands, 1988.
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La legge Gelli-Bianco e il regime binario
trasmettere conoscenza dei diritti fondamentali ai pazienti5, sono state acquisite al formante legislativo sia nuove regole, inserite nel BGB (§ 630), sia regole a suo tempo elaborate in giurisprudenza per le responsabilità in ambito sanitario6. In Italia, con la Legge n. 24/ 2017 si prosegue, nella direzione impressa dalle precedenti esperienze legislative, rivolgendo massima attenzione alle soluzioni elaborate in giurisprudenza, senza peraltro trascurare gli input provenienti dalla Direttiva n. 24/2011 UE concernente la tutela dei diritti spettanti ai pazienti con riguardo specifico all’assistenza sanitaria transfrontaliera. E in tale direzione vengono introdotte nuove norme specificamente rivolte ai soggetti preposti all’attività di assistenza sanitaria, nell’ambito delle quali viene valorizzato il nesso tra attività sanitaria e tecniche di tutela dei diritti dei pazienti nell’ottica di meccanismi di risarcimento del danno idonei a garantire effettività di tutela ai diritti dei pazienti. Dalla Direttiva n. 24/2011 UE e dai diversi Considerando (nn. 64) 7, che ne precedono il contenuto normativo, emerge come ciascuno Stato membro sia tenuto a prestare nel proprio territorio «un’assisten-
venia, la Lituania. Nel progetto governativo di accompagnamento della legge 25.2.2013 (per un commento cfr. Gesetz zur Verbesserung der Rechte der Patientinnen und Patienten, in Bundesgesetzblatt, I, 2013, 277 ss.) si evidenzia come nel settore della responsabilità sanitaria i pazienti debbano potere avere conoscenza dei loro diritti più importanti dalla legge in quanto solo con essa è possibile garantire quella chiarezza e certezza mancata nella giurisprudenza più recente.
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Un regime speciale che si completa con le norme inserite, come parte integrante della disciplina speciale, nell’ambito del BGB, con le quali si è inteso dedicare un’attenzione specifica al contratto di trattamento sanitario (§ 630) come contratto di servizio che si prospetta in due differenti articolazioni a secondo che controparte del paziente sia la struttura o il medico.
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Cfr. dir. n. 24/2011 UE, pubblicata in G.U. UE del 4.4.2011 e i diversi Considerando (nn. 64) che ad essa introducono. Una direttiva che, essendo diretta ad istituire norme volte ad agevolare l’accesso ad un’assistenza sanitaria transfrontaliera “sicura e di qualità oltreché a garantire la mobilità dei pazienti”, deve confrontarsi, senza interferire, con le prestazioni sociali di carattere sanitario che ciascun Stato eroga e con la organizzazione sanitaria a monte delle prestazioni di cure mediche posto che si tratta di settori che rientrano nella competenza di ciascun Stato membro.
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za sanitaria sicura, di qualità elevata, efficiente e quantitativamente adeguata» garantendo anche meccanismi di tutela dei pazienti con tecniche di risarcimento dei danni «appropriate alla natura o alla portata del rischio»8 creato (considerando n. 24); ed il Legislatore italiano, in continuità, eleva il Diritto alla sicurezza delle cure a diritto fondamentale del paziente da garantire nelle diverse declinazioni, in cui si esprime il diritto alla salute (art. 1, comma 1°), a fronte di un’attività sanitaria che unitariamente intesa (si rinvia ai commi 2° e 3° dell’art. 1) risulta essere la risultante della interazione e integrazione di diversi fattori: umani, strutturali e organizzativi. In ciò il senso di norme che, specificamente indirizzate alle strutture preposte all’attività sanitaria, introducono sia ad una tutela preventiva dei diritti dei pazienti – con una adeguata gestione e prevenzione del rischio sanitario da parte degli enti preposti (v. artt. 1, commi 2° e 3°) – sia ad una tutela, successiva alla lesione, in chiave riparatoria dei danni subiti, con regole di responsabilità «appropriate» alla natura dell’attività dei soggetti prestatori di cure e definite in ragione del «rischio» da essa creato (art.7, commi 1°, 2° e 3°); in ciò anche la ragione di una scelta espressa dal Legislatore in chiave di differenziazione tra le responsabilità in ambito sanitario da inquadrare a seconda del soggetto al quale tali norme si indirizzano (se esercente professione sanitaria o struttura sanitaria) e in base alla natura dell’attività (se atto medico o attività sanitaria) che disciplinano: differenziazione introdotta tramite un loro inquadramento o nell’ambito del fatto illecito (se riferite all’esercente la professione sanitaria, v. art. 7, 3° comma l. n. 24/2007) ovvero nell’ambito della responsabilità contrattuale (se dirette alle strutture sanitarie pubbliche o private, v. art. 7, comma 1°, l. n. 24/2007). Scelte di inquadramento, già operate in passato dalla giurisprudenza nel rinvio alle norme di disciplina contenute nel codice civile (artt. 1218/1228 e 2043 c.c.), ed oggi dal Legislatore confermate con un rinvio alle stesse
Cfr. Considerando n. 24, dir. n. 24/2011 UE, cit., nel cui contesto viene salvaguardata la competenza del singolo Stato membro nella determinazione della natura e delle modalità di tali meccanismi.
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norme che, inserite in un regime a doppio binario, fanno emergere un’istanza di differenziazione tra le responsabilità in ambito sanitario in senso contrario a quella in passato espressa, a favore di un regime di disciplina uniforme, all’insegna della regola del c.d. cumulo improprio di responsabilità contrattuale (della struttura) e extracontrattuale (del medico).
2. La responsabilità sanitaria come regime speciale: tra passato e futuro È noto come in passato, per opera della giurisprudenza si fosse venuto a delineare, attraverso la formazione di regole di origine giurisprudenziali impostesi al di sopra delle partizioni della responsabilità civile9, un regime speciale eretto sul presupposto di un fatto “dannoso unitario e comune” parimenti imputabile a medici e strutture. Un percorso che, compiutosi in giurisprudenza, si è venuto delineando nell’idea, in passato fortemente radicata, che l’attività della struttura si fondasse esclusivamente sull’atto medico, esaurendosi nel complesso degli atti medici in essa resi, e che, sul piano tecnico-giuridico, ha trovato sostegno nella concezione organica del rapporto tra medico/dipendente pubblico e struttura (pubblica) in base alla quale, all’origine di entrambe le responsabilità vi era un “un fatto dannoso (ritenuto) unitario nella sua genesi soggettiva”10. Regole dunque uni-
Per una ricostruzione del regime speciale delineatosi in giurisprudenza con riguardo alla responsabilità medica, si rinvia a De Matteis, La responsabilità medica. Un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, passim.
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Anche per Cass., 27.1.1999, n. 589, in Corr. giur., 1999, 446 ss., con commento di Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione, ben nota per avere introdotto il modello della responsabilità da contatto sociale per il medico (dipendente di struttura), è da confermare il medesimo impianto argomentativo che pone la non corretta esecuzione della prestazione professionale da parte del singolo medico al centro dell’inadempimento riferibile alla struttura ex art. 1218 c.c.: d’altronde è la stessa Corte ad asserire, seppure obiter ma non a caso, come il principio del concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, per effetto del diritto vivente introdotto nel nostro ordinamento, da sempre è ritenuto estensibile anche in ambito sanitario in ragione 10
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formi di disciplina per la responsabilità di medici e strutture che inizialmente – quando prevalente era l’attenzione per l’atto medico – si sono ispirate al paradigma della responsabilità professionale reggendosi sui tre pilasti della colpa-obbligazione di mezzi/risultato-nesso causale; successivamente, nello spostamento di attenzione dall’atto del medico all’attività sanitaria della struttura, sono state attratte al regime di cui all’art. 1218 c.c. e tramite il contatto sociale sono state applicate al medico. Regole successivamente modellate sulla natura dell’attività, svolta dalle strutture sanitarie che hanno inevitabilmente spostato, tramite una certa distribuzione dei carichi probatori, sulla struttura (e sul medico, in quanto soggetti solidalmente responsabili) il rischio della causa incerta e della causa ignota11. Ma il tutto si è compiuto attraverso
del fatto che «uno stesso fatto dannoso (attività professionale del medico) integra a carico di un soggetto (ente gestore del servizio sanitario) un’ipotesi di responsabilità contrattuale ed a carico dell’autore del fatto un’ipotesi di responsabilità extracontrattuale». 11 Il ricorso al c.d. inadempimento “qualificato” (i.e., potenzialmente idoneo alla produzione di quel danno), ha consentito alle sezioni unite con Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in La resp. civ., 2008, 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria, di sorvolare sulla prova del nesso causale tra condotta medica e danno, normalmente richiesta al paziente/danneggiato, nel riferimento ad un caso in cui non si discuteva sulla condotta del medico (rimasto ignoto), quanto sull’inesatta esecuzione della prestazione di assistenza sanitaria (in relazione ad una infezione da Hiv, dal paziente contratta in conseguenza di una emotrasfusione) della struttura, essendo il danno riconducibile ad inadempimenti della struttura (carenze organizzative, cartelle cliniche incomplete, tracciabilità delle sacche); nella giurisprudenza, successivamente delineatasi alle Sezioni unite, il ricorso al c.d. inadempimento “qualificato” è stato impiegato, in chiave di presunzione del nesso causale, estensibile anche a quelle fattispecie in cui il danno fosse stato riconducibile alla condotta del medico più che a deficit organizzativi/strutturali della struttura così rimbalzandosi sul medico/struttura la prova che tale inadempimento non è stato eziologicamente rilevante. Da Cass., 31.7.2013, n. 18341, in Guida al dir., 2013, 60, alla più recente Cass., 13.10.2017, n. 24073, in Mass. Giust. civ., 2017, è dato leggere: «In tema di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e di responsabilità professionale da contatto sociale del medico, ai fini del riparto probatorio l’attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l’esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l’insorgenza o l’aggravamento della patologia ed allegare l’inadempimento del debitore, astrattamente idoneo
La legge Gelli-Bianco e il regime binario
dicta dei giudici che formalmente declamavano ossequio alla “colpa”, come criterio di imputazione per la responsabilità del medico (e della struttura), salvo poi disconoscere ad essa rilievo alcuno sul piano delle rationes decidendi: Il “contatto sociale”, da “fonte di obblighi di protezione” in capo al medico/dipendente, diviene “fonte di obblighi di prestazione sanitaria” in tutto e per tutto omologabili a quelli che fanno capo alla struttura ed il medico, per il tramite del contatto sociale, viene sottoposto al medesimo regime che contrassegna una organizzazione complessa che offre servizi per la salute delle persone12. Con la Legge Gelli si compie un rovesciamento di prospettiva: non è l’atto del singolo medico che, isolatamente considerato in modo avulso dall’attività sanitaria, vale a fondare una responsabilità della struttura, nel cui ambito tale atto è stato compiuto, quanto invece è la violazione di obblighi, sulla struttura gravanti per legge (e per contratto) nell’esercizio dell’attività sanitaria, a reclamare una diretta e autonoma responsabilità della stessa13. Una responsabilità della struttura, dunque, non più fondata sul fatto illecito del medico, ma derivante dall’inadempimento di obblighi ad essa facenti capo, ed estesa a coprire anche le «condotte dolose e colpose» dei singoli medici (ex art. 7, comma 1°, l. n. 24/2007) definitivamente acquisite a parte integrante dell’attività in quanto rientranti nell’ambito organizzativo e funzionale dell’attività stessa (v. comma 2°, art. 7 nel riferimento specifico «alle prestazioni rese nell’ambito dell’attività professionale intramuraria; a fini di sperimentazione e di ricerca; in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina»). Regole dunque che per decretare la responsabilità della struttura
a provocare il danno lamentato, rimanendo invece a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato, ovvero che, pur esistendo, esso non è stato etiologicamente rilevante». Cfr. De Matteis, La responsabilità dei professionisti, nel Trattato dei contratti, 3, Opere e servizi-1, diretto da Roppo e coordinato da Benedetti, Milano, 2014, 668 ss., spec. 677 ss.
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13 Mi sia consentito il rinvio a De Matteis, Le responsabilità in ambito sanitario, Padova, 2017, passim.
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sanitaria portano alla ribalta non tanto il singolo atto medico dell’esercente la professione sanitaria (in quanto fatto illecito, fondato su danno (alla salute)/colpa/nesso causale, ex artt. 7, comma 3°, e art. 9, comma 5°) quanto l’attività sanitaria facendo ricadere sulle strutture stesse, così come richiede la natura dell’attività, il costo di quei danni rientranti nel rischio connesso alla natura dell’attività organizzata. In esse riflettendosi il ruolo oggi acquisito dalla struttura nella organizzazione dei fattori (strutturali, strumentali, tecnologici), necessari per l’esercizio dell’attività sanitaria, nel cui contesto si inseriscono le prestazioni professionali dei singoli esercenti la professione sanitaria, come espressione e sintesi, nel quadro di una cooperazione resa a differenti livelli, di quell’attività in cui si esprime la dimensione organizzativa della struttura stessa. In ciò l’esigenza da parte del Legislatore di differenziare, in punto di disciplina, la responsabilità del medico da quella della struttura, come responsabilità autonome e distinte per titolo e criteri di imputazione14, per collocarle in un sistema a doppio binario ove il diverso regime, per esse previsto, possa trovare riscontro, anche sul piano processuale, o nella previsione di percorsi distintamente percorribili (ex art. 9, comma 5°, l. n. 24/2017) nei confronti o della strut-
14 Il Legislatore con la previsione di un regime binario nel quale potere incanalare, sul piano processuale, le responsabilità di medici e strutture, come responsabilità differenti per titolo (extracontrattuale per il medico e contrattuale per la struttura), si allinea ad altre esperienze dell’Unione europea, in specie a quella francese, ove la tendenza è stata, e tuttora rimane, quella di distinguere e tenere separate le diverse responsabilità che fanno capo alle strutture e ai medici: posto che le prime offrono un servizio articolato che si fonda su una organizzazione complessa ed i secondi un’attività professionale che viene posta al servizio dell’organizzazione. Un sistema basato su un doppio binario di giurisdizione (amministrativa e civile), che, con la l. 2002-303, si è cercato di attenuare senza eliminarlo e a fronte del quale i giudici della Cassazione, con un importante revirement, hanno preferito l’inquadramento in ambito aquiliano della responsabilità dei professionnels de santé (art. 1382 code civil con e art. 1142-1 code santé publique). In commento alle sentenze della Cour de cassation che nel 2010 hanno dato il via a questo cambiamento, v. Klesta, La responsabilità medica in Francia: l’epilogo di un percorso movimentato, in Nuova giur. civ. comm., 2013, II, 479 ss.; Id., Assistenza sanitaria e tutela del cittadino, Torino, 2008.
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tura o dell’esercente la professione sanitaria, se non, nell’eventualità di un processo simultaneo nei confronti di entrambi (ipotesi non esclusa dal legislatore ma neanche menzionata), nella conferma e nel rispetto della diversità della ripartizione dell’onere probatorio15 (in base all’inquadramento privilegiato per le differenti responsabilità della struttura sanitaria, ex art. 1218 c.c. e del medico, ex art. 2043 c.c.) anche a fronte di una unione di cause in un unico procedimento con trattazione e istruttoria comune16. Rinviando al paragrafo
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successivo, dedicato alla questioni irrisolte dal legislatore (§ 3.3.), la trattazione del problema qui appena accennato, mi soffermerei sull’analisi del regime binario nell’esigenza di porne la basi per affrontarlo, posto che esso è alla base di quella norma (art. 7) dedicata dalla Legge Gelli-Bianco alla Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria.
3. Il regime binario: presupposti, implicazioni e questioni irrisolte 3.1. Presupposti
Ragion per cui, se si guarda alla responsabilità aquilana del medico, a fronte dell’allegazione da parte del paziente di una qualsiasi deviazione della condotta del medico dagli standard, individuati dalle linee-guida, la prova liberatoria che compete al medico, consiste in quella del corretto impiego delle linee-guida sia come rispetto delle regole tecniche sia in termini di controllo ‘diligente’ delle possibili ‘deviazioni’ dagli standard (oltreché dei possibili fattori di rischio), in modo tale che sull’operato del singolo non debbano riflettersi i limiti della stessa scienza medica allorquando non sia possibile risalire alla causa del danno subito dal paziente; diversamente se si guarda alla struttura sanitaria, come organizzazione che deve essere in grado di garantire la sicurezza delle cure con misure idonee, nel rispetto degli obblighi ad essa imposti per legge, si profila in coerenza con tale postulato, che la prova liberatoria, gravante sulla struttura, debba vertere (anche) sulla dimostrazione della inevitabilità del danno in collegamento causale con l’adozione delle misure, ritenute allo stato idonee, facendo sì che, in mancanza di essa, il rischio dalla causa ignota venga a gravare sulla struttura stessa. 15
16 Possibilità che sul piano processuale non sembra trovare ostacoli posto che: nell’eventualità che il danneggiato agisca nei confronti di struttura e sanitario si viene a configurare un litisconsorzio unitario, facoltativo quanto all’instaurazione, ma necessario quanto alla trattazione e alla decisione, essendo le cause proposte cumulativamente: il che non esclude che si possa giungere ad accertamenti divergenti rispetto ai vari titolari del rapporto posto che si tratta di processo litisconsortile che, avendo ad oggetto un’obbligazione risarcitoria solidale, è soggetto alla regola posta dall’art. 1306 c.c. (v. Menchini, Il processo litisconsortile. Struttura e poteri delle parti, Milano, 1993, 286). Con riguardo specifico al rapporto tra struttura/sanitario/paziente danneggiato, viene altresì rilevato (Pagni, La riforma della responsabilità medica. I profili processuali, in Quest. Giust., 2018, 174 ss., spec. 186, nt. 50) come, anche a fronte di un processo simultaneo, la comunicazione delle prove deve fare i conti con la diversa ripartizione dell’onere probatorio, che opera nei confronti della struttura ex art. 1218 c.c. e, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria ex art. 2043 c.c.: dovendosi altresì tenere conto del fatto, a detta dell’A., che non sempre, l’accertamento della responsabilità della struttura presuppone
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L’art. 7 della Legge Gelli-Bianco, nella formulazione dei suoi diversi commi, antepone la responsabilità della struttura a quella dei singoli medici, disponendo (commi 2° e 3° dell’art. 7) che la responsabilità della struttura – per l’operato dei medici ex artt. 1218/1228 c.c. – debba estendersi ben “oltre” il rapporto di dipendenza, fin dove si attesta l’attività di organizzazione da essa svolta: in tale direzione poco rileva che i medici, del cui operato la struttura è chiamata a rispondere ex artt. 1218/1228 c.c., operino come dipendenti o come meri cooperanti, come medici prescelti dal paziente o ad essi assegnati dalla stessa; come esercenti la libera professione intramuraria ovvero in regime di convenzione con il SSN. Una responsabilità della struttura, ancora, ribadita (ex art. 7, comma 2°) anche a fronte di quei casi in cui il medico, nella relazione di cura con il paziente, possa svolgere, anche (non solo) per conto di un provider, attività di sperimentazione e di ricerca clinica; e ancora confermata, in piena sintonia con i presupposti appena delineati, a fronte di modalità organizzative che, per prestare cure in situazioni di emergenza (v. per la telemedicina ex art. 7, dal comma 1° al 3°), si debbono avvalere di mezzi che operano a prescindere dalla contestuale presenza di medico e paziente. A tali statuizioni si accompagnano ulteriori disposizioni che, in
quella del medico, «dato che il fascio di obblighi, nascenti dal contratto di assistenza sanitaria, è più ampio rispetto all’obbligo di cura».
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relazione sempre alle categorie sopra individuate, introducono discipline trasversali con riguardo e all’obbligo assicurativo (art. 10, nei primi tre commi) e all’esercizio dell’azione di rivalsa/ di responsabilità amministrativa (art. 9, nei primi cinque commi). Il rinvio dunque alle “condotte dolose o colpose” degli esercenti la professione sanitaria, in tale norma contenuto – piuttosto che ai “fatti dolosi o colposi” dei terzi, di cui all’art. 1228 c.c. – ritengo possa e debba essere letto nel senso di acquisire le condotte degli esercenti la professione sanitaria come parte integrante del sistema organizzativo, facendo ricadere sulla struttura sanitaria il rischio di qualsiasi deviazione dagli standard di comportamento (“dolose o colpose”),comunque, integrante quell’inadempimento ad essa imputabile ai sensi dell’art. 1218 c.c.: in ciò sorretta dalla formulazione del comma 3° dell’art. 7 della L. Gelli, dalla cui formulazione è possibile evincere come quelle stesse «condotte dolose e colpose» dei medici, delle quali è chiamata a rispondere la struttura ex artt. 1218/1228 c.c., qualora siano causa esclusiva di un danno alla salute del paziente17 (danno ingiusto ex art.
2043 c.c.), potranno reclamare la responsabilità del medico, legittimando il paziente ad agire, a titolo di responsabilità extracontrattuale, direttamente nei suoi confronti nell’ambito di un autonomo giudizio (ex art. 9, comma 5°, Legge Gelli) che non esclude la responsabilità solidale della struttura, ex art. 2049 c.c.18 La previsione di un regime binario presuppone dunque una divaricazione dei percorsi attraverso i quali giungere a decretare la responsabilità della struttura sanitaria e quella del medico/dipendente; una divaricazione da attuarsi inserendo su due piani valutativi distinti le rispettive responsabilità della struttura e del medico che procederanno lungo i binari della responsabilità contrattuale e della responsabilità aquiliana: una responsabilità della struttura sanitaria (pubblica o privata) come responsabilità contrattuale certamente non
conducibile, in base al criterio del “più probabile che non”, alla condotta medica; diversamente, laddove è in gioco una responsabilità esclusiva della struttura, per fatti riconducibili ad un deficit organizzativo al paziente spetti semplicemente allegare un “inadempimento cd. qualificato” (potenzialmente idoneo a produrre il danno). Per alcuni autori, nel caso di azione diretta esclusivamente nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, (Bertollini, L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, in Aa.Vv., Il contenzioso sulla nuova responsabilità sanitaria (prima e durante il processo), Torino, 1218, spec. 124; Hazan e Centonze, Responsabilità medica: al via la nuova legge sul rischio clinico e la sicurezza delle cure, consultabile all’indirizzo: www.Corrieregiuridico.it) si verifica la possibilità che il medico debba «rispondere integralmente del danno subito dal paziente, poiché i limiti previsti dall’art. 9 della l. n. 24/2017, sono opponibili alla struttura sanitari in sede di rivalsa e non anche al soggetto danneggiato in un ordinario giudizio risarcitorio. Di conseguenza l’esercente la professione sanitaria risponderà delle conseguenze della propria condotta anche in caso di colpa lieve e, in ipotesi di colpa grave, sopporterà integralmente la prestazione risarcitoria… senza poter fruire di alcun rimedio per riversare l’incidenza economica della prestazione risarcitoria sulla struttura sanitaria». Una soluzione, già dalla legge esclusa per i sanitari dipendenti pubblici con riguardo all’azione di responsabilità amministrativa (il cui esercizio è espressamente previsto dal comma 5° dell’art. 9) e che ritengo possa essere estesa anche al medico, non dipendente pubblico, sulla base di una chiamata in garanzia della struttura privata, ex art. 2049 c.c., piuttosto che ex art. 1218 c.c., quest’ultima dall’a. esclusa per il suo configurarsi come responsabilità stabilita a vantaggio esclusivo del danneggiato e non anche a favore dell’ausiliario. 18
17 In tale direzione deve essere recepito l’indicazione che viene da Cass., 26.7.2017, n. 18392, in Foro it., 2017, I, 3358, e da Cass., 14.11.2017, n. 26824, ivi, 2018, I, 557, per le quali «in caso di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per inesatto adempimento della prestazione sanitaria, il danneggiato deve fornire la prova (…) del relativo nesso di causalità con l’azione o omissione dei sanitari, restando a carico dell’obbligato (struttura) la prova che la prestazione professionale è stata eseguita in modo diligente e che quegli esiti sono stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile» (pronunce successivamente confermate da Cass., 7.12.2017, n. 29315, in Mass. Giust. civ., 2018; Cass., 2.10.2018, n. 26700; Cass., 10.1.2019, n. 1045; Cass., 16.4.2019, n. 5487). In un precedente studio (De Matteis, Dall’atto medico all’attività sanitaria. Quali responsabilità?, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, La Responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano, 2011, 171 ss.) si è cercato di dimostrare come il contrasto, delineatosi in giurisprudenza in merito alla individuazione della parte sulla quale far gravare in giudizio la prova del nesso causale, riflettesse in realtà la diversa rilevanza che nel caso concreto assumeva, ai fini della accertamento delle responsabilità, il fatto illecito del medico o l’inadempimento della struttura. Oggi la giurisprudenza, in linea, afferma che laddove si discute di responsabilità del medico, sia necessario accertare, sulla base della c.d. causalità materiale, se il danno sia ri-
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più fondata sul “fatto illecito” del medico (ex art. 2043 c.c.), posto che essa rinviene la sua fonte esclusiva nell’inadempimento degli obblighi di assistenza sanitaria, nella cui complessa e variegata articolazione, certamente rientrano anche quegli obblighi per il cui adempimento dovrà avvalersi di “esercenti la professione sanitaria” quale strumento di attuazione dell’obbligazione contrattuale assunta con il paziente; una responsabilità del medico che, come responsabilità da status professionale, non riconducibile all’inadempimento di un obbligo di prestazione, chiama in gioco il regime dell’illecito aquiliano riflettendo sul paziente la prova del danno ingiusto, della colpa professionale (oggettivamente intesa) e del nesso causale tra condotta e danno. Solo in tal modo, nella individuazione di due differenti piani valutativi per le responsabilità che fanno capo rispettivamente alla struttura ed al medico, l’incertezza probatoria sulla causa ignota potrà gravare esclusivamente sulla struttura senza coinvolgere il singolo operatore sanitario: se il medico, ex art. 2043 c.c., potrà liberarsi provando di avere rispettato le linee guida adeguate per il caso concreto (se non la insussistenza di un nesso causale tra condotta medica e danno); se struttura, essa potrà andare esente da responsabilità solo se dà prova del fattore, a sé non imputabile, che, anche a livello di organizzativo19, possa avere inciso sulla corretta esecuzione della prestazione sanitaria. L’abbandono del modello unitario di responsabilità, eretto sull’agire professionale del medico, a favore di un modello ispirato alla logica del doppio binario, impone dunque di trasferire l’attenzione dall’agire individuale dei singoli medici all’agire “organizzato” della struttura onde potere giudicare l’operato del singolo medico in un attento raffronto fra le dinamiche interne all’organizzazione e la proie-
zione all’esterno dell’attività di assistenza sanitaria, conferendo ad esso rilievo in quanto elemento dell’organizzazione che concorre all’erogazione dell’attività di assistenza sanitaria, di cui la struttura è debitrice nei confronti dell’utente che ad essa si rivolge. Per tale via, invertendo la tradizionale impostazione del giudizio, l’agire della struttura potrà essere valutato in base alle norme di disciplina che regolano le attività, caratterizzate da una organizzazione posta al servizio della salute della persona (ex artt. 1218/168120), per risalire all’agire “individuale” del medico e eventualmente decretare (anche) la responsabilità personale di chi con la sua condotta (dolosa o colposa) sia stato causa esclusiva di un danno alla salute del paziente (ex art. 2043 c.c.). Una inversione di prospettiva che consente di guardare all’inadempimento della struttura, anche a prescindere dalla (prova della) sussistenza di un fatto illecito imputabile al singolo medico ex art. 2043 c.c., facendo in esso rientrare, sulla base del collegamento tra l’agire organizzato della struttura e l’agire professionale dei singoli, anche quelle “condotte dolose o colpose” dei singoli esercenti la professione sanitaria (ex art. 7, comma 1°, nel rinvio all’art. 5, della l. n. 24/2017) che, nella interazione con altri fattori, abbiano concorso alla produzione del danno alla salute del paziente non essendone causa esclusiva. Inversione di prospettiva che ben si coglie, sin dalla formulazione dell’art. 1 della legge Gelli-Bianco, ove nel riferimento «al rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie» acquista risalto l’obbligo delle strutture sanitarie (pubbliche e private) di garantire la sicurezza delle cure nei differenti livelli di tutela (preventiva e succedanea al danno), anche, tramite l’adozione di tecniche di risarcimento dei danni «appropriate alla
Cfr. Cafaggi, Responsabilità del professionista, cit., 182, 186, ove si rileva che l’organizzazione risponde dell’errore commesso dal dipendente anche qualora provi di avere adottato le più adeguate misure di controllo; Iamiceli, La responsabilità civile del medico, in Il diritto privato nella giurisprudenza, a cura di Cendon, La responsabilità contrattuale, VI, Torino, 1998, 311 ss., 400; contra Comporti, Appunti critici sul ricorso a criteri di responsabilità oggettiva al campo sanitario, in La responsabilità medica, Milano, 1982, 97 ss.
Nel riferimento alla disciplina, di cui agli art. 1218-1681 c.c., si potrà fare capo al criterio del rischio, correlato all’organizzazione di un’attività che offre servizi alla persona, e che, con riguardo specifico all’attività sanitaria, consente una sua valutazione, anche in termini di prevenzione dei danni, da compiersi mediante l’adozione di misure in grado di assicurare la sicurezza delle cure per la salute dei pazienti (De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari, cit., 196 ss., spec. 204).
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natura o alla portata del rischio»21, (come si evince dal considerando n. 24 della Direttiva n. 24/2011 UE sull’assistenza sanitaria transfrontaliera): in coerente svolgimento con tale premessa l’art. 7, dedicato nei suoi primi commi, alla responsabilità della struttura, spezza il legame (un tempo instaurato per le strutture pubbliche) con il fatto illecito del medico, per guardare alla responsabilità della struttura (pubblica o privata),in quella inversione di prospettiva preannunciata, come soggetto che, nella complessità della sua azione, assume le condotte degli esercenti la professione sanitaria, della cui opera si avvalga nell’adempimento della propria obbligazione, ex artt. 1218/1228 c.c., come parte integrante della sua organizzazione, acquisendone il rischio, sul piano della tutela risarcitoria, di una qualsiasi loro deviazione riconducibile alla colpa o al dolo del singolo operatore: una responsabilità dell’ente, che va ben oltre il rapporto di “ausiliarietà” nei confronti del debitore, ex art. 1228 c.c., per estendersi fin “dove” arriva l’attività di organizzazione del Servizio sanitario nazionale (per chi opera in regime di convenzione con esso e in esso attraverso la telemedicina). Una responsabilità della struttura che, configurandosi come responsabilità per fatto proprio, anche quando si avvale di ausiliari per l’adempimento della prestazione di assistenza sanitaria, è sempre da inquadrare nel regime, di cui all’art. 1218 c.c., in una chiave di lettura di tale norma, che consente di andare ben oltre il fatto illecito del singolo esercente la professione sanitaria, per offrire tutela al
La dimensione imprenditoriale assegnata all’attività sanitaria emerge dalla legislazione di settore (a partire dal d. lgs. 30.12.1992, n. 502 e attraverso le riforme bis e ter che si sono succedute nel tempo) dalla quale si evince come tale attività si debba svolgere nel rispetto dei criteri di efficienza e economicità, cui deve essere ispirarsi qualsiasi attività organizzata, e di una serie di adempimenti organizzativi volti a garantire, oltre all’appropriatezza clinica e organizzativa dell’assistenza sanitaria, i tempi di attesa e di continuità assistenziale, anche la qualità delle prestazioni: in questa chiave di lettura le singole prestazioni professionali si inseriscono all’interno di un servizio unitariamente considerato che fa capo alla struttura che di esse deve rispondere. Per un riscontro, De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari. Modelli e funzioni, Padova, 2007, 10 ss.; Id., Le responsabilità in ambito sanitario, cit., 61 ss. 21
paziente/creditore della prestazione di assistenza sanitaria, anche, in situazioni in cui il medico rimanga anonimo o la negligenza della sua condotta sia il risultato delle inefficienze delle struttura22 Una siffatta impostazione sembra trovare riscontro, oltreché nella formulazione dell’art. 7 – in quel suo anteporre le “condotte dolose o colpose” degli esercenti la professione sanitaria, come strumenti di attuazione dell’obbligazione contrattualmente assunta dalla struttura23, ai “fatti dolosi o colposi” dei terzi (di cui all’art. 1228 c.c.) – anche
Per un caso di anonimia del danno, v. Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, cit.; per una fattispecie in cui è incerta l’imputazione del danno stante il concorso tra “inefficienze della struttura” e “ritardo” nel trasferimento del paziente in altro ospedale più attrezzato, v. Cass., 11.5.2009, n. 10743, in Nuova giur. civ. comm., 2009, I, 1276, con commento di Querci, Un ulteriore passo in avanti verso l’autonomizzazione della responsabilità della struttura sanitaria (pubblica), nella cui massima si legge: «In tema di responsabilità civile per danni derivanti dall’esercizio dell’attività medico-chirurgica, la correttezza del comportamento, tenuto dal medico, pur comportando il rigetto della domanda di risarcimento proposta nei suoi confronti, non esclude la configurabilità di una responsabilità autonoma e diretta della struttura ospedaliera, ove il danno subito dal paziente risulti causalmente riconducibile all’inadempimento delle obbligazioni ad essa facenti carico, in relazione all’insufficienza delle apparecchiature predisposte per affrontare prevedibili emergenze o complicazioni, ovvero al ritardo nel trasferimento del paziente presso un centro ospedaliero attrezzato». 22
23 Nel riferimento alla responsabilità sanitaria e, in commento alla legge Gelli-Bianco, non può non essere considerata la posizione recentemente assunta da D’Adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, in Corr. giur., 2017, 769, spec. 771 s., per il quale la responsabilità della struttura a rigore si profila come responsabilità diretta, per fatto proprio, posto che la stessa si obbliga nei riguardi del paziente servendosi naturaliter, di ausiliari quali strumenti di attuazione dell’obbligazione contrattuale. Sicché, a detta dell’A. si potrebbe «persino ipotizzare che la malpractice sia imputabile alla sola struttura, atteso che la condotta degli ausiliari si inserisce, senza deviazioni, nella linea esecutiva dell’obbligazione assunta dall’ospedale, su cui finirebbero per gravare i rischi della difettosa esecuzione; con il corollario dell’obliterazione di qualsivoglia responsabilità in capo al personale sanitario e, quindi, di qualsivoglia diritto di regresso o di rivalsa in capo alla struttura, unico debitore responsabile». Tuttavia a tale esito interpretativo, per l’a., non è possibile pervenire nel nostro sistema per via della vigenza regola del concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la cui applicazione non consentirebbe di considerare quest’ultima assorbita dall’impegno negoziale assunto negozialmente dalla struttura.
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in quella lettura, da tempo propugnata in dottrina24, dell’art. 1228 c.c. e dalle Sezioni unite della Cassazione25, accreditata per la responsabilità delle strutture sanitarie, che conduce a guardare alla responsabilità del debitore, che si avvale di terzi nell’attuazione dell’obbligazione, come responsabilità diretta, che ha fonte esclusiva nell’inadempimento di obblighi propri e come tale da assoggettare al regime di cui all’art. 1218 c.c. Una responsabilità in cui il «fatto colposo o doloso» dell’ausiliario da “presupposto” degrada a mero “limite” esterno della responsabilità del debitore26, per cui lo stesso è sempre chiamato a rispondere senza potere invocare il fatto del terzo come fatto impeditivo del sorgere della responsabilità (ex art. 1218 c.c.), né addurre le “condotte dolose o colpose” degli esercenti la professione sanitaria, della cui opera si avvale, come “causa non imputabile” dell’impossibilità della esatta esecuzione della prestazione (ex art. 7, l. n. 24/2017)27.
24 Per un’analisi storico-sistematica della disposizione contenuta nell’art. 1228 c.c., si rinvia a Visintini, La responsabilità contrattuale per fatto degli ausiliari, Padova, 1965, 117; Id., Trattato breve della responsabilità civile, Padova, 2005, III, 264 ss.; Cfr. Franzoni, L’illecito, nel Trattato della responsabilità civile, diretto da Franzoni, Milano, 700 ss., ove si legge, nel riferimento all’art. 1228 c.c., che «Chi organizza una certa attività si prende in carico il relativo rischio, a prescindere dall’autonoma responsabilità di chi, a diverso titolo, abbia collaborato nell’interesse dell’organizzatore»; in giurisprudenza si rinvia a Cass., 8.1.1999, n. 103, in Mass. Giust. civ., 1999, che si pronuncia nel riferimento esclusivo alle case di cura privata.
Interpretazione oramai accreditata anche dalle Sezioni unite della Cassazione con Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, cit. 25
Da ultimo cfr., in una interessante rivisitazione delle differenti opzioni teoriche, Martini, La responsabilità della struttura sanitaria per le condotte dolose o colpose dei medici (art. 1228 c.c.): responsabilità diretta o per fatto altrui?, in Aleo et al., cit., 129 ss. 26
Cfr. Castronovo, Problema e sistema nel danno da prodotti, Milano, 1975, 45 ss.: per tale a. l’art. 1228 c.c., al pari del suo speculare (art. 2049 c.c.) in ambito aquiliano, non avrebbe altra funzione che quella di rendere contrattuale la responsabilità per fatto altrui, di padroni e committenti, nell’ipotesi in cui questi ultimi siano legati da un rapporto obbligatorio con il danneggiato. Il fatto doloso o colposo dell’ausiliario, in tale ipotesi ricostruttiva, non si atteggia a “limite esterno” della responsabilità del debitore, ma a suo “presupposto”, tanto da dovere essere provato dal preteso danneggiato. Chiave di
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3.2. Implicazioni Le implicazioni conseguenti a siffatta impostazione, accreditata dal legislatore, si colgono sotto differenti profili, in particolare preme qui segnalarne due: da un lato, il superamento della regola del c.d. cumulo improprio di responsabilità, dall’altro, la introduzione di un regime speciale per le azioni di rivalsa e di responsabilità amministrativa come azioni in cui si fondono diverse anime, del regresso e della sanzione, portando alla ribalta l’attività sanitaria della struttura con possibili conseguenze “oltre” la disciplina del rapporto interno tra struttura e esercente la professione sanitaria. Sotto il primo profilo, si è già detto come la regola del c.d. cumulo improprio di responsabilità contrattuale della struttura e extracontrattuale del medico28 si sia attestata nelle applicazioni giurisprudenziali sul presupposto di “un fatto illecito comune” parimenti imputabile a medici e strutture, e come sulla base di tela regola, di chiara formazione giurisprudenziale, nel tempo, si sia dato vita a un regime speciale di regole uniformi e transtipiche poste a disciplina di entrambe le responsabilità: oggi, nella inversione di prospettiva che antepone l’attività sanitaria all’atto medico, tale regola non risulta più invocabile a fronte di responsabilità concepite come autonome e distinte per essere, rispettivamente riconducibili o alla lesione dell’interesse (creditorio) del paziente alla corretta esecuzione della prestazione di assisten-
volta di tale impostazione è che il 1228 c.c. non si riferisca a fatti, dolosi o colposi, che interferiscono con l’adempimento dell’obbligazione, ma a condotte “altre” tenute in occasione della esecuzione della prestazione, e lesive della situazione giuridica soggettiva del creditore. Anche recentemente è stato osservato come, nell’ambito della responsabilità sanitaria, non essendo soddisfatto il requisito di carattere soggettivo, di coincidenza di danneggiante e danneggiato, rispettivamente, con debitore e creditore nel rapporto obbligatorio, non si possa configurare un’ipotesi di concorso (o cumulo) di responsabilità bensì semplicemente un’ipotesi in cui “alla responsabilità contrattuale del debitore si affianca quella di un terzo estraneo al rapporto obbligatorio” (cfr. Frenda, Il concorso di responsabilità contrattuale e aquiliana. Soluzioni empiriche e coerenza del sistema, Padova, 2013, 188; ma già Rossello, Concorso di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, in Nuova giur. civ. comm., 1985, II, 317 s.). 28
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za sanitaria da parte della struttura (ex art. 1218 c.c.) o alla lesione del diritto alla salute del paziente causato dalla condotta del medico (ex art. 2043 c.c.). Sotto il secondo profilo, l’implicazione, conseguente a siffatta impostazione, si coglie nella previsione di un regime speciale per l’esercizio delle azioni di rivalsa (da parte della struttura privata) e di responsabilità amministrativa (da parte della struttura pubblica) nei confronti dell’esercente la libera professione: una disciplina che non solo rivela il tendenziale favor per la separazione dei procedimenti29 ma anche sembra riversare nell’azione di rivalsa, sul modello della disciplina specificamente prevista per l’azione di responsabilità amministrativa, le istanze, più propriamente sanzionatorie, retrostanti a tale azione diversamente fondata sul pregiudizio (danno c.d. erariale indiretto) subito dalla p.a. Tra la dottrina processualistica30 viene posto in rilievo come il legislatore, con la legge n. 24/2017, consentendo di modulare l’an e il quantum della rivalsa sulla base della gravità dell’elemento soggettivo del medico e delle conseguenze che ne sono derivate, abbia congegnato l’istituto in esame in modo da renderlo «non solo un mezzo per reintegrare la perdita
Tant’è che per D’adda, Solidarietà e rivalse nella responsabilità sanitaria: una nuova disciplina speciale, cit., 775, sembra profilarsi «la necessità di un giudizio di rivalsa “esterno” al giudizio risarcitorio», a differenza di quanto accadeva, con significativa ricorrenza, prima della riforma, quando nulla precludeva alla struttura privata la possibilità di una chiamata in causa del medico, ritenuto corresponsabile in solido, al fine di sentirlo condannare al regresso; diversamente la l. n. 24/2017, per il caso di domanda risarcitoria formulata nei confronti della sola struttura (privata), sembra invece subordinare l’azione al rispetto di un iter procedimentale piuttosto rigoroso; eventualità esclusa in radice con riferimento all’azione di responsabilità amministrativa per danno erariale, posto che la cognizione su tale domanda è deferita alla giurisdizione contabile e non vi è alcuna norma che consenta di derogarvi per ragioni di connessione. Per Bertollini, op. cit., 94, parimenti con riferimento all’ordinaria azione di rivalsa vi sono una serie di difficoltà a riconoscere che quest’ultima possa essere proposta in seno al giudizio risarcitorio principale, previa chiamata in causa del medico, ex art. 106 c.p.c. 29
Bertollini, op. cit., 96, che a sostegno della natura polifunzionale della rivalsa risale a Consolo, Sul giudizio di rivalsa dello Stato verso il magistrato e sul suo rapporto con il giudizio risarcitorio, in Riv. dir. proc., 1989, 225. 30
patrimoniale subita dalla struttura sanitaria adempiente, ma anche una inedita sanzione civile a carico del personale medico che abbia agito con dolo o colpa grave»31. In tale azione, viene rilevato, convivono due diverse anime, del regresso e della sanzione, la prima destinata a prevalere nei casi in cui la condanna della struttura sia giustificata tanto da autonomi profili di responsabilità quanto dalle condotte negligenti dei medici, la seconda, invece, principalmente laddove la struttura debba rispondere esclusivamente del fatto illecito del professionista, ex artt. 1228-2049 c.c. (quest’ultima in caso di azione diretta nei confronti dell’esercente la professione sanitaria). In ciò portando alla ribalta, anche sul versante interno del rapporto dell’esercente la professione sanitaria con la struttura sanitaria, l’attività della struttura sanitaria come attività che in sé ingloba l’atto medico, collocandolo nel contesto di scelte organizzative e di razionalizzazione dei servizi, che si possono riflettere nel singolo episodio di malpractice sanitaria: situazioni in relazione alle quali il giudizio di rivalsa o di responsabilità amministrativa si fa carico, nella disciplina dei rapporti interni, di valutare l’incidenza causale dell’operato medico sul danno arrecato al paziente. In tale direzione depone l’indicazione, contenuta sempre nell’art. 9 (comma 5°) che, seppure dettata ai fini della quantificazione del danno, è da valorizzare, anche in sede di giudizio sulla colpa del singolo operatore, nella misura in cui le situazioni di particolare difficoltà, di natura anche organizzativa, che fanno capo alla struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica, si possono riflettere sulle deviazioni della condotta dei singoli dallo standard esigibile, non escludendosi anche la possibilità di un azzeramento del danno a fronte di strutture obsolete o inefficienti, in una direzione che si imporrebbe oltre la dimensione, meramente interna, della disciplina del rapporto.
Ma v. Bertollini, op. cit., 96 e 86 ss. per una dettagliata analisi sul piano processuale dei rapporti tra azione di rivalsa e rapporto di garanzia e sugli effetti della partecipazione del medico al precedente giudizio risarcitorio in veste di parte c.d. “accessoria”.
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3.3. Questioni irrisolte La previsione di un regime binario costituisce soluzione certamente apprezzabile per i casi in cui la solidarietà dell’obbligazione risarcitoria nasca e si imponga, ex artt. 1228/2049 c.c., come responsabilità di garanzia della struttura per il fatto illecito del medico che è all’origine del danno: per tali casi il Legislatore ha previsto che il danneggiato possa optare tra un’azione di danni da promuovere esclusivamente nei confronti della struttura (ex art. 9, comma 5°, l. n. 24/2017) in base al regime di disciplina imposto dagli artt. 1218-1228 c.c. e un’azione da esercitare nei confronti del medico (ex art. 9, comma 5°, l. n. 24/2017) sussistendo i presupposti previsti dall’art. 2043 per la configurazione in capo ad esso di un illecito. Diversamente una tale previsione parrebbe rivelarsi inadeguata per quelle ipotesi in cui – a fronte di un fatto dannoso in thesi riconducibile a errore del sanitario e/o a disfunzioni o inefficienze della struttura – il paziente danneggiato, rifuggendo dall’alternativa prefigurata dalla legge, decida di agire nei confronti sia del medico, ex art. 2043 c.c., sia della struttura, ex art. 1218 c.c., rinviando all’interprete la decisione sul regime applicabile. Non a caso i primi commenti sono stati concentrati su questa ipotesi32 facendo riemergere nelle soluzioni offerte un regime uniforme di responsabilità (per medici e strutture) che, per taluni, è da inquadrare nell’ambito dell’art. 2043 c.c., per altri è da ricondurre all’art. 1218 c.c.: conferendo rilievo, nel primo caso, alla colpa del medico come criterio di imputazione33, nel secondo caso,
Per Di Donna, Ripartizione dei rischi e responsabilità civile della struttura sanitaria, in Aa.Vv., La responsabilità sanitaria, cit., 290, spec. 291, anche nei giudizi promossi esclusivamente nei confronti della struttura il medico è sempre parte in quanto sussiste, ex art. 8, comma 4°, un obbligo di partecipazione a suo carico.
Saggi e pareri
all’inadempimento oggettivamente imputabile alla struttura. In ciò disconoscendo rilievo alcuno, come già accaduto in passato nell’interpretazione dell’art. 3 del d.l. n. 158/2012, all’intervento del legislatore. Vi è infatti chi afferma che nei giudizi promossi contro le strutture quest’ultima «risponderà solidalmente con il medico solo se saranno provati, nel corso del giudizio, tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito: dolo o colpa del professionista, nesso causale tra il danno lamentato e la condotta, e antigiuridicità del danno, (…) e il paziente sarà gravato dall’onere probatorio prescritto dall’art. 2043 c.c.: di conseguenza la mancata dimostrazione della colpa del medico esonera quest’ultimo, e di riflesso, escluderà la responsabilità della struttura che non dovrà subire l’inversione dell’onere probatorio tipico della responsabilità contrattuale»; ma vi è anche chi rileva, in continuità con gli ultimi orientamenti giurisprudenziali, come in tali giudizi sussistendo, a fronte di un fatto dannoso unitario ex art. 2055 c.c., un concorso tra un criterio di imputazione oggettivo (per la struttura) e un criterio fondato sulla colpa (per il medico), «…per la prova del diritto sarà sufficiente la dimostrazione dell’esistenza del criterio più favorevole per il danneggiato, creditore; questa circostanza di fatto provoca una oggettivizzazione nel settore della responsabilità medica. Ciò comporta che, nella causa promossa dal paziente contro la struttura e il medico, il fondamento del diritto potrà essere provato anche in presenza dei (soli) presupposti per condannare la prima (la struttura). Mentre solo in sede di rivalsa diverrà rilevante la colpa del medico, la sua limitazione alla colpa grave, ma nell’esecuzione del titolo attivata dalla vittima, il medico corre il rischio di essere escusso»34.
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Nei primi commenti alla riforma emerge la tendenza ad adottare per la struttura sanitaria un modello di responsabilità, oramai superato anche in giurisprudenza, fondato sull’accertamento del “fatto illecito” del singolo medico colorando di colpa la responsabilità della struttura. Un ritorno al passato, alla regola del c.d. cumulo improprio di responsabilità contrattuale (struttura) e aquiliana (medico), ai tempi cioè in cui si inseguivano le immunità dei giudici più che la tu33
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tela dei diritti del paziente. Rischio paventato in commento all’art. 3 (del d.l. n. 158/2012 conv. in l. n. 189/2012), per neutralizzare il quale il legislatore ha inteso accreditare per la struttura sanitaria quel modello, impostosi in giurisprudenza, che fa esclusivamente capo all’inadempimento di obblighi di assistenza sanitaria da valutarsi in piena “autonomia” dal presupposto della colpa medica (rectius, dal fatto illecito del medico). 34 In tali termini v. Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 271 ss., spec. 273; anche suc-
La legge Gelli-Bianco e il regime binario
Premesso che sul piano processuale non sussistono ostacoli alla possibilità che, nell’eventualità di un processo simultaneo, si faccia capo ad una diversa ripartizione dell’onere probatorio in base ai diversi titoli di responsabilità rispettivamente facenti capo alla struttura (ex art. 1218 c.c.) e all’esercente la professione sanitaria ex art. 2043 c.c.: si verrebbe a profilare un processo litisconsortile, avente ad oggetto un’obbligazione risarcitoria solidale, come tale soggetto alla regola posta dall’art. 1306 c.c., che di per sé, non esclude tale possibilità. Sul piano del diritto sostanziale, seguendo l’impostazione che riteniamo essere stata accreditata dalla legge, la soluzione potrebbe rinvenirsi nell’adozione di quella inversione di prospettiva che deve, in tali giudizi, indurre a partire dall’inadempimento da parte della struttura (agli obblighi su di essa gravanti, ex art. 1218 c.c.) per individuare la sussistenza di un fatto illecito in capo al medico ex art. 2043 c.c.. Quasi a volere indicare come la via privilegiata, nel caso di un giudizio promosso dal paziente nei confronti di medici e strutture, debba essere quella che mette in campo la responsabilità della struttura (ex artt. 1218/1228 c.c.) posto che essa, a prescindere dalla colpa di chi ha operato al suo interno, dovrà sempre rispondere fino al limite dell’evento straordinario o eccezionale che ha precluso l’esatto adempimento degli obblighi di assistenza sanitaria su di essa gravanti. Un giudizio, all’interno del quale, potrà anche valutarsi la colpa del medico (convenuto in giudizio dalla parte danneggiata), non certo per escludere la responsabilità della struttura, quanto per affermare la responsabilità solidale di entrambi, posto che l’obiettivo del legislatore, nell’introdurre la colpa come criterio di imputazione per la responsabilità del medico, non è stato certo quello di estenderlo a criterio di imputazione per la responsabilità della struttura
cessivamente ribadito in questa Rivista, 2017, 5 ss., spec. 11, asserendo che, in presenza di un fatto dannoso unitario ex art. 2055 c.c., sussiste un concorso tra un criterio di imputazione oggettivo (per la struttura) e un criterio fondato sulla colpa (per il medico), da risolvere optando «…per il criterio più favorevole per il danneggiato» e quindi per il criterio di imputazione riferibile alla struttura.
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quanto invece di riconoscergli il dovuto rilievo per fondare la responsabilità del sanitario (e con essa quella solidale, ex art. 1228 c.c. della struttura). Si potrebbe in tali casi a fronte del paziente danneggiato – che reclama in un medesimo giudizio tutela risarcitoria nei confronti di soggetti solidalmente responsabili in base a differenti criteri di imputazione – prospettare una sorta di solidarietà c.d. atipica35 che mette in campo la limitazione dalla legge imposta (con l’art. 7 l. n. 24/2017) conferendo rilievo alla colpa professionale come presupposto al quale ancorare la responsabilità del medico/dipendente. Una solidarietà dell’obbligazione risarcitoria che permane dal momento che il paziente/danneggiato potrà esigere da entrambi i soggetti, convenuti come solidalmente responsabili (struttura/medico), la quota di danno (comune) ad essi imputabile (i.e., alla colpa medica/al disservizio struttura), mentre viene meno allorquando si profilano danni diversi in relazione al diverso apporto causale di ciascuno (danni conseguenti ad una infezione ospedaliera v. danni conseguenti ad una omessa diagnosi). Una lettura dell’art. 2055 c.c. che, sulla scia di nuovi orientamenti giurisprudenziali36 orientati, in caso di concorso di cause (naturali e umane), a ridurre il carico risarcitorio in capo all’unico soggetto responsabile, oggi si impone, anche nel settore della responsabilità sanitaria37, per via dell’intervento
35 In tale direzione quel filone giurisprudenziale che ammette che la solidarietà «non precluda ed anzi imponga l’accertamento, nei singoli casi concreti, del titolo in forza al quale ciascuno dei coobbligati è tenuto alla prestazione e se l’unicità di quest’ultima soffra o meno di limitazioni per effetto di particolari disposizioni convenzionali o legali» (da Cass., 10.6.2013, n. 14537, in Mass. Giust. civ., 2013, che risale a Cass., 3.6.2002, n. 7993, ivi, 2002). Ma in dottrina v. Gnani, L’obbligazione soggettivamente complessa nel quadro del diritto privato europeo, in Le “nuove” responsabilità solidali, a cura di Breccia e Busnelli, 7 ss., ove il rilevo sulle diverse species di solidarietà che, in linea con il diritto europeo, si delineano in direzione di una solidarietà capace di adeguarsi a variabili substrati strutturali (v. in argomento da ultimo anche Cass., 11.5.2016, n. 9662, in Danno e resp., 2017, 22). 36 Cfr. Cass., 29.2.2016, n. 3893, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I,121. 37 Si potrebbe ipotizzare “un concorso asimmetrico di obbligazione risarcitoria” quale risposta all’esigenza di un frazionamento per quote delle responsabilità, come è stato deline-
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legislativo (l. n. 24/2017) che, nell’accreditare le responsabilità della struttura e del medico, come responsabilità autonome e distinte, per titolo e criterio di imputazione, ha inteso subordinare la responsabilità del medico alla sussistenza di un fatto illecito, ex art. 2043 c.c., diversamente ampliando la responsabilità della prima, oltre il perimetro delimitato dalla funzione di garanzia ad essa connessa, per coprire qualsiasi danno derivante sia da condotte mediche, non integranti un fatto illecito, sia da deficit strutturali e organizzativi connessi all’attività sanitaria da essa erogata. Interessante, in questa chiave di lettura, un caso recentemente deciso dal Tribunale di Roma38, ove si discute di un concorso di cause naturali (pregressa patologia) e cause umane, queste ultime, riferibili in parte all’operato di un medico, la cui negligenza/imperizia non è in discussione, anche se in parte riconducibile al deficit organizzativo della struttura decisamente carente da diversi punti di vista. Viene quindi in prima battuta affrontato il problema del concorso tra causa naturale e causa umana e, in linea con un recente orientamento della Cassazione39 si afferma che su Medico e Struttura non dovranno gravare, sotto il profilo del risarcimento, quei danni riconducibili alla situazione pregressa della patologia; si calcola il danno c.d. differenziale del quale risponderanno solidalmente Struttura e Medico seppure in una diversa percentuale: dell’ammontare di tale danno la struttura risponderà integralmente al 100% (in quanto responsabile e della condotta colposa del medico e del deficit organizzativo) mentre di esso il medico risponderà al 50% essendo in tale percentuale stimato il suo apporto causale al danno. In tale decisione le posizioni di struttura e medico sono state differenziate, non sotto il profilo dei criteri di imputazione delle responsabilità
ato con riguardo alle obbligazioni condominiali da Balbusso, in Resp. civ. e prev., 2017, 887, in commento a Cass., sez. un., 10.5.2016, n. 9449. 38
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(come avrebbe richiesto la legge Gelli se ritenuta applicabile), ma a livello di quantificazione del danno. Volendo ipotizzare una soluzione per il caso prospettato, nell’applicazione della Legge Gelli e a fronte della scelta processuale dell’attore di agire nel medesimo giudizio nei confronti di medici e struttura, si verrebbero a profilare, sulla base delle soluzioni ad oggi proposte in dottrina, due alternative: tra un regime uniforme (all’insegna dell’art. 2043 c.c. ovvero dell’art. 1218 c.c., per l’accertamento delle rispettive responsabilità40) oppure un regime binario ove far convivere discipline diverse (ex art. 1218 c.c. per la responsabilità della struttura, ex art. 2043 e per la responsabilità del medico) nell’applicazione dell’art. 7, commi 1° e 3°, della l. n. 24/2017. Una soluzione quest’ultima che ritengo perseguibile anche a fronte di un art. 2055 c.c. che pone, a presupposto del sorgere della solidarietà dell’obbligazione risarcitoria, l’“unicità del fatto dannoso”: posto che con tale norma il sistema, nel porre in correlazione la regola della solidarietà con l’unicità del criterio di imputazione (i.e., la colpa, che nella valutazione della sua gravità diviene criterio di ripartizione nei rapporti interni tra coobbligati), esclude la sua applicazione diretta nel caso in cui, a fronte di più cause che concorrano nella produzione del danno, si profilino differenti criteri di imputazione delle responsabilità. Nell’ottica dunque di un’applicazione analogica dell’art. 2055 c.c. sarà necessario aprirsi a nuove e più moderne letture della disposizione, che procedano verso un ridimensionamento a livello interpretativo della “unicità del fatto dannoso” in tale norma assunto a presupposto del sorgere della solidarietà dell’obbligazione risarcitoria, per potere far convivere la regola della solidarietà con quella della responsabilità proporzionale. Si potrebbe, in relazione alla fattispecie prospettata, ipotizzare una responsabilità della struttura la quale, ex art. 1218, risponderà integralmente del danno e, ex art. 1228 c.c., solidalmente con il medico, per il fatto illecito da esso commesso, potendo lo stesso essere chiamato a rispondere, direttamente, nei
Trib. Roma, 26.6.2017, ined.
Cfr. Cass., 21.7.2011, n. 15991, in Nuova giur. civ. comm., 2012, I, 189 con nota di Pucella, Concorso di cause umane e naturali: la via impervia tentata dalla Cassazione e Cass., 29.2.2016, n. 3893, cit. 39
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V. supra nel testo.
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rapporti esterni, seppure limitatamente alla percentuale stimata per l’apporto causale della sua condotta all’evento dannoso: si dovrà certo preliminarmente procedere a valutare l’inadempimento della struttura, anche attraverso l’accertamento delle condotte colpose poste in essere dai medici, e successivamente procedere a verificare, in base a quelle condotte, la sussistenza degli elementi costitutivi di un fatto illecito a carico del medico.
4. La responsabilità del medico La scelta espressa dal legislatore moderno nel rinvio all’art. 2043 c.c., come norma di disciplina della responsabilità del medico, e all’art. 1218 c.c. come norma di disciplina della responsabilità della struttura, è segnale di una realtà che cambia e alla quale il diritto deve adeguarsi nell’inquadramento adottato per disciplinarla. I cambiamenti, si è visto, concernono, da un lato, l’esigenza di abbandonare, in continuità con quanto asserito dalle Sezioni unite nel 2008, la prospettiva tradizionale che guarda al “fatto illecito” del medico come ad un “presupposto” necessario per potere affermare la responsabilità (per inadempimento) della struttura, ex artt. 1218/1228 c.c.; dall’altro lato, l’esigenza di conferire rilievo alla colpa professionale, come criterio di imputazione per la responsabilità del medico, in correlazione non tanto al titolo della responsabilità (art. 2043 c.c.)41 quanto invece alla natura professionale dell’attività che detta le linee-guida alle quali la stessa deve conformarsi. Di ciò ne danno conto altre norme, sempre contenute nella legge n. 24/2017, dalle quali, se interpretate in continuità con quelle regole (di formazione giurisprudenziale) sopravvissute alla riforma, in quanto specificamente rivolte alla struttura, è possibile trarre, nella direzione da noi indicata, qualche ulteriore spunto di riflessione. L’art. 7 della l. n. 24/2017, se interpretato congiuntamente all’art. 5, nel rilievo conferito alle
linee guida e alle buone pratiche clinico-assistenziali come parametri valutativi della colpa medica, assegna, nel giudizio condotto ex art. 2043 c.c., rilievo centrale alla “colpa professionale”, come criterio di imputazione per la responsabilità del medico; l’art. 7, ancora, nel suo coordinamento con gli artt. 8 e 15 della l. n. 24/2017, indica come, nell’accoglimento di una nozione oggettiva di colpa, si sia spostato il baricentro della sua valutazione sulla consulenza tecnica sia essa quella preventiva (che l’art. 8 disciplina come condizione di procedibilità della domanda di risarcimento)42, sia essa espletata in giudizio (con un deciso potenziamento del Collegio arbitrale arricchito nella sua composizione da specialisti della materia, art. 15)43. Se tale normativa viene poi letta in continuità con quell’orientamento che, nel riferimento specifico ai giudizi di responsabilità sanitaria, ha inteso valorizzare, sulla scia dell’intervento delle Sezioni Unite44, il principio di vicinanza o prossimità della prova assegnando al medico, che ha conoscenza del caso sottoposto a giudizio, la prova dell’assenza di colpa (in correlazione anche alle linee guida applicate o disapplicate), emerge ancora come, per via delle dinamiche che si creano nel processo, la distinzione tra i due regimi, con riguardo all’onere della prova della colpa, sfumi nella prassi, sostanzialmente rimettendo (oggi) la distinzione tra responsabilità contrattuale e aquiliana alla mera sussistenza di un diverso termine prescrizionale dell’azione. Si potrebbe allora ipotizzare che in un giudizio promosso, ex art. 2043, nei confronti del medico, si debba preliminarmente, ma in continuità con l’accertamento tecnico preventivo, procedere ad una valutazione della condotta negligente del medico onde valutare la sussistenza di un fatto illecito nella compresenza
Cfr. Cuomo Ulloa, Consulenza tecnica preventiva tra conciliazione e accertamento della responsabilità sanitaria, in questa Rivista, 2018, 30. 42
In argomento si rinvia alle interessanti riflessioni di GorColpa lieve per osservanza delle linee Guida e delle pratiche accreditata dalla Comunità scientifica e risarcimento del danno, in Resp. civ. e prev., 2015, 173. 43
Cfr. Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il tramonto della responsabilità da contatto sociale?, in questa Rivista, 2017, 40; Breda, La responsabilità civile delle strutture sanitarie e del medico tra conferme e novità, in Danno e resp., 2017, 283 ss.
41
goni,
44 Con Cass., sez. un., 30.10.2001, n. 13533, in Corr. giur., 2001, 1565.
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dei fatti costitutivi, e in specie del nesso causale tra condotta e danno: nel caso in cui il giudizio sul fatto illecito del medico abbia dato esito negativo, il giudizio potrà essere rivolto nei confronti della struttura, sulla base del regime binario, per valutare eventuali inadempimenti agli obblighi di assistenza sanitaria, ex art. 1218 c.c., richiedendo alla stessa la prova di quell’evento straordinario ed eccezionale che è stato causa del danno alla salute del paziente o dell’insuccesso del trattamento chirurgico o terapeutico. Né tale scelta per l’inquadramento della responsabilità del medico in ambito aquiliano vale a trasformare, per passare alla retorica delle affermazioni, la responsabilità del medico in quella del passante in un’ottica volta a decontestualizzare l’operato del medico dal rapporto con il paziente, perché non potrà essere certo l’inquadramento, in ambito aquiliano o contrattuale, a incidere sulla definizione degli obblighi di diligenza e perizia professionale che incombono sul medico, nei confronti del paziente che ha in cura, quanto invece la sua appartenenza ad una professione che esercita in ragione del suo status (di soggetto abilitato dallo Stato a esercitarla). Il modello della responsabilità professionale da status, ritengo, si debba collocare, al di sopra della classica bipartizione della responsabilità civile in contrattuale e aquiliana non certo per rinnegarne il senso, quanto per reclamare una uniformità di giudizio, nei confronti dell’operato professionale, sia che esso si sia svolto in adempimento di un obbligo di prestazione, dal medico assunto sulla base di un contratto direttamente stipulato con il paziente, ovvero nell’ambito di una organizzazione per un obbligo assunto nei confronti della struttura. Allorquando si deve valutare l’operato di un professionista/medico sia che la sua opera professionale si inquadri come servizio, reso nell’ambito di una struttura, sia che si svolga come prestazione nell’ambito di un contratto d’opera professionale, il parametro valutativo sarà sempre quello della diligenza professionale, ex art. 1176, comma 2°, c.c. da integrare nel riferimento alle regole codificate del sapere tecnico, che per il medico si fondano sulla medicina delle evidenze. Il medico, in qualsiasi contesto collocato (ospedale, studio professionale privato, alta montagna, presidio di prima emergenza), a fronte Responsabilità Medica 2019, n. 2
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di una persona che ad esso si rivolge per essere curato, deve comunque rispondere della corretta osservanza degli obblighi di diligenza, perizia e competenza professionale che su di esso incombono in ragione del suo status professionale di appartenenza45. Si tratterà certo di obblighi la cui violazione dovrà valutarsi in correlazione al livello di specializzazione del medico, al contesto in cui lo stesso svolge la sua opera professionale (se studio o struttura super specializzata o alta montagna…), non ultimo, alle circostanze specifiche del caso e alle difficoltà dal caso, anche quelle rivelatesi nella sua esecuzione (ex art. 2236 c.c.). Ciò perché il parametro valutativo della diligenza/ perizia è un parametro elastico, di natura sì oggettiva, ma relativo, nel senso che deve adeguarsi ai diversi contesti in cui si effettua la prestazione professionale; le responsabilità, nascenti dal mancato rispetto di tali obblighi, saranno comunque da inquadrare nel paradigma della responsabilità professionale, non potendo certo reclamare una valutazione differenziata a seconda che l’opera professionale sia stata prestata alle dipendenze di una struttura o all’interno di uno studio professionale. In una direzione che, ritengo, valga in realtà a recuperare il rapporto tra medico e paziente, sottraendolo alla falsa metafora “del contatto sociale”, che aveva condotto ad un irrigidimento delle rispettive posizioni di medici e pazienti nel ricorso (o nel supposto ricorso) a strategie di c.d. medicina difensiva, per proiettarlo sul piano di quell’alleanza terapeutica, tanto auspicata, in cui il paziente non è mero destinatario di cure bensì di soggetto attivo nella richiesta di cure (“sicure”) per la sua salute.
5. La responsabilità della struttura Un impianto normativo che, nelle diverse regole che lo compongono, rivela46 una chiara linea
45 Nella dottrina tedesca è stata teorizzata (cfr. Bar, Verkehrspflichten, Köln-Berlin, 1980, 1) una responsabilità professionale da ricondurre in ambito aquiliano per violazione di «obblighi di prudente comportamento (Verkehrspflichten)». 46 In tale direzione convergono le riflessioni di quanti sono intervenuti nel commento alla nuova legge, per i cui com-
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di policy in direzione di una canalizzazione dei costi dei danni sul soggetto/ente che meglio è in grado di prevenire e gestire il rischio connesso al loro accadimento vuoi potenziando politiche di risk management vuoi provvedendo a coperture della responsabilità civile mediante assicurazione o altre misure analoghe47: una responsabilità della struttura che si è inteso fare convivere con una responsabilità del medico che, nel riferimento all’art. 2043 c.c., si conferma come responsabilità esterna riconducibile alla colpa come criterio di imputazione. Tra i fattori all’origine del consolidarsi, a livello giurisprudenziale e ora anche legislativo, di modelli di responsabilità (semi)oggettiva per le strutture sanitarie, certamente, vi è l’aumento del rischio c.d. sanitario: in connessione alla complessità dei meccanismi di erogazione delle prestazioni sanitarie e all’innovazione scientifica e tecnologica che hanno certamente inciso sulla creazione di nuovi rischi ampliando le occasioni di danno e facendo emergere l’esigenza di amministrazione dei costi correlati al loro accadimento. Al rischio, intrinseco al curare una malattia, oggi si aggiungono, come portato dell’era moderna, due fattori di rischio che hanno avuto sicura incidenza: a) il fattore di rischio sanitario creato dal progresso tecnologico, scientifico e medico che ha moltiplicato le tipologie di incidenti e i risultati inquadrabili come errori medici catturando (an-
menti si rinvia a Danno e Responsabilità (2017, 261) e ad Aa.Vv., in La responsabilità sanitaria, Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, a cura di Alpa, Pisa, 2017. Non è dunque casuale che, già nella norma di apertura della l. n. 24/2017, si riconosca in capo al singolo e alla collettività, la pretesa a che l’attività di assistenza sanitaria, erogata dalla struttura, si svolga nel rispetto di quanto per legge imposto per garantire la sicurezza delle cure, e che, nelle successive norme, vengano predisposti meccanismi di tutela dei pazienti che, sul piano risarcitorio e assicurativo (artt. 7 e 10 della legge n. 24/2017), sono stati ben bilanciati in base alla natura dell’attività di assistenza sanitaria e alla portata del rischio connesso al suo svolgimento (cfr. Direttiva n. 24/2011 UE, nel rilievo conferito al ruolo che debbono assumere gli Stati membri nel garantire e predisporre meccanismi di tutela dei pazienti e di risarcimento dei danni per l’assistenza sanitaria, da ciascun Stato prestata sui rispettivi territori, che siano “appropriati alla natura o alla portata del rischio”). 47
che) ciò che prima rientrava nel “rischio naturale” e trasformandolo in “rischio medico”; b) il fattore di rischio creato dell’organizzazione, in cui si inserisce l’operato del medico: le prestazioni mediche si svolgono sempre più nell’ambito di strutture sanitarie (pubbliche o private) e la causa di molti errori medici, talvolta anonimi o difficilmente accertabili, risale a fattori che si collocano sul piano organizzativo e/o della cooperazione (verticale/orizzontale) e come tali chiamano in causa, non solo e non tanto, il singolo medico quanto l’organizzazione nel suo complesso. Ciò certamente si è riflesso nell’esigenza di guardare più che all’atto medico all’attività sanitaria, più che al medico, nella individuazione della sua colpa, alla struttura sanitaria come soggetto che, nell’offrire un servizio per la salute dei cittadini, deve essere in grado non solo di prevenire il rischio correlato, con opportune politiche di risk management, ma anche di sopportare il costo dei danni che, una volta accaduti, debbono essere su di essa traslati nel ricorso a meccanismi di risarcimento dei danni. Muta dunque l’angolazione d’analisi e con essa cambia l’approccio valutativo del giudizio di responsabilità: non si guarda più al fatto illecito del medico per fondare su di esso una responsabilità della struttura in chiave speculare a quella del medico, bensì si guarda all’attività sanitaria e all’inadempimento e/o all’inesatto adempimento di quegli obblighi di assistenza sanitaria, che fanno capo alla struttura, onde valutare, se nel loro adempimento, l’operare dei medici si sia correttamente svolto. In questo spostamento di attenzione “dall’atto medico” “all’attività sanitaria” il paziente da mero destinatario di un servizio diviene soggetto attivo di una pretesa (ad un’attività di assistenza sanitaria che si svolga nel) al rispetto delle regole di appropriatezza clinica e organizzativa dell’assistenza sanitaria, dei tempi di attesa e di continuità assistenziale oltreché della qualità delle prestazioni48. Di ciò, già nel 2008,
Nella regolamentazione del servizio, destinata ad assumere rilevanza esterna nei confronti degli utenti del SSN, si leggono le condizioni di offerta dei servizi sanitari che per legge (ex art. 14, comma 4°, d.lgs. n. 502/1992) spetta alle aziende individuare e rendere pubbliche indicando «presta48
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avevano preso atto le Sezioni Unite della Cassazione49 con una pronuncia che avvertiva dell’esigenza di aprire a forme di “responsabilità che prescindano dall’accertamento di una condotta dei singoli operatori e trovino invece la propria fonte nell’inadempimento di obbligazioni direttamente riferibili all’ente” equiparando, nella comunanza di obblighi diretti a garantire la sicurezza delle cure, la responsabilità delle strutture sanitarie pubbliche a quelle private. Il passo ulteriore che, nell’evoluzione degli orientamenti giurisprudenziali, si sarebbe dovuto compiere sarebbe stato quello di sottrarre la responsabilità del medico/dipendente a quel regime di regole che, delineatesi nel riferimento specifico alla responsabilità della struttura sanitaria, con riguardo al tipo di attività da essa svolta, non sarebbero state trasferibili tout court a disciplina della responsabilità del medico. Ma i giudici – saldamente ancorati all’idea di un regime uniforme di disciplina per medici e strutture e sorretti dalla solidarietà dell’obbligazione risarcitoria, ex art. 2055 c.c. – hanno ritenuto di non dovere compiere quel passo in avanti trincerandosi dietro la prassi che, nell’esecuzione del titolo attivata dal danneggiato, ha sempre visto escutere la struttura (e la sua assicurazione) in direzione di un obbligo risarcitorio che sul medico rimbalza solo in sede di regresso (danno erariale, se dipendente pubblico). Un passo, diversamente compiuto con la Legge Gelli, con la quale si è inteso, nell’ambito di un regime binario, conferire
zioni, tariffe e modalità di accesso ai servizi»: onde consentire agli utenti di potere esercitare «il diritto di scelta del luogo di cura (…) nell’ambito dei soggetti accreditati» nel territorio nazionale (ex art. 8 bis, comma 2°, d.lgs. n. 502/1992); per una lettura degli accordi contrattuali, intercorrenti tra Regioni/Ausl e strutture sanitarie, che valorizzi in chiave contrattuale le condizioni del regolamento del servizio sanitario si rinvia a De Matteis, Responsabilità e servizi sanitari. Modelli e funzioni, cit.; nel Trattato dir. comm. e dir. pubbl. dell’econ., diretto da Galgano, Padova, 2007, cap. I, sez. II, paragrafi 1, 2, 3, 4; De Matteis, Le responsabilità in ambito sanitario, cit., 74 ss. Si tratta di Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, cit., 612, con nota di De Matteis, La responsabilità delle strutture sanitarie; e in La resp. civ., 2008, 397, con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria. 49
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rilievo a norme di responsabilità ben calibrate in base alla «alla natura dell’attività o alla portata del rischio» ad essa connesso: differenziando l’attività di organizzazione50 a monte dell’erogazione di servizi sanitari, svolta dalla struttura sanitaria, dall’opera intellettuale dal medico posta al servizio dell’organizzazione. In tale direzione già la Relazione della Commissione Consultiva, presieduta da G. Alpa, “Problematiche in materia di medicina difensiva e di responsabilità professionale degli esercenti la professione sanitaria” che si era espressa in ragione di un allineamento del nostro sistema alle maggiori esperienze europee; e anche diversi Disegni di legge, a suo tempo già passati al vaglio della Commissione Igiene e sanità51, con i quali, sempre all’insegna del regime binario, si erano studiate norme specificamente indirizzate a regolamentare le responsabilità in ambito sanitario. La legge Gelli si è inserita in questo trend, recependo input e indicazioni, in
Si rinvia a Trimarchi, La responsabilità civile: atti illeciti, rischio, danno, Milano, 2017, 275, spec. 285, ove viene rilevato come condizione necessaria e sufficiente perché la responsabilità per rischio svolga la sua funzione, è che si tratti di un’attività economica, o comunque condotta in base a criteri di economicità, e che tale attività presenti un minimo di continuità e organizzazione. In tale ambito rientra anche l’attività svolta dalle aziende sanitarie (Ausl) posto che le stesse, definite per legge come soggetti dotati di personalità giuridica pubblica, sono disciplinate da un atto aziendale privato e debbono uniformare la loro attività ai criteri propriamente aziendalistici dell’efficacia, efficienza ed economicità, nel rispetto del vincolo di bilancio (ex art. 3 d.lgs. n. 502/1992).
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51 Dal d.d.l. Gasparri (n. 1067/2008) al d.d.l. Bianchi (n. 1183/2008), dal d.d.l. Tommasini (n. 50/2008) al più recente d.d.l. Pedoto (n. 3806/2010), l’obiettivo comune dei diversi disegni di legge, che si sono succeduti nel tempo, è sempre stato quello di canalizzare sulla struttura la responsabilità per i danni, subiti dal paziente nel corso delle cure da essa erogate, aprendo ad una responsabilità della stessa modellata sul fare organizzato della stessa più che sul fare professionale del medico e quindi concepita come autonoma dal fatto illecito del medico. Per quanto concerne invece la responsabilità del medico dipendente, le soluzioni divergono in quanto si trascorre dal d.d.l. Tommasini n. 50/2008 che esclude la responsabilità esterna e diretta del medico limitando l’azione di rivalsa da parte della p.a. ai soli casi di dolo, ai d.d.l. Gasparri n. 1067/2008; Bianchi n. 1183/2008; Pedoto n. 3806/2010, che, nell’ambito di un sistema a doppio binario, accreditano una responsabilità esterna dei medici configurandola come responsabilità aquiliana esterna.
La legge Gelli-Bianco e il regime binario
un dialettico confronto con la giurisprudenza, senza affrontare (e quindi delegando ad essa) alcuni rilevanti profili applicativi della nuova disciplina. È inevitabile dunque, riprendendo le parole di F.D. Busnelli, riandare all’immagine di una legge, non ancora uscita dal “cantiere”, fuor di metafora, “una sorta di soft law esortativa”52, che esorta la giurisprudenza (e la dottrina) verso un atteggiamento costruttivo che smetta di «difendere ad oltranza il falso dogma della responsabilità da contatto sociale53 per impegnarsi in un dialogo rispettoso e proficuo»54 con un legislatore che ha mostrato di rispettarne le conclusioni raggiunte negli ultimi venti anni traducendo in legge le sue «più recenti determinazioni»; servirà certo anche una normativa secondaria – specie quella relativa ai requisiti minimi delle polizze assicurative… delle altre analoghe misure – che consentirà di colmare le molte lacune di una legge certamente “imperfetta”. Ed allora il compito oggi dell’interprete55 sarà certo quello di svelare le zone d’ombra in essa presenti con proposte volte a definire dettagli tecnici fondamentali, riconoscendo al giu-
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dice56, nel ruolo che gli compete, una interpretazione che, superando contrapposizioni e diatribe, affronti gli snodi fondamentali in cui essa rischia di invilupparsi e soprattutto restituisca chiarezza e concretezza a scelte dal legislatore che, operate dall’alto dell’inquadramento delle responsabilità in astratto ipotizzabili per medici e strutture, hanno sottovalutato le questioni prospettabili sul piano operativo.
52 Busnelli, 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica. Itinerari di confronto tra diritto e medicina per la tutela della salute, in questa Rivista, 2018, spec. 105.
Si rinvia ai rilievi svolti da Zaccaria, Der aufhaltsame aufstieg des sozialen kontakts. La resistibile ascesa del contatto sociale, in Riv. dir. civ., 2013, 77 ss.; e di recente anche da Canaris, Il “contatto sociale” nell’ordinamento giuridico tedesco, ivi, 2017, 4. 53
54 In direzione contraria ad un proficuo confronto non possono non riportarsi le affermazioni di chi esprime forti dubbi sul fatto che «il diverso regime dell’onere della prova, che la vittima deve assolvere per esercitare l’azione nei confronti della struttura e rispetto all’azione rivolta contro il medico (introdotto con la l. n. 24/2017), possa segnare un effettivo cambiamento rispetto alla prassi esistente» (v. Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in questa Rivista, 2017, 5 ss., spec. 10 ss.). Per le ragioni che sorreggono tale affermazione di Franzoni v. infra ai §§ successivi.
In tale direzione si esprime Travaglino nella Introduzione ad Aa.Vv., Il contenzioso sulla nuova responsabilità sanitaria (prima e durante il processo), coordinato da Consolo, Torino, 2018; v. anche Aa.Vv., La nuova responsabilità medica, a cura di Ruffolo, Milano, 2018 (specie nella Prefazione, XI) ove un deciso plauso per una legge che finalmente ha «capovolto la logica e la prassi della mediazione giuridica» invalsa in tale settore della responsabilità civile. 55
56 In chiave decisamente critica nei confronti della legge si esprime, Rossetti, La riforma della responsabilità medica. L’assicurazione, in Quest. Giust., 2018, 167, il quale, nell’etichettare tale riforma come «legge sgrammatica nella lingua; farraginosa nella sistematica; incoerente con le restante parti dell’ordinamento», ne compie un’analisi che, seppure esclusivamente sotto il profilo assicurativo, ne rivela aporie, contraddizioni tra le norme, che potrebbero esporla, fatti salvi i regolamenti attuativi non ancora emanati, a possibili profili di incostituzionalità se non di inapplicabilità.
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Saggi e pareri
Saggi e pareri
Buon compleanno legge Gelli, anzi no
g g sa re e a p
Italo Partenza
Avvocato in Milano Sommario: 1. Premessa: le questioni irrisolte della Legge Gelli. – 2. La rottura dell’alleanza assicurato ed assicuratore e l’effetto paralizzante delle SIR. – 3. La questione Corte dei Conti: il sistema inquisitorio e la sua nefasta influenza sulla tutela del danno alla salute. – 4. L’ATP conciliativo ex art 696 bis c.p.c. ed il ruolo dei consulenti tecnici: unicuique suum.
Abstract: Sono appena trascorsi due anni dall’entrata in vigore della Legge Gelli ma permangono problemi irrisolti (il quadro assicurativo ed il ruolo della Corte dei Conti) ed un uso improprio dell’ATP che – se non opportunamente regolamentato e vigilato – rischia di alterare l’effettiva applicazione dei principi di diritto sanciti dalla Suprema Corte in tema di ripartizione degli oneri probatori. Emerge più che mai la necessità di una riforma radicale delle responsabilità sanitaria in chiave no fault. Two years have just passed since the entry into force of Gelli Law but unresolved problems remain (the insurance framework and Corte dei Conti’ s role) and an improper use of ATP ex art. 696 bis c.p.c. which – if not properly regulated and supervised – risks altering the effective application of the principles of law sanctioned by the Supreme Court regarding the distribution of evidentiary burdens. The need for a radical reform of health responsibilities in a no-fault key emerges more than ever.
1. Premessa: le questioni irrisolte della Legge Gelli Son trascorsi più o meno due anni dall’entrata in vigore della Riforma Gelli, ma non sembra il caso di festeggiarne il compleanno. Una delle leggi forse più attese ed incompiute del nostro ordinamento, se si vogliono limitare i
giudizi valutativi che chi scrive formulerebbe in termini assai negativi, non ha innovato il panorama della responsabilità sanitaria, né ha saputo risolvere le principali criticità sotto il profilo del danno alla salute e della sua assicurabilità. E del resto la circostanza non desta affatto sorpresa, se si pensa che gli obiettivi erano di fatto quelli dell’alleggerimento della posizione penalistica dei medici1 (seppure gran bisogno dopo la sentenza Franzese2 non sembrava ci fosse), di risolvere il problema della responsabilità contrattuale ed extra contrattuale dopo la Legge Balduzzi (ma a questo ci pensano già certe CTU allorché omettono di rispettare gli oneri probatori del giudizio civile, tutti presi dal desiderio di accertare la verità in una modalità certo più penalistica che
Per un’analisi critica dei profili penalistici della legge si vede Aleo, Alcune considerazioni sulla responsabilità penale del medico, anche alla luce della recente Legge Gelli, in questa Rivista, 2017, 223; Girani, Uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità penale del sanitario a quasi un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2018, 437. 1
Con la pronuncia citata, superando i differenti criteri probabilistici individuati dalla precedente giurisprudenza sulla scorta di policy maggiormente orientate alla tutela del bene salute ed alla repressione penale dell’errore sanitario, la Corte di Cassazione individuò nella ragionevole certezza il criterio probabilistico dal quale far derivare il riconoscimento del nesso causale allorché oggetto di valutazione del magistrato sia la responsabilità penale del medico Cass. pen., sez. un., 11.9.2002, n. 30328, in Cass. pen., 2003, 1175; in Riv. dir. civ., 2003, II, 361. 2
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civilistica), e di coinvolgere forzatamente le assicurazioni e l’esito lo conosciamo tutti. Per quanto riguarda l’aspetto civilistico pesa in maniera determinante il problema di un diffuso timore operativo da parte dei Claim Manager delle strutture ospedaliere pubbliche ad approntare una giusta e rapida tutela del danno alla salute sotto la stringente vigilanza di una Corte dei Conti, che di fatto incentiva a posticipare una pronta liquidazione dei danni demandando la parola finale a due, se non tre, gradi di giudizio.
2. La rottura dell’alleanza assicurato ed assicuratore e l’effetto paralizzante delle SIR Una delle cause dell’inefficacia della legge, a parere di chi scrive, è legata all’errore strategico sin da subito emerso3 di avere rotto l’alleanza fra assicurato ed assicuratore, ipotizzando una azione diretta ad oggi non attuata e legittimando quelle tanto discusse “analoghe misure”, che hanno determinato e determinano un permanente e paralizzante conflitto di interessi fra chi un tempo remava insieme nella medesima direzione. Non è un argomento nuovo per chi scrive, ma dal momento che nulla cambia gli scritti rappresentano il silenzioso immobilismo sul punto. All’interno infatti del quadro normativo e contrattuale rappresentato dall’espressione deprecabilmente equivoca delle “analoghe misure”, l’introduzione di franchigie di importo particolarmente elevato (superiore a € 100.000) o di aree di non assicurazione, ha di fatto incrinato – se non del tutto svuotato di significato – un meccanismo perfettamente funzionante ed integralmente inquadrato dalla magistratura come quello del patto di gestione della lite, per lasciare invece spazio ad una vera e propria situazione di conflitto di interessi permanente, potendo avere assicuratori ed
Senza vantare alcuna dote profetica chi scrive aveva prospettato le medesime criticità applicative, ma era una ovvietà e dunque non si può neppure ricorrere all’appagante “l’avevo detto…” Partenza, L’assicurazione della responsabilità sanitaria post riforma Gelli e le criticità del mercato: una mancata risposta a bisogni reali, in questa Rivista, 2017, 49. 3
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assicurati interessi differenti nella gestione degli eventuali sinistri. A differenza della franchigia che – nella prassi assicurativa è una cifra che rimane a carico dell’assicurato ma che l’assicuratore recupera successivamente all’esborso finale eventualmente effettuato in favore del terzo ex art. 1917 c.c. – la SIR è un’area di non assicurazione, al di sotto della quale la polizza non opera. Di fatto l’assicurato che accetta una copertura che preveda una SIR, sostanzialmente sa di contare su un assicuratore di secondo rischio la cui copertura inizierà solamente all’esaurimento della soglia posta a carico dell’assicurato. In ragione di tale previsione contrattuale, nessun rapporto o azione possono legittimamente essere invocati dall’assicurato nei confronti dell’assicuratore al di sotto del “layer” in ritenzione e di conseguenza nessuna gestione dell’assicuratore ex art. 1917 c.c. dei rapporti con il terzo danneggiato può avere luogo, poiché ciò che resta nella SIR non è di interesse per la polizza, così come nessun obbligo di denuncia di sinistro ai fini della prescrizione scatta ex art. 2952 c.c. La creazione di differenti momenti di coinvolgimento e di differenti centri di interessi fra le parti, in virtù dei quali l’assicuratore – che prima partecipava con l’assicurato nell’interesse a che il sinistro non avesse mai a verificarsi4 – auspica ora che il medesimo sinistro, qualora abbia ad avverarsi, sia economicamente contenuto nel suo ammontare all’interno e nei limiti della soglia di auto-ritenzio-
Assicuratore e assicurato hanno entrambi interesse – poco importa se con motivazioni interne opposte – a che il sinistro non si avveri; per convincersi che si tratta di un principio ben radicato nel diritto basta pensare che il comportamento antigiuridico dell’assicurato che contravviene dolosamente agli obblighi legali (art. 1914 c.c.) e convenzionali di salvataggio (allargati a quelli che sovrintendono all’obbligatoria attività di prevenzione degli infortuni) è sanzionato, nell’assicurazione contro i danni, con la perdita o la riduzione dell’indennità (art. 1915 c.c.) laddove i costi degli interventi (meritori quanto obbligatori) dell’assicurato per evitare o diminuire i danni sono a carico dell’assicuratore “in proporzione del valore assicurato rispetto a quello che aveva al tempo del sinistro, salvo che l’assicuratore provi che le spese sono state fatte inconsideratamente” (art. 1914 c.c.).
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ne dell’assicurato e – quindi – al di sotto della propria area quantitativa di coinvolgimento. La questione appare purtroppo quanto mai seria in termini pratici tenuto conto che i sinistri in sé non hanno e mai potranno avere una certa e predefinita valutazione quantitativa se non allorché vengano “pagati”, essendo il loro valore il risultato di un accertamento giudiziale passato in giudicato, tale da trasformarli in crediti liquidi certi ed esigibili, oppure di una trattativa fra le parti nel corso della quale numerose dinamiche, tecnico giuridiche ma anche economiche e/o relazionali, entrano in gioco ed influenzano in modo determinante l’esito finale. Sicché la rigida e matematica divisione fra le due differenti aree di interesse si è di fatto rivelata una micidiale trappola per le reciproche aspettative e, soprattutto, per il mercato e per la tutela del danno alla salute. La criticità che influenza la liquidazione dei danni si rivela in taluni comportamenti di aziende sanitarie pubbliche che – liberatesi del “peso” dell’assicuratore e delle sue decisioni – si trovano improvvisamente a dover assumere decisioni concrete sul merito dei sinistri (Pagare o no il terzo? E se sì, quanto pagare? E deciso quanto pagare, quando farlo?) che inevitabilmente comporteranno conseguenze con la Corte dei Conti in tema di rivalsa per danno erariale o perché si è pagato quanto non si doveva o perché si è aperta con il pagamento la porta di una rivalsa verso il medico che con la sua colpa grave tale definizione ha reso necessaria. E non si dica né si pensi che tanto c’è una specifica copertura assicurativa a riguardo perché, purtroppo, non è sempre così alla prova dei fatti. Sicché talvolta accade che talune realtà ospedaliere siano più efficienti di altre nel muoversi fra queste nuove problematiche5: purtroppo occorre evidenziare che per quelle che lo sono meno, il rischio che per timore nessuna decisione venga presa lasciando che per ogni claim si formi un giudicato che liberi da responsabilità il funzionario demandato alla gestione dei sinistri, è purtroppo frequente.
Ovviamente laddove l’assicurazione copriva o copra senza aree di non assicurazione nessun danno erariale si verifica con il pagamento di un sinistro e quindi tali problemi vengono risolti alla radice.
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In queste situazioni, alla luce di una soglia di auto ritenzione del rischio vi è una evidente difficoltà nell’individuazione di un momento certo e condiviso fra le parti, dal quale poter ritenere che sussista l’interesse alla gestione esclusiva dell’uno a scapito di quello dell’altro. L’assicuratore infatti in genere ha interesse ad occuparsi della gestione di un sinistro anche se di valore potenzialmente inferiore alla soglia economica di proprio coinvolgimento (es. domanda risarcitoria del terzo per € 250.000 a fronte di una SIR di € 300.000) nel timore che, una gestione dell’assicurato di un soggetto non tecnicamente attrezzatissimo alla gestione dei sinistri, possa determinare una lievitazione del costo finale tale da interessare il proprio portafoglio. Ciascun sinistro ha un’area grigia di possibile oscillazione all’interno della quale gli interessi delle due parti sono in totale conflitto (l’assicuratore ha convenienza ad una rassicurante transazione al di sotto della SIR, l’assicurato invece ha interesse a giocarsi tutte le carte possibili sapendo che, comunque, il proprio coinvolgimento non potrà mai superare la medesima SIR). E cosa fare se l’assicurato, alla luce del suo maggiore coinvolgimento economico in sede di pagamento del danno per essere la gran parte dell’esborso di poco superiore alla SIR (immaginiamo che l’ipotetica transazione risulti pari ad € 270.000 a fronte della già citata SIR di € 300.000) negasse il proprio consenso preferendo una strenua difesa della propria posizione in punto responsabilità, certo alla peggio di avere un aggravio di soli € 30.000 (cioè la differenza fra SIR e liquidato)? E se, a seguito di tale rifiuto, si instaurasse un contenzioso giudiziale con esito negativo per l’assicurato ed una condanna a suo carico per una cifra pari al doppio della SIR, quali obiezioni potrebbe sollevare l’assicuratore a termini di polizza? Quali chance potrebbe avere il suo tentativo di limitare il proprio coinvolgimento a quei soli € 30.000 inizialmente proposti che – aggiunti alla SIR pagata dall’assicurato – sarebbero stati sufficienti per perfezionare una transazione con il terzo danneggiato? Come dovrebbe essere valutato in termini di buona fede fra le parti l’atteggiamento di un assicurato che scelga di giocarsi tutte le proprie carte difensive nella certezza che Responsabilità Medica 2019, n. 2
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nella peggiore delle ipotesi la maggior condanna sarebbe comunque gravata sull’assicuratore? Sono tematiche già affrontate6 ma che sembrano ad oggi non aver trovato una sufficiente attenzione. Le compagnie di assicurazione, come qualsiasi operatore, hanno a volte commesso errori che comunque hanno pagato con i loro bilanci, mentre gli errori che vi saranno li pagherà la collettività nella duplice veste di contribuenti – che vedono incrementare il costo dei sinistri dal trascorrere del tempo – e di cittadini lesi, che vedono rimandare indefinitamente la tutela del loro diritto alla salute. Né sembra essere stato sufficientemente evidenziato quanto difficile stia diventando proprio l’accesso a tale tutela, alla luce del costo del diritto alla difesa che, inevitabilmente, lievita insieme agli anni ed ai gradi di giudizio.
3. La questione Corte dei Conti: il sistema inquisitorio e la sua nefasta influenza sulla tutela del danno alla salute Forse la più grave delle innumerevoli carenze di questa brutta legge risiede nel non avere disciplinato il tema della rivalsa della Corte dei Conti, non avendone compreso il ruolo chiave (in senso negativo) sul funzionamento del sistema. Il cambiamento epocale determinato dall’entrata a pieno regime delle SIR ha segnato un passaggio decisivo anche in tema di rivalsa della Corte dei Conti per danno erariale indiretto dal momento che, se in presenza di una copertura assicurativa le ipotesi di danno erariale cagionato dal dipendente pubblico in ambito di responsabilità professionale potevano di fatto limitarsi ai casi di pagamenti effettuati dalla compagnia nei limiti della franchigia di polizza, in ambito di autoassicurazione dette ipotesi si espandono potenzialmente a tutti i casi di medical malpractice con conseguente sindacabilità da parte del Giudice contabile dell’intero funzionamento della struttura pubblica e di tutte le prestazioni rese.
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Partenza, ibidem.
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L’auto ritenzione del rischio comporta inevitabilmente la gestione delle pretese risarcitorie dei terzi con la conseguente necessità di dotarsi, nell’ordine, di una efficace procedura di acquisizione delle informazioni attinenti la vertenza in fieri, di capacità di valutazione delle eventuali responsabilità civilistiche nell’ottica dei più recenti orientamenti giurisprudenziali dell’autorità giudiziaria ordinaria, di competenze nella valutazione dei necessari accantonamenti (per ciascuna posizione ma anche per l’intero complesso delle fattispecie risarcitorie pendenti) in vista dei potenziali futuri esborsi risarcitori nonché ovvie – ma ahimè forse un po’ trascurate – di competenze negoziali per la migliore valorizzazione delle posizioni in punto an e quantum dei soggetti pubblici coinvolti. La giurisdizione della Corte dei Conti non può non estendersi per tali ragioni anche al controllo circa le modalità attraverso le quali l’interesse pubblico viene tutelato nell’esercizio di queste nuove funzioni/competenze: si definisce pertanto un nuovo perimetro entro il quale la stessa Magistratura contabile è chiamata conseguenzialmente a valutare e verificare nuove ipotesi di responsabilità così come a tener conto delle implicazioni sul pubblico erario di scelte e comportamenti gestionali fino ad ora ritenuti irrilevanti. La decisione di privilegiare una soluzione transattiva a fronte di richieste risarcitorie ingenti comporta una assunzione di responsabilità circa le modalità di esecuzione di quel giudizio prognostico ex ante che ciascun negoziatore pone in essere prima di approcciarsi alla propria controparte ma che nella prassi è quanto mai raro incontrare. La singolarità, tuttavia, della nuova figura di “claim manager” o i nuovi compiti affidati al responsabile dell’ufficio legale di una azienda sanitaria, dovrebbe consistere proprio nel fatto che le sue nuove mansioni riguardano anche la necessità di effettuare un giudizio prognostico ex ante su come il giudice civile potrebbe valutare un determinato comportamento o determinate prestazioni rese dall’azienda nel suo complesso, giudizio che ovviamente nulla avrà a che vedere con quello che il giudice contabile dovrà effettuare sulla stessa fattispecie. Il tema diviene tuttavia un po’ più complesso allorché si prende atto che nessun danno erariale potrà mai configurarsi fintanto che il “claim ma-
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nager” non avrà liquidato un risarcimento al danneggiato oppure fino a quando non vi sarà stata una sentenza di condanna da parte di un giudice civile con conseguente configurabilità di un danno indiretto per l’erario. In questo senso appare pressoché evidente perché il controllo contabile si estenda inevitabilmente anche all’operato del “claim manager” e quindi sia ad una transazione effettuata con il terzo reclamante sul presupposto rivelatosi errato di una responsabilità civile dell’azienda sanitaria (possiamo oramai prescindere dall’utilizzo del termine “colpa medica”), sia al costo processuale di un giudizio (e perché no anche per la più aspra condanna rispetto ad una documentata possibilità transattiva) conseguente ad un atteggiamento inerte dello stesso “claim manager”. A ben poco in tale ultimo caso potrebbe infatti giovare l’argomentazione della non rinvenuta colpa grave del medico, posto che la maggior condanna dell’erario si fonderebbe su una differente valutazione fatta dal giudice civile i cui ben noti criteri valutativi il pubblico funzionario avrebbe con colpa (forse grave) ignorato. Ciò che si vorrebbe evidenziare è che se il danno all’erario deriva da un risarcimento al quale l’azienda sanitaria è stata in qualche modo costretta ad ottemperare, un pregiudizio alla Pubblica Amministrazione può conseguire sia da una errata transazione che da un mancato accordo riferibili al “claim manager” il cui operato dovrà essere oggetto di sindacato da parte della Corte dei Conti che inevitabilmente non potrà prescindere da quei criteri civilistici eventualmente trascurati in maniera colposa dal dipendente nella sua valutazione. Il “claim manager” dovrebbe essere chiamato ad un giudizio prognostico anticipando la decisione del giudice civile e ricercando, esattamente come farebbe il liquidatore di una virtuosa compagnia di assicurazione che abbia assunto il rischio di responsabilità civile della sua azienda, eventuali convenienti soluzioni transattive con i reclamanti, anche ricorrendo agli strumenti di ADR messi a disposizione dal legislatore ed evitando pagamenti improvvidi ma anche dannose ed ostruzionistiche difese. Tale giudizio prognostico dovrebbe essere valutato dal giudice contabile tenendo conto delle difficoltà per il dipendente di prevedere l’esito del
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procedimento futuro, sicché il controllo contabile dovrebbe mirare ad una valutazione sull’operato del liquidatore pubblico con riferimento a ciò che in quel momento appariva la scelta più protettiva del denaro pubblico. Questo nella teoria: nella pratica la Corte dei Conti non pare abbia fino ad ora inteso sanzionare ritardi transattivi, opportunità negoziali trascurate ma forte rimane la pressione affinché qualsiasi decisione di pagamento sia la conseguenza di una sentenza passata in giudicato… esattamente ciò che il Legislatore intendeva evitare e quindi, le SIR, gli ATP ex art. 696 bis c.p.c. e le ADR a che servono? I Comitati di valutazione sinistri guardano alle transazioni come un gatto guarda il temporale poiché sanno che un esborso transattivo stragiudiziale comporterà o un sindacato da parte del Giudice contabile nei suoi confronti o le accuse del collega medico che si veda colpevolizzato dal suo datore di lavoro prima della pronuncia giudiziale… non c’è che dire, un bel cul de sac. Gli approcci inquisitori o colpevolisti del giudice contabile quindi, nella prassi, incentivano sovente comportamenti potenzialmente strumentali ai quali segue un danno per l’erario e soprattutto una giustizia ritardata in favore dei pazienti: chi ritiene che la tutela dei diritti possa avere luogo solo in sede giudiziale dimentica che il processo civile è patologia, mentre l’accordo transattivo fra le parti, magari anche accompagnato da un ripristinato equilibrio emotivo, è la fisiologia delle dinamiche umane alle quali il legislatore ha riconosciuto “forza di legge” ex art. 1372 c.c. già nel 1942. Su queste tematiche la Legge Gelli purtroppo è totalmente assente, sicché non è un caso che i consensi le arrivino con il contagocce da chi frequenta le aule di giustizia.
4. L’ATP conciliativo ex art. 696 bis c.p.c. ed il ruolo dei consulenti tecnici: unicuique suum In realtà questa legge, al di là dei risvolti tecnico giuridici, segna di fatto un punto di svolta nella prassi per quanto riguarda il tema della tutela del danno alla salute, svolta che si manifesta in contrasto con i principi costantemente enunciati dalla Suprema Corte e che va molto al di là della defiResponsabilità Medica 2019, n. 2
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nita natura extracontrattuale della responsabilità del medico ospedaliero o dipendente. Il mal celato pre-giudizio del Legislatore, che ha ingiustamente visto – non bisogna temere di affermarlo – nella classe forense la responsabilità di un proliferare di cause giudiziali, quando invece esso dipende in gran misura da un vero e proprio contenzioso difensivo ingenerato dalla appena ricordata incombenza dell’azione per danno erariale, ha poi prodotto la diffusione di quell’ATP ex art. 696 bis c.p.c. come condizione di procedibilità, che non pochi problemi di compatibilità con i principi processuali generali del nostro ordinamento sta provocando. Occorre a questo proposito sgombrare il campo proprio dai pre-giudizi sottesi alla lettura del fenomeno della cosiddetta malpractice e prendere atto della frequente erosione nella quotidianità giudiziale dei principi che negli ultimi trent’anni hanno regolato il funzionamento della responsabilità civile e di quelli – pienamente condivisi da chi scrive – che la Suprema Corte costantemente ricorda nelle sue pronunce. La comprensibile esigenza di ridurre il volume del contenzioso giudiziale in ambito malpractice spinge sempre più nella direzione di una sostanziale “devoluzione” della giustizia in chiave semi arbitrale, ove il ruolo sempre più preponderante viene svolto da chi ha la custodia delle competenze tecnico medico legali, ma non giuridiche. L’applicazione, quindi, dei principi di diritto enunciata dalla Suprema Corte diviene nella quotidianità giudiziale più fragile, essendone di fatto affidata l’applicazione pratica ad operatori del mondo sanitario che, seppur specializzati in medicina legale, hanno talvolta un approccio penalistico che risulta deleterio per il processo civile. Né mancano peraltro CTU che talvolta orientano le proprie rilevazioni con riletture della compensatio lucri cum damno, degli oneri probatori e dell’impossibilità contrattuale a sé non imputabile ex art. 1218 c.c., forse non sempre con piena ed approfondita contezza del secolo di dibattiti della scienza giuridica su tali istituti7.
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Il dibattito sull’adempimento estintivo dell’obbligazio-
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Non si guardi a tale argomentazione come ad una sterile guerra fra mondi – quello giuridico e quello medico legale – perché così non è, né deve essere. Il ruolo medico legale e specialistico è, e sempre resterà, fondamentale, anche alla luce della natura spesso percipiente dell’accertamento tecnico8, però si ritiene opportuno operare dei distinguo rispetto ad una situazione con forti connotazioni di incertezza e confusione. Occorre in primo luogo ricordare che il ruolo del consulente tecnico è quello di interprete specialistico delle prove esistenti in atti, che trova la sua intrinseca giustificazione nell’impossibilità per il
ne, nella sua concezione soggettiva, focalizzata sulla colpa nell’adempimento e quella oggettiva parametrata al risultato ha anche in Italia radici antiche: si ricorda per la teoria soggettivistica Coviello, Del caso fortuito in rapporto alla estinzione delle obbligazioni, Lanciano, 1895, 55 ss.; mentre per quella oggettivistica notoriamente Osti, del quale, fra i molti scritti al riguardo, si ricorda: La revisione critica della teoria sulla impossibilità della prestazione, in Riv. dir. civ., 1918, 209 ss. Sulla compensatio lucri cum damno ed al conseguente dibattito si rimanda a Visintini, Inadempimento delle obbligazioni, nel Trattato dir. priv., diretto da Rescigno, IX, Obbligazioni e contratti, a cura di Visintini et al., Torino, 1999, 207, 263, e Franzoni, Il danno al patrimonio, Milano, 1996, 159. Più di recente si segnala anche Izzo, La compensatio, «principio» che non vuol morire, in Resp. civ. e prev., 2012, 1738, che evidenzia i numerosi casi nei quali essa è stata ritenuta non applicabile dalla Suprema Corte. Per una colta e approfondita analisi – anche comparatistica e storica – dell’istituto si segnala l’autorevole ed importante monografia di Izzo, La “Giustizia” del beneficio – Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Trento, 2018; Partenza, il cumulo di indennizzo e risarcimento e la compensatio lucri cum damno, in questa Rivista, 2018, 401. “Il giudice può affidare al consulente tecnico non solo l’incarico di valutare i fatti da lui stesso accertati o dati per esistenti, ma anche quello di accertare i fatti stessi. Nel primo caso, la consulenza presuppone l’avvenuto espletamento dei mezzi di prova e ha per oggetto la valutazione di fatti i cui elementi sono già stati completamente provati dalle parti; nel secondo caso la consulenza può costituire essa stessa fonte oggettiva di prova, senza che questo significhi che le parti possono sottrarsi all’onere probatorio e rimettere l’accertamento dei propri diritti all’attività del consulente. In questo secondo caso è necessario, infatti, che la parte quanto meno deduca il fatto che pone a fondamento del proprio diritto e che il giudice ritenga che il suo accertamento richieda cognizioni tecniche che egli non possiede o che vi siano altri motivi che impediscano o sconsiglino di procedere direttamente all’accertamento.” Cass.,14.3.2016, n. 4899, in Guida al dir., 2016, 52 ss.
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Magistrato di conoscere aspetti talvolta minuziosamente tecnici e complessi. La consulenza tecnica tuttavia, e su questo si ritiene non possa che esserci un consenso universale, non può diventare un outsourcing della giustizia o un ADR ante litteram nel quale esperti del settore decidono sulle conseguenze giuridiche delle circostanze accertate, come in un arbitrato irrituale di una polizza infortuni fra assicurato ed assicuratore. E se la consulenza tecnica d’ufficio nell’ambito di un procedimento civile non può essere né esplorativa, né può valutare ed accertare fatti non provati o non portati nel processo dalle parti, così anche tale regola processuale e di buon senso dovrebbe valere per gli ATP conciliativi, se non altro perché quanto dovesse essere accertato nel corso degli stessi verrebbe automaticamente e, diremmo, surrettiziamente introdotto nel processo secondo il rito sommario dell’art. 702 bis c.p.c. In questa centralità di ruolo della medicina legale, non si può sottacere, in taluni casi, una certa visione “penalistica” dei consulenti tecnici, che con le migliori intenzioni si muove all’accertamento dei fatti in una logica tutta centrata sull’art. 1176 c.c. e molto poco sull’art. 1218 c.c., e ciò costituisce un grave pericolo per il sistema responsabilità civile. Proprio questa logica da “coroner” che spinge taluni CTU a superare gli ostacoli e le incertezze derivanti da carenze probatorie (che nel diritto civile hanno un preciso significato e sono poste a carico dell’una o dell’altra parte secondo un preciso schema distributivo, precisato dalle Sezioni Unite della Suprema Corte con la nota sentenza n. 577/2008) e che la Legge Gelli ha di fatto incentivato anteponendo al giudizio civile un pre arbitrato, appare una minaccia al sistema di responsabilità civile per come mirabilmente descritto dalla Suprema Corte. Altrettanto si può dire del CTU che si assume il compito della proposta conciliativa al termine dell’ATP, laddove il Magistrato non abbia fissato un’udienza per dibatterne l’esito. Né tale spostamento verso improprie ed indirette forme di implicite di ADR può costituire lo strumento di riduzione del contenzioso giudiziale, perché non sono gli avvocati a determinare il volume del contenzioso: una delle ineludibili considerazioni di fatto appare infatti essere quella
secondo la quale non si è mai visto un avvocato iniziare una causa civile contro la volontà del proprio cliente, mentre è assai più frequente che – soprattutto per quanto riguarda gli eventi economicamente più rilevanti – l’insufficiente velocità di liquidazione, ovvero la prontezza nell’attuare la tutela del danno alla salute, di enti sanitari o loro assicuratori, si manifesti come l’esasperata causa della lite giudiziale9. Se la soluzione doveva provenire dallo strumento dell’ATP ex art. 696 bis c.p.c., è forse opportuno sollevare un alert circa la sua effettiva efficacia ed il rischio, non di rado resosi attuale, di una erosione di fatto – ove non soggetto a rigoroso controllo – di ineludibili principi regolatori del processo e della responsabilità civili. Non si può non evidenziare, invece, quanto la finalità conciliativa di tale ATP nasconda pericolosi cavalli di Troia, che potrebbero ingannare il Giudice di merito nell’applicazione quotidiana dei principi enunciati dalla Suprema Corte. Da un lato, infatti, tale finalità conciliativa sembrerebbe non soltanto compatibile, ma persino orientata ad una pronta tutela del danno alla salute, dall’altro la prassi non sembra abbia ad oggi fatto emergere un’esplosione numerica di transazioni conciliative né sia effettivamente rilevabile quanto tempo la “CTU anticipata” consenta effettivamente di risparmiare nel raggiungimento di un risultato finale. A ciò si aggiunga che proprio tale finalità conciliativa, unitamente alla obbligatorietà di tale procedura, diviene una modalità per affidare a periti medico legali decisioni e valutazioni di natura giuridica che devono rimanere di competenza della Magistratura. In questo senso non di rado si scorgono casi di ATP conciliativi per questioni attinenti all’adegua-
La questione mediatica della neonata danneggiata nel corso del parto per la quale un assicuratore anela ad ottenere una riduzione del danno riconosciuto in sede di provvisionale penale, al di là della inevitabile complessità della materia e delle sicure ragioni da una parte e dall’altra che non dovrebbero trovare trattazione in un social o nei media, appare comunque sintomatico di una implicita preventiva resistenza ad un pieno riconoscimento del danno alla salute per come valutato in sede giudiziale.
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tezza del consenso, o comunque con caratteristiche esplorative che in un giudizio di merito non avrebbero probabilmente portato alla concessione di una CTU. E del resto, allorché le questioni sono soltanto giuridiche, davvero non si sa come si potrebbe farne a meno, posto che l’alternativa del tentativo di mediazione non soltanto ha funzioni e caratteristiche differenti, sebbene inspiegabilmente il Legislatore abbia ritenuto di equiparare i due istituti, ma certo non consente un approfondimento su tematiche giuridiche, ove presenti e magari esclusive. Sicché la strada pare obbligata nel proporre un ATP conciliativo anche qualora – e si pensi, ad esempio, al tanto conclamato tema del consenso informato – non si vorrebbe che tale valutazione fosse lasciata al mondo medico legale. Ciò che si vuole intendere è che occorre una costante immanenza da parte dei Giudicanti affinché l’accertamento della misura e dell’adeguatezza dell’adempimento – allorché è coinvolta la responsabilità contrattuale – avvenga sulla scorta dei principi elaborati dalla Suprema Corte e non su singole specifiche valutazioni circa i profili colpevolistici dei medici coinvolti. Perché ciò accada occorre che tutti gli operatori del settore tengano bene a mente che il processo non è dei Giudici né dei medici o degli avvocati ma sempre e soltanto delle parti: delle parti è la richiesta di giustizia e delle parti il potere dispositivo delle prove. Ed in questo senso ancor più importante è che vi sia una sistematica ed attenta vigilanza sugli accertamenti “allo stato degli atti”, quelli cioè possibili sulla scorta delle prove fornite e non delle prove cercate o valutate: nel nostro ordinamento la valutazione delle conseguenze giuridiche dei fatti non spetta al consulente ma al giudice. Se questo richiamo appare ovvio, chi scrive se ne rallegra, perché vuol dire che chi legge non ha mai avuto occasione di sperimentare il contrario. Se, invece, la verifica circa l’applicazione dei principi di diritto viene demandata al solo vaglio della Suprema Corte o al Giudice di Appello, lasciando al primo grado una valutazione sui fatti non sufficientemente “vigile” rispetto alle conclusioni della Consulenza percipiente, si affida la tutela dei diritti soltanto a chi ne sia in grado di sostenerne i costi. Responsabilità Medica 2019, n. 2
Saggi e pareri
In questa ottica la vigilanza, o se si preferisce la condivisa gestione dei differenti ruoli, acquistano rilevanza particolare due macro fenomeni, ovvero l’accertamento del nesso causale e gli oneri probatori nell’ambito dei principi di diritto sanciti dalla Suprema Corte, anche con riferimento al differente profilo della colpa civile e penale10. Sotto il profilo del nesso causale occorre sottolineare che quanto mai opportunamente la Suprema Corte abbia chiarito che proprio la natura “qualificata” dell’adempimento, che parte attrice deve allegare, richiede l’allegazione del nesso causale fra inadempimento presunto e fatto, e che
Con riferimento alla natura autonoma della responsabilità contrattuale della struttura sanitaria – autonoma, lo si ripete, dall’esistenza di una specifica colpa del proprio personale o dei propri ausiliari – Le Sez. Un. hanno evidenziato che “[…] Da ciò consegue l’apertura a forme di responsabilità autonome dell’ente, che prescindono dall’accertamento di una condotta negligente dei singoli operatori, e trovano invece la propria fonte nell’inadempimento delle obbligazioni direttamente riferibili all’ente”. Ricorda a questo proposito mirabilmente la Supr. Corte – che ha cassato con rinvio una sentenza della Corte d’Appello di Roma per avere impropriamente applicato gli effetti del giudicato penale ai fini civili della valutazione della responsabilità dei convenuti – che, con pronuncia del 21 aprile 2016, n. 8035, “[…] si è da questa Corte costantemente posto in rilievo come sia ormai da tempo tramontata la concezione etica della responsabilità civile informata sulla concezione psicologica della colpa, propria invero del diritto penale, rilevando essa (non solo nell’adempimento delle obbligazioni ma anche nei comuni rapporti della vita di relazione: cfr. Cass., 27 agosto 2014, n. 18304, e, da ultimo, Cass., 20 febbraio 2015, n. 3367; Cass., 8 maggio 2015, n. 9294) in termini di colpa obiettiva, e cioè quale violazione del modello di condotta cui il debitore del rapporto obbligatorio e il soggetto dei comuni rapporti della vita di relazione sono tenuti ad improntare la propria condotta (v. sent. Cass., 27/10/2015, n 21782; Cass., 20 febbraio 2015, n. 3367; Cass., 8 maggio 2015, n. 9294; Cass., 27 agosto 2014, n. 18304); in altri termini, quale violazione dello sforzo diligente dovuto in relazione alle circostanze del caso concreto adeguato ad evitare che la prestazione di adempimento o il comportamento da mantenersi arrechino danno (anche) a terzi (cfr. Cass., 6 maggio 2015, n. 8989; e, in diverso ambito, Cass., 20 febbraio 2006, n. 3651). Con particolare riferimento al nesso di causalità è d’altro canto noto che, mentre nel processo penale vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, in materia civile opera la diversa regola della preponderanza dell’evidenza o del “più probabile che non” (v. Cass., Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 576; Cass., 16 ottobre 2007, n. 21619)” Cass., 21.4.2016, n. 8035, in Guida al dir., 2016, 38 ss. 10
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spetta invece al convenuto la prova, non soltanto materiale ma anche giuridica, dell’impossibilità a sé non imputabile ex art. 1218 c.c.11. Dovrebbe quindi essere compito del Giudice – sulla scorta di tale principio di diritto – non ammettere ATP conciliativi che non siano sufficientemente giustificati – in sede di ricorso – sotto il profilo di una credibile e realistica sussistenza di un astratto nesso causale (si ribadisce il concetto di astrattezza in quanto si può ritenere provato solo ciò che sia stato oggetto di accertamento e non di sola mera pretesa), ed al tempo stesso vigilare – anche attraverso la formulazione del quesito – affinché lo stesso accertamento non esorbiti da valutazioni tecniche entrando nel merito delle conseguenze giuridiche di quanto accertato (ad esempio l’efficacia probatoria di un documento in atti, l’adeguatezza del consenso, l’impossibilità ad adempiere se sostanziatasi in comportamenti giuridicamente o meno doverosi, le valutazioni sulla responsabilità fondate su valutazioni di prove o di dichiarazioni oggetto di accertamento giudiziale). L’altro aspetto riguarda proprio il nesso causale e questo è argomento quanto mai delicato e sensibile stante la rilevanza giuridica dello stesso ed il precipuo compito della medicina legale di verificare i nessi causali. Come muoversi, dunque, in un ATP conciliativo dal quale molto dipenderà delle sorti del giudizio ed al quale la Legge Gelli ha così tanto conferito potere? E quale ruolo dare alla valutazione della diligenza nell’adempimento ex art. 1176 c.c. che nel concreto di una consulenza tecnica, finisce per essere oggetto di influente discernimento da parte del medico legale? E quale ruolo per il tema della prevedibilità? L’esigenza primaria, in merito alla quale chi scrive pensa che occorra un consenso comune di giuristi e medici legali, appare essere la salvaguardia di un patrimonio conoscitivo ormai acquisito, anche grazie all’analisi economica del diritto, che vede
Cass., 26.7.2017, n. 18392, in questa Rivista, 2017, 527, con nota di Nucci, La distribuzione degli oneri probatori nella responsabilità medica: “qualificato inadempimento” e prova del nesso causale. 11
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nel concetto di responsabilità civile qualcosa di profondamente diverso dalla colpa penalistica. Come ricordato in altre occasioni, responsabilità nel nostro vocabolario ha una duplice accezione: potere su una sfera operativa a sé affidata e soggezione ad un giudizio in caso di conseguenze dannose derivanti dal cattivo esercizio di tale governance. Si può essere responsabili di un settore, di un dipartimento, di un laboratorio, di un reparto, di una sezione di un Tribunale ed essere responsabili civilmente per avere provocato danni avendo male esercitato le proprie responsabilità. È altresì patrimonio comune del mondo giuridico che i criteri di precauzione e di prevenzione altro non sono che la declinazione di tali accezioni della responsabilità. La responsabilità civile ha da molti anni superato i ristretti confini dell’atto illecito ed in qualsiasi settore di esplicazione dell’operato umano non si può prescindere da quella valutazione costi/benefici dell’operato e costi/benefici della prevenzione, che altro non è che l’evoluzione dell’antico brocardo “cuius commoda eius atque incommoda”. Le zone grigie che inevitabilmente si presentano nella responsabilità sanitaria devono tassativamente trovare la loro interpretazione nell’ambito della rigorosa ripartizione degli oneri probatori sanciti dalla Suprema Corte che vedono porre a carico dell’attore l’allegazione dell’astrato qualificato inadempimento e la prova (ovviamente non definitiva, non potendo l’attore essere anche Giudice di se stesso) del nesso di causalità materiale fra inadempimento e fatto, mentre spetta al convenuto – come noto – la prova del corretto adempimento o quella dell’impossibilità dovuta ad una causa a sé non imputabile. La CTU non è una CT penale che deve chiarire oltre ogni ragionevole dubbio la fondatezza di un’ipotesi accusatoria, né deve ritenersi tenuta a chiarire ciò che le parti non son riuscite a documentare in atti. L’onere del convenuto non può e non deve essere interpretato diversamente da quanto l’interpretazione letterale dell’art. 1218 c.c. impone, ovvero non basta che la causa non sia imputabile al convenuto, ma occorre che vi sia una impossibilità che a sua volta dipenda da una causa non impuResponsabilità Medica 2019, n. 2
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tabile al convenuto: le due espressioni non sono affatto identiche. La prova di tale impossibilità grava sul convenuto come in qualsiasi ipotesi di responsabilità contrattuale che, anzi, in altri settori della responsabilità civile assurge a vere e proprie forme di responsabilità oggettiva. In questo senso i concetti di imprevedibilità ed inevitabilità citati dalla Suprema Corte nella citata pronuncia n. 18392/2017 altro non sono che l’espressione in chiave medica di quel caso fortuito che è di per sé sempre elusivo del nesso causale. Per tale ragione imprevedibilità ed inevitabilità non possono mai essere utilizzati in chiave soggettiva in quanto, in tal caso, ci si troverebbe a trattare del tema della colpa e non del nesso causale o della oggettiva impossibilità ad adempiere. Nell’ambito di questi principi, che ciascun operatore del diritto dovrebbe considerare con più cura di quanto il popolo di Mosè fece con i dieci comandamenti, non c’è posto per volenterosi ma biasimevoli tentativi di ricerca della verità oggettiva o di quella che appare tale: chi accetta di operare nel mondo del diritto ne accetti anche i fondanti principi democratici, in virtù dei quali quod non est in actis non est in mundo. È probabilmente tempo di una fratellanza operativa fra giuristi e medici legali dove i medici legali, tuttavia, devono dividersi – come fanno gli avvocati – fra chi desidera seguire il diritto penale e chi il diritto civile, poiché la scelta fra i due settori diviene fondante sotto il profilo degli automatismi di ragionamento che, assolvendo a funzioni ed esigenze sociali differenti, non potranno mai essere fra loro fungibili. Tale fratellanza dovrebbe portare – sia consentita questa provocatoria illusione – ad una radicale riscrittura della Legge Gelli, magari in occasione del suo terzo compleanno, magari prima, finalizzata: - ad una totale deresponsabilizzazione del mondo medico nei confronti del paziente, secondo
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i modelli no fault già proficuamente in uso in altri Paesi12; - ad una assicurazione (sul modello indennitario) del paziente per tutti i risultati negativi conseguiti a seguito delle cure ricevute con parallelo diritto di rivalsa dell’assicuratore in casi di colpa grave dell’operatore o del manager ospedaliero; - ad una eliminazione del sindacato della Corte dei Conti in tema di danno erariale per i casi di medical malpractice, espressione di un approccio colpevolista e sanzionatorio realmente contaminante delle logiche di un moderno sistema no fault; - ad una funzione totalmente residuale del diritto penale affidato a casi di dolo o di colpa aggravata dalla previsione dell’evento. In un siffatto sistema si ridurrebbero drasticamente il contenzioso civile, le consulenze tecniche, le estenuanti e snervanti attese dei danneggiati che rivivono mille e mille volte un trauma psichico prima ancora che fisico, si guarirebbe l’angoscia che ingiustamente i medici provano nel dover affrontare ogni giorno il rischio di andare in rovina economicamente per aver cercato di fare al meglio un lavoro drammaticamente complesso. Soprattutto sparirebbero dal mercato costi assicurativi gravanti su strutture e professionisti per coperture spesso scarsamente utilizzabili in ragione di clausole assai più discutibili della tanto conclamata claims made clause, come ad esempio secondi rischi per relationem per i quali non sembra essersi ancora sviluppata un’adeguata attenzione. Con queste speranze – probabilmente vane – mi sia consentito di astenermi dall’augurare buon compleanno alla Legge Gelli.
12 Tunesi, La responsabilità per carenze organizzative e strutturali in ambito sanitario: prospettive politico-criminali, in Riv. it. med. leg., 2017, 1375.
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Il contratto di Ulisse. Costruzioni giuridiche e tutela costituzionale del sofferente psichico
g g sa re e a p
Stefano Rossi
Avvocato e Dottore di ricerca nell’Università degli Studi di Bergamo Sommario: 1. Restituire la cittadinanza fuori dal manicomio: un percorso costituzionale. – 2. Per un’interpretazione costituzionalmente orientata della capacità. – 3. Il contratto di Ulisse e le sirene della follia. – 4. La legge n. 219/2017 come dispositivo di tutela del sofferente psichico.
Abstract: Il dibattito in merito al consenso informato ha posto la necessità di ridefinire la relazione terapeutica e il concetto di capacità del paziente di assumere decisioni in ordine alla propria salute. Con questo articolo proponiamo di analizzare il “contratto di Ulisse” o le “direttive psichiatriche anticipate”. Con esse ci si riferisce alle volontà che una persona con disturbi psichici esprime in merito ai trattamenti ai quali vuole o non vuole essere sottoposto nel caso in cui fosse impossibilitato a esprimere il proprio consenso. In tale contesto la questione critica attiene al grado di capacità della persona e alla vincolatività delle direttive anticipate a fronte della necessità di sottoporre la persona a trattamento sanitario obbligatorio. In questo articolo vogliamo mostrare la complessità di tale dibattito, anche in ragione della possibilità di dare applicazione alle disposizioni della recente legge n. 219/2017. The debate on informed consent has put the need to redefine the therapeutic relationship and the concept of the patient’s capacity to take decisions about their health. With this article, we propose to analyse the “Ulysses contract” or “psychiatric advance directives”. It refers to the will that a person with psychic disorders expresses about the treatments for which wishes or does
not wish to be subject to if the time comes when it may be impossible to express consent. In this context, the critical issue is the degree of capacity of the person and the binding of the psychiatric advance directives in the face of the necessity of subjecting the person of the compulsory health treatment. In this article, we want to show the complexity of this debate, also because of the possibility of applying to the provisions of the recent Law 219/2017.
1. Restituire la cittadinanza fuori dal manicomio: un percorso costituzionale La salute mentale, e in particolare la condizione giuridica delle persone affette da malattia mentale, costituisce un osservatorio privilegiato per analizzare e far emergere, con le risorse che la prospettiva costituzionalistica offre, le contraddizioni ancora insite nell’ordinamento, la difficoltà di declinare entro forme di tutela effettiva determinati diritti, ma anche le linee evolutive, nel campo dei diritti civili e sociali, che hanno inteso restituire dignità sociale ai “folli”. Responsabilità Medica 2019, n. 2
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Nell’indagare sullo statuto costituzionale della salute mentale, non è possibile prescindere dalla legge n. 180/1978, che, in Italia, ha realizzato una rivoluzione gentile1, un rovesciamento “copernicano” capace di disintegrare l’istituzione manicomiale, ponendo al centro dell’attenzione la persona, non più identificata con la sua malattia, né ridotta entro il paradigma di una pericolosità solo presunta2. Ma questa legge è, a sua volta, frutto di una storia che si colloca nel «quadro effervescente e inquieto [degli anni ’60 e ’70], pervaso da istanze umanitarie e libertarie, dalla forte tonalità utopica, che foment[arono] l’emergere di un dibattito che assu[nse] i temi legati alla follia come terreno emblematico da cui muovere un’analisi critica e una denuncia intransigente delle diverse istituzioni-simbolo dei meccanismi sociali diretti a realizzare forme di esclusione violenta e di mortificante emarginazione nei confronti dei soggetti deboli»3. Siamo negli anni del «disgelo costituzionale»4, in cui un insieme (irripetibile) di condizioni politiche e sociali5, resero possibile l’avvio di un
Una rivoluzione attraverso cui l’impossibile è divenuto possibile, in cui la liberazione dell’uomo da progetto è divenuto processo, perché – come scriveva Basaglia – «nella nostra debolezza, in questa minoranza che siamo, noi non possiamo vincere perché è il potere che vince sempre. Noi possiamo al massimo convincere e nel momento in cui convinciamo, noi vinciamo cioè determiniamo una situazione di trasformazione» (Basaglia, Conferenze brasiliane, Milano, 2000, 18).
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percorso di riforme volte a superare i residui e le distorsioni del regime fascista, dando piena attuazione alla Carta costituzionale attraverso l’apertura di nuovi spazi di libertà. Entro questa trama si coglie l’ordito dell’azione collettiva dei movimenti di critica all’autoritarismo delle istituzioni e di presa di parola dei soggetti tacitati che, per la prima volta, introdussero nel discorso pubblico istanze prima reiette, dando luogo a forme di pluralismo orizzontale in un sistema istituzionale sino ad allora governato da logiche di pluralismo verticale6. Tale evoluzione culturale e sociale travolse la normativa sui «Manicomi e sugli alienati», legge 14 febbraio 1904 n. 36, ordinata intorno alla centralità dell’ordine pubblico, che, a tal fine, poneva in primo piano il bisogno di tutelare, di salvaguardare la «società dei sani» dai malati di mente, subordinando la cura alla custodia, nella misura in cui la malattia mentale, concepita in termini strettamente biologici, era considerata un dato naturale, incurabile e irreversibile7. L’orientamento della legislazione giolittiana – volto a realizzare forme di controllo sociale e, al contempo, di indirizzo del costume – si desumeva
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Mirabile risulta ancor oggi la descrizione della persona affetta da patologia psichica come «soggetto perduto nel suo corpo, alienato, ristretto nelle sue strutture temporali, impedito di ogni coscienza intenzionale, che si sente posseduto nel silenzio degli sguardi e non ha più in sé alcun intervallo» (Basaglia, Corpo, sguardo e silenzio, in Id., Scritti, 1953-1968. Dalla psichiatria fenomenologica all’esperienza di Gorizia, Torino, 1981, 295 s.).
2
Pescara, Tecniche privatistiche e istituti di salvaguardia dei disabili psichici, nel Trattato di diritto privato, diretto da Rescigno, III, 4, Torino, 1997, 756 s.; in termini interdisciplinari Aa.Vv., “Rivoltare il mondo, abolire la miseria”. Un itinerario dentro l’utopia di Franco Basaglia 1953-1980, a cura di Fiorino, Pisa, 1994, 14 ss. 3
Pizzorusso, Il disgelo costituzionale, in Storia dell’Italia repubblicana, 2, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Torino, 1995, 136 ss. 4
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Ginsborg, Storia d’Italia dal dopoguerra ad oggi, Torino,
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2006, 404 ss.; Revelli, Movimenti sociali e spazio pubblico, in Storia dell’Italia repubblicana, 2, La trasformazione dell’Italia. Sviluppo e squilibri, Torino, 1995. 6 Rodotà, Diritti e libertà nella storia d’Italia. Conquiste e conflitti 1861-2011, Roma, 2011, 98 ss. Come notava lo stesso a. (Alla ricerca della libertà, Bologna, 1978, 17) «il riconoscimento della legittimità dell’aborto, così come di quella dell’obiezione di coscienza e del divorzio, non rispecchia la richiesta di una società civile che pretende di autoregolarsi, prescindendo da ogni struttura pubblica, ma l’aspirazione a una diversa organizzazione democratica dello Stato». Sull’opera di Rodotà si veda i contributi in Focus in ricordo di Stefano Rodotà, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2018, 105 ss. 7 Merlini, Libertà personale e tutela della salute mentale: profili costituzionali, in Dem. e dir., 1970, 61 ss.; Bruscuglia, Infermità di mente e capacità di agire. Note critiche e sistematiche in relazione alla legge 18 marzo 1968, n. 431, Milano, 1971, 8 ss.; Bruscuglia, Busnelli, Galoppini, Salute mentale dell’individuo e tutela giuridica della personalità, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 1973, 661 ss.; Vecchietti, Salute mentale e riforma sanitaria, Milano, 1983, 2 ss.; Rossi, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, Milano, 2015, 187 ss.
Tutela costituzionale del sofferente psichico
dalle stesse condizioni atte a legittimare l’internamento in manicomio, disposto ordinariamente dal procuratore e, in caso di urgenza, dall’autorità di pubblica sicurezza, ovvero la pericolosità per sé o per altri o l’ingenerare pubblico scandalo di soggetti che non potessero essere custoditi e curati convenientemente al di fuori del manicomio. All’internamento, prima provvisorio e poi definitivo, scandito da un rigido meccanismo processuale8 seguiva la spoliazione della persona dei suoi diritti fondamentali, prima attraverso l’automatica interdizione (ex art. 420 c.c.), quindi con la sospensione dal diritto di voto e infine attraverso l’imposizione dello stigma concretato dall’iscrizione nel casellario giudiziario, ai sensi dell’art. 604, n. 2, c.p.p., del provvedimento di internamento in manicomio9. Dopo l’entrata in vigore della Costituzione10, la transizione verso il superamento del finalismo custodialistico vide una prima affermazione con la legge 18 marzo 1968, n. 431, intitolata «Provvidenze per l’assistenza psichiatrica», il cui merito principale è stato quello di restituire la malattia mentale alla medicina, nell’intento di eliminare dall’ospedale psichiatrico ogni traccia della sua funzione repressiva, consentendo altresì il ricovero volontario come espressione realizzata di un diritto alla salute prima negato ai malati di mente. Alla base del mutamento vi è, senza dubbio, anche una rinnovata concezione della malattia mentale11 – secondo la quale è indispensabile rifuggire da classificazioni rigide ed uniformi, per accogliere le molteplici sfumature e distinzioni insite nelle patologie psichiche – che si accompagna alla messa in pratica di modali-
Romano e Stella, Ricoveri, dimissioni e trattamento terapeutico dei malati di mente: aspetti penalistici e costituzionali, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1973, 389 ss.
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tà terapeutiche alternative all’isolamento e all’esclusione. Sotto la pressione di un’iniziativa referendaria volta ad abrogare l’ormai anacronistica l. n. 36/1904, nel maggio del 1978 venne approvata la legge n. 180, poi confluita con alcune modifiche nella legge n. 833, istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Si tratta di una svolta che rompe con una tradizione sociale e culturale: il legislatore, nel disciplinare il trattamento della malattia mentale, abbandona definitivamente l’ottica asilare e para-detentiva della legge del 1904, privilegiando una scala di valori che vede la salute dell’uomo, la sua libertà e dignità come valori anteposti ad ogni altro interesse. In aderenza a tali principi, il trattamento in condizioni di degenza ospedaliera figura ridotto ad una forma di intervento residuale e transitorio, dovendo fornirsi assistenza e riabilitazione specificatamente nei centri e presidi psichiatrici extra-ospedalieri in un rapporto di collaborazione con il territorio e con l’ambiente sociale del malato. Si impone come regola il principio della volontarietà degli accertamenti e trattamenti sanitari, di contro all’eccezionalità dell’obbligo di sottoporsi agli stessi, comunque nel rispetto della dignità della persona e dei diritti civili e politici garantiti in Costituzione12. Il provvedimento forse più rivoluzionario è dato dalla chiusura (graduale) degli ospedali psichiatrici e dal divieto di costruirne di nuovi, il che ha modificato radicalmente l’approccio al disturbo mentale: da un’immagine fondata su un processo irreversibile, da isolare e occultare, si è passati alla costruzione di un percorso di liberazione che si sviluppa attraverso la riabilitazione nel territorio, le cure farmacologiche, la possibilità di integrazione sociale e il coinvolgimento
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Le ulteriori limitazioni ai diritti e alle libertà dell’internato sono riportate con scrupolo in Bruscuglia, Busnelli, Galoppini, Salute mentale dell’individuo e tutela giuridica della personalità, cit., 660.
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10 I valori e principi costituzionali faticarono ad affermarsi, a trasformarsi da promessa in realtà di liberazione, specie nel campo della salute mentale.
Bruscuglia, Busnelli, Galoppini, Salute mentale dell’individuo e tutela giuridica della personalità, cit., 663.
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12 Bruscuglia, Commento alla L. 13 maggio 1978, n. 180, Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori, in Nuove leggi civ. comm., 1979, 176 ss.; Vecchietti, Salute mentale e riforma sanitaria, cit., 50 ss.; Castronovo, La legge 180, la Costituzione e il dopo, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 608 ss.; Venchiarutti, Obbligo e consenso nel trattamento della sofferenza psichica, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, Milano, 2011, 822 ss.; Rossi, La salute mentale tra libertà e dignità. Un dialogo costituzionale, cit., 202 ss.
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attivo delle famiglie. La “legge Basaglia” ha di fatto reintrodotto la salute mentale nel contesto complesso del diritto alla salute, sia consentendo di farne oggetto di cura anziché di controllo, sia tutelando la dignità del malato attraverso la reintegrazione delle competenze personali, sociali e civili compromesse da condizionamenti patologici e ambientali. Tuttavia, soppressi i manicomi, il legislatore non è riuscito (o non ha voluto) liberare i malati psichici anche dall’altra “camicia di forza” – quella legale, caratterizzata dall’impossibilità di esercitare alcuni diritti e libertà – in cui continuavano a rimanere ristretti a causa dell’immutato regime delle incapacità13. In tal senso la dottrina ha evidenziato come la legge n. 180/1978 abbia rappresentato una premessa fondamentale di civilizzazione del sistema delle tutele che ha trovato il suo completamento (provvisorio e perfettibile14)
Il superamento della segregazione comporta il reinserimento nella cittadinanza attiva e nel traffico giuridico, come nota Cendon, Profili dell’infermità di mente nel diritto privato, in Riv. crit. dir. priv., 1986, 34: «Quale interesse può in effetti suscitare, nello studioso del diritto civile un tema come l’infermità di mente fintantoché l’ospedale psichiatrico esiste ancora, e rimane anzi la sola risposta escogitata per gestire i problemi del disagio mentale ? (…) Tutto invece cambia sostanzialmente con l’approvazione di una legge che, come la 180/78, smantella l’ospedale psichiatrico, e immette o trattiene l’infermo nel suo ambiente sociale. Da quel momento, infatti, anche i soggetti sofferenti di disturbi psichici si trovano ormai ad operare in un tessuto quotidiano che è intrecciato di rapporti patrimoniali grandi e piccoli, di problemi continui di lavoro, di iniziative economiche da assumere o da fronteggiare, di contatti familiari e associativi, di possibili danni da risarcire». Così anche Mazzoni, Libertà e salvaguardia nella disciplina dell’infermità mentale, in Un altro diritto per il malato di mente. Esperienze e soggetti della trasformazione, a cura di Cendon, Napoli, 1988, 489, riferendosi alla legge n. 180/1978 afferma che: «Il giurista si trova all’improvviso, di colpo, obbligato a trattare un argomento che aveva da sempre poco approfondito. (…) La legge obbliga il giurista ad occuparsi dell’infermo di mente, la legge. Introduce, come mai era avvenuto da secoli, l’infermo di mente nella società civile, costringendolo a rapporti sociali con tutti gli altri soggetti della comunità. Essa obbliga a rivedere per intero il rapporto tra infermo di mente e società». 13
«In altre parole, l’attuazione delle norme costituzionali è sempre parziale ed è sempre provvisoria, esprime una tensione che non può mai riuscire del tutto soddisfatta, che non può mai risolversi in una vicenda normativa in sé conclusa, 14
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con l’introduzione dell’amministrazione di sostegno. Tale istituto ha fatto emergere l’esigenza di portare a termine la riforma iniziata con l’abolizione della segregazione fisica inflitta all’infermo di mente attraverso l’abrogazione della «segregazione civile» prescritta dal diritto privato attraverso i vetusti istituti dell’interdizione e inabilitazione15, a cui si dovrebbe accompagnare una revisione delle tradizionali categorie della capacità la cui rigidità spesso si concretizzata in una «mortificazione dei valori della persona»16 frutto dell’applicazione di una normativa astratta e modellata su «una serie totalizzante e stereotipata di preclusioni e divieti»17.
2. Per un’interpretazione costituzionalmente orientata della capacità Il cambio di paradigma nella concezione della malattia mentale e la conseguente evoluzione della condizione giuridica della persona sofferente hanno incontrato un freno nella inadeguatezza dell’ordinamento codicistico allora vigente, almeno sino agli anni ’60 intriso di patrimonialismo
perché se ciò avvenisse vorrebbe dire che la Costituzione è morta, che ha esaurito la sua spinta propulsiva». Cfr. Ainis, I soggetti deboli nella giurisprudenza costituzionale, in Pol. dir., 1999, 36. In tal senso Cendon, Infermi di mente e altri disabili in una proposta di riforma del codice civile, in Pol. dir., 1987, 118 s. per cui: «Le critiche da muovere al sistema accolto nel codice civile del 1942, e tuttora in vigore, sono allora soprattutto le seguenti: a) l’interdizione costituisce una risposta eccessivamente severa frutto di concezioni ormai superate in sede psichiatrica (…) che finisce per comprimere o per annullare alcuni tra i diritti fondamentali della persona; b) l’inabilitazione rappresenta anch’essa un istituto di stampo punitivo e appare comunque di scarsa utilità (…) soprattutto perché il suo intervento non risolve i problemi che si pongono nell’ipotesi in cui sia necessario assicurare in favore del disabile il compimento di atti che quest’ultimo – nello specifico frangente – non possa o non voglia effettuare».
15
Marella, La protezione giuridica dell’infermo di mente, in Riv. crit. dir. priv., 1991, 231 s.; Cendon-Venchiarutti, voce «Sofferenti psichici», in Enc. del dir., III, Milano, 1999, 1004 ss. 16
17 Pescara, Lo statuto privatistico dei disabili psichici tra obiettivi di salvaguardia e modello dell’incapacità legale, cit., 761.
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e incapace di trovare un linguaggio che sapesse dare voce al multiforme fluire dell’esistenza18. Le figure della soggettività, frutto di uno sforzo di astrazione che in origine era volto ad unificare il soggetto di diritto garantendo – attraverso il superamento suddivisione in status – l’eguaglianza formale di trattamento19, si erano progressivamente pietrificate divenendo un potente dispositivo di esclusione che separa la «scena giuridica» dalla «nuda realtà umana»20. Dispositivo di ascendenza liberale che è in grado di offrire all’individuo soltanto un’astratta potenzialità di piena realizzazione della propria personalità, senza dare alcun rilievo alle condizioni materiali e sociali che, di fatto, possono frapporsi al conseguimento di questo fondamentale obiettivo dell’ordinamento21. L’indifferenza per le condizioni materiali assumeva forme di unilateralismo che venivano a costruire e identificare la capacità con l’attitudine a partecipare all’attività economica, essendo le relative disposizioni dirette essenzialmente a garantire la certezza e regolarità dei commerci. Nel sistema delineato dal codice del 1942, l’incapacità di agire assume un valore totalizzante che va oltre l’ambito contrattuale: come altri strumenti che, nel diritto privato classico, erano stati elaborati per trovare applicazione in ambito squisitamente patrimoniale, anche tale istituto è stato
Zatti, Premessa, in Maschere del diritto, volti della vita, Milano, 2009, IV. 18
Rescigno, Situazione e status nell’esperienza del diritto, in Riv. dir. civ., 1973, I, 211 s.; Id., voce «Status, I) Teoria generale», in Enc. giur. Treccani, XXX, Roma, 1993, 1 ss.; Mazzù, Status del soggetto, ordinamento democratico e fruizione dei beni, in Dir. fam. e pers., 1980, 968 ss. La funzione emancipatoria della soggettività si è rivelata una promessa mancata: da strumento essenziale allo svolgimento della capacità in condizioni di parità, è divenuto mezzo di oppressione a disposizione dei soggetti più forti, sostituendo alle barriere sociali preesistenti, di natura gentilizia, altre (non meno solide) di natura economica. Cfr. Irti, Sul concetto di titolarità (Persona fisica e obbligo giuridico), in Due saggi sul dovere giuridico, Napoli, 1973, spec. 30 ss. 19
20 Zatti, Di là dal velo della persona fisica. Realtà del corpo e “diritti dell’uomo”, in Maschere del diritto, volti della vita, cit., 100 ss.
Di Majo, voce «Legittimazione negli atti giuridici», in Enc. del dir., XXIV, Milano, 1974, 56 s.
21
esteso ad ogni ambito di vita degli individui. Vi è altresì da notare come il manicheismo della rigida distinzione tra capaci e incapaci confinava donne, minori e infermi di mente nella categoria escludente dell’incapacità, realizzando così una sostanziale espropriazione della soggettività ed una negazione della complessiva autonomia dell’esistere. In particolare la totale esclusione dei “folli” dall’attività giuridica non li privava dell’astratta idoneità ad essere o divenire titolari di diritti e di obblighi, ma di qualsiasi potere o facoltà di esercitarli, ingabbiandoli in specifici meccanismi ablativi di sostituzione: così spetta al legale rappresentante compiere, in nome e per conto dell’incapace, tutti quegli atti i cui effetti si dispiegano nella sfera giuridica dell’interessato, ma che questi non può realizzare direttamente22, non perché si volesse offrire una particolare tutela al disabile psichico, bensì per interdire a quest’ultimo di pregiudicare i propri interessi economici e, di conseguenza, quelli dei familiari. La considerazione integrale della personalità, e dunque la pienezza della vita, forzano questo schema, impongono di considerare nella concretezza del reale, ponendo ai giuristi la necessità di un ripensamento delle categorie tradizionali in vista della regolazione delle situazioni di natura esistenziale. La complessità dell’operazione volta a «reinventare» la soggettività, concettualizzando la realtà senza cancellarla, trova riferimenti forti nella Costituzione repubblicana. L’impostazione personalistica, che connota la Carta fondamentale23, ha contribuito a rovesciare la tradizionale prospettiva che vedeva il diritto esclusivamente dal punto di
Lisella, Interdizione per infermità mentale e situazioni giuridiche esistenziali, in Rass. dir. civ., 1982, 738 ss.; Bianca, La protezione giuridica del sofferente psichico, in Riv. dir. civ., 1985, I, 25 ss.
22
23 Personalismo che trova espressione «nell’idea-forza della centralità e del primato della persona umana considerata come soggetto di diritti in certo senso anteriori a qualsiasi riconoscimento da parte dello Stato e quindi non condizionati a finalità collettive di qualsiasi genere». Cfr. Onida, voce «Costituzione italiana», nel Digesto, Disc. pubbl., IV, Torino, 1989, 29 s.
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vista dei “produttori” e del loro “prodotto” (il legislatore e la legge, la pubblica amministrazione e l’atto amministrativo, il giudice e il provvedimento giudiziale), ponendo attenzione all’«individuo, ai gruppi, alla società insomma, e così ai bisogni, alle istanze e alle aspirazioni di individui, gruppi e società e soprattutto agli ostacoli di varia natura – economici, culturali, psicologici – che si frappongono fra il diritto inteso come “prodotto” e il cittadino che a tale “prodotto” chiede di avere accesso»24. La persona ed i valori ad esso riconducibili divengono quel nucleo assiologico primigenio, quel dover essere senza il quale non è concepibile una democrazia pluralistica25, vale a dire una democrazia che, lungi dall’esaurirsi nel principio di maggioranza, limita piuttosto lo strapotere di questa e dello Stato con una serie di garanzie a tutela del pluralismo sociale e istituzionale26. In questo orizzonte giuridico, il collegamento tra personalità, libertà e salute trova radice nel testo costituzionale, declinandolo nell’intreccio, da un lato, con la tutela generale della personalità (art. 2 Cost.), con i diritti fondamentali di eguaglianza e dignità (art. 3, comma 1°) e di libertà della persona (art. 13), dall’altro, con le norme che garantiscono le espressioni sociali dell’individuo, assicurando da parte della Repubblica l’erogazione dei servizi a ciò finalizzati (art. 3, comma 2°). La proclamazione dell’art. 2 Cost.27 segna, in particolare, il definitivo superamento dell’impostazione Stato-centrica e, quale conseguenza del riconoscendo del primato della persona in quanto «fine del sistema delle libertà»28, quest’ultima diviene tributaria di quei diritti fondamentali costituenti il patrimonio irriducibile della dignità umana che
24
Cappelletti, Giudici legislatori?, Milano, 1984, 100.
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la Repubblica s’impegna a salvaguardare. Come notato da autorevole dottrina «l’art. 2 dà causa costituzionale alla legislazione sugli incapaci, sugli emarginati e sugli oppressi; dalla riduzione (e allargamento ai due genitori) dei poteri genitoriali si passa alla correlativa nascita di un “diritto dei minori”, allo sviluppo della condizione della donna, allo sviluppo del sindacalismo (…) si assiste alla riduzione del “potere” e al tentativo di migliore e più equo trattamento degli oppressi»29. Si avvia così la transizione dal soggetto alla persona, dal soggetto di diritto al soggetto «di carne», che consente di dare progressivamente rilievo ai destini di socializzazione, alla materialità dei rapporti in cui ciascuno è collocato ed alle relazioni sociali che lo caratterizzano30. La costituzionalizzazione della persona viene a erodere anche il paradigma chiuso della soggettività giuridica, rappresentato plasticamente dal borghese maschio, maggiorenne, alfabetizzato e proprietario, legittimando la penetrazione nell’ordinamento di «figure soggettive diverse, espressive della condizione umana, e per ciò cariche a loro modo di forza eversiva, nel senso che trasferiscono in una dimensione comunque formalizzata le articolazioni e le contraddizioni della realtà»31. Superata la visione tradizionale della soggettività, anche in virtù di una nuova interpretazione costituzionalmente orientata che assume la persona come criterio normativo, «alla regolazione giuridica si aprono altre possibilità o, per meglio dire, si impongono altre funzioni sociali. Già nei vecchi schemi trovava posto l’eccezione rappresentata dai “lucidi intervalli”, dei momenti di consapevolezza che consentivano di attribuire rilevanza giuridica anche ad atti compiuti da chi, in via generale, era considerato incapace. Si tratta ora di riconoscere questo andamento irregolare della vita, sostituendo ad un diritto che ha già deciso una volta per tutte, una disciplina che riconosce
Martines, La democrazia pluralista, ora in Id., Opere, I, Teoria generale, Milano, 2000, 239 ss. 25
26 Spadaro, Il problema del “fondamento” dei diritti “fondamentali”, in I diritti fondamentali oggi, Padova, 1995, 295 ss.
Pizzolato, Finalismo dello Stato e sistema dei diritti nella Costituzione italiana, Milano, 1999, 148 ss.; Rossi, nel Commentario alla Costituzione, a cura di Bifulco, Celotto, Olivetti, I, Torino, 2006, sub art. 2, 56 ss. 27
28
Guarino, Lezioni di diritto pubblico, Milano, 1967, 88 ss.
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Barile, Diritti dell’uomo e libertà fondamentali, Bologna, 1984, 58.
29
Rodotà, Dal soggetto alla persona. Trasformazioni di una categoria giuridica, in Filosofia pol., 2007, 270 s. 30
31
Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 150 s.
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e accompagna la varietà delle situazioni concrete, facendo di volta in volta emergere quelle in cui può assumere rilievo la volontà della persona altrimenti ritenuta incapace. E questa logica si estende dalle condizioni di incapacità a quelle di “debolezza”»32. La soggettività giuridica e la correlata capacità da attribuire al soggetto – quale concetto presupposto alla sua qualificazione giuridica – non rappresentano nozioni puramente statiche, ma si sono venute delineando in modo dinamico e sincronico, in corrispondenza con gli sviluppi delle discipline mediche e con le elaborazioni concettuali filosofiche, sociologiche e bioetiche attinenti ai vari aspetti e fasi della vita33. È pur vero che la validità di tale “filiera” dipende essenzialmente dalla «concezione del concetto»34 attraverso cui si guarda a tali attribuzioni della persona con il rischio di inquadrare la problematica della rilevanza giuridica della persona in un’artificiosa immobilità, non consentendo di estendere l’esame al profilo dinamico dell’effettiva attribuzione delle prerogative essenziali all’attuazione dei valori di cui la persona stessa è portatrice. Il diverso approccio – costituzionalmente orientato – al problema fornisce una risposta alla questione relativa a quali siano le “fondamenta” del diritto, prospettando, nel delineare i valori e i diritti che vengono concretamente riconosciuti, una teoria “politica” del diritto, in grado di indirizzare anche la configurazione di altri istituti35.
Gli attributi classici della soggettività, capacità giuridica e capacità di agire, rappresentano frammenti di un’unitaria dimensione normativa «che riduce la condizione umana ad un’entità distillata dal diritto attraverso strumenti di astratta e immota definizione»36. Alla dimensione statica della capacità giuridica si accompagna quella “operativa” della capacità d’agire37, un tempo inalterabile indice dell’individuo autonomo e proprietario, che si è progressivamente rarefatta perdendo quei punti cardinali che ne orientavano il verso e delineavano la funzione nel mondo giuridico. La revisione del paradigma antropologico e l’affermazione dell’homo dignus38 hanno messo in luce «l’inettitudine del modello della capacità legale di agire e della sua stella gemella, la potestà e rappresentanza legale, a governare i problemi dell’autodeterminazione nelle zone in cui emerge l’implicazione diretta degli interessi personali»39, ovvero quei diritti fondamentali che esulano dalla patrimonialità e investono la sfera più intima e profonda della persona40. Lo schema dualistico fondato sull’alternativa tra capacità e incapacità di agire non corrisponde più nemmeno alla condizione fisiologica dell’uomo
Giardina, nel Commentario del Codice Civile, diretto da Gabrielli, Torino, 2012, sub artt. 1 e 2, 361. 36
Mentre la capacità giuridica rappresenta lo strumento costante e universalmente valido dell’astratta titolarità di diritti e di obblighi, la capacità di agire ha diversamente la funzione di stabilire una selezione a priori tra gli individui che avviene su un piano operativo e fattuale. 37
Rodotà, Dal soggetto alla persona. Trasformazioni di una categoria giuridica, cit., 375. 32
Aa.Vv., La valutazione della capacità di agire, a cura di Macrì e Bianchi, Padova, 2011, 111 ss.; Davidson et al., Supported decision making: a review of the international literature (2015) 38 International Journal of Law and Psychiatry 61 ss.; Rudebeck, Murray, The Orbitofrontal Oracle: Cortical Mechanisms for the Prediction and Evaluation of Specific Behavioral Outcomes (2014) 6 Neuron 1143 ss. 33
Dworkin, I diritti presi sul serio, Bologna, 2010, 192 s. Si tratta di “concezioni” che forniscono un’interpretazione, diacronica e sincronica, del contenuto della pratica sociale, ovvero sia un’interpretazione generale del valore (o dei valori) della pratica, sia la sua concretizzazione rispetto agli sviluppi e alle diverse occorrenze della vita sociale. 34
35
Dworkin, L’impero del diritto, Milano, 1989, 107 s.
38 Rodotà, Antropologia dell’homo dignus, in Riv. crit. dir. priv., 2010, 547 ss. 39 Zatti, Oltre la capacità, in Maschere del diritto, volti della vita, cit., 120.
Busnelli, Capacità in genere, in Lezioni di diritto civile, Napoli, 1990, 87, secondo cui «il pensiero giuridico dell’ultimo decennio registra (...) evoluzioni e talora vere e proprie inversioni di tendenza che segnano la riflessione della capacità della persona al punto da richiedere un ripensamento dell’istituto nella sua duplice veste di capacità giuridica e capacità di agire». Anche Dogliotti, Eclissi della capacità, in Dir. fam. e pers., 1986, I, 237; Rescigno, voce «Capacità giuridica», nel Digesto, Disc. priv., sez. civ., II, Torino, 1988, 218 ss.; Stanzione, voce «Capacità, I), Dir. Priv.», in Enc. giur. Treccani, Roma, 1988, 23; Venchiarutti, voce «Incapaci», nel Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., IX, Torino, 1993, 367 ss. 40
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laddove le scienze psichiatriche41 e, più recentemente, le neuroscienze42 hanno dimostrato che le patologie mentali o il decadimento delle capacità cognitive nelle persone anziane è un processo carsico a cui il diritto dovrebbe guardare «come ad una continuità di stati, che procedono da condizioni di oscurità e viluppo emotivo – che chiamiamo di sofferenza – a condizioni di apertura e di dispiegamento armonioso – che chiamiamo di benessere; dovrebbe, in conseguenza e soprattutto, guardare alle decisioni non come ad atti, ma come a processi in cui domina l’interazione tra i protagonisti e il contesto; guardare infine al modo in cui la decisione si comunica con una sapienza ermeneutica ricca ed aperta, capace di considerare l’intero linguaggio della persona dalle parole agli atteggiamenti»43. A tale evoluzione ha contribuito anche l’approvazione della legge n. 6 del 2004 che – a differenza dell’interdizione e inabilitazione, strumenti di isolamento e di esclusione – è intervenuta «in modo morbido, rispettoso della persona, invadendo meno possibile il suo spazio di sovranità gestionale [nella misura in cui] la protezione in tutte le sue forme deve essere funzionale a valorizzare al massimo le stille di vitalità e fecondità dell’interessato»44. Tale interpretazione trova plastica con-
Fornari, Trattato di psichiatria forense, Torino, 2018; Hales et al., Manuale di psichiatria. American Psychiatric Publisching, Milano, 2015; Gilberti, Rossi, Manuale di psichiatria, Padova, 2009; Aa.Vv., Aspetti del consenso informato in psichiatria clinica e forense, a cura di Fornari, Torino, 2001.
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ferma nella lettera dell’art. 404 c.c., dove dispone che, sussistendo l’impossibilità – non l’incapacità – di provvedere ai propri interessi a causa di un’infermità o menomazione, la persona «può» essere assistita da un amministratore. L’uso del concetto di «impossibilità» dà già il senso di un istituto che viene a colmare le lacune di tutela del sistema tradizionale e, al contempo, ha contribuito al ripensamento della stessa nozione di incapacità45, divenuta «mobile e fluida»46, finalmente in grado di guardare senza rigidi schematismi al variegato universo della debolezza e della fragilità. L’egemonia del paradigma negoziale da cui trae origine l’istituto della capacità nega la complessità delle condizioni esistenziali che non va semplificata per rispondere a esigenze patrimonialistiche, che sono proprie del traffico dei beni, e non certo della gestione dei rapporti umani. Nel contesto di una ricostruzione costituzionalmente orientata che superi le rigidità del rapporto tra capacità giuridica e capacità di agire, si è quindi sostenuto che l’operatività della predetta dicotomia debba essere limitata esclusivamente all’ambito dei rapporti patrimoniali, dato che per i diritti che «sono concepiti ai fini dello sviluppo della persona umana (arg. ex artt. 2 e 3 Cost.), non ha alcun valore riconoscere astrattamente uno di essi senza concedere anche la possibilità di esercitarlo immediatamente»47, impedendo altresì una valu-
41
Santosuosso, Diritto, scienza, nuove tecnologie, Padova 2011, 218 ss.; Stracciari, Bianchi, Sartori, Neuropsicologia forense, Bologna, 2010, 49 ss.; Sartori et al., Neuroscienze, libero arbitrio, imputabilità, in Psichiatria forense, criminologia ed etica psichiatrica, a cura di Volterra, Milano, 2010, 36 ss. 42
Zatti, Oltre la capacità, in Maschere del diritto, volti della vita, cit., 121 s., che prosegue «la scelta dunque fa pensare ad un discorso giuridico aperto al mutamento del paradigma di altri saperi, e in particolare delle scienze che si occupano della mente, dell’esperienza psichica e, se mi si permette l’espressione, spirituale degli uomini: richiama un modo di considerare l’esperienza mentale e psichica che dubita dei crinali troppo nettamente disegnati, e preferisce disporre in un unico spettro differenti stati di coscienza e differenti stati di benessere e malessere». 43
44 Cendon, voce «Amministrazione di sostegno (Profili generali)», in Enc. del dir., Annali, VII, Milano, 2014, 22.
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Roma, L’amministrazione di sostegno: i presupposti applicativi e i difficili rapporti con l’interdizione, in Nuove leggi civ. comm., 2004, 1007, secondo cui il concetto di “impossibilità” «dissolve infatti, la suggestione che, per effetto di una secolare tradizione, può indurre a coniugare, per automatismo, incapacità e deficit o alterazione psichici. In generale, colui che è impossibilitato al compimento di una certa attività non è necessariamente incapace, per ragioni afferenti alle facoltà intellettivo-volitive, di compierla; mentre è vero che l’incapace psichico può essere riguardato, in ultima analisi, come impossibilitato a l’espletamento di quell’attività».
45
46 Ferrando, Introduzione, in L’amministrazione di sostegno. Una nuova forma di protezione dei soggetti deboli, a cura di Ferrando, Milano, 2005, 4.
Stanzione, voce «Capacità», cit., 7 s.; Id., Capacità e minore età nella problematica della persona umana, Camerino-Napoli, 1975, 137 ss. e 250 ss. Sulla condizione del minorenne, in senso analogo, Busnelli, Capacità ed incapacità d’agire del minore, in Dir. fam. e pers., 1982, 61 s.; anche Pizzorusso, Delle persone fisiche, nel Commentario Scialoja-Branca, I, 47
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tazione degli interessi essenziali della persona in relazione alla situazione concreta in cui opera. Se la capacità è istituto inadeguato ad assurgere ad un ruolo di criterio ordinante delle relazioni attinenti ai diritti personalissimi dell’individuo48, risulta necessario declinare tale concetto secondo diverse linee direttive: partendo dal presupposto che l’art. 2 Cost. pone la persona al centro dell’ordinamento giuridico49, costruendole attorno una sfera giuridica caratterizzata «per l’essere i diritti e doveri che la compongono funzionalizzati in modo diretto (e non solo indiretto) al soddisfacimento dei bisogni esistenziali»50, è in questo contesto e nel finalismo che sottende che può essere desunto il contenuto della capacità. L’uomo, di cui si discorre in Costituzione, non è un modello di uomo, ma un soggetto storico còlto nelle trame minute della sua esistenza quotidiana; non un individuo, ma una persona, creatura intrinsecamente relazionale, posta al centro di un fitto tessuto di rapporti con l’altro. La concretezza e la relazionalità quali connotati della persona e delle sue esigenze si riflettono anche nella declinazione della concezione del concetto di capacità. L’assunzione di decisioni su questioni esistenziali, quali quelle relative ai trattamenti sanitari, non consiste in meri atti giuridici, bensì in processi all’interno dei quali la “capacità alla scelta”, espressa in forme duttili, è «da valutare caso per caso e promuovere in relazione alla tipologia e alle finalità di trattamento, al quadro clinico, alla personalità e alle specifiche condizioni di vulnerabilità del paziente»51.
Delle persone e della famiglia, Bologna-Roma, 1988, sub artt. 1-4, 144 ss. In dottrina Pescara, Lo statuto privatistico dei disabili psichici tra obiettivi di salvaguardia e modello dell’incapacità legale, cit., 771 ss.; Mazzoni, Libertà e salvaguardia nella disciplina dell’infermità di mente, in Un altro diritto per il malato di mente, a cura di Cendon, cit., 489 ss. 48
Barbera, nel Commentario della Costituzione, a cura di Branca, Bologna-Roma, 1975, sub art. 2, 50 ss. 49
50 Perlingieri, Il diritto civile nella legalità costituzionale, Napoli, 1984, 322. 51 Calderai, voce «Consenso informato», in Enc. del dir., Annali, Milano, 2015, 244 che sottolinea «la nozione quantitativa di capacità va integrata da uno spettro di valutazioni che
Stabilito che la capacità è strumento troppo rozzo per affrontare condizioni articolate52, sembra comunque utile considerare il livello di competenza del paziente anche al fine di calibrare non solo l’intervento terapeutico, ma anche le possibili alternative per meglio tutelare i suoi diritti. Pare allora più utile introdurre, anche nel nostro discorso, il diverso concetto, elaborato nella letteratura angloamericana, di competence53, traducibile nell’«abilità ad eseguire un compito», il che sottende un approccio contestuale e funzionale alla definizione della relativa nozione54. Si tratta di un concetto sistematico la cui definizione comprende una serie di abilità (informability, cognitive capability e deciding) che strutturano il livello di base idoneo a articolare la capacità di prendere decisioni. Chiaramente l’accoglimento di un tale modello porta a qualificare la competence to consent come un concetto flessibile, plastico, suscettibile di variazioni in ordine alle condizioni
dalla situazione idealtipica di coincidenza tra capacità e “pienezza delle facoltà” procede fino alla condizione di chi è privo di ogni capacità naturale residua, passando per vari stadi intermedi di dissociazione tra il profilo giuridico-formale e il profilo sostanziale della partecipazione alle decisioni». Falzea, Infermità di mente e problemi di capacità della persona, in Un altro diritto per il malato di mente, a cura di Cendon, cit., 17 ss. 52
Il concetto di competence riguarda la capacità intesa in senso legale che presuppone la verifica (assessment) della mental capacity. Nota Buchanan, Mental capacity, legal competence and consent to treatment (2004) 9 Journal of the Royal Society of Medicine 415 ss.: «mental capacity is a continuous quality that may be present to a greater or lesser extent», in particolare in relazione alla scelta concreta che il paziente deve prendere; mentre la legal competence, una volta accertata attraverso l’assessment della mental capacity, è un concetto statico. Per l’ordinamento britannico Barlett, Blackstone’s Guide to the Mental Capacity Act 2005, Oxford, 2005. 53
Nella letteratura White, Competence to consent, Washington, 1994, 15 ss.; Buchanan e Brock, Deciding for others. The ethics of surrogate decision making, Cambridge, 1989, 18 ss.; Beauchamp e Childress, Principles of Biomedical Ethics, Oxford, 1979, trad. it. Principi di etica biomedicale, Firenze, 1999, 140 ss. Per ulteriori riferimenti e per l’analisi delle diverse teorie si rinvia a Salvaterra, Autodeterminazione e consenso nell’incapacità e capacità non completa. Capacità e competence, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, cit., 341 ss. 54
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situazionali in cui il paziente si trova ad assumere una decisione. Nella prassi – confermata da molte legislazioni in materia55 – è il personale sanitario ad accertare di volta in volta – attraverso test e strumenti elaborati dalla categoria medica, quali il MacArthur Competence Assessment Tool For Treatment 56– quando un paziente è in grado o meno di prendere una determinata decisione. Così anche il soggetto psicotico, pur presentando compromissioni del proprio livello di funzionamento, conserva spazi di responsabilità e di autodeterminazione che – come si desume dall’esperienza clinica – possono essere valorizzati in termini di competence57. Essere pazienti capaci, in questi termini, significa comprendere il problema medico-sanitario che viene prospettato, elaborare le informazioni ricevute, bilanciando vantaggi e svantaggi contestualizzati al fine di esprimere una scelta razionale sulla proposta terapeutica. Puntare l’attenzione sulle reali capacità decisionali del paziente consente una possibile interpretazione razionale, e non meramente incapacitante, dell’accostamento tra il trattamento sanitario proposto ed il consenso informato, superando quindi la dicotomia capacità/incapacità, per descrivere in modo più adeguato la condizione del paziente
Krohm e Summers, Advance health care directives: a handbook for professionals, Chicago, 2002; Atkinson, Advance Directives in Mental Health: Theory, Practice and Ethics, London, 2007; Bravo, Sene, Arcand, Making medical decisions for an incompetent older adult when both a proxy and an advance directive are available: which is more likely to reflect the older adult’s preferences? (2018) 7 Journal of Medical Ethics 498 ss.
Saggi e pareri
come un continuum assenza-presenza da valutare in termini di costrutto multidimensionale58. Esemplificativa in tal senso appare la recente sentenza n. 258/2017 della Corte costituzionale59 che è venuta a scardinare un dispositivo escludente che impediva l’acquisizione e dunque l’esercizio della cittadinanza, in specie limitata e “interdetta” a stranieri portatori di una disabilità tale da non consentire loro di prestare il giuramento prescritto dalla legge n. 91/1992. Facendo leva sulla centralità della persona nel nostro ordinamento e sulla semantica potente dell’eguaglianza, il giudice costituzionale è giunto a dichiarare l’illegittimità costituzionale della disposizione censurata, nella parte in cui non esonera dal giuramento il disabile incapace di soddisfare tale adempimento in ragione di una grave e accertata condizione di disabilità. La Corte precisa che l’esonero dal giuramento non sarà frutto di un automatismo, operante a prescindere dal “tipo” di incapacità giuridicamente rilevante, laddove «ciò che rileva è l’impossibilità materiale di compiere l’atto in ragione di una grave patologia60, non la precipua condizione giuridica in cui versa il disabile». Non è quindi lungo il crinale, troppo nettamente stagliato, tra capacità/incapacità che si muove il ragionamento della Corte61, emergendo invece come
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Berg, Appelbaum, Grisso, Constructing competence: formulating standards of legal competence to make medical decisions (1996) 48 Rutgers Law Review 345 ss.; Kapp e Mossman, Measuring decisional capacity: cautions on the construction of a “capacimeter” (1996) 2 Psychology, Public Policy, and Law 73 ss.; Kim, Instruments for Assessing Treatment Consent Capacity, in Evaluation of Capacity to Consent to Treatment and Research, New York, 2010, 61 ss. 56
Fornari e Coda, Il consenso nella pratica psichiatrico-forense, in La valutazione della capacità decisionale in psichiatria di consultazione, a cura di Fornari, Coda, Iorio, Torino, 2003, 147 ss.; si veda anche Comitato Nazionale per la Bioetica, Psichiatria e salute mentale: orientamenti bioetici, 24 novembre 2000, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Dipartimento per l’Editoria, Roma, 2000, 30 ss. 57
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Owen et al., Mental capacity and decisional autonomy: an interdisciplinary challenge (2009) 52 Inquiry 79 ss.; Banner, Unreasonable reasons: normative judgement in the assessment of mental capacity (2012) 18 Journal of Evaluation in Clinical Practice 1038 ss.; per una ricognizione completa Richardon (ed.), A model law fusing incapacity and mental Health legislation – is it viable; is it advisable? (2010) 20 Journal of Mental Health Law (special issue), 1 ss. 58
Corte cost., 7.12.2017, n. 258, in Federalismi.it, con nota di Rossi, Incapacitazione e acquisto della cittadinanza. Nota a prima lettura a Corte cost. n. 258/2017, in Quad. cost., 2017, 1 ss.; Domenicali, La “doppia inclusione” dello straniero disabile (a margine di Corte cost. n. 258/2017), ivi, 2018, 1 ss.; Addis, Disabilità e giuramento per l’acquisizione della cittadinanza (osservazioni a Corte cost. n. 258/2017), in Consultaonline.it, 2018, 435 ss. 59
Come notava Perlingieri, La personalità umana nell’ordinamento giuridico, Napoli, 1972, 139 «la Costituzione, nel garantire i diritti fondamentali dell’individuo, non distingue, quanto al concreto svolgimento, tra soggetto capace ed incapace».
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Ben consci i giudici costituzionali che «compito del giu-
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rilevante anche ai fini della prestazione del giuramento il concreto accertamento della competence, concetto dinamico e da valutare nelle diverse fasi della malattia e in relazione al tipo di decisione da assumere62. Tale scelta appare particolarmente virtuosa poiché tende a promuovere e allo stesso tempo tutelare l’autodeterminazione e lo sviluppo della personalità dei soggetti gravemente menomati nel più ampio quadro della salvaguardia della dignità e dell’identità della persona. Sarebbe quindi opportuno iuris condendo o in via ermeneutica rinnovare gli strumenti concettuali in modo da garantire e presidiare le diverse modalità di coinvolgimento del soggetto nelle scelte che lo riguardano, valorizzandone il possibile “contributo” identitario, senza passare acriticamente attraverso i meccanismi sostitutivi propri del riferimento all’incapacità e alla volontà.
3. Il contratto di Ulisse e le sirene della follia «A me solo ordinava d’udire quel canto; ma voi con legami strettissimi dovete legarmi, perché io resti fermo, in piedi sulla scarpa dell’albero: a questo le corde m’attacchino. E se vi pregassi, se v’ordinassi di sciogliermi, voi con nodi più numerosi stringetemi!»63. Nulla come il testo omerico rende plasticamente l’immagine metaforica della sfida dell’uomo alla contraddizione della follia, alla cui devastante e
rista è quello di attrezzare le decisioni negli stati di fragilità, fatica e malattia, avendo riguardo alla materialità dell’esistenza piuttosto che alle astratte forme del diritto, al fine di salvaguardare «la dignità di poter decidere, la difficoltà di saper decidere, la sicurezza del contesto della decisione e di chi interagisce con il sofferente». Cfr. Zatti, Oltre la capacità di intendere e di volere, in Follia e diritto, a cura di Ferrando e Visintini, Torino, 2003, 56 s. 62 La capacità decisionale è infatti un processo articolato che presuppone la capacità di capire gli elementi della decisione (understanding), di scegliere (choice), di giudicare le conseguenze della decisione (reasoning) e di apprezzarne le implicazione (appreciation). Cfr. Salvaterra, Autodeterminazione e consenso nell’incapacità e capacità non completa, cit., 346 s. 63 Omero, Odissea, libro XII, vv. 39-54, traduzione di Calzecchi Onesti, Torino, 1963.
distruttiva potenza non si riesce a resistere. Così Ulisse ordina al fido Euriloco di legarlo all’albero maestro della nave e di porre tappi di cera nelle orecchie dei suoi compagni, raccomandando loro di non scioglierlo in nessuna evenienza, anche in caso di suppliche vivissime. Di fronte all’irrazionalità distruttiva scatenata dal canto delle sirene64, la corda rappresenta simbolicamente l’intelletto e la ragione che, preservandolo, porta l’eroe a vincere l’«esperienza abnorme»65. Seguendo la metafora, in letteratura, si è proposto di definire “contratto di Ulisse” quello strumento attraverso il quale il paziente può, nei periodi intercritici, esplicitare le sue direttive anticipate in merito alle cure psichiatriche66, salvaguardando – a fronte di disturbi psichiatrici di serio impegno clinico e andamento remittente-recidivante (tipicamente il disturbo bipolare, ma anche disturbi deliranti cronici e schizofrenici) – l’autodeterminazione e l’identità della persona. Il contratto è un modo per governare il proprio futuro e autonomamente dirigere la propria vita; è essenzialmente un segno di potere, di quel dominio sul proprio corpo che compendia il diritto all’autodeterminazione67. Così come Ulisse comanda al suo equipaggio di fare ciò che ha sapientemente scelto in anticipo, essendovi a sua volta assoggettato,
64 «In Omero la sfida delle sirene può essere raccolta solo da un corpo e da un Io legati, cioè non violati dal male che dall’esterno li minaccia, e quindi la corda rappresenta un incremento del potere inibitorio che la razionalità esercita sull’immaginazione (cui è permesso dispiegare i suoi mostri solo in presenza di una razionalità imperturbata, non penetrata dai fantasmi che vorrebbero sedurla)». Cfr. Pinto, Circe e la rotta di Ulisse, in “Tenzone”. Revista de la Asociaciòn Complutense de Dantologia, 2007, 113 ss. 65
Basaglia, L’utopia della realtà, Torino, 2005, 307.
Howell, Diamond, Wikler, Is there a case for voluntary commitment?, in Beauchamp e Walters (eds.), Contemporary issues in bioethics, Belmont, 1982, 163 ss.; Dresser, Ulysses and the psychiatrists: a legal and policy analysis of the voluntary commitment contract (1982) 16 Harvard Civil Rights - Civil Liberties Law Review 777 ss.; Winston et al., Case Studies: Can a Subject Consent to a ‘Ulysses Contract’? (1982) 4 The Hastings Center Report 26 ss. 66
Sul punto Rossi, voce «Corpo (Atto di disposizione sul)», nel Digesto, Disc. priv., sez. civ., Agg. VII, Torino, 2012, 223 ss.; sui profili filosofici Esposito, Le persone e le cose, Torino, 2014, 15 ss. 67
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in termini analoghi il contratto vincola il disponente – nel momento in cui l’irrazionalità non gli consentirà di decidere per il proprio bene – ed è vincolante per il fiduciario e i sanitari, rappresentando il veicolo attraverso cui l’individuo determina il proprio futuro, in circostanze difficili. Non si possono sottacere le difficoltà e complessità che sono sottese alla scelta tra volontà contraddittorie promananti dallo stesso individuo (desiderio di cura vs. rifiuto del trattamento; desiderio di essere aiutati a vivere una vita normale vs. desiderio di sperimentare la libertà assoluta in un periodo di crisi psicotica o maniacale), contraddizione che però può sciogliersi nella riaffermazione dell’autonomia come espressione biografica e embeddednes nelle relazioni sociali68. Questo investimento sull’autonomia presuppone un atteggiamento prospettico, capace di prevedere dei cambiamenti in positivo, ma anche contesti pratici nei quali la persona si può sperimentare e può esplorare cosa comportano le sue scelte nell’ambito della relazione terapeutica. In tal senso l’autonomia funziona da fattore di conversione in quanto il paziente è nelle condizioni di trasformarle in capacità effettivamente esercitate, in libertà agite. Detto altrimenti le capacità non sono materia trattabile con il vocabolario del dare e ricevere, poiché esse sono tali in quanto agite, in quanto l’interessato ne sia l’attore, che con esse si esprime, si riconosce e si fa riconoscere69: in tal modo il paziente riconosce la propria vulnerabilità ed è a partire
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Moody, Ethics in an aging society, Baltimore, 1992, 62 ss.
È stato sottolineato come le direttive anticipate in ambito psichiatrico abbiano ridotto il ricorso a misure contenitive e coercitive, rappresentando inoltre un valido strumento nella de-escalation della crisi: infatti sapere che un determinato intervento, per quanto rechi sofferenza, sia stato precedentemente concordato con il personale medico lo rende più accettabile. Cfr. Daverio, Piazzi, Saya, Il contratto di Ulisse in psichiatria, in Riv. psichiatria, 2017, 52, 220 ss.; Khazaal et al., Psychiatric advance directives, a possible way to overcome coercion and promote empowerment (2014) 2 Front Public Health 37; Easter et. al., Facilitation of psychiatric advance directives by peers and clinicians on assertive community treatment teams (2017) 68 Psychiatric Services 717 ss.; Swanson et al., Psychiatric advance directives and reduction of coercive crisis interventions (2008) 17 Journal of Mental Health 255 ss. 69
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da tale scoperta che può esprimere una scelta responsabile volta a ridurre l’autonomia personale per il proprio bene e quello dei propri cari. Da questo punto di vista, l’autonomia non solo è il fondamento per gli interventi sanitari (come l’assunzione di farmaci o trattamenti terapeutici), ma anche l’obiettivo di tali interventi, il cui «scopo diviene la preservazione e il recupero della capacità di esercitare e godere i diritti della personalità: della capacità di percepire il senso della propria dignità, del proprio pudore, della propria intimità; della capacità di incuriosirsi e informarsi; della capacità dì formare e manifestare opinioni; della capacità di percepire i rapporti di gruppo e di parteciparvi; della capacità di conoscere l’ambiente materiale e di sapervisi liberamente muovere»70. Tuttavia, si può ritenere che l’uso in psichiatria delle direttive anticipate, oltre ad espandere gli spazi di autonomia, possa essere considerato come strumento di sostegno ad una condizione vulnerabile: il paziente psichiatrico non è infatti un individuo pienamente autonomo, ma versa in difficoltà, sicché il contratto si concreta in una pratica di cura71. Da questa prospettiva alternativa, il contratto viene a divenire parte integrante della biografia del paziente, raccontando una storia che è espressione di identità individuale e dell’interazione con altri72. Non si tratta quindi solamente di un atto di potere, ma di un tentativo di creare pratiche volte a trattare la patologia mentale attraverso l’integrazione nel proprio progetto di vita, un progetto volto all’empowerment inteso come aumento delle possibilità e delle capacità di scelta e di azione delle persone. Il contratto di Ulisse dunque non deve essere considerato solo come espressione di autodeterminazione, ma come
Zatti, Infermità di mente e diritti fondamentali della persona, in Pol. dir., 1986, 42 s.
70
Tronto, Moral boundaries. A political argument for an ethic of care, London, 1993.
71
Ricoeur, Narrative identity, in D. Wood (ed.), On Paul Ricoeur. Narrative and interpretation, Routledge, London, 1991, 188 ss.; Widdershoven, The story of life: hermeneutic perspectives on the relationship between narrative and life history, in Josselson e Lieblich (eds.), The narrative study of lives, I, Newbury Park, 1993, 1 ss. 72
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tentativo di sviluppare una pratica di cura basata sulla fiducia e la cooperazione tra medico e paziente, il che contribuisce al racconto di vita dei pazienti, permettendo di trasformarne l’esistenza in un’unità espressiva, comprensiva di «rapporti e decisioni che si inseriscono nelle condizioni di fragilità, di fatica, di malattia e di battaglia, di handicap, di non autosufficienza, di declino delle forze e della vitalità, di vecchiaia, di attesa e di desiderio di morire»73. Delineato il quadro assiologico, si può constatare come le direttive anticipate di trattamento psichiatrico (PADs) siano strumenti legali che permettono alle persone competenti di documentare le loro istruzioni o preferenze per il futuro trattamento di salute mentale e di designare un fiduciario con poteri di rappresentanza (proxy decision maker) nel caso in cui perdano la capacità (capacity to make) di prendere decisioni di trattamento affidabili durante un episodio determinato da malattia psichiatrica74. Negli ultimi vent’anni, l’esperienza delle PADs si è consolidata negli Stati Uniti, tanto che venti Stati hanno approvato una specifica legislazione che legittima l’uso nella pratica clinica di questi strumenti. L’interesse per le direttive anticipate in ambito psichiatrico è emerso nel 1991, anno in cui nel Federal Patient Self-Determination Act 75 sono state introdotte nuove condizioni per dare attuazione alle direttive presso le strutture sanitarie finanziate attraverso Medicaid e Medicare. I PADs rappresentavano, nell’intento del legislatore federale, l’alternativa più promettente all’uso massivo dei trattamenti coercitivi nei servizi di salute
mentale per adulti con gravi disturbi psichiatrici. Pur introdotto di fatto in molte legislazioni statali attraverso l’applicazione analogica delle direttive anticipate in ambito sanitario76, l’istituto si è consolidato dopo che, nel caso Hargrave v. Vermont77, il Tribunale del secondo circuito ha ritenuto che lo Stato del Vermont non potesse discriminare gli individui con disabilità psichiche impedendo loro di lasciare direttive vincolanti attraverso lo strumento del PADs sui trattamenti sanitari, in caso di futura incapacità. Questo istituto è stato configurato in base ad una formula standard il cui perno è dato dalla nomina di un fiduciario con ampi poteri di rappresentanza del soggetto divenuto incapace, alle cui volontà deve dare attuazione ovvero che – in mancanza di una formalizzazione di queste ultime – deve attuare, in funzione di substituted judgement, scelte che siano nel miglior interesse del beneficiario78. I PADs rappresentano uno strumento attraverso il quale paziente e sanitari strutturano la pianificazione anticipata delle cure in vista di un futuro episodio di acuzie determinato da patologia mentale, con facoltà del disponente di richiedere e/o rifiutare un determinato trattamento, l’uso della contenzione fisica o farmacologica, la partecipazione a studi clinici inerenti trattamenti sperimentali, così come la scelta della struttura ospedaliera ove essere ricoverato. Si possono sintetizzare alcune caratteristiche comuni ai diversi statuti regolativi della PADs: a) le direttive non possono incidere o limitare l’applicazione del trattamento sanitario coattivo disposto ai sensi della legge; b)
Per un quadro puntuale e aggiornato Menninger, Advance directives for medical and psychiatric care, New York, 2014; Zelle et al., Implementing advance directives in mental health services: a manual for providers and advocates, Charlottesville, 2015. 76
Zatti, Oltre la capacità, in Maschere del diritto, volti della vita, cit., 125 s. 73
Fleischner, Advance directives for mental health care: an analysis of state statutes (1998) 4 Psychology, Public Policy and Law 788 ss.; Srebnik e La Fond, Advance directives for mental health treatment (1999) 50 Psychiatric Services 919 ss. 74
La Puma et al., Advance Directives on Admission Clinical Implications and Analysis of the Patient Self-Determination Act of 1990 (1991) 266 Jama 402 ss.; Larson, Eaton, The Limits of Advance Directives: A History and Assessment of the Patient Self-Determination Act (1997) 32 Wake Forest Law Review 249 ss. 75
77 Hargrave v. Vermont, 340 F.3d 27; 2003 U.S. App. Lexis 15423 [Hargrave].
Srebnik, The Content and Clinical Utility of Psychiatric Advance Directives (2005) 56 Psychiatric Services 592 ss.; Swanson et al., Psychiatric advance directives: A survey of persons with schizophrenia, family members, and treatment providers (2003) 2 International Journal of Forensic Mental Health 73 ss.; Zelle et al., Advance directives in mental health care: evidence, challenges and promise (2005) 14 World Psychiatry 278 ss. 78
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le direttive non possono derogare alle disposizioni procedurali che disciplinano il diritto di rifiutare i trattamenti, conservando un valore probatorio in caso di controversia giudiziale; c) i trattamenti vietati dalla legge o dalle linee guida, come la psicochirurgia, non possono essere autorizzate tramite le direttive; d) viene definito il procedimento attraverso il quale si accerta l’effettiva capacità decisionale del disponente, accertamento rimesso ai sanitari, non essendo necessaria una pronuncia giudiziale di incapacità perché le direttive divengano operative79; e) viene tutelata ampiamente l’autonomia dei sanitari – anche sotto il profilo della responsabilità civile e penale – qualora gli stessi intendano disattendere le indicazioni desumibili dalle direttive o dichiarate dal fiduciario che siano contrarie alla buona pratica clinica o alle linee guida. Nell’ordinamento inglese le PADs trovano regolazione nel Mental Health Act (MHA), adottato nel 1983 e riformato nel 200780, che è il testo legislativo di riferimento per la disciplina dei ricoveri e trattamenti coatti di pazienti psichiatrici. A darvi esecuzione vi è poi il Code of Practice che va ad arricchire ulteriormente la disciplina attraverso linee guida vincolanti volte a fornire direttive ope-
La difficoltà di stabilire con certezza una linea di confine tra pensieri e comportamenti patologici e ciò che invece è da attribuire alla libertà di espressione e originalità degli esseri umani ha condotto all’elaborazione di una scala per valutare tale capacità (competent assessment tool for psychiatric advanced directives). Sul punto Srebnik, Appelbaum, Russo, Assessing competence to complete psychiatric advance directives with the competence assessment tool for psychiatric advance directives (2004) 45Comprehensive Psychiatry 239 ss. 79
80 Tale riforma ha inteso superare alcuni limiti della legislazione precedente, rendendo di fatto più semplice disporre il ricovero coatto, che in alcuni casi sembrava essere impedito da specifiche previsioni del MHA (come il treatability test o l’esclusione della sexual deviancy dalla definizione di mental disorder), con finalità espresse di tutela della pubblica sicurezza. In dottrina Daw, The Mental Health Act 2007: The Defeat of an Ideal (2007) 11 Journal of Mental Health Law 131 ss. In generale Gostin et al. (eds.), Principles of Mental Health Law and Policy, Oxford, 2010, 300 ss.; Fennell, Mental Health: Law and Practice, Bristol, 2011, 250 ss.; Bartlett e Sandland, Mental Health Law: Policy and Practice, Oxford, 2013, 236 ss.; Fennell, Controlling clinical power: therapy, discipline and punishment, in Saks (ed.), Restraint in Mental Health Care, Cambridge, 2013, 10 ss.
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rative agli operatori del settore psichiatrico per la corretta applicazione del MHA81. La legge sancisce il principio generale della volontarietà dei trattamenti, prescrivendo, alla sezione 131, il diritto per i pazienti psichiatrici di essere ricoverati e trattati informally, ossia volontariamente. Come indicato nel Code of Practice, tale facoltà può essere esercitata solamente se la persona ha la capacità di decidere in merito al ricovero stesso, nella misura in cui il ricovero «non indebolisce o limita il diritto all’autodeterminazione, a meno che [la persona] venga privata della capacità (...) di decidere per sè» (§. 4.9). Il Mental Capacity Act disciplina l’Ulysse’s contract82 prevedendo che, per la validità della di-
81 Riguardo ai trattamenti coattivi, è nel Code che si rinvengono alcuni principi fondamentali che indirizzano le concrete modalità operative degli stessi: a) purpose principle che importa l’assunzione di decisioni che devono tendere a minimizzare gli effetti negativi della malattia mentale, favorire la sicurezza ed il benessere dei pazienti, promuovendo il loro recupero e infine proteggere le altre persone da eventuali pericoli connessi alle condotte del malato; b) last restriction principle, secondo cui, laddove il trattamento sia disposto senza il consenso del paziente, si deve tentare di limitare il meno possibile gli spazi di libertà di quest’ultimo; c) respect principle che impone comunque il riconoscimento e il rispetto dei bisogni, valori e opinioni di ciascun paziente, ove possibile ed ove compatibili con le finalità del trattamento; d) participation principle che importa la necessaria partecipazione dei pazienti e dei loro famigliari, per quanto possibile, nella pianificazione e variazione dei progetti trattamentali e di assistenza; e) efficacia, efficienza ed equità, che sono principi volti a bilanciare le esigenze dell’amministrazione sanitaria e quelle dei pazienti alle migliori cure possibili. 82 MCA, s 24 (1): «Advance decision means a decision made by a person (“P”), after he has reached 18 and when he has capacity to do so, that if (a) at a later time and in such circumstances as he may specify, a specified treatment is proposed to be carried out or continued by a person providing health care for him, and (b) at that time he lacks capacity to consent to the carrying out or continuation of the treatment, the specified treatment is not to be carried out or continued». In concreto le direttive devono contenere indicazioni su quali trattamenti si rifiutano e quali si preferiscono, il consenso o il rifiuto alla somministrazione dell’elettroshock, accurate descrizioni sui sintomi che precedono una crisi e i metodi per prevenire una sua ricaduta, informazioni su eventuali allergie ai farmaci e effetti collaterali già sperimentati, l’indicazione della struttura sanitaria in cui si desidera essere ricoverati, i soggetti esterni autorizzati alle visite presso la struttura, eventuali indicazioni sulla dieta e informazioni generali dirette allo staff medico.
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chiarazione – oltre alla maggiore età e alla capacità del dichiarante da accertare in relazione alla decisione da assumere – non siano richieste ulteriori condizioni o particolari formalità: la dichiarazione può anche essere effettuata – e revocata – oralmente ed «in layman’s terms», ovvero attraverso espressioni del linguaggio comune e non specialistico dell’ambito medico-legale. Tale libertà di forma si attenua solamente per la validità del rifiuto anticipato di trattamenti salvavita che, per acquisire forza vincolante, deve essere effettuato per iscritto e sottoscritto dal paziente in presenza di un testimone83. Il contratto è efficace e vincolante per i sanitari in relazione ai prescrizioni ivi indicate, riespandendosi altresì l’autonomia decisionale dei sanitari in relazione a situazioni omesse o qualora siano intervenute condizioni in cui è ragionevole pensare che, se il paziente le avesse conosciute, avrebbe deciso diversamente84. In assenza di una valida dichiarazione anticipata di trattamento, a subentrare quale surrogate decision maker è il donee, ossia un soggetto al quale il paziente (competente) attribuisce la funzione di decidere in relazione a questioni inerenti il proprio personal welfare o property and affairs (in generale o per questioni specifiche) in caso di futura perdita della capacità. Questo modello ha trovato riconoscimento anche in altre legislazioni (da quella olandese a quella indiana85), essendo espressione da una forte tensione etica volta ad affermare l’autonomia e la promozione dei diritti del paziente, anche indipendentemente dalla sua capacità di esercitarli86. Tale tensione non conduce all’affermazione di
MCA, s 26 (5). La dichiarazione perde altresì la sua efficacia se il paziente ha validamente nominato un donee perchè prenda decisioni in merito alla medesima questione, o ancora ha compiuto «anything else clearly inconsistent with the advance decision» [MCA, s 25 (2)]. 83
84
MCA, s 25 (4).
Varekamp, Ulysses directives in The Netherlands: opinions of psychiatrists and clients (2004) 3 Heath Policy 291 ss.; Gowda et al., Factors influencing advance directives among psychiatric inpatients in India (2018) 56 International Journal of Law and Psychiatry 17 ss.
85
Comitato Nazionale per la Bioetica, Psichiatria e salute mentale: orientamenti bioetici, 24 novembre 2000, cit., 9.
86
una autonomia “irresponsabile”, ma si traduce in forme di sostegno che aiutino la persona vulnerabile a divenire il più possibile libera, nella convinzione che «il riconoscimento di diritti a priori costituisce per chi non può rivendicarli per sé, l’unica occasione per un possibile cambiamento»87.
4. La legge n. 219/2017 come dispositivo di tutela del sofferente psichico Finalmente, dopo anni di discussioni, conflitti e controversie, anche nell’ordinamento italiano – con la legge 22 dicembre 2017, n. 219, rubricata Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento – si è giunti a disciplinare le scelte inerenti le fasi ultime dell’esistenza88. Si tratta di un provvedimento “gentile”, una legislazione per principi che, nella delicata materia delle decisioni sulle cure, rafforza diritti, doveri e responsabilità plasmati su un modello liberale di relazione terapeutica, la cui trama emerge dal tessuto del testo costituzionale, della normazione speciale e dai codici deontologici, oltre che da leading cases giudiziali. Architrave della novella legislativa è il principio di volontarietà dei trattamenti sanitari, dal quale discende l’imprescindibilità del consenso89, così
Comitato Nazionale per la Bioetica, La cura delle persone con malattie mentali: alcuni problemi bioetici, 21 settembre 2017, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Roma, 2017, 10.
87
88 A commento, tra i molti, Carusi, La legge sul “biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 293 ss.; Canestrari., Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una “buona legge buona”, ivi, 301 ss.; Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e dat, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 247 ss.; Baldini, L. n. 219/2017 e disposizioni anticipate di trattamento (Dat), in Fam. e dir., 2018, 803 ss.; Foglia, Consenso e cura: la solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, 176 ss.; Adamo, Costituzione e fine vita. Disposizioni anticipate di trattamento ed eutanasia, Padova, 2018, 81 ss.; inoltre i contributi in Aa. Vv., Forum: La legge n. 219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, in BioLaw Journal - Rivista di Biodiritto, 2018, 11 ss.
Consenso che deve essere consapevole in quanto «il paziente ha diritto di essere informato, in modo completo e comprensibile, su diagnosi, prognosi, benefici e rischi di accertamenti diagnostici e di trattamenti sanitari, sulle possibili 89
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come l’insuperabilità del dissenso del paziente ai fini di un legittimo esercizio dell’attività sanitaria: in questo senso l’art. 1 pone come obiettivo della legge quello della tutela del «diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge». Tali principi si riflettono nella definizione della relazione di cura e di fiducia tra medico e paziente che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. Soggetto, titolare del diritto disciplinato, è la persona capace di agire, che può rifiutare o rinunciare a qualsiasi accertamento diagnostico e trattamento sanitario o singoli atti del trattamento stesso (inclusi nutrizione e l’idratazione artificiale), correlativamente il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale (art. 1, comma 6°). La legge n. 219/2017 disciplina, nel suo terzo articolo, le garanzie da concedere a persone particolarmente vulnerabili – minorenni, soggetti legalmente incapaci o assistiti da un amministratore di sostegno – verso cui vi è la necessità di predisporre strumenti e dispositivi includenti in grado di conciliare la tutela del miglior interesse di individui, con differenti gradazioni di fragilità, con l’irrinunciabile riconoscimento del valore della persona umana che impone di trattarli come soggetti, e non oggetti, della relazione di cura. Per questi soggetti vige una sorta di doppio regime: da un lato, si valorizzano le loro capacità di comprensione e di decisione, rendendoli tributari del diritto a essere informati in modo adeguato alle loro capacità di discernimento, dall’altro, si riafferma il tradizionale ruolo di “decisori sostitutivi”, nel caso dei minori, degli esercenti la responsabilità genitoriale o del tutore, mentre, nel caso dei soggetti
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dichiarati legalmente incapaci e/o con diminuita o compromessa autonomia, rispettivamente, del tutore o dell’amministratore di sostegno, a cui viene conferita la prerogativa di prestare il consenso informato oppure di rifiutarlo. Peraltro nel caso di conflitto tra i genitori, il rappresentante legale dell’incapace o l’amministratore di sostegno e i sanitari riguardo l’appropriatezza o necessità di un determinato trattamento, la decisione sarà rimessa al giudice tutelare. La soluzione normativa inerente la condizione della capacità – prospettata sia in generale sia riguardo i soggetti vulnerabili – appare una scelta deludente che «si arresta alle consolidate categorie del diritto privato, limitandosi a rifugiarsi nella tranquillante maggiore età, accompagnata dalla capacità d’intendere e di volere»90. In sostanza un arretramento rispetto ad una prospettiva di diritto “dal basso” volta a porre al centro l’umanità concreta della persona e la protezione giuridica delle sue attribuzioni che si compenetra nell’attenzione alle situazioni esistenziali. Come ha scritto Ricoeur «la sofferenza non è definita unicamente dal dolore fisico, e neppure dal dolore mentale, ma dalla diminuzione, e anche dalla distruzione della capacità di agire, di poter fare, che vengono sentite come un attentato alla integrità del sé»91. Così il tema della sofferenza si lega a quello della dignità che può essere garantita solo se le persone vedano assicurate le condizioni affinché la loro vita possa essere considerata e sentita come una vita che valga la pena di essere vissuta, attraverso l’eliminazione della sofferenza socialmente generata, che erode le basi della dignità, dell’eguale rispetto e del riconoscimento92. Assumere in termini aprioristici l’insorgenza di uno stato di incapacità
Stanzione, Testamento biologico e autodeterminazione della persona, consultabile all’indirizzo: www.comparazionedirittocivile.it, 6 s.; si esprime valorizzando il testo normativo Ferrando, Art. 3. Minori e incapaci, Forum: La legge n. 219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, cit., 48 ss. 90
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alternative, sulle conseguenze del rifiuto degli stessi o della loro successiva rinuncia».
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Ricoeur, Sé come un altro, Milano, 1993, 286 s.
Pastore, La concretezza dei diritti umani, in Metodo. International Studies in Phenomenology and Philosophy, 2014, 62. 92
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solamente sulla base della diagnosi psichiatrica è da considerare una pratica fuorviante e potenzialmente foriera di gravi errori valutativi, nonché di possibili discriminazioni93. Un discorso giuridico aperto al paradigma di altri saperi impone di valutare l’esperienza mentale e psichica, mettendo in dubbio gli scenari troppo nettamente delineati, per dare preferenza alla compresenza in un unico spettro di differenti stati di coscienza. Sarebbe stato pertanto auspicabile inserire nella novella legislativa una ridefinizione della capacità nel senso proposto nell’esperienza anglo-americana in modo da lasciare uno spazio di decisione a tutti coloro che dimostrano di possedere la consapevolezza e il discernimento adeguati per addivenire ad una scelta in ambito sanitario, anche in presenza di condizioni patologiche tali da determinare gradienti variabili di disfunzione cognitiva94. Diversamente la tradizionale visione dicotomica della capacità mal si adatta a quelle che sono le molteplici sfaccettature dei disturbi mentali, laddove la struttura multidimen-
Mandarelli et al., Il consenso informato e il trattamento sanitario obbligatorio, in Nòoς., 2012, 52; Carpenter Jr et al., Decisional capacity for informed consent in schizophrenia research (2000) 57 Archives Of General Psychiatry 533 ss. 93
Mandarelli, Politi, Ferracuti, Schizofrenia: il problema del consenso informato al trattamento con clozapina, in Gior. it. psicopatologia, 2009, 128, notano che «se si considerano comunque popolazioni di pazienti psichiatrici ospedalizzati, la maggior parte di questi risulta possedere sufficienti capacità decisionali, secondo quanto evidenziato da una recente revisione sistematica della letteratura a riguardo. Peraltro, e stato dimostrato che le facoltà decisionali, ed in particolare le capacita di comprensione delle informazioni date dal medico al paziente, sono suscettibili di miglioramento, ad esempio se l’informazione e ripetuta più volte, anche in soggetti con gravi forme di psicosi. Si vuol sottolineare tale aspetto poichè spesso, nella pratica clinica, si assiste ad un atteggiamento pregiudizievole nei confronti del paziente con patologie psichiatriche gravi, che può comportare una rinunciataria astensione da sforzi volti a migliorare l’effettiva validità del consenso al trattamento». Cfr. Carabellese et al., Mental capacity e capacity to consent: studio multicentrico in un campione di pazienti ricoverati in TSO, in Riv. psichiatria, 2017, 67 ss.; Okai et al., Mental capacity in psychiatric patients: Systematic review (2007) 191 British Journal of Psychiatry 291 ss.; Jeste et al., Magnitude of impairment in decisional capacity in people with schizophrenia compared to normal subjects: an overview (2006) 32 Schizophrenia Bulletin 121 ss. 94
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sionale della competence – basata sulla capacità decisionale del paziente, piuttosto che sullo status – consentirebbe di valutare le reali capacità di prestare consenso del paziente, aprendo alla possibilità di conoscere i suoi reali spazi di libertà decisionale95. Delineato criticamente il quadro delle regole del consenso e rifiuto in materia sanitaria, la legge disciplina i due percorsi attraverso i quali la persona può formalizzare le proprie scelte in materia sanitaria e di fine vita. La prima opzione è rappresentata dalle disposizioni anticipate di trattamento (Dat), ovvero lo strumento mediante il quale una persona maggiorenne, capace di intendere e di volere, in previsione della propria eventuale incapacità di autodeterminarsi e dopo avere acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle scelte, può esprime «le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari» (art. 4, comma 1°)96. Per quanto attiene alla forma, la legge ne prevede, al quinto comma dell’art. 4, la redazione con atto pubblico, scrittura privata autenticata o consegnata all’ufficio dello stato civile e annotata in apposito registro, ove esistente, oppure presso le strutture sanitarie, nelle ipotesi e secondo le modalità specificate nel settimo comma. In considerazione delle condizioni fisiche della persona, è poi consentito che le disposizioni anticipate siano rese attraverso videoregistrazioni o dispositivi che permettano alla persona con disabilità di comunicare. Con le Dat il paziente può nominare un fiduciario, maggiorenne e capace di
95 Grisso e Appelbaum, Il consenso alle cure. Guida alla valutazione per medici e altri operatori sanitari, Torino, 2000. 96 Penasa, Disposizioni anticipate di trattamento, in Consenso informato e DAT: tutte le novità, a cura di Rodolfi, Casonato, Penasa, Il civilista, 2018, 27, il quale osserva come «Le disposizioni anticipate le Dat contribuiscono a realizzare un sistema di strumenti normativi di “sintesi” tra gli elementi, a fondamento costituzionale, che possono essere definiti come “costanti” e quegli elementi fattuali o esistenziali che agiscono quali “variabili” nella determinazione del concreto e mutabile assetto delle prime. In tale contesto, le “costanti” non possono in alcun modo essere sacrificate alla luce delle “variabili”».
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intendere e di volere, che ne faccia le veci e lo rappresenti nelle relazioni con il medico e con le strutture sanitarie (art. 4, comma 1°). Le Dat, pur non espressamente dirette ai sofferenti psichici, possono costituire il veicolo attraverso il quale la persona – anticipando una situazione di incompetenza determinata dall’acuzie della patologia – potrebbe fissare in modo specifico quali terapie o trattamenti approverebbe o rifiuterebbe, esprimendosi in particolare sul trattamento da adottare in fase acuta (ad esempio neurolettici, antipsicotici, farmaci long-acting o depôt, luogo dell’eventuale ricovero, misure di contenzione farmacologica o fisica ecc.)97. In tal caso, anche al fine di divenire un momento autentico di consapevolezza, di insight, sulla patologia, le direttive anticipate dovrebbero contenere una descrizione molto dettagliata della malattia e riportare sia i sintomi riscontrabili durante una fase acuta, sia quelli che preannunciano detta fase. Perché le direttive siano in grado di promuovere l’autodeterminazione del paziente e la sua capacità di prendere decisioni devono quindi farsi prospettiche, dando al paziente la possibilità di immaginare un’eventuale stato di crisi, ma anche la sua risoluzione; inoltre, superando la concezione paternalistica, l’inserimento delle PADs potrebbe dare voce al paziente che diviene protagonista del proprio percorso terapeutico. L’art. 5 dedicato alla Pianificazione condivisa delle cure prevede e disciplina la possibilità di definire, e di fissare in un atto, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica ed invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta, una pianificazione delle cure condivisa tra il paziente ed il medico, alla quale il medico è tenuto ad attenersi qualora il paziente venga a trovarsi nella condizione di non poter esprimere il proprio consenso o in una condizione di incapacità. Questo strumento si pone quindi in alternativa alle Dat98, in quanto in
97 È altresì evidente che le disposizioni anticipate non potrebbero interdire l’adozione di un trattamento sanitario obbligatorio, misura da adottare quale extrema ratio e solo nel rispetto di una riserva di legge rinforzata. 98
Secondo Veronesi, Art. 5. La pianificazione condivisa delle
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questo caso la patologia deve essere già in atto, laddove l’oggetto delle Dat prescinde dall’esistenza di una malattia, consentendo all’interessato di esprimersi pro futuro in vista delle mere eventualità che potrebbero coinvolgerlo. La pianificazione condivisa delle cure – che può essere intrapresa in costanza di una patologia cronica ed invalidante come sono alcune infermità mentali – sembra il percorso più opportuno e adatto alla condizione in cui versa il sofferente psichico, nella misura in cui la comunicazione con il paziente – sia essa volta ad informare o a persuadere della necessità del trattamento – costituisce parte dello statuto stesso del ruolo terapeutico in psichiatria99. È chiaro tuttavia che il dialogo che il sanitario potrà instaurare con il paziente sarà direttamente condizionato dalle forme di manifestazione e dalla gravità della patologia psichiatrica, per cui si potrà passare dal grado zero, costituito del semplice accertamento del livello di competenza della persona, al più strutturato tentativo di instaurare un rapporto volto ad una condivisione del percorso di cura. Se, come già notato, l’insight è un passaggio fondamentale nel percorso terapeutico, la scelta delle PADs avrebbe un effetto benefico per il paziente che si sentirebbe coinvolto e spinto da una rinnovata motivazione nell’aderire al progetto terapeutico, sentito come proprio in quanto frutto di un processo di condivisione. Le PADs sono altresì un
cure, Forum: La legge n. 219 del 2017, Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento, cit., 66 ss., spec. 68 «Quanto caratterizza nel profondo le ipotesi sottese all’art. 5 è dunque il consenso informato del paziente nella sua opportuna dimensione diacronica e non solo sincronica; la particolare patologia dalla quale è affetto il malato richiede pertanto non solo l’assenso immediato al compimento di specifici trattamenti e atti medici a “breve raggio” (…), bensì un “percorso” che si faccia carico dell’intera evoluzione futura delle inesorabili patologie già diagnosticate». 99 Dell’Acqua, Persone, malattia mentale e guarigione, nel Trattato di Biodiritto, diretto da Rodotà e Zatti, I diritti in medicina, a cura di Lenti, Palermo Fabris, Zatti, cit., 786, sottolinea come sia «attraverso una partecipata posizione di ascolto, l’immedesimazione, l’empatia, il mettersi nei panni dell’altro apparentemente incomprensibile, che si può arrivare a comprendere».
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fattore che potrebbe implementare la continuità terapeutica, promuovendo interventi circolari di auto-aiuto e rendendo più efficace la prevenzione secondaria100. Ai sensi della normativa commentata, il paziente e – in caso di suo assenso – i familiari, la parte dell’unione civile, il convivente ovvero una persona di sua fiducia, sono informati in modo esaustivo, in particolare sul possibile evolversi della patologia in atto, di quanto il paziente può attendersi realisticamente in termini di qualità della vita, delle possibilità cliniche di intervenire, delle cure da adottare. Solo e soltanto il paziente potrà poi esprimere il suo consenso a quanto proposto dal medico (art. 5, comma 3°), e ciò deve avvenire mediante il mero inserimento della scelta nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico, ovvero con le stesse modalità già previste per le Dat. La pianificazione quindi avrebbe quale ulteriore effetto un miglioramento nella collaborazione dialogica non solo tra paziente e psichiatra, ma anche con l’universo familiare del paziente stesso, rafforzando legami sociali entro cui poter condividere l’esperienza della vulnerabilità, anche al fine di contrastarne la vocazione all’emarginazione. In tal modo si verrebbe a socializzare la contraddizione della follia, rendendola riconoscibile e affrontabile attraverso strategie che costruiscono comunità, contesti e soggettività in grado di arricchire l’esperienza e le risorse di chi vi è coinvolto. In questo ambito peculiare il fiduciario – indicabile anche nella pianificazione delle cure condivisa tra il paziente e il medico – svolge un ruolo pregnante di facilitatore, poiché partecipa alla relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico, in una fase della patologia diagnosticata nella quale il paziente è capace di manifestare i propri intendimenti. In seguito, in presenza di una successiva incapacità, il fiduciario sarà garante del rispetto della pianificazione delle cure da parte del
In termini evidence-based, le PADs porterebbero a una più duratura remissione sintomatologica, a un minore numero di ricoveri e a un minore utilizzo di Tso. Cfr. Widdershoven e Berghmans, Coercion and pressure in psychiatry: lessons from Ulysses (2007) 33 Journal of Medical Ethics 560 ss.
medico e dell’équipe sanitaria, così come l’intera équipe sarà tenuta «ad attenersi» a essa, essendosi strutturato un preciso vincolo, qualificabile come obbligo di protezione101, in capo ai sanitari che hanno condiviso la fase della pianificazione. In fondo la pianificazione condivisa rappresenta la più completa concretizzazione dell’alleanza terapeutica che, quando si percorrono territori aperti alla sofferenza e spesso generati dalla sofferenza, diviene strumento necessario per salvaguardare la dignità della persona, rendendo possibile alla libertà, espressa nella decisione, di farsi strada «nella confusione, nella paura, nel dolore, nella debolezza fisica che agita e annebbia la mente, nella fragilità delle barriere che ci separano da angeli e dèmoni interiori»102.
100
Castronovo, voce «Obblighi di protezione», in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990, 4 ss.
101
102 Zatti, Oltre la capacità di intendere e volere, in Follia e diritto, a cura di Ferrando e Visintini, cit., 57 s.
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Sul trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario: l’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
g g sa re e a p
Stefano Corso
Cultore nell’Università di Ferrara Sommario: 1. Il Regolamento UE n. 679 del 2016. – 2. I dati relativi alla salute come particolare categoria di dati personali. – 3. Il trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario. – 4. L’informazione all’interessato, il responsabile della protezione dei dati e il registro delle attività di trattamento. – 5. Rilievi conclusivi.
Abstract: Il Garante per la protezione dei dati personali, con provvedimento del 7 marzo 2019, n. 55, ha fornito chiarimenti sull’applicazione della disciplina per il trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario. Dopo un’introduzione sui tratti salienti del reg. UE n. 679 del 2016 e una breve analisi delle disposizioni inerenti alle categorie particolari di dati personali – un tempo “dati sensibili” –, la nota si concentra sulle indicazioni date dall’Autorità in ordine: al trattamento dei dati sulla salute in ambito sanitario, specialmente con riguardo al ruolo del consenso dell’interessato; all’informazione che dev’essere data all’interessato; al responsabile della protezione dei dati; al registro delle attività di trattamento. With measure 55 adopted on 7 March 2019, the Italian Data Protection Authority gave explanations about the application of the rules on the processing of data concerning health in the field of healthcare, in the Italian legal system. After an introduction on the main aspects of the EU General Data Protection Regulation 2016/679 and a concise analysis of the dispositions on special categories of personal data – former “sensitive data” –, this note focuses on the indications given by the Authority on the processing of data concerning health, especially the role of the consent of the data subject, and on the information to be provided, the data protection officer and the record of processing activities.
1. Il Regolamento UE n. 679 del 2016 Il Regolamento UE n. 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 27 aprile 2016, relativo alla protezione delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali, nonché alla libera circolazione di tali dati e che abroga la direttiva n. 46/95 CEE (c.d. GDPR, General Data Protection Regulation) è divenuto applicabile a partire dal 25 maggio 20181.
Sugli aspetti salienti del reg. UE 2016/679 e per una sua panoramica generale, Finocchiaro, Il quadro d’insieme sul Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, Bologna, 2017, 1 ss.; Ead., Introduzione al Regolamento europeo sulla protezione dei dati, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 1 ss.; Pizzetti, Privacy e il diritto europeo alla protezione dei dati personali. Dalla Direttiva 95/46 al nuovo Regolamento europeo, Torino, 2016. V. altresì Tommasi, La nuova disciplina europea sulla protezione dei dati personali, in Studium iuris, 2019, 6 ss.; Lucchini Guastalla, Il nuovo regolamento europeo sul trattamento dei dati personali: i principi ispiratori, in Contr. e impr., 2018, 106 ss.; Piraino, Il regolamento generale sulla protezione dei dati personali e i diritti dell’interessato, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 369 ss.; Bassini, La svolta della privacy europea: il nuovo pacchetto sulla tutela dei dati personali, in Quad. cost., 2016, 587 ss.; Stanzione, Il regolamento europeo sulla privacy: origini e ambito di applicazione, in 1
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Pinnacolo dell’elaborazione giuridica europea sul tema, il Regolamento, collocandosi dopo la direttiva n. 46 del 1995, dopo i provvedimenti nazionali di recepimento, dopo gli sviluppi giurisprudenziali, dopo vari interventi delle Autorità garanti europee, dopo le riflessioni della scienza, dopo i progressi tecnologici, assume l’aspetto di un gran Restatement, ma, lungi dal limitarsi a un’opera di ricognizione, puramente avalutativa, viene ad essere qualcosa di più, con l’espressione di scelte di politica del diritto2. I principi sanciti dal Regolamento e che irradiano l’intero sistema del trattamento dei dati personali3 sono stati delineati all’art. 5: liceità, correttezza e trasparenza, limitazione della finalità, minimizzazione dei dati, esattezza, limitazione della conservazione, integrità e riservatezza, responsabilizzazione. Ma il Regolamento ha anche provveduto all’espressa enunciazione di diritti e obblighi, rispettivamente dell’interessato4 e del titolare del trattamento5. Così è stato per diritti quali il “diritto
Eur. e dir. priv., 2016, 1249 ss. Con un taglio più pratico, Di Resta, La nuova “privacy europea”. I principali adempimenti del regolamento UE 2016/679 e profili risarcitori, Torino, 2018; cfr. Castellaneta, L’incidenza del regolamento GDPR sul quadro normativo esistente, in Notariato, 2018, 259 ss. Piraino, Il regolamento generale sulla protezione dei dati personali e i diritti dell’interessato, cit., 373 ss. 2
Alle definizioni è dedicato l’art. 4 del Regolamento. Così il “dato personale” viene definito come qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile – l’interessato –, considerando identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale, e il “trattamento” come qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l’ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l’organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l’adattamento o la modifica, l’estrazione, la consultazione, l’uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l’interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione.
3
Sulla posizione dell’interessato A. Ricci, I diritti dell’interessato, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 179 ss.
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Il Regolamento definisce il “titolare del trattamento” come
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di accesso” (art. 15), il “diritto di rettifica” (art. 16), il “diritto all’oblio” (art. 17), il “diritto di limitazione del trattamento” (art. 18), il “diritto alla portabilità dei dati” (art. 20), il “diritto di opposizione” (art. 21), il “diritto a non essere sottoposto a decisioni automatizzate” (art. 22). Quanto alla posizione del titolare, si sono tracciate le modalità di trattamento e le informazioni da fornire all’interessato. Per l’adozione di misure tecniche e organizzative volte alla sicurezza dei dati e la valutazione preventiva del rischio inerente al trattamento, si sono stabiliti ulteriori adempimenti6. Si è privilegiato poi, nella prospettazione delle misure volte a contenere il rischio7, l’approccio conforme ai metodi di privacy by design e privacy by default, in particolare disponendo, all’art. 25, che il titolare
la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che, singolarmente o insieme ad altri, determina le finalità e i mezzi del trattamento di dati personali; quando le finalità e i mezzi di tale trattamento sono determinati dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, il titolare del trattamento o i criteri specifici applicabili alla sua designazione possono essere stabiliti dal diritto dell’Unione o degli Stati membri (art. 4, n. 7). Cuffaro, Il diritto europeo sul trattamento dei dati personali, in Contr. e impr., 2018, 1103 ss. Sul diritto all’oblio, in particolare, Thiene, Segretezza e riappropriazione di informazioni di carattere personale: riserbo e oblio nel nuovo Regolamento europeo, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 410 ss.; Bonavita e Pardolesi, GDPR e diritto alla cancellazione (oblio), in Danno e resp., 2018, 269 ss.; Barbierato, Osservazioni sul diritto all’oblio e la (mancata) novità del Regolamento UE 2016/679 sulla protezione dei dati personali, in Resp. civ. e prev., 2017, 2100 ss.; Senigaglia, Reg. UE 2016/679 e diritto all’oblio nella comunicazione telematica. Identità, informazione e trasparenza nell’ordine della dignità personale, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 1023 ss.; Martinelli, Diritto all’oblio e motori di ricerca: il bilanciamento tra memoria e oblio in internet e le problematiche poste dalla de-indicizzazione, in Dir. inf., 2017, 565 ss.; Tampieri, Il diritto all’oblio e la tutela dei dati personali, in Resp. civ. e prev., 2017, 1010 ss. 6
«Il nuovo Regolamento accresce la responsabilità correlata al trattamento dei dati, ricorrendo ad un modello di analisi del rischio che, ad oggi, non è ancora generalmente adottato nell’ambito delle singole discipline nazionali in materia di trattamento dati. Tale obiettivo viene raggiunto grazie alle nuove disposizioni riguardanti l’analisi dei rischi, la valutazione d’impatto e la consultazione preventiva delle autorità di protezione dei dati». Mantelero, Responsabilità e rischio nel Reg. UE 2016/679, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 156. 7
L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
del trattamento metta in atto misure tecniche e organizzative adeguate per impostazione predefinita8. Si è introdotta esplicitamente la pseudonimizzazione9, che, come indicato al considerando 28, applicata ai dati personali è in grado di diminuire i rischi per gli interessati e aiutare i titolari e i responsabili10 del trattamento a rispettare i loro obblighi di protezione dei dati. Sono state ristrutturate e specificate le norme relative al trasferimento dei dati all’estero, contemplando in modo espresso il ruolo dell’Autorità di controllo capofila, lead supervisory authority11.
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Si è cambiato pure il regime di responsabilità civile, che ora sembra abbracciare un’impostazione diversa da quella della responsabilità oggettiva12. Si può cogliere allora come sia stato considerevole l’impatto della normativa europea, che, volta all’uniformazione delle legislazioni, com’è noto, ha interessato tutti gli Stati membri dell’Unione europea, su più fronti, non solo su quello economico13.
sonali verso Paesi terzi o organizzazioni internazionali, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 423 ss. È l’art. 82 a regolare il regime di responsabilità del titolare o del responsabile del trattamento. V. Finocchiaro, Il quadro d’insieme sul Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, cit., 12. In senso difforme Agrifoglio, Risarcimento e quantificazione del danno da lesione della privacy: dal danno alla persona al danno alla personalità, in Eur. e dir. priv., 2017, 1300, secondo cui «il nuovo regolamento ha finito per stabilire, così come già aveva fatto il legislatore italiano, un regime di responsabilità aggravata (rectius, oggettiva) nel quale sui vari titolari o sui vari responsabili grava, così come avviene con l’art. 2050 c.c., l’onere di dimostrare che il danno non è in alcun modo a loro riconducibile poiché dovuto, in buona sostanza, al caso fortuito». Sul punto v. anche Ratti, La responsabilità da illecito trattamento dei dati personali nel nuovo Regolamento, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 622, per cui «al fine di qualificare il regime che la disposizione in esame delinea si dovrà verificare quale significato le sarà attribuito dal legislatore nazionale e dalla giurisprudenza». Per una disamina invece delle problematiche legate al danno non patrimoniale, Thobani, Il danno non patrimoniale da trattamento illecito dei dati personali, in Dir. inf., 2017, 427 ss. 12
Finocchiaro, Introduzione al Regolamento europeo sulla protezione dei dati, cit., 14. Sulle nozioni di privacy by design e privacy by default in riferimento alla tutela della persona, Principato, Verso nuovi approcci alla tutela della privacy: privacy by design e privacy by default settings, in Contr. e impr. Eu., 2015, 197 ss.; Lucchini Guastalla, op. cit., 122 s. Nel Regolamento, tale intento è veicolato anche dal considerando 78. 8
La “pseudonimizzazione” è definita come il trattamento dei dati personali in modo tale che i dati personali non possano più essere attribuiti a un interessato specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile (art. 4, n. 5).
9
10 Il “responsabile del trattamento” è una figura distinta da quella del titolare: egli è definito come la persona fisica o giuridica, l’autorità pubblica, il servizio o altro organismo che tratta dati personali per conto del titolare del trattamento (art. 4, n. 8). Per un’analisi di questi ruoli, Greco, I ruoli: titolare e responsabile, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 251 ss. 11 L’art. 56 si occupa della competenza dell’Autorità di controllo capofila. Cfr. Guardigli, Il Garante per la protezione dei dati e la cooperazione fra Autorità Garanti. Sezione I. Le Autorità di controllo, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 489 ss.; Macchia e Figliolia, Autorità per la privacy e Comitato europeo nel quadro del General Data Protection Regulation, in Giornale di diritto amministrativo, 2018, 423 ss. Sugli aspetti della transnazionalità, Esposito, Il Garante per la protezione dei dati e la cooperazione fra Autorità Garanti. Sezione II. Il trattamento transfrontaliero e la cooperazione tra Autorità Garanti, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 516 ss.; Valle e Greco, Transnazionalità del trattamento dei dati personali e tutela degli interessati, tra strumenti di diritto internazionale privato e la prospettiva di principi di diritto privato di formazione internazionale, in Dir. inf., 2017, 168 ss.; Meneghetti, Trasferimenti di dati per-
Cfr. Iuliani, Note minime in tema di trattamento dei dati personali, in Eur. e dir. priv., 2018, 293 ss.; Ricciuto, La patrimonializzazione dei dati personali. Contratto e mercato nella ricostruzione del fenomeno, in Dir. inf., 2018, 689 ss.; Spina, Alla ricerca di un modello di regolazione per l’economia dei dati. Commento al Regolamento (UE) 2016/679, in Rivista della Regolazione dei mercati, 2016, 143 ss. Il trattamento e la circolazione dei dati personali necessariamente si intersecano con il mondo della rete, in cui ogni trasferimento di dati confluisce e si aggrega originando il fenomeno c.d. dei Big Data. Maestri, Lex informatica. Diritto, persona e potere nell’età del cyberspazio, Napoli, 2015, 45 ss. V. Mastrelia, Gestione dei bigdata in una prospettiva orientata alla tutela della privacy degli individui, in Dir. ind., 2018, 364 ss.; Ruotolo, I dati non personali: l’emersione dei big data nel diritto dell’Unione europea, in Studi sull’integrazione europea, 2018, 97 ss.; Moretti, Algoritmi e diritti fondamentali della persona. Il contributo del Regolamento (UE) 2016/679, in Dir. inf., 2018, 799 ss.; Vessia, Big data: dai vantaggi competitivi alle pratiche abusive, in Giur. comm., 2018, 1064 ss.; Biferali, Big data e valutazione del merito creditizio per l’accesso al peer to peer lending, in Dir. inf., 2018, 487 ss.; Falce, 13
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In Italia la fonte interna che regola la materia è il d.lgs. n. 196 del 2003, originariamente recante “Codice in materia di protezione dei dati personali”, il c.d. Codice della privacy, il quale ha abrogato la legge n. 675 del 31 dicembre 1996 (“Tutela delle persone e di altri soggetti rispetto al trattamento dei dati personali”). Il Codice della privacy è stato dunque modi-
L’“insostenibile leggerezza” delle regole sulle banche dati nell’unione dell’innovazione, in Riv. dir. ind., 2018, 377 ss.; Pellecchia, Profilazione e decisioni automatizzate al tempo della Black Box Society: qualità dei dati e leggibilità dell’algoritmo nella cornice della Responsible Research and Innovation, in Nuove leggi civ. comm., 2018, 1209 ss.; Bolognini e Bistolfi, Pseudonymization and Impacts of Big (Personal/Anonymous) Data Processing in the Transition from the Directive 95/46/EC to the New EU General Data Protection Regulation (2017) Computer Law & Security Review 171 ss.; Costantino, Lampi. Nuove frontiere delle decisioni amministrative tra open e big data, in Dir. amm., 2017, 799 ss.; Falcone, Big data e pubbliche amministrazioni: nuove prospettive per la funzione conoscitiva pubblica, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2017, 601 ss.; Berlingò, Il fenomeno della datafication e la sua giuridicizzazione, ivi, 641 ss.; Zeno Zencovich e Giannone Codiglione, Ten legal perspectives on the “big data revolution”, in Conc. merc., 2016, 29 ss.; Weber, Data portability and big data analytics. New competition policy challenges, ivi, 59 ss.; Carullo, Big Data e pubblica amministrazione nell’era delle banche dati interconnesse, ivi, 181 ss.; Bellomo, “There ain’t no such thing as a free lunch”. Una riflessione sui meccanismi di mercato dell’economia digitale e sull’effettività delle tutele esistenti, ivi, 205 ss. Per un particolare sguardo alla dimensione del lavoro, Pizzoferrato, Gli effetti del GDPR sulla disciplina del trattamento aziendale dei dati del lavoratore, in ADL. Argomenti di Diritto del Lavoro, 2018, 1034 ss.; Donini, Tecniche avanzate di analisi dei dati e protezione dei lavoratori, in Dir. rel. ind., 2018, 222 ss.; Del Federico, Trattamento dei dati nell’ambito dei rapporti di lavoro, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 629 ss.; Proia, Trattamento dei dati personali, rapporto di lavoro e l’«impatto» della nuova disciplina dei controlli a distanza, in Riv. it. dir. lav., 2016, 547 ss. Con riferimento invece agli enti non profit, Ciongoli, La “nuova” Privacy e gli Enti del Terzo Settore, in Cooperative ed Enti non Profit, 2019, 16 ss. Sul rapporto con il diritto d’autore, Thiene, I diritti morali d’autore, in Riv. dir. civ., 2018, 1522 ss.; De Vecchi Lajolo, Il ritratto tra GDPR e legge sul diritto d’autore, in Dir. ind., 2018, 532 ss. Dal punto di vista amministrativistico, D’Alterio, Protezione dei dati personali e accesso amministrativo: alla ricerca dell’“ordine segreto”, in Giorn. dir. amm., 2019, 9 ss.; D’Ancona, Trattamento e scambio di dati e documenti tra pubbliche amministrazioni, utilizzo delle nuove tecnologie e tutela della riservatezza tra diritto nazionale e diritto europeo, in Riv. it. dir. pubbl. com., 2018, 587 ss.; Fonderico, La regolazione amministrativa del trattamento dei dati personali, in Giorn. dir. amm., 2018, 415 ss.; Fiorentino, Il trattamento dei dati personali: l’impatto sulle amministrazioni pubbliche, ivi, 690 ss.
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ficato, alla luce delle disposizioni del Regolamento e per l’adeguamento ad esso, dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, entrato in vigore il 19 settembre 2018, che ne ha cambiato anche il nomen14. Il mutamento dell’assetto normativo ha toccato anche il mondo delle professioni sanitarie, dal momento che è stata ridisegnata – ora con ricalchi, ora con modifiche, ora con aggiunte – l’intera disciplina delle regole sul trattamento dei dati, compresi quelli sanitari. Svariati e molteplici sono quindi i dubbi interpretativi sorti intorno al nuovo e articolato insieme di norme applicabili in relazione al trattamento proprio di questo tipo di dati. Così, con provvedimento del 7 marzo 2019, n. 5515, il Garante per la protezione dei dati personali ha fornito chiarimenti sull’applicazione della disciplina per il trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario. Tale provvedimento è stato adottato, in particolare, a seguito dell’esame, da parte dell’Autorità ga-
Sul d.lgs. n. 101/2018, nel dettaglio, v. Cuffaro, Quel che resta di un codice: il D.Lgs. 10 agosto 2018, n. 101 detta le disposizioni di adeguamento del codice della privacy al regolamento sulla protezione dei dati, in Corr. giur., 2018, 1181 ss., il quale, esprimendosi in senso critico, evidenzia come il d.lgs. n. 101/2018 abbia compiuto sul “vecchio” Codice della privacy «numerosi tagli e complesse riformulazioni, così da determinare un esito difficilmente intellegibile, in aperta contraddizione con le indicazioni provenienti dallo stesso Regolamento che, nel considerando 8, autorizzava espressamente gli Stati membri ad adottare provvedimenti legislativi “nella misura necessaria per la coerenza e per rendere le disposizioni nazionali comprensibili alle persone cui si applicano”. […] A complicare ed a rendere, ove possibile, più ardua l’intelligenza del testo, concorre poi la scelta del decreto - cui avrebbe dovuto essere affidato il compito di adeguare la normativa alle disposizioni del Regolamento e quindi semplificare il compito dell’interprete - di non provvedere ad una numerazione progressiva degli articoli, aggiunti ovvero lasciati nel Codice con modifiche, bensì di procedere per interpolazioni». Per i profili di diritto penale, Manes e Mazzacuva, GDPR e nuove disposizioni penali del Codice privacy, in Dir. pen. proc., 2019, 167 ss. 14
Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 7 marzo 2019, n. 55, “Chiarimenti sull’applicazione della disciplina per il trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario”, consultabile all’indirizzo: www.garanteprivacy.it. Il provvedimento è commentato da Busca, nota di aggiornamento, 8 aprile 2019, in www.rivistaresponsabilitamedica.it. V. altresì Alovisio, Primi chiarimenti del Garante privacy sul trattamento dei dati in ambito sanitario, consultabile all’indirizzo: www.dirittoegiustizia.it. 15
L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
rante, delle segnalazioni e dei quesiti che hanno sollevato dubbi sull’interpretazione delle disposizioni, oggi differenti, riguardanti il trattamento dei dati sulla salute nel settore sanitario, nonché avendo ritenuto opportuno supportare i soggetti operanti in tale ambito nel processo di attuazione della disciplina e favorire un’interpretazione uniforme del nuovo assetto normativo, fornendo orientamenti utili per i cittadini e gli operatori del settore, specialmente con riferimento ai responsabili della protezione dei dati16.
2. I dati relativi alla salute come particolare categoria di dati personali L’art. 4 del Regolamento definisce i “dati relativi alla salute” come i dati personali attinenti alla salute fisica o mentale di una persona fisica, compresa la prestazione di servizi di assistenza sanitaria, che rivelano informazioni relative al suo stato di salute17. «Nei dati personali relativi alla salute dovrebbero rientrare tutti i dati riguardanti lo stato di salute dell’interessato che rivelino informazioni connesse allo stato di salute fisica o mentale passata, presente o futura dello stesso. Questi
Il provvedimento in commento è stato adottato dal Garante per la protezione dei dati personali ai sensi degli artt. 57, par. 1, lett. b) e d) del Regolamento e 154, comma 1°, lett. g) del d.lgs. n. 101/2018. 16
È opportuno precisare che i “dati relativi alla salute” vengono distinti dal Regolamento dai “dati genetici” e dai “dati biometrici”, essendo definiti, all’art. 4, i primi come dati personali relativi alle caratteristiche genetiche ereditarie o acquisite di una persona fisica che forniscono informazioni univoche sulla fisiologia o sulla salute di detta persona fisica, e che risultano in particolare dall’analisi di un campione biologico della persona fisica in questione, e i secondi come dati personali ottenuti da un trattamento tecnico specifico relativi alle caratteristiche fisiche, fisiologiche o comportamentali di una persona fisica che ne consentono o confermano l’identificazione univoca, quali l’immagine facciale o i dati dattiloscopici. I dati genetici possono essere considerati specificazione dei dati sanitari. Del Federico e Popoli, Disposizioni generali, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 66 ss. Sul trattamento dei dati genetici e il ruolo delle biobanche, anche con riferimento al reg. U.E. n. 679 del 2016, v. C. Ricci e P. Ricci, Le biobanche di ricerca: questioni e disciplina, in Riv. it. med. leg., 2018, 93 ss. 17
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comprendono informazioni sulla persona fisica raccolte nel corso della sua registrazione al fine di ricevere servizi di assistenza sanitaria o della relativa prestazione di cui alla direttiva n. 24/2011 UE del Parlamento europeo e del Consiglio; un numero, un simbolo o un elemento specifico attribuito a una persona fisica per identificarla in modo univoco a fini sanitari; le informazioni risultanti da esami e controlli effettuati su una parte del corpo o una sostanza organica, compresi i dati genetici e i campioni biologici; e qualsiasi informazione riguardante, ad esempio, una malattia, una disabilità, il rischio di malattie, l’anamnesi medica, i trattamenti clinici o lo stato fisiologico o biomedico dell’interessato, indipendentemente dalla fonte, quale, ad esempio, un medico o altro operatore sanitario, un ospedale, un dispositivo medico o un test diagnostico in vitro»18. Come espresso chiaramente dal considerando 51, quei dati personali che sono particolarmente sensibili, per loro natura, sotto il profilo dei diritti e delle libertà fondamentali, giacché il contesto del loro trattamento potrebbe creare rischi significativi per i diritti e le libertà fondamentali, sono meritevoli di protezione specifica. Tale considerazione era già stata espressa in un documento del 2011 dal Gruppo di lavoro ex art. 2919, indirizzato alla Commissione europea, in cui veniva spiegato che doveva presumersi che un abuso di questa tipologia di dati fosse suscettibile di avere conseguenze più gravi per i diritti fondamentali della persona, compresso quello alla non discriminazione20. Così, all’art. 9, il Regolamento sancisce il divieto generale di procedere al trattamento di quelle che vengono chiamate particolari categorie di dati21,
Così recita il considerando 35 del Regolamento. Sul livello europeo del diritto alla salute, anche con riguardo alla Direttiva 2011/24/UE, Cappuccini, La dimensione europea del diritto alla salute, in La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, a cura di Alpa, Pisa, 2017, 55 ss. 18
19 WP29, Advice paper on special categories of data («sensitive data»), aprile 2011. 20 «L’uso improprio dei dati sanitari, infatti, può avere conseguenze irreversibili e a lungo termine per l’individuo». Del Federico e Popoli, op. cit., 70.
Conduce una disamina dettagliata della norma Granieri, Il trattamento di categorie particolari di dati personali nel Reg.
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tra cui rientrano i dati relativi alla salute della persona. «È vietato trattare dati personali che rivelino l’origine razziale o etnica, le opinioni politiche, le convinzioni religiose o filosofiche, o l’appartenenza sindacale, nonché trattare dati genetici, dati biometrici intesi a identificare in modo univoco una persona fisica, dati relativi alla salute o alla vita sessuale o all’orientamento sessuale della persona». Tale divieto però, pur se espresso in modo cristallino, non è assoluto, poiché sono previste ipotesi in cui è possibile derogarvi22. Dopo aver stabilito all’art. 9, par. 1, come detto, il divieto di trattamento delle enunciate categorie particolari di dati personali, si procede con l’elencazione di una serie di eccezioni a tale divieto generale, al par. 2 dello stesso articolo23. Questa logica sem-
UE 2016/679, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 165 ss. Lo schema normativo di cui all’art. 9 del Regolamento, per il quale prima è sancito il divieto generale e poi ad esso seguono specifiche eccezioni, era presente anche all’art. 8 della Direttiva n. 46/95 CEE, rubricato “Trattamenti riguardanti particolari categorie di dati”. 22
Art. 9, par. 2: «Il paragrafo 1 non si applica se si verifica uno dei seguenti casi: a) l’interessato ha prestato il proprio consenso esplicito al trattamento di tali dati personali per una o più finalità specifiche, salvo nei casi in cui il diritto dell’Unione o degli Stati membri dispone che l’interessato non possa revocare il divieto di cui al paragrafo 1; b) il trattamento è necessario per assolvere gli obblighi ed esercitare i diritti specifici del titolare del trattamento o dell’interessato in materia di diritto del lavoro e della sicurezza sociale e protezione sociale, nella misura in cui sia autorizzato dal diritto dell’Unione o degli Stati membri o da un contratto collettivo ai sensi del diritto degli Stati membri, in presenza di garanzie appropriate per i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato; c) il trattamento è necessario per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica qualora l’interessato si trovi nell’incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso; d) il trattamento è effettuato, nell’ambito delle sue legittime attività e con adeguate garanzie, da una fondazione, associazione o altro organismo senza scopo di lucro che persegua finalità politiche, filosofiche, religiose o sindacali, a condizione che il trattamento riguardi unicamente i membri, gli ex membri o le persone che hanno regolari contatti con la fondazione, l’associazione o l’organismo a motivo delle sue finalità e che i dati personali non siano comunicati all’esterno senza il consenso dell’interessato; e) il trattamento riguarda dati personali resi manifestamente pubblici dall’interessato; f) il trattamento è necessario per accertare, esercitare o difendere un diritto in sede giudiziaria o ogniqualvolta le autorità giurisdizionali esercitino le loro funzioni giurisdizionali; g) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base 23
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Saggi e pareri
bra rientrare nell’affermazione di principio operata quasi in apertura del Regolamento stesso, al considerando 4: «Il diritto alla protezione dei dati di carattere personale non è una prerogativa assoluta, ma va considerato alla luce della sua funzione sociale e va contemperato con altri diritti fondamentali, in ossequio al principio di proporzionalità»24. Si deve pure osservare che la prima delle deroghe previste dal par. 2 dell’art. 9, quella espressa alla
del diritto dell’Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato; h) il trattamento è necessario per finalità di medicina preventiva o di medicina del lavoro, valutazione della capacità lavorativa del dipendente, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, fatte salve le condizioni e le garanzie di cui al paragrafo 3; i) il trattamento è necessario per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato, in particolare il segreto professionale; j) il trattamento è necessario a fini di archiviazione nel pubblico interesse, di ricerca scientifica o storica o a fini statistici in conformità dell’articolo 89, paragrafo 1, sulla base del diritto dell’Unione o nazionale, che è proporzionato alla finalità perseguita, rispetta l’essenza del diritto alla protezione dei dati e prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato». 24 «Si giustifica così che il trattamento dei dati sensibili sia sottoposto a norme più stringenti e rigorose delle regole applicabili al trattamento di dati personali non sensibili, considerato che le informazioni sensibili, quali ad esempio quelle relative allo stato di salute o all’orientamento sessuale, costituiscono parte integrante della sfera più intima della persona e possono, se trattate senza le necessarie cautele, tradursi in gravi lesioni per l’identità del singolo. Oltre che giustificare rigorosi parametri di tutela, la “funzione sociale” è criterio interpretativo di possibili conflitti tra pretesa individuale ed esigenze collettive. Di qui la possibilità di trattare dati sanitari e di natura genetica senza il consenso dell’interessato qualora si debba tutelare la salute o l’incolumità fisica di terzi o della collettività». Così A. Ricci, Sulla «funzione sociale» del diritto alla protezione dei dati personali, in Contr. e impr., 2017, 610 s. Un’opportunità di prevedere deroghe al divieto generale di trattare le categorie particolari di dati personali è preannunciata specialmente ai considerando 51, 52, 53 e 54 del Regolamento, cui si rinvia.
L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
lett. a), si sostanzia nel consenso dell’interessato25, in particolare il consenso esplicito al trattamento di tali dati personali per una o più finalità specifiche. Il Regolamento, qui, usa proprio questo aggettivo, “esplicito”, a sottolineare l’intenzionalità,
Il “consenso dell’interessato” è definito all’art. 4, n. 11, del Regolamento come qualsiasi manifestazione di volontà libera, specifica, informata e inequivocabile dell’interessato, con la quale lo stesso manifesta il proprio assenso, mediante dichiarazione o azione positiva inequivocabile, che i dati personali che lo riguardano siano oggetto di trattamento. Descrive l’ambivalenza del consenso, nel suo effetto autorizzativo e in quello regolativo, Messinetti, Circolazione dei dati personali e dispositivi di regolazione dei poteri individuali, in Riv. crit. dir. priv., 1998, 351 ss. Sul consenso al trattamento dei dati personali, Caggiano, Il consenso al trattamento dei dati personali nel nuovo Regolamento europeo. Analisi giuridica e studi comportamentali, in Osservatorio del diritto civile e commerciale, 2018, 67 ss.; Bravo, Il consenso e le altre condizioni di liceità del trattamento dei dati personali, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 101 ss.; Thobani, La libertà del consenso al trattamento dei dati personali e lo sfruttamento economico dei diritti della personalità, in Eur. e dir. priv., 2016, 513 ss. Nel dettaglio, sulla posizione del minore, Thiene, Segretezza e riappropriazione di informazioni di carattere personale: riserbo e oblio nel nuovo Regolamento europeo, cit., 410 ss.; Caggiano, Privacy e minori nell’era digitale. Il consenso al trattamento dei dati dei minori all’indomani del Regolamento UE 2016/679, tra diritto e tecno-regolazione, in Familia, 2018, 3 ss.; Naddeo, Il consenso al trattamento dei dati personali del minore, in Dir. inf., 2018, 27 ss. Cfr. le considerazioni svolte da Thiene, Ragazzi perduti online: illeciti dei minori e responsabilità dei genitori, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1623, nella nota a Trib. Sulmona, 9.4.2018. Relativamente alla disciplina del Codice della privacy anteriore alle modifiche apportate dal d.lgs. n. 101/2018, v. Cass., 13.2.2018, n. 3426, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1270 ss., con nota di Petruzzi, Privacy e danno da diffusione mediatica non autorizzata del proprio nominativo, ordinanza così massimata: «In tema di lesione dell’interesse al rispetto dei propri dati personali, deve essere riconosciuto il danno consistente nella sofferenza morale patita da un soggetto in seguito alla diffusione senza consenso, nel corso di una trasmissione televisiva, del proprio nominativo, peraltro evocato anche in associazione alla localizzazione del proprio studio professionale, in un contesto totalmente estraneo a quello strettamente professionale. (Nel caso di specie, il S.C. ha confermato la sentenza della corte d’appello, che aveva fondato il riscontro del danno causato dall’esposizione mediatica non autorizzata del nominativo del soggetto coinvolto, sulla base dell’estensione a quest’ultimo del fatto positivo rappresentato dalla ricorrenza di una condizione di sofferenza legata alla lesione dell’interesse della generalità dei consociati al rispetto della propria riservatezza, considerato alla stregua di una nozione di comune esperienza, rilevante ai sensi dell’art. 115, comma 2º, cod. proc. civ.)». 25
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la determinazione e la pregnanza di tale consenso al trattamento di queste peculiari tipologie di dati. L’espressione del consenso al trattamento dei dati personali, appartenenti a queste categorie, è la prima condizione di liceità del trattamento stesso. Nelle successive eccezioni, la deroga al divieto si fonda su una basa giuridica che prescinde dal consenso e che si ricollega all’esercizio di funzioni che si riferiscono all’interesse dell’individuo o all’interesse generale dello Stato ovvero si riconnette all’esercizio di libertà fondamentali di terzi26. L’art. 9 contempla poi, al par. 4, la possibilità per gli Stati membri di mantenere o introdurre ulteriori condizioni, comprese limitazioni, con riferimento al trattamento specificamente di dati genetici, dati biometrici o dati relativi alla salute, conformemente a quanto affermato più in generale al considerando 10, a mente del quale il Regolamento «prevede anche un margine di manovra degli Stati membri per precisarne le norme, anche con riguardo al trattamento di categorie particolari di dati personali («dati sensibili»). In tal senso, il presente regolamento non esclude che il diritto degli Stati membri stabilisca le condizioni per specifiche situazioni di trattamento, anche determinando con maggiore precisione le condizioni alle quali il trattamento di dati personali è lecito». Il d.lgs. n. 101/2018 ha così previsto che il Garante completi l’individuazione dei presupposti di liceità dei suddetti trattamenti, adottando specifiche misure di garanzia e promuovendo l’adozione di regole deontologiche (artt. 2 septies e 2 quater del d.lgs. n. 196 del 200327). Inoltre, nella
V. Granieri, op. cit., 170 ss., il quale prospetta come tale situazione giuridica sia sancita nella veste di diritto indisponibile al par. 1 e poi sia degradata a diritto di natura proprietaria nel secondo paragrafo.
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27 Art. 2 septies: «1. In attuazione di quanto previsto dall’articolo 9, paragrafo 4, del regolamento, i dati genetici, biometrici e relativi alla salute, possono essere oggetto di trattamento in presenza di una delle condizioni di cui al paragrafo 2 del medesimo articolo ed in conformità alle misure di garanzia disposte dal Garante, nel rispetto di quanto previsto dal presente articolo. 2. Il provvedimento che stabilisce le misure di garanzia di cui al comma 1 è adottato con cadenza almeno biennale e tenendo conto: a) delle linee guida, delle raccomandazioni e delle migliori prassi pubblicate dal Comitato europeo per la protezione dei dati e delle migliori prassi in materia di trattamento
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previsione di un periodo transitorio, ha affidato alla stessa Autorità da un lato l’individuazione e l’eventuale aggiornamento delle prescrizioni di cui alle autorizzazioni generali sul trattamento dei c.d. dati sensibili che fossero compatibili con la nuova normativa europea e con il decreto per l’a-
dei dati personali; b) dell’evoluzione scientifica e tecnologica nel settore oggetto delle misure; c) dell’interesse alla libera circolazione dei dati personali nel territorio dell’Unione europea. 3. Lo schema di provvedimento è sottoposto a consultazione pubblica per un periodo non inferiore a sessanta giorni. 4. Le misure di garanzia sono adottate nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 9, paragrafo 2, del Regolamento, e riguardano anche le cautele da adottare relativamente a: a) contrassegni sui veicoli e accessi a zone a traffico limitato; b) profili organizzativi e gestionali in ambito sanitario; c) modalità per la comunicazione diretta all’interessato delle diagnosi e dei dati relativi alla propria salute; d) prescrizioni di medicinali. 5. Le misure di garanzia sono adottate in relazione a ciascuna categoria dei dati personali di cui al comma 1, avendo riguardo alle specifiche finalità del trattamento e possono individuare, in conformità a quanto previsto al comma 2, ulteriori condizioni sulla base delle quali il trattamento di tali dati è consentito. In particolare, le misure di garanzia individuano le misure di sicurezza, ivi comprese quelle tecniche di cifratura e di pseudonomizzazione, le misure di minimizzazione, le specifiche modalità per l’accesso selettivo ai dati e per rendere le informazioni agli interessati, nonché le eventuali altre misure necessarie a garantire i diritti degli interessati. 6. Le misure di garanzia che riguardano i dati genetici e il trattamento dei dati relativi alla salute per finalità di prevenzione, diagnosi e cura nonché quelle di cui al comma 4, lettere b), c) e d), sono adottate sentito il Ministro della salute che, a tal fine, acquisisce il parere del Consiglio superiore di sanità. Limitatamente ai dati genetici, le misure di garanzia possono individuare, in caso di particolare ed elevato livello di rischio, il consenso come ulteriore misura di protezione dei diritti dell’interessato, a norma dell’articolo 9, paragrafo 4, del regolamento, o altre cautele specifiche. 7. Nel rispetto dei principi in materia di protezione dei dati personali, con riferimento agli obblighi di cui all’articolo 32 del Regolamento, è ammesso l’utilizzo dei dati biometrici con riguardo alle procedure di accesso fisico e logico ai dati da parte dei soggetti autorizzati, nel rispetto delle misure di garanzia di cui al presente articolo. 8. I dati personali di cui al comma 1 non possono essere diffusi». Art. 2 quater: «1. Il Garante promuove, nell’osservanza del principio di rappresentatività e tenendo conto delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa sul trattamento dei dati personali, l’adozione di regole deontologiche per i trattamenti previsti dalle disposizioni di cui agli articoli 6, paragrafo 1, lettere c) ed e), 9, paragrafo 4, e al capo IX del Regolamento, ne verifica la conformità alle disposizioni vigenti, anche attraverso l’esame di osservazioni di soggetti interessati e contribuisce a garantirne la diffusione e il rispetto.
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Saggi e pareri
deguamento e dall’altro la verifica della conformità dei codici deontologici al Regolamento (artt. 20 e 21 del d.lgs. n. 101/2018). Attuando la disciplina transitoria, il Garante per la protezione dei dati personali ha individuato le prescrizioni, contenute nelle autorizzazioni generali, compatibili con le disposizioni del Regolamento e del d.lgs. n. 101/2018, contestualmente deliberando l’avvio di una procedura di consultazione pubblica, per acquisire osservazioni e proposte a cura dei soggetti interessati, con provvedimento del 13 dicembre 2018, n. 49728. Con un altro provvedimento, invece, il n. 515 del 19 dicembre 2018, ha verificato la conformità delle disposizioni contenute nei Codici di deontologia e di buona condotta per i trattamenti di dati personali per fini storici, statistici, scientifici al Regolamento, provvedendo altresì alla loro conversione in regole deontologiche, il rispetto delle quali, come disposto dall’art. 2 quater, comma 4°, del d.lgs. n. 196/2003, costituisce condizione essenziale per la liceità e correttezza del trattamento dei dati personali29. Come indicato nel provvedimento in commento, il n. 55 del 2019, infine, l’Autorità ha dato avvio alla redazione degli atti che fissano le misure di garanzia, ex art. 2 septies del modificato Codice della privacy, con
2. Lo schema di regole deontologiche è sottoposto a consultazione pubblica per almeno sessanta giorni. 3. Conclusa la fase delle consultazioni, le regole deontologiche sono approvate dal Garante ai sensi dell’articolo 154-bis, comma 1, lettera b), pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana e, con decreto del Ministro della giustizia, sono riportate nell’allegato A del presente codice. 4. Il rispetto delle disposizioni contenute nelle regole deontologiche di cui al comma 1 costituisce condizione essenziale per la liceità e la correttezza del trattamento dei dati personali». Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 13 dicembre 2018, n. 497, “Provvedimento che individua le prescrizioni contenute nelle Autorizzazioni generali nn. 1/2016, 3/2016, 6/2016, 8/2016 e 9/2016 che risultano compatibili con il Regolamento e con il d.lgs. n. 101/2018 di adeguamento del Codice”, consultabili all’indirizzo: www. garanteprivacy.it. 28
Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 19 dicembre 2018, n. 515, “Regole deontologiche per trattamenti a fini statistici o di ricerca scientifica pubblicate ai sensi dell’art. 20, comma 4°, del d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101”, consultabile all’indirizzo: www.garanteprivacy.it. 29
L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
l’impegno della loro adozione nel breve termine, cercando di giungere il prima possibile alla definizione completa del quadro regolatorio. È opportuno rammentare come le menzionate categorie particolari di dati fossero definite dall’ormai abrogato art. 4 del Codice della privacy, “dati sensibili”, con una formulazione simile ma non del tutto sovrapponibile – poiché in un certo qual modo più ristretta – a quella dell’art. 9 del Regolamento: «Ai fini del presente codice si intende per: […] d) “dati sensibili”, i dati personali idonei a rivelare l’origine razziale ed etnica, le convinzioni religiose, filosofiche o di altro genere, le opinioni politiche, l’adesione a partiti, sindacati, associazioni od organizzazioni a carattere religioso, filosofico, politico o sindacale, nonché i dati personali idonei a rivelare lo stato di salute e la vita sessuale». Sulla nozione di dato sensibile e sulla sua portata normativa sono intervenute le Sezioni unite della Cassazione con sentenza n. 30984 del 2017, per dirimere un contrasto sorto in seno alla Corte stessa in merito all’interpretazione delle disposizioni dettate con riguardo al trattamento di dati sensibili. In particolare era discusso se fosse da considerare dato sensibile l’indicazione, nella causale di bonifici, della legge n. 210 del 1992, la quale prevede l’indennizzo per coloro che abbiano subito un danno da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie e trasfusioni. Con la sentenza n. 10947 del 2014 la Sezione prima della Cassazione ritenne che il dato riguardante la l. n. 210/1992, comunicato dalla Regione all’istituto di credito e da questo inserito nell’estratto conto mensile inviato al correntista, fosse dato sensibile, relativo allo stato di salute. Perciò il trattamento dei dati effettuato da detti soggetti qualificati, senza aver adottato le tecniche di cifratura di cui all’art. 22, comma 6°, del Codice della privacy – articolo oggi abrogato dal d.lgs. n. 101/2018 – fu ritenuto illecito30. Diversamente la Sezione terza della Cassazione, con sentenza n. 10280 del 2015, riferendosi a un piano concreto e reputando come irrilevante
30 Cass., 19.5.2014, n. 10947, in Foro it., 2015, I, 121; in Fam. e dir., 2016, 468 ss., con nota di Astiggiano, Illecito trattamento di dati supersensibili e risarcimento del danno.
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che la condotta della Regione e della banca potesse in astratto rivelare le condizioni di salute della persona, considerò come non integrante un trattamento illegittimo di dati sensibili l’aggiunta della dicitura “pagamento ratei […] l. n. 210/92” nella causale di un bonifico bancario, come titolo per il versamento delle somme che la pubblica amministrazione doveva erogare31. Le conclusioni cui giunsero allora le Sezioni unite, con la citata pronuncia del 2017, furono aderenti al primo menzionato orientamento dei giudici di legittimità: quell’indicazione costituiva dato sensibile. «Non soltanto la trasmissione mediante comunicazione (come nella specie) o diffusione dei dati relativi alla salute ma anche la raccolta, la conservazione e l’estrazione e selezione degli stessi deve avvenire mediante codici cifrati e criptati per impedirne la potenzialità diffusiva, limitando l’identificazione degli interessati alle operazioni strettamente necessarie allo scopo finale dell’erogazione dell’indennità»32. Ora il Regolamento non definisce i “dati sensibili”, ma utilizza al posto di questo concetto quello appunto di categorie particolari di dati personali33.
3. Il trattamento dei dati relativi alla salute in ambito sanitario Con il provvedimento del 7 marzo 2019, il Garante per la protezione dei dati personali, dopo aver ribadito che è vietato in generale trattare le definite categorie particolari di dati, tra cui rientrano appunto quelli sulla salute, ha chiarito, in merito alla disciplina per il trattamento dei dati relativi alla
Cass., 20.5.2015, n. 10280, in Danno e resp., 2015, 969. V. A. Ricci, Causali di pagamento e tutela della riservatezza. A proposito di un recente contrasto interpretativo, in Riv. dir. comm. e dir. gen. obbl., 2017, 619 ss. 31
32 Cass., sez. un., 27.12.2017, n. 30984, in Giur. it., 2018, 2639 ss., con nota di A. Ricci, Trattamento di dati sensibili e principio di responsabilizzazione. Commenta l’ordinanza di rimessione, Cass., 9.2.2017, n. 3455, spiegando la vicenda, il contrasto giurisprudenziale e le prospettive dottrinali Piraino, Il contrasto sulla nozione di dato sensibile, sui presupposti e sulle modalità del trattamento, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 1232 ss. 33
Cfr. a tal proposito il considerando 10 del Regolamento.
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salute in ambito sanitario, che possono individuarsi deroghe proprio nell’art. 9 del Regolamento, il quale – come detto – elenca le eccezioni che rendono lecito il trattamento e che, nell’ambito sanitario, «sono riconducibili, in via generale, ai trattamenti necessari per: a. motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri (art. 9, par. 2, lett. g) del Regolamento), individuati dall’art. 2-sexies del Codice34; b.
34 Art. 2 sexies: «1. I trattamenti delle categorie particolari di dati personali di cui all’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento, necessari per motivi di interesse pubblico rilevante ai sensi del paragrafo 2, lettera g), del medesimo articolo, sono ammessi qualora siano previsti dal diritto dell’Unione europea ovvero, nell’ordinamento interno, da disposizioni di legge o, nei casi previsti dalla legge, di regolamento che specifichino i tipi di dati che possono essere trattati, le operazioni eseguibili e il motivo di interesse pubblico rilevante, nonché le misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fondamentali e gli interessi dell’interessato. 2. Fermo quanto previsto dal comma 1, si considera rilevante l’interesse pubblico relativo a trattamenti effettuati da soggetti che svolgono compiti di interesse pubblico o connessi all’esercizio di pubblici poteri nelle seguenti materie: a) accesso a documenti amministrativi e accesso civico; b) tenuta degli atti e dei registri dello stato civile, delle anagrafi della popolazione residente in Italia e dei cittadini italiani residenti all’estero, e delle liste elettorali, nonché rilascio di documenti di riconoscimento o di viaggio o cambiamento delle generalità; c) tenuta di registri pubblici relativi a beni immobili o mobili; d) tenuta dell’anagrafe nazionale degli abilitati alla guida e dell’archivio nazionale dei veicoli; e) cittadinanza, immigrazione, asilo, condizione dello straniero e del profugo, stato di rifugiato; f) elettorato attivo e passivo ed esercizio di altri diritti politici, protezione diplomatica e consolare, nonché documentazione delle attività istituzionali di organi pubblici, con particolare riguardo alla redazione di verbali e resoconti dell’attività di assemblee rappresentative, commissioni e di altri organi collegiali o assembleari; g) esercizio del mandato degli organi rappresentativi, ivi compresa la loro sospensione o il loro scioglimento, nonché l’accertamento delle cause di ineleggibilità, incompatibilità o di decadenza, ovvero di rimozione o sospensione da cariche pubbliche; h) svolgimento delle funzioni di controllo, indirizzo politico, inchiesta parlamentare o sindacato ispettivo e l’accesso a documenti riconosciuto dalla legge e dai regolamenti degli organi interessati per esclusive finalità direttamente connesse all’espletamento di un mandato elettivo; i) attività dei soggetti pubblici dirette all’applicazione, anche tramite i loro concessionari, delle disposizioni in materia tributaria e doganale; l) attività di controllo e ispettive; m) concessione, liquidazione, modifica e revoca di benefici economici, agevolazioni, elargizioni, altri emolumenti e abilitazioni; n) conferimento di onorificenze e ricompense, riconoscimento della personalità giuridica di associazioni, fondazioni ed enti, anche di culto,
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motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi
accertamento dei requisiti di onorabilità e di professionalità per le nomine, per i profili di competenza del soggetto pubblico, ad uffici anche di culto e a cariche direttive di persone giuridiche, imprese e di istituzioni scolastiche non statali, nonché rilascio e revoca di autorizzazioni o abilitazioni, concessione di patrocini, patronati e premi di rappresentanza, adesione a comitati d’onore e ammissione a cerimonie ed incontri istituzionali; o) rapporti tra i soggetti pubblici e gli enti del terzo settore; p) obiezione di coscienza; q) attività sanzionatorie e di tutela in sede amministrativa o giudiziaria; r) rapporti istituzionali con enti di culto, confessioni religiose e comunità religiose; s) attività socio-assistenziali a tutela dei minori e soggetti bisognosi, non autosufficienti e incapaci; t) attività amministrative e certificatorie correlate a quelle di diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale, ivi incluse quelle correlate ai trapianti d’organo e di tessuti nonché alle trasfusioni di sangue umano; u) compiti del servizio sanitario nazionale e dei soggetti operanti in ambito sanitario, nonché compiti di igiene e sicurezza sui luoghi di lavoro e sicurezza e salute della popolazione, protezione civile, salvaguardia della vita e incolumità fisica; v) programmazione, gestione, controllo e valutazione dell’assistenza sanitaria, ivi incluse l’instaurazione, la gestione, la pianificazione e il controllo dei rapporti tra l’amministrazione ed i soggetti accreditati o convenzionati con il servizio sanitario nazionale; z) vigilanza sulle sperimentazioni, farmacovigilanza, autorizzazione all’immissione in commercio e all’importazione di medicinali e di altri prodotti di rilevanza sanitaria; aa) tutela sociale della maternità ed interruzione volontaria della gravidanza, dipendenze, assistenza, integrazione sociale e diritti dei disabili; bb) istruzione e formazione in ambito scolastico, professionale, superiore o universitario; cc) trattamenti effettuati a fini di archiviazione nel pubblico interesse o di ricerca storica, concernenti la conservazione, l’ordinamento e la comunicazione dei documenti detenuti negli archivi di Stato negli archivi storici degli enti pubblici, o in archivi privati dichiarati di interesse storico particolarmente importante, per fini di ricerca scientifica, nonché per fini statistici da parte di soggetti che fanno parte del sistema statistico nazionale (Sistan); dd) instaurazione, gestione ed estinzione, di rapporti di lavoro di qualunque tipo, anche non retribuito o onorario, e di altre forme di impiego, materia sindacale, occupazione e collocamento obbligatorio, previdenza e assistenza, tutela delle minoranze e pari opportunità nell’ambito dei rapporti di lavoro, adempimento degli obblighi retributivi, fiscali e contabili, igiene e sicurezza del lavoro o di sicurezza o salute della popolazione, accertamento della responsabilità civile, disciplinare e contabile, attività ispettiva. 3. Per i dati genetici, biometrici e relativi alla salute il trattamento avviene comunque nel rispetto di quanto previsto dall’articolo 2-septies».
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medici, sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri che preveda misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell’interessato, in particolare il segreto professionale (art. 9, par. 2, lett. i) del Regolamento e considerando n. 54) (es. emergenze sanitarie conseguenti a sismi e sicurezza alimentare); c. finalità di medicina preventiva, diagnosi, assistenza o terapia sanitaria o sociale ovvero gestione dei sistemi e servizi sanitari o sociali […] sulla base del diritto dell’Unione/Stati membri o conformemente al contratto con un professionista della sanità, (art. 9, par. 2, lett. h) e par. 3 del Regolamento e considerando n. 53; art. 75 del Codice35 effettuati da (o sotto la responsabilità di) un professionista sanitario soggetto al segreto professionale o da altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza». L’Autorità precisa che non è da escludere che possa trovare applicazione una delle altre ipotesi di deroga previste dal Regolamento, a seconda dello specifico trattamento effettuato. Circa la fattispecie di cui alla lett. g) del secondo paragrafo dell’art. 9, sembrano condivisibili le perplessità della dottrina, che ha notato come la formulazione data dal Regolamento sia forse qui troppo generica e ampia, tale da prestarsi a possibili abusi o interpretazioni incoerenti, e infelice nell’ottica dell’uniformazione degli ordinamenti, dal momento che il concetto di interesse pubblico rilevante è rimesso agli Stati membri36. In relazione invece alla deroga di cui alla lett. h) del medesimo paragrafo, fattispecie definibile come “finalità di cura”, l’Autorità osserva – ed è forse proprio questo il punto cruciale del provve-
dimento – che, diversamente dal passato, ora non è più indispensabile che il professionista sanitario, soggetto al segreto professionale37, richieda il consenso del paziente per i trattamenti dei dati necessari alla prestazione sanitaria domandata dall’interessato, e ciò indipendentemente dal fatto che egli operi in qualità di libero professionista o all’interno di una struttura sanitaria pubblica o privata. A tal proposito, si deve osservare che la liceità del trattamento delle categorie particolari di dati per le indicate finalità (lett. h)), ove non sia riconosciuta sulla base del diritto dell’Unione o degli Stati membri, si fonda sul contratto con un professionista della sanità38. Deve comunque tenersi presente che il consenso di natura negoziale del contraente è un consenso distinto da quello dell’interessato al trattamento dei dati personali39. In riferimento all’ambito oggettivo di applicabilità della fattispecie di cui alla lett. h), è posta in evidenza, nel provvedimento, la necessarietà per la cura della salute: gli eventuali trattamenti inerenti, solo in senso lato, alla cura, ma non strettamente necessari, richiedono perciò, pur se effettuati da professionisti della sanità, una distinta base giuridica da rintracciare, eventualmente, nel consenso dell’interessato o in un altro presupposto di liceità40. Il Garante procede poi ad elencare, a titolo esemplificativo, trattamenti in ambito sanitario che non rientrano nelle suddette ipotesi e che richiedono quindi il consenso esplicito dell’interessato (art. 9, par. 2, lett. a) del Regolamento). Individua
La previsione di cui alla lett. h) si deve infatti coordinare con quanto disposto dal par. 3 dell’art. 9, secondo cui: «I dati personali di cui al paragrafo 1 possono essere trattati per le finalità di cui al paragrafo 2, lettera h), se tali dati sono trattati da o sotto la responsabilità di un professionista soggetto al segreto professionale conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti o da altra persona anch’essa soggetta all’obbligo di segretezza conformemente al diritto dell’Unione o degli Stati membri o alle norme stabilite dagli organismi nazionali competenti». La tutela ultima delle particolari categorie di dati personali è qui rimessa al segreto professionale o a un più generale obbligo di segretezza. 37
35 Art. 75: «1. Il trattamento dei dati personali effettuato per finalità di tutela della salute e incolumità fisica dell’interessato o di terzi o della collettività deve essere effettuato ai sensi dell’articolo 9, paragrafi 2, lettere h) ed i), e 3 del regolamento, dell’articolo 2-septies del presente codice, nonché nel rispetto delle specifiche disposizioni di settore». 36 Granieri, op. cit., 173 ss. L’autore si sofferma poi, con riguardo alla lett. i) del par. 2, sulla garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell’assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, che è in stretto rapporto con il tema della ricerca, osservando che alle norme uniformi sulla sperimentazione contenute nel reg. UE n. 536/2014 il trattamento dei dati personali è tenuto a uniformarsi.
V. al riguardo le riflessioni svolte da Granieri, op. cit., 175 s.
38
39
Cfr. Bravo, op. cit., 173 ss.
Il Garante richiama, in questo frangente, il menzionato paragrafo 2 dell’art. 9 e pure l’art. 6 del Regolamento. 40
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così «le seguenti categorie: a. trattamenti connessi all’utilizzo di App mediche, attraverso le quali autonomi titolari raccolgono dati, anche sanitari dell’interessato, per finalità diverse dalla telemedicina oppure quando, indipendentemente dalla finalità dell’applicazione, ai dati dell’interessato possano avere accesso soggetti diversi dai professionisti sanitari o altri soggetti tenuti al segreto professionale […]; b. trattamenti preordinati alla fidelizzazione della clientela, effettuati dalle farmacie attraverso programmi di accumulo punti, al fine di fruire di servizi o prestazioni accessorie, attinenti al settore farmaceutico-sanitario, aggiuntivi rispetto alle attività di assistenza farmaceutica tradizionalmente svolta dalle farmacie territoriali pubbliche e private nell’ambito del Servizio sanitario nazionale (SSN); c. trattamenti effettuati in campo sanitario da persone giuridiche private per finalità promozionali o commerciali (es. promozioni su programmi di screening, contratto di fornitura di servizi ammnistrativi, come quelli alberghieri di degenza); d. trattamenti effettuati da professionisti sanitari per finalità commerciali o elettorali (cfr. provv. del 6 marzo 2014, doc. web n. 3013267)41; e. trattamenti effettuati attraverso
Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 6 marzo 2014, n. 107, “Provvedimento in materia di trattamento di dati presso i partiti politici e di esonero dall’informativa per fini di propaganda elettorale”, consultabile all’indirizzo: www.garanteprivacy.it. Sul trattamento di dati personali a fini di marketing e nello specifico il consenso all’invio di e-mail promozionali, con riguardo alla disciplina antecedente all’entrata in vigore del d.lgs. n. 101/2018, v. Cass., 2.7.2018, n. 17278, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1775 ss., con nota di Zanovello, Consenso libero e specifico alle e-mail promozionali, pronuncia così massimata: «In tema di consenso al trattamento dei dati personali, la previsione dell’art. 23 del Codice della privacy (d. legis. n. 196 del 2003), nello stabilire che il consenso è validamente prestato solo se espresso liberamente e specificamente in riferimento ad un trattamento chiaramente individuato, consente al gestore di un sito Internet, il quale somministri un servizio fungibile, cui l’utente possa rinunciare senza gravoso sacrificio (nella specie servizio di newsletter su tematiche legate alla finanza, al fisco, al diritto e al lavoro), di condizionare la fornitura del servizio al trattamento dei dati per finalità pubblicitarie, sempre che il consenso sia singolarmente ed inequivocabilmente prestato in riferimento a tale effetto, il che comporta altresì la necessità, almeno, dell’indicazione dei settori merceologici o dei
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il Fascicolo sanitario elettronico (d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, art. 12, comma 5)42. In tali casi, l’acquisizione del consenso, quale condizione di liceità del trattamento, è richiesta dalle disposizioni di settore, precedenti all’applicazione del Regolamento, il cui rispetto è ora espressamente previsto dall’art. 75 del Codice». Riferendosi proprio al fascicolo sanitario elettronico, l’Autorità aggiunge, in un modo forse un po’ arrischiato, che «un’eventuale opera di rimeditazione normativa in ordine all’eliminazione della necessità di acquisire il consenso dell’interessato all’alimentazione del Fascicolo, potrebbe essere ammissibile alla luce del nuovo quadro giuridico in materia di protezione dei dati», precisando subito dopo che attualmente, per i trattamenti effettuati attraverso il dossier sanitario, il consenso è richiesto dalle Linee guida emanate dal Garante stesso prima dell’applicazione del Regolamento43, tuttavia, posto che il complessivo quadro giuridico è mutato, sarà l’Autorità ad individuare, all’interno della cornice di cui alle misure di garanzia ex art. 2 septies del d.lgs. n. 196/2003, i trattamenti che si possono effettuare prescindendo dal consenso dell’interessato, ai sensi della lett. h). Non si può però non rilevare, allora, come una modifica normativa volta a cancellare il requisito del consenso per i trattamenti effettuati con il fascicolo sanitario elettronico (tra i quali si ricomprende l’“alimentazione” del fascicolo stesso), anche se fosse ammissibile a seguito del mutamento della disciplina sulla protezione dei dati – possibilità verso cui si nutrono dubbi –, potrebbe in ogni caso mettere a rischio la posizione della persona i cui dati relativi alla salute verrebbero trattati al di là della sua
servizi cui i messaggi pubblicitari saranno riferiti». Art. 12, comma 5°, d.l. n. 179/2012: «La consultazione dei dati e documenti presenti nel FSE di cui al comma 1, per le finalità di cui alla lettera a) del comma 2, può essere realizzata soltanto con il consenso dell’assistito e sempre nel rispetto del segreto professionale, salvo i casi di emergenza sanitaria secondo modalità individuate a riguardo. Il mancato consenso non pregiudica il diritto all’erogazione della prestazione sanitaria». 42
Provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali del 4 giugno 2015, n. 331, “Linee guida in materia di Dossier sanitario”, consultabile all’indirizzo: www.garanteprivacy.it. 43
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sfera di autonomia e di controllo, anche al di fuori dell’ambito di applicazione della fattispecie della “finalità di cura” di cui alla lett. h)44. Prima di concludere chiarendo che le disposizioni del d.lgs. n. 196/2003 vanno comunque interpretate e applicate adeguatamente al Regolamento, com’è anche disposto dall’art. 22 del d.lgs. n. 101/2018, il Garante sottolinea che per la refertazione online il consenso dell’interessato è invece espressamente richiesto dalle disposizioni di settore relativamente alle modalità di consegna del referto45.
Non viene ricordato in modo espresso nel provvedimento, ma, in relazione al trattamento dei dati sulla salute, può trovare applicazione, anche non di rado, la fattispecie di cui alla lett. c) dell’art. 9, par. 2, cioè la condizione di liceità che ricorre quando il trattamento è necessario per tutelare un interesse vitale dell’interessato o di un’altra persona fisica qualora l’interessato si trovi nell’incapacità fisica o giuridica di prestare il proprio consenso46.
44 Infatti il Garante, nel provvedimento in commento, pone i trattamenti dei dati sulla salute effettuati attraverso il fascicolo sanitario elettronico tra gli esempi di trattamenti in ambito sanitario non rientranti nelle ipotesi precedentemente elencate di deroga al divieto generale di cui al primo paragrafo dell’art. 9 del Regolamento e, quindi, che richiedono oggi il consenso esplicito dell’interessato. In tema di Fascicolo Sanitario Elettronico e Dossier Sanitario, v. Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, in Riv. it. med. leg., 2015, 1419 ss., che evidenzia il fatto che «questo sistema, nell’agevolare l’accesso e la circolazione dei dati, espone a non pochi rischi il riserbo, l’identità, la libertà e la dignità della persona, amplificando problemi che si erano già posti in tema di cartella clinica. Lo testimoniano, anche in questo caso, la serie impressionante di pareri del Garante e la sua incessante attività ispettiva e sanzionatoria, svolta in un clima di costante attenzione nei confronti di problematiche legate alla realizzazione a livello nazionale del FSE». V. altresì Comandé, Nocco e Peigné, Il fascicolo sanitario elettronico: uno studio multidisciplinare, in Riv. it. med. leg., 2012, 105 ss.; Guarda, Fascicolo Sanitario Elettronico e protezione dei dati personali, Trento, 2011; Peigné, Il fascicolo sanitario elettronico, verso una «trasparenza sanitaria» della persona, in Riv. it. med. leg., 2011, 1520 ss.; Gliatta, Il diritto alla privacy in ambito medico: trattamento dei dati sensibili e fascicolo sanitario elettronico, in La resp. civ., 2010, 682 ss.
Il Garante prosegue, nei chiarimenti forniti con il provvedimento, indicando che il titolare del trattamento deve in ogni caso trasmettere all’interessato le informazioni sui principali elementi del trattamento stesso, alla luce del principio di trasparenza previsto dall’art. 5, par. 1, lett. a) del Regolamento. Gli elementi da comunicare sono esplicitati agli artt. 13 e 14 del Regolamento, ma, in ogni caso, le informazioni devono essere rese in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, con linguaggio semplice e chiaro47, mentre sarà il titolare a scegliere le mo-
Art. 5, d.P.C.m. 8 agosto 2013, n. 71239: «1. Al fine di consentire all’interessato di esprimere scelte consapevoli in relazione al trattamento dei propri dati personali nell’utilizzo dei servizi di refertazione online, l’azienda sanitaria, in qualità di titolare del trattamento: a) fornisce all’interessato un’idonea informativa ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, nonché sulle caratteristiche delle modalità digitali di consegna disponibili; b) acquisisce un autonomo e specifico consenso dell’interessato a trattare i suoi dati personali, anche sanitari, relativamente alle modalità digitali di consegna; c) consente la revoca in qualunque momento di tale consenso. 2. All’atto di richiesta del consenso o in ogni altro momento, l’interessato può indicare una farmacia presso cui ritirare il referto ai sensi del decreto del Ministro della salute 8 luglio 2011. Tale richiesta può essere modificata o revocata in ogni momento dall’interessato». 45
4. L’informazione all’interessato, il responsabile della protezione dei dati e il registro delle attività di trattamento
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Granieri, op. cit., 176.
Art. 12, par. 1, del Regolamento: «Il titolare del trattamento adotta misure appropriate per fornire all’interessato tutte le informazioni di cui agli articoli 13 e 14 e le comunicazioni di cui agli articoli da 15 a 22 e all’articolo 34 relative al trattamento in forma concisa, trasparente, intelligibile e facilmente accessibile, con un linguaggio semplice e chiaro, in particolare nel caso di informazioni destinate specificamente ai minori. Le informazioni sono fornite per iscritto o con altri mezzi, anche, se del caso, con mezzi elettronici. Se richiesto dall’interessato, le informazioni possono essere fornite oralmente, purché sia comprovata con altri mezzi l’identità dell’interessato». Art. 78 d.lgs. n. 196/2003: «1. Il medico di medicina generale o il pediatra di libera scelta informano l’interessato relativamente al trattamento dei dati personali, in forma chiara e tale da rendere agevolmente comprensibili gli elementi indicati negli articoli 13 e 14 del Regolamento. 2. Le informazioni possono essere fornite per il complessivo trattamento dei dati personali necessario per attività di diagnosi, assistenza e terapia sanitaria, svolte dal medico o dal pediatra a tutela della salute o dell’incolumità fisica dell’interessato, su richiesta dello stesso o di cui questi è informato 47
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dalità per l’informativa48 più appropriate al caso di specie, tenendo conto di tutte le circostanze del trattamento e del contesto in cui viene effettuato, in virtù del principio di responsabilizzazione, o accountability, di cui all’art. 5 del Regolamento49. Relativamente all’attività posta in essere da titolari del trattamento operanti in ambito sanitario che
in quanto effettuate nel suo interesse. 3. Le informazioni possono riguardare, altresì, dati personali eventualmente raccolti presso terzi e sono fornite preferibilmente per iscritto. 4. Le informazioni, se non è diversamente specificato dal medico o dal pediatra, riguardano anche il trattamento di dati correlato a quello effettuato dal medico di medicina generale o dal pediatra di libera scelta, effettuato da un professionista o da altro soggetto, parimenti individuabile in base alla prestazione richiesta, che: a) sostituisce temporaneamente il medico o il pediatra; b) fornisce una prestazione specialistica su richiesta del medico e del pediatra; c) può trattare lecitamente i dati nell’ambito di un’attività professionale prestata in forma associata; d) fornisce farmaci prescritti; e) comunica dati personali al medico o pediatra in conformità alla disciplina applicabile. 5. Le informazioni rese ai sensi del presente articolo evidenziano analiticamente eventuali trattamenti di dati personali che presentano rischi specifici per i diritti e le libertà fondamentali, nonché per la dignità dell’interessato, in particolare in caso di trattamenti effettuati: a) per fini di ricerca scientifica anche nell’ambito di sperimentazioni cliniche, in conformità alle leggi e ai regolamenti, ponendo in particolare evidenza che il consenso, ove richiesto, è manifestato liberamente; b) nell’ambito della teleassistenza o telemedicina; c) per fornire altri beni o servizi all’interessato attraverso una rete di comunicazione elettronica. c-bis) ai fini dell’implementazione del fascicolo sanitario elettronico di cui all’articolo 12 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221; c-ter) ai fini dei sistemi di sorveglianza e dei registri di cui all’articolo 12 del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221». Specifica l’Autorità che il contenuto dell’informativa non è stato stravolto dal Regolamento, ma va solo aggiornato e integrato con riferimento agli elementi di novità previsti dagli artt. 13 e 14. 48
Il parere 3/2010 del Gruppo di lavoro articolo 29 per la protezione dei dati, adottato il 13 luglio 2010, ha affrontato l’approccio alla protezione dei dati basato sul principio dell’accountability. Finocchiaro, Il quadro d’insieme sul Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali, cit., 12 ss.; Ead., Privacy e protezione dei dati personali. Disciplina e strumenti operativi, Bologna, 2012, 289 ss. Sulle implicazioni di tale principio cfr. Faccioli e Cassaro, Il “GDPR” e la normativa di armonizzazione nazionale alla luce dei principi: accountability e privacy by design, in Dir. ind., 2018, 561 ss.; Arcella, GDPR: il Registro delle attività di trattamento e le misure di accountability, in Notariato, 2018, 393 ss. 49
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effettuano una pluralità di operazioni connotate da complessità particolare (ad esempio le aziende sanitarie), il Garante suggerisce un criterio di progressività nel fornire le informazioni all’interessato, conseguentemente nei confronti della generalità dei pazienti afferenti a una struttura sanitaria potrebbero trasmettersi solo le informazioni appartenenti all’ordinaria attività di erogazione di prestazioni sanitarie50, mentre gli elementi informativi relativi a particolari attività di trattamento potrebbero essere forniti in un secondo momento, solo ai pazienti interessati effettivamente da tali servizi e ulteriori trattamenti51. Il titolare deve poi comunicare quello che sarà il periodo di conservazione dei dati – questo è un aspetto nuovo – che può essere definito anche attraverso l’indicazione dei criteri utilizzati per determinarlo. Qualora i tempi di conservazione di certi documenti sanitari non siano fissati da alcuna norma, egli dovrà comunque dare comunicazione di un periodo di tempo, individuandolo in maniera che i dati vengano conservati, in una forma che permetta l’identificazione degli interessati, per un intervallo temporale che non superi quello necessario per conseguire le finalità del trattamento. Quest’ultimo indirizzo è espressione dei principi di accountability e limitazione della conservazione.
50 Art. 79 d.lgs. n. 196/2003: «1. Le strutture pubbliche e private, che erogano prestazioni sanitarie e socio-sanitarie possono avvalersi delle modalità particolari di cui all’articolo 78 in riferimento ad una pluralità di prestazioni erogate anche da distinti reparti ed unità della stessa struttura o di sue articolazioni ospedaliere o territoriali specificamente identificate. 2. Nei casi di cui al comma 1 la struttura o le sue articolazioni annotano l’avvenuta informazione con modalità uniformi e tali da permettere una verifica al riguardo da parte di altri reparti ed unità che, anche in tempi diversi, trattano dati relativi al medesimo interessato. 3. Le modalità particolari di cui all’articolo 78 possono essere utilizzate in modo omogeneo e coordinato in riferimento all’insieme dei trattamenti di dati personali effettuati nel complesso delle strutture facenti capo alle aziende sanitarie. 4. Sulla base di adeguate misure organizzative in applicazione del comma 3, le modalità particolari possono essere utilizzate per più trattamenti di dati effettuati nei casi di cui al presente articolo e dai soggetti di cui all’articolo 80». 51 Il Garante esemplifica indicando quali particolari attività di trattamento la fornitura di presidi sanitari, le modalità di consegna dei referti medici on-line e le finalità di ricerca.
L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
Il Garante ricorda, tra l’altro, che le cartelle cliniche, unitamente ai relativi referti, vanno conservate illimitatamente52. Circa la designazione del responsabile della protezione dei dati (RPD)53, il Garante ritiene che essa sia obbligatoria tanto per le strutture pubbliche che per quelle private. Questo perché tale designazione è obbligatoria per le autorità o organismi pubblici, mentre per gli altri soggetti l’obbligo sussiste al ricorrere delle condizioni espresse dall’art. 37 del Regolamento54. Dunque, per le aziende sanita-
52 Cfr. Circolare del Ministero della Sanità del 19 dicembre 1986 n.900 2/AG454/260. Sulla cartella clinica, anche con riferimento ai dati sanitari in essa contenuti, Bocchini, Le cartelle cliniche. Funzioni, documento, prova, in Riv. it. med. leg., 2018, 35 ss.; sia concesso pure il rimando a Corso, Salute e riserbo del paziente: questioni aperte in tema di cartella clinica, in questa Rivista, 2017, 395 ss.
Alle domande ricorrenti poste in ordine al responsabile della protezione dei dati, il Garante ha risposto con le schede informative del 15 dicembre 2017 e del 26 marzo 2018, consultabili all’indirizzo: www.garanteprivacy.it, rispettivamente per l’ambito pubblico e per quello privato. Trattasi, con terminologia inglese, del Data Protection Officer. Sull’inquadramento giuridico di questa figura, funzioni, prerogative e ruolo, Avitabile, Il data protection officer, in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 331 ss. 53
54 Art. 37: «1. Il titolare del trattamento e il responsabile del trattamento designano sistematicamente un responsabile della protezione dei dati ogniqualvolta: a) il trattamento è effettuato da un’autorità pubblica o da un organismo pubblico, eccettuate le autorità giurisdizionali quando esercitano le loro funzioni giurisdizionali; b) le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono in trattamenti che, per loro natura, ambito di applicazione e/o finalità, richiedono il monitoraggio regolare e sistematico degli interessati su larga scala; oppure c) le attività principali del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento consistono nel trattamento, su larga scala, di categorie particolari di dati personali di cui all’articolo 9 o di dati relativi a condanne penali e a reati di cui all’articolo 10. 2. Un gruppo imprenditoriale può nominare un unico responsabile della protezione dei dati, a condizione che un responsabile della protezione dei dati sia facilmente raggiungibile da ciascuno stabilimento. 3. Qualora il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento sia un’autorità pubblica o un organismo pubblico, un unico responsabile della protezione dei dati può essere designato per più autorità pubbliche o organismi pubblici, tenuto conto della loro struttura organizzativa e dimensione. 4. Nei casi diversi da quelli di cui al paragrafo 1, il titolare del trattamento, il responsabile del trattamento o le associazioni e gli altri organismi rappresentanti le categorie di titolari
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rie appartenenti al Servizio sanitario nazionale vige l’obbligo di designazione sia perché possono inquadrarsi nella nozione di organismo pubblico sia perché sussiste la condizione di cui alla lett. c) del primo paragrafo dell’art. 37, essendo quello delle aziende menzionate un trattamento di dati relativi alla salute su larga scala, e così pure la designazione è obbligatoria per gli ospedali privati, le case di cura o le residenze sanitarie assistenziali dal momento che il trattamento dei dati relativi a pazienti svolto da queste strutture si può ricondurre, in linea generale, al concetto di larga scala55. Sul versante organizzativo, vengono rimesse alla responsabilità del titolare del trattamento «la possibilità e la fattibilità (art. 39 del Regolamento) di nominare un unico RPD per più strutture sanitarie». Non vi è invece l’obbligo di designazione per il singolo professionista sanitario che operi in regime di libera professione a titolo individuale56 e per le farmacie, le parafarmacie, le aziende ortopediche e sanitarie, nella misura in cui non effettuano trattamenti di dati personali su larga scala.
del trattamento o di responsabili del trattamento possono o, se previsto dal diritto dell’Unione o degli Stati membri, devono designare un responsabile della protezione dei dati. Il responsabile della protezione dei dati può agire per dette associazioni e altri organismi rappresentanti i titolari del trattamento o i responsabili del trattamento. 5. Il responsabile della protezione dei dati è designato in funzione delle qualità professionali, in particolare della conoscenza specialistica della normativa e delle prassi in materia di protezione dei dati, e della capacità di assolvere i compiti di cui all’articolo 39. 6. Il responsabile della protezione dei dati può essere un dipendente del titolare del trattamento o del responsabile del trattamento oppure assolvere i suoi compiti in base a un contratto di servizi. 7. Il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento pubblica i dati di contatto del responsabile della protezione dei dati e li comunica all’autorità di controllo». 55 Cfr. le “Linee guida sui responsabili della protezione dei dati” del Gruppo di lavoro articolo 29 per la protezione dei dati, adottate il 13 dicembre 2016 e poi il 5 aprile 2017 nella versione emendata (WP243 rev. 01). 56 Secondo il considerando 91 del Regolamento, «il trattamento di dati personali non dovrebbe essere considerato un trattamento su larga scala qualora riguardi dati personali di pazienti o clienti da parte di un singolo medico, operatore sanitario o avvocato. In tali casi non dovrebbe essere obbligatorio procedere a una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati».
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In ambito sanitario, generalmente, vige sempre l’obbligo di tenuta del registro delle attività di trattamento57, in quanto non è possibile derogarvi in presenza anche di uno solo degli elementi indicati dall’art. 30, par. 5, del Regolamento, ossia in caso di trattamento che presenta un rischio per i diritti e le libertà per l’interessato, trattamento non occasionale, trattamento che includa categorie particolari di dati di cui all’art. 9 o dati relativi a condanne penali e a reati. Anche questa previsione è declinazione del principio di accountability e mira a garantire la gestione del rischio. Pertanto «non ricadono nelle ipotesi di esenzione dall’obbligo di tenuta del registro – afferma il Garante – i singoli professionisti sanitari che agiscano in libera professione, i medici di medicina generale/pediatri di libera scelta (MMG/PLS), gli ospedali privati, le case di cura, le RSA e le aziende sanitarie appartenenti al SSN, nonché le farmacie, le parafarmacie e le aziende ortopediche».
5. Rilievi conclusivi Il provvedimento del Garante del 7 marzo 2019 arriva a far luce, com’era auspicabile, su svariati aspetti, anche concreti, derivanti dall’applicazione della nuova disciplina sul trattamento dei dati in ambito sanitario. Tale operazione viene a considerarsi tanto più difficile e articolata quanto più si osserva che proprio questo settore è stato oggetto di molteplici interventi normativi di innovazione. Si pensi alla l. 8 marzo 2017, n. 24 (“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli
Il considerando 82 recita: «Per dimostrare che si conforma al presente regolamento, il titolare del trattamento o il responsabile del trattamento dovrebbe tenere un registro delle attività di trattamento effettuate sotto la sua responsabilità. Sarebbe necessario obbligare tutti i titolari del trattamento e i responsabili del trattamento a cooperare con l’autorità di controllo e a mettere, su richiesta, detti registri a sua disposizione affinché possano servire per monitorare detti trattamenti». Con il comunicato stampa dell’8 ottobre 2018, consultabile all’indirizzo: www.garanteprivacy.it, il Garante per la protezione dei dati personali ha richiamato le istruzioni dallo stesso fornite sul registro delle attività di trattamento. 57
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esercenti le professioni sanitarie”, c.d. legge Gelli-Bianco), alla l. 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, c.d. legge sul biotestamento o sul fine vita) o alla l. 11 gennaio 2018, n. 3 (“Delega al Governo in materia di sperimentazione clinica di medicinali nonché disposizioni per il riordino delle professioni sanitarie e per la dirigenza sanitaria del Ministero della salute”)58. Come espresso proprio dalla legge Gelli-Bianco, in apertura, all’art. 1, tutte le attività finalizzate alla prevenzione e alla gestione del rischio connesso all’erogazione di prestazioni sanitarie e l’utilizzo appropriato delle risorse strutturali, tecnologiche e organizzative contribuiscono a realizzare la sicurezza delle cure, che è parte costitutiva del diritto alla salute ed è perseguita nell’interesse dell’individuo e della collettività. Con ciò deve intendersi che nella tutela al diritto alla salute vanno ricompresi tutti quei requisiti organizzativi volti a garantire trasparenza ed efficienza delle risorse e che implicano l’uso delle tecnologie59. L’art. 4 della stessa legge, rubricato “Trasparenza dei dati”, enuncia la soggezione all’obbligo di trasparenza delle prestazioni sanitarie erogate dalle strutture pubbliche e private, «nel rispetto del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196», ma il riferimento, oggi meno implicito a seguito delle modifiche apportate al Codice della privacy dal citato d.lgs. n. 101/2018, è anche al reg. U.E. n. 679/2016. Numerosi sono gli adempimenti richiesti agli operatori del settore sanitario, specialmente delle strutture sanitarie, in virtù del regime di protezione dei dati personali. Alcuni sono stati affrontati espres-
V. al riguardo il commento al d.d.l. c.d. Lorenzin di Thiene, Finalmente si aprono nuovi scenari per tutte le Professioni Sanitarie, nota di aggiornamento, 8 gennaio 2018, in www. rivistaresponsabilitamedica.it. Per riferimenti bibliografici di carattere generale, alla l. n. 24/2017 e alla l. n. 219/2017, sia concesso il rimando a Corso, La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza, in questa Rivista, 2018, 416 ss., nt. 20 e nt. 31.
58
Amram e Comandé, Sul non facile coordinamento degli obblighi imposti dal Regolamento europeo sulla protezione dei dati personali UE/679/2016 e dalla legge n. 24/2017, in Riv. it. med. leg., 2018, 1 ss.
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L’intervento del Garante per la protezione dei dati personali
samente dal provvedimento dell’Autorità in commento, mentre altri si devono ricavare dalla lettura d’insieme delle disposizioni. Così, il titolare del trattamento di una struttura, prima di avviare il trattamento stesso, dovrà procedere, ai sensi dell’art. 35 del Regolamento, a una valutazione d’impatto sulla protezione dei dati, soprattutto analizzando il livello di rischio di violazione di diritti e le libertà delle persone fisiche interessate per l’utilizzo di nuove tecnologie60. Le strutture sanitarie si dovranno pure adeguare alle necessarie incombenze per il caso di c.d. data breach, come l’obbligo di notifica della violazione, senza ritardo e possibilmente entro settantadue ore, all’autorità di controllo e l’obbligo di comunicazione all’interessato, sempre senza ritardo, con linguaggio chiaro e semplice61. Tra i punti più importanti del provvedimento di sicuro vi è la conclusione cui giunge il Garante, secondo cui per il trattamento dei dati sulla salute non è necessario che il medico richieda e acquisisca il consenso della persona, quando sia applicabile la fattispecie della finalità di cura di cui alla lett. h) del secondo paragrafo dell’art. 9 del Regolamento. Eppure bisogna rammentare che esiste un dovere per il medico, quantomeno sul piano deontologico, di assumere il consenso per il trattamento dei dati personali e, a maggior ragione, quelli relativi alla salute, trattamento che non può avvenire senza l’autorizzazione in tal senso dell’interessato o del suo rappresentante legale nelle circostanze previste dall’ordinamento62. Poi, come si è avuto modo di osservare, secondo il disposto dell’art. 9 del Regolamento, fuori dai casi in cui la liceità del trattamento dei dati relativi alla salute per le finalità di cui alla lett. h) venga riconosciuta sulla base del diritto dell’Unione o
Ivi, 6. Specificamente, sulla realizzazione della valutazione d’impatto, Mantelero, Il nuovo approccio della valutazione del rischio nella sicurezza dei dati. Valutazione d’impatto e consultazione preventiva (artt. 32-39), in Il nuovo Regolamento europeo sulla privacy e sulla protezione dei dati personali, a cura di Finocchiaro, cit., 314 ss. 60
61
Amram e Comandé, op. cit., 6.
Il riferimento è agli artt. 11 (“Riservatezza dei dati personali”) e 12 (“Trattamento dei dati sensibili”) del Codice di deontologia medica del 2014. 62
degli Stati membri, il trattamento è consentito in forza di un contratto con un professionista sanitario. Eppure, il consenso che è alla base del contratto non potrà essere assimilato a quello che è il consenso dell’interessato al trattamento dei dati63. Il consenso al trattamento dei propri dati personali, compresi quelli sulla salute, viene comunque a legarsi con il consenso della persona nel suo significato più ampio e, poiché il rispetto della disciplina sul trattamento dei dati personali garantisce una dimensione della sicurezza delle cure e quest’ultima è inclusa nella tutela del diritto alla salute64, partecipa del consenso informato del paziente, alla prestazione sanitaria. Il consenso informato è la base su cui si costruisce «la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico» e «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura»65.
V. Bravo, op. cit., 173 ss. Il consenso al trattamento dei dati personali avrebbe sostanzialmente natura autorizzatoria. 63
64
Amram e Comandé, op. cit., 7.
Queste parole appartengono alla felice formulazione dell’art. 1 della l. n. 219/2017. Il tema è stato affrontato nel dettaglio, unitamente all’analisi delle conseguenze e delle prospettive datesi con l’intervento del legislatore, dalle relazioni del Convegno tenutosi a Padova il 30 novembre e il 1° dicembre 2018, dal titolo Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017. V., in questa Rivista, 2019: nella sezione La persona nella relazione di cura, Busnelli, Premesse, 3 ss.; Orsi, La relazione in medicina, 9 ss.; Fontanella, Le condizioni della relazione, 17 ss.; Zamperetti, Progetto di vita e percorsi di cura, 23 ss.; Zatti, Cultura della relazione e linguaggi normativi, 29 ss.; nella sezione Principi e strumenti del nuovo diritto, Ferrando, Premesse, 35 ss.; Graziadei, Dal consenso alla con sensualità nella relazione di cura, 37 ss.; Palermo Fabris, Orizzonti e limiti della cura, 43 ss.; Di Rosa, La rete di prossimità e il ruolo del fiduciario, 49 ss.; Canestrari, Rifiuto di cure e rinuncia ai trattamenti, 57 ss.; Gaudino, DAT e pianificazione condivisa delle cure, 61 ss.; Piccinni, Modalità e forme del consenso, 67 ss.; Pucella, La relazione di fiducia tra medico e paziente, 75 ss.; nella sezione Questioni cruciali: dialoghi, Zagonel, Limite e pianificazione condivisa, 79 ss.; Munari, Astensione vs interruzione, 89 ss.; Terrevoli, Palliazione, sedazione profonda, 103 ss.; Aprile, I ruoli di protezione, 111 ss.; Giardina e Gristina, Il limite in pediatria, 129 ss.; Baggio e Corti, Le zone d’ombra della capacità, 133 ss.; Benciolini, Sintesi, 141 ss. «Il fondamento della centralità del consenso nel rapporto medico-paziente trova per un verso ragion d’essere, come noto, nel progressivo recupero di valori fondamentali attinenti alla persona: dignità, salute, autodeterminazione; per l’altro rappresenta un passaggio cruciale nel processo di maturazione 65
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In questo senso, anche se non sarà più necessario alla luce della normativa acquisire il consenso al trattamento dei dati sanitari quando vi sia la finalità di cura, è difficile pensare che il medico cesserà di domandare al paziente l’assenso per procedere al trattamento dei dati sulla sua salute e ancor più di informarlo sulla sorte di questi dati, frammenti della sua identità. Allo stesso modo si fatica a immaginare come potrà contemperarsi un’eventuale eliminazione del requisito del consenso a un’adeguata tutela del soggetto interessato con riferimento all’alimentazione – che si traduce in un trattamento di dati relativi alla salute – del fascicolo sanitario elettronico66. Oltre la sfera di applicabilità della fattispecie della “finalità di cura”, la potenziale circolazione di dati sanitari sfuggirebbe dall’area di dominio privato, di autodeterminazione e, da ultimo, di sicurezza propria della persona. Il fine della normativa sulla protezione dei dati personali non è la mera difesa dei dati stessi, bensì la tutela della persona, della sua dimensione di vita più intima e della sua dignità. Il diritto alla protezione dei dati è una situazione giuridica di carattere strumentale, mentre il diritto alla riservatezza ha natura finale e allo stesso tempo è precondizione per esercitare le libertà individuali e i diritti civili67. È in quest’ottica che va letta ogni
della “alleanza terapeutica” tra medico e paziente». Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 14. Cfr. Zatti, Rapporto medico-paziente e «integrità» della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 405 s. V. anche Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018. All’istituto si riferisce pure la l. n. 219/2917 che all’art. 4, comma 7°, così stabilisce: «Le regioni che adottano modalità telematiche di gestione della cartella clinica o il fascicolo sanitario elettronico o altre modalità informatiche di gestione dei dati del singolo iscritto al Servizio sanitario nazionale possono, con proprio atto, regolamentare la raccolta di copia delle DAT, compresa l’indicazione del fiduciario, e il loro inserimento nella banca dati, lasciando comunque al firmatario la libertà di scegliere se darne copia o indicare dove esse siano reperibili». 66
Piraino, Il contrasto sulla nozione di dato sensibile, sui presupposti e sulle modalità del trattamento, cit., 1236 s.; Id., Il regolamento generale sulla protezione dei dati personali e i diritti dell’interessato, cit., 401 ss. 67
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disposizione dettata in relazione alla protezione dei dati personali, compresi quelli sulla salute. È vero, il Regolamento, fatta eccezione per qualche considerando, non parla di dati sensibili, come invece aveva fatto in passato il nostro legislatore68. L’espressione è stata logicamente sostituita dalle “categorie particolari di dati personali”. Dire che il nome che si dà alle cose è importante è forse una banalità, però è cosa quanto mai vera nel linguaggio giuridico, specialmente in luoghi esegetici come quelli più strettamente vicini alla persona69. Il progressivo abbandono formale da parte del legislatore, europeo o nazionale, di un aggettivo come “sensibile” non deve però sviare l’interprete. La categorizzazione del concetto cancella terminologicamente e superficialmente il retroterra semantico, qui legato al sentimento, alla percezione dell’altruità e alla fragilità dell’esistenza umana. Tuttavia questo non determina l’azzeramento della memoria che il Diritto ha della nozione. Così è evidente che i dati relativi alla salute non sono una mera categoria astratta di dati, che presentano particolarità, ma una parte del racconto della vita del paziente, della storia della persona stessa. Noi restiamo sensibili, anche se i dati, a poco a poco, almeno nominalmente, non lo sono più.
68 Il tema dei “dati sensibili” è stato il cuore delle discussioni sull’idea di privacy e trattamento dei dati, sin dal principio. Lattanzi, Dati sensibili: una categoria problematica nell’orizzonte europeo, in Eur. e dir. priv., 1998, 724 ss. 69 È il valore della semantica del diritto, che si rivela specialmente nella sua grandezza proprio in relazione alla dignità. Zatti, Note sulla semantica della dignità, in Maschere del diritto volti della vita, a cura di Zatti, Milano, 2009, 37; Id., Dimensioni ed aspetti dell’identità nel diritto privato attuale, in L’identità nell’orizzonte del diritto privato, supplemento alla Nuova giur. civ. comm., 2007, 1 ss.; Rodotà, Il diritto di avere diritti, III, Bari-Roma, 2017, 191 ss.; Scalisi, Ermeneutica dei diritti fondamentali e principio «personalista» in Italia e nell’Unione europea, in Riv. dir. civ., 2010, I, 145 ss.
s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Tribunale di Milano, 28.1.2019
Danni civili – Errore diagnostico - Danno non patrimoniale - Accertamento - Criteri – – Non risarcibilità (c.c., artt. 1218, 1223, 1226, 2059)
Se incaricato come libero professionista, il medico specialista risponde a titolo contrattuale per l’inadempimento consistente nell’omessa tempestiva diagnosi di patologia neoplastica che determina “più probabilmente che non” la morte del malato. Nel caso in cui il decesso segua l’illecito a distanza di anni, il pregiudizio non patrimoniale spettante jure haereditatis ai successori del defunto può comprendere, oltre al danno biologico temporaneo, anche il danno biologico permanente cristallizzatosi prima del decesso. La liquidazione deve avvenire unificando le componenti biologica ed esistenziale, tramite adeguata “personalizzazione”; mentre il danno morale, ontologicamente differente, va riconosciuto e quantificato a parte. È irrisarcibile il danno “tanatologico” e nulla è dovuto per la perdita di chance di sopravvivenza. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
La “possibilità di sopravvivere”, tra nesso di causa, perdita di chance e danni non patrimoniali Sergio Belloni Peressutti Avvocato in Padova
Sommario: 1. Il caso e il decisum del Tribunale di Milano. – 2. La natura e i presupposti della responsabilità del sanitario. – 3. I danni risarcibili e la loro liquidazione. – 4. La probabilità scientifica e la chance (non) risarcibile di sopravvivenza.
Abstract: Il contributo propone una lettura ragionata di una recente sentenza del Tribunale di Milano su una fattispecie di responsabilità del medico ginecologo per omessa tempestiva diagnosi di neoplasia mammaria, seguita, dopo due interventi e alcuni anni di inutile terapia, dalla morte della paziente. La decisione offre lo spunto per alcune riflessioni sull’accertamento del nesso di causa e sul danno non patrimoniale risarcibile, in un quadro di significative evoluzioni giurisprudenziali e dottrinali.
The report analyses a recent sentence signed by a Milan Court and concerning a case of responsibility attributable to a gynecologist who didn’t promptly diagnose a breast neoplasia, succeeded in a few years by the patient’s death, in spite of two surgical procedures and several burdensome vain medical treatments. The decision allows some considerations about causal relationship and non-material compensable damage, through recent developments case-law and doctrinal standpoints.
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1. Il caso e il decisum del Tribunale di Milano Questa ennesima fattispecie di malpractice sanitaria sottoposta al vaglio del Tribunale di Milano riguarda la drammatica vicenda di una donna che, visitata all’età di 34 anni, non veniva tempestivamente avviata dal proprio ginecologo allo svolgimento degli opportuni approfondimenti diagnostici nonostante la scoperta di un nodulo al seno da valutarsi obbiettivamente sospetto. A seguito della reiterata omissione del sanitario, l’insorgenza del tumore maligno, da cui la paziente risultava in effetti essere stata colpita, veniva quindi diagnosticata con oltre due anni di ritardo, e le ripercussioni sulla sua salute erano devastanti, determinandosi la necessità di interventi ben più invasivi per la rimozione del carcinoma e di una successiva pesante terapia, i quali, peraltro, non evitavano il decesso, sopraggiunto a 6 anni di distanza dalla mancata diagnosi e nel corso del giudizio risarcitorio, poi proseguito dagli eredi. Il pregiudizio lamentato (dalla donna ancora in vita) consisteva principalmente nel danno non patrimoniale dipendente dalla lesione dell’integrità psico-fisica; ma anche nella perdita delle chance di sopravvivenza, essendo la malattia, già al momento della proposizione della domanda, destinata ad un esito infausto. La CTU disposta dal Tribunale ambrosiano confermava senza incertezze la colpa del medico, fonte per la paziente di un’invalidità temporanea e permanente, quest’ultima da stimarsi nella differenza tra la menomazione che sarebbe comunque conseguita alla malattia (pur in presenza di diagnosi tempestiva) e quella più consistente accertata a seguito del suo aggravamento, degli interventi e della terapia necessitati dalla condotta illecita. Inoltre, la consulenza evidenziava come, secondo la migliore scienza medica, qualora la diagnosi fosse intervenuta con il giusto anticipo, la paziente avrebbe potuto statisticamente disporre di elevate probabilità di sopravvivenza a 5 anni (97%); probabilità che al momento della corretta diagnosi, con due anni di ritardo, si erano certamente ridotte, pur restando comunque consistenti (75%). Il decesso dell’attrice sopraggiunto in prossimità del deposito dell’elaborato peritale (con il subenResponsabilità Medica 2019, n. 2
Giurisprudenza
tro nel processo da parte degli eredi: il coniuge e le due figlie minori) induceva il Giudicante ad assegnare ai propri consulenti un’integrazione del quesito originario, al fine di indagare la sussistenza del nesso eziologico tra l’inadempimento del sanitario e l’exitus della paziente, e per rivalutare le chance di sopravvivenza perse dalla donna, tenendo conto della morte intervenuta dopo 6 anni dall’omissione colpevole. Acquisito anche l’elaborato integrativo, il Tribunale di Milano riconosceva che il grave inadempimento del ginecologo aveva “più che probabilmente” causato il decesso della donna; ciò in quanto, nel caso concreto, l’errore diagnostico aveva esposto quest’ultima ad un rischio di morte molto superiore a quello che la stessa avrebbe corso se la diagnosi corretta fosse stata tempestiva. Tanto premesso, veniva liquidato in favore degli eredi dell’attrice il danno non patrimoniale biologico accertato dai consulenti d’ufficio: sia il temporaneo, che il permanente cristallizzatosi prima del decesso; applicando la Tabella del Tribunale di Milano, veniva valorizzata la componente “esistenziale” tramite “personalizzazione” dell’importo tabellare, e riconosciuto, invece, come voce autonoma il grave pregiudizio morale. Nulla veniva attribuito per il danno c.d. tanatologico e per la lamentata perdita delle chance di sopravvivenza, facendosi peraltro espressamente “salvo” il pregiudizio conseguente alla lesione del rapporto parentale, da accertarsi a favore dei congiunti in separato giudizio.
2. La natura e i presupposti della responsabilità del sanitario Nella prima parte della motivazione, la sentenza in commento conclude per la natura “contrattuale” della responsabilità del medico convenuto, avendo questi operato in regime di libera professione. Il Giudicante si dà cura di richiamare i passaggi dell’evoluzione giurisprudenziale e normativa che hanno segnato il trascorso ventennio, sino alla legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017), la quale, esprimendo una scelta politica, definisce “extracontrattuale” la responsabilità dell’esercente la professio-
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ne sanitaria che operi nell’ambito della struttura ospedaliera: sia ove questi presti la propria attività da dipendente e nella cornice del “contratto di spedalità” concluso tra paziente e struttura, sia ove eserciti come professionista intramoenia. “Contrattuale” resta, invece, proprio e solo la responsabilità del medico che come libero professionista conclude direttamente col paziente un contratto d’opera intellettuale (senza requisiti formali, anche per fatti concludenti); ciò in quanto – osserva il Giudicante – “in tali casi manca l’imprescindibile requisito dell’estraneità tra medico e paziente, l’unico che consente di inquadrare la responsabilità come extracontrattuale”. Dalla ridetta qualificazione dipende, evidentemente, la ripartizione tra le parti in causa degli oneri assertivi ed istruttori secondo la regola generale, che proprio in materia di malasanità ha conosciuto diverse deroghe, più o meno giustificate e giustificabili1, ma di recente è stata riaffermata2: sul danneggiato incombe la prova del titolo, ma soprattutto del pregiudizio sofferto e del nesso di causa, laddove alla parte convenuta spetta dimostrare il corretto adempimento o l’intervento del fortuito. Venendo ai presupposti della responsabilità contestata nel caso di specie, il Giudice milanese ritiene acclarato, all’esito di una precisa ricostruzione della storia clinica della paziente, che il sanitario ha “reiterato in molteplici occasioni il medesimo errore diagnostico”: secondo i consulenti d’ufficio, infatti, le indicazioni da questi fornite alla paziente erano state fuorvianti, poiché “…sin dal febbraio 2010 la sig.ra T. avrebbe dovuto essere avviata ad approfondimento diagnostico istologico”. Precisato che la domanda proposta riguardava la lesione di diversi beni inerenti alla persona (il riferimento è, da un lato, alla salute e, dall’altro, al bene costituito dalla vita), il Tribunale di Milano
riconosce alla parte attrice di avere fornito adeguata prova giudiziale degli eventi dannosi e della loro conseguenzialità rispetto all’inadempimento, potendosi escludere, per contro, la rilevanza sia dei “fattori cocarcinogenetici” indicati dal medico convenuto, sia della natura particolarmente aggressiva della neoplasia. In particolare, riguardo al nesso di causalità materiale (ovverosia, alla relazione intercorrente sotto il profilo naturalistico tra la condotta illecita e la lesione che si assume intervenuta rispetto al bene-salute e al bene-vita) il Giudice ambrosiano, seguendo l’orientamento oramai stabilmente recepito3, fa applicazione delle regole ritraibili dagli artt. 40 e 41 c.p., che impongono il ricorso all’enunciato controfattuale. Il quale enunciato, in ipotesi di illecito omissivo, tende come noto a verificare se la condotta dovuta, ove correttamente tenuta, avrebbe effettivamente evitato l’evento di danno; restando esclusa la relazione eziologica in presenza di concause, esclusivamente quando l’evento di danno sia ascrivibile ad una sequenza autonoma imprevedibile. In tale contesto si colloca il rilievo secondo cui pur essendo “pacifico che anche in mancanza della censurabile condotta del V., la neoplasia mammaria si sarebbe manifestata ugualmente… altrettanto evidente però è come e quanto la colposa condotta ascrivibile al medico abbia condizionato il decorso della malattia, incidendo consistentemente tanto sulla terapia da praticarsi, quanto sulla prognosi, rendendo quest’ultima irreversibilmente (e più celermente) infausta”. Ebbene, sul piano del metodo è ben comprensibile l’iter che conduce il Giudice al riconoscimento del nesso inadempimento/morte nonostante il dato statistico offrisse un importante argomento in senso contrario, come qui di seguito si spiega. Risultava acquisito in causa che, se la diagnosi fosse intervenuta tempestivamente, con elevata probabilità la paziente si sarebbe trovata in una condizione in cui la stragrande maggioranza dei
V. Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Danno e resp., 2008, 612, con nota di De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione.
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Tra altre, v. Cass., 26.7.2017, n. 18392, in Danno e resp., 2017, 696, con nota di Zorzit, La Cassazione e la prova del nesso causale: l’inizio di una nuova storia?
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V. Cass. pen., sez. un., 11.9.2002, n. 30328, in Corr. giur., 2003, 348.
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malati era sopravvissuta (il 97%); laddove per molto pochi di essi la prognosi era risultata infausta (il 3%). Perifrasi normalmente tradotta con la sintetica espressione che la paziente, all’epoca, avrebbe potuto disporre del 97% di probabilità di sopravvivere. Invece, al momento della diagnosi tardiva, due anni dopo, la paziente si era ragionevolmente trovata nella condizione meno favorevole in cui non più la stragrande maggioranza, ma solo una buona parte dei malati erano sopravvissuti (il 73%); si era trovata, cioè, ad appartenere ad una classe statistica in cui i casi di sopravvivenza erano stati numericamente inferiori (nella misura del 24%). Perifrasi normalmente tradotta con l’affermazione che la paziente, in quel momento successivo, aveva potuto disporre del 73% di probabilità di sopravvivenza. Ora, tali rilievi statistici (secondo i quali, dunque, a causa della tardività della diagnosi, la donna aveva bensì visto sfumare molte possibilità di sopravvivenza, ma disponeva comunque di buone probabilità) avrebbero anche potuto convincere di ciò, che l’exitus non fosse ascrivibile al ritardo diagnostico contestato allo specialista: il decesso avrebbe potuto considerarsi conseguenza inevitabile della pregressa patologia, valutando come secondo la scienza medica esso fosse “improbabile” tanto nel caso di diagnosi tempestiva quanto all’esito della diagnosi tardiva. Con la conseguenza, beninteso, che il medico avrebbe comunque dovuto rispondere (ma) delle sole conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’aggravamento della malattia oltre che, ragionevolmente, per il danno da perdita di chance4. Il Tribunale ambrosiano ritiene invece che, nel caso concreto, l’inadempimento del ginecologo “ha più che probabilmente causato il decesso, con-
La motivazione dà conto anche della proposta conciliativa avanzata dal Giudice prima del decesso (“all’esito dell’attività peritale ed in ragione delle sue risultanze”), la quale prevedeva il risarcimento dei danni biologici temporanei e permanenti accertati dai consulenti, entrambi opportunamente personalizzati per ricomprendervi anche la componente “morale”; oltre alle spese di cura e, soprattutto, con la precisazione che “a tale importo avrebbe dovuto aggiungersi un importo pari alla perdita di chance”.
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tribuendovi, come detto, in misura consistente”, poiché il passaggio dal I stadio al III stadio della malattia aveva implicato un notevole incremento delle possibilità che la malata soccombesse (“…il ritardo diagnostico ha determinato un rischio di morte oltre 10 volte superiore”). Il percorso seguito – come si diceva – appare corretto, mostrando come il Giudice abbia elaborato in modo critico l’informazione fornitagli dalla scienza medica, trattandola alla stregua di uno strumento, tra altri a sua disposizione, in funzione del giudizio di verosimiglianza logica che gli compete in via esclusiva. In effetti, probabilità scientifica e probabilità logica, in ambito giudiziale, vengono talvolta sovrapposte o confuse senza una piena consapevolezza, a dispetto della considerazione che si tratta di espressioni riferite a concetti totalmente diversi. La probabilità logica può essere considerata l’unica soluzione possibile per l’interpretazione della realtà incerta che ci avvolge, precedendoci e susseguendoci; ed essa non può che basarsi sull’osservazione e sull’esperienza, che la statistica si occupa di elevare a scienza. Tuttavia, si deve por mente al fatto che, in sé stesso, il rilievo statistico, più o meno affinato, testimonia un semplice dato numerico; offre un’immagine “statica” e non ambisce a garantire alcunché riguardo al futuro sviluppo degli eventi. La statistica non intende e non può prevedere l’avverarsi nel caso concreto dell’evento pur già verificatosi nella maggior parte dei casi considerati, piuttosto che di un altro evento, alternativo al primo, verificatosi nella minor parte dei casi considerati, ma altrettanto possibile. In altre parole, avanti ad una realtà quasi sempre contraddistinta da più o meno ampi margini di incertezza, nel dato statistico non si esaurisce la ricerca in giudizio del “più probabile che non”5, la quale deve invece seguire un percorso più ricco e “intelligente”, di cui la decisione finale è chiamata a render conto.
La regola di funzione consacrata nel settore della responsabilità civile da Cass., 16.10.2007, n. 21619, in Danno e Resp., 2008, 43, con nota di Pucella, Causalità civile e probabilità: spunti per una riflessione.
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Tanto osservato, tornando alla sentenza in commento, due ulteriori incisi pare a chi scrive meritino evidenza. Il primo è quello con cui il Tribunale di Milano antepone alla già riportata affermazione che “il ritardo diagnostico ha più che probabilmente causato il decesso, contribuendovi, come detto, in misura consistente” il rilievo in base al quale questa sua valutazione inevitabilmente “sconta” la critica che “la patologia di base evidenziata dalla sig.ra T. […] non garantisce la guarigione nella totalità dei casi”. In questo modo, il Giudicante si mostra consapevole dell’incertezza che sul piano scientifico e logico sarebbe eliminabile solamente colà dove un determinato esito fosse certo, o almeno confermato dall’esperienza nella totalità dei casi; e tuttavia il suo giudizio deve comunque intervenire, secondo la regola della preponderance of the evidence, che gli impone un’alternativa secca tra l’ascrizione dell’evento di danno all’illecito o l’affermazione della sua estraneità (all or nothing). Il secondo inciso è contenuto nella parte finale della motivazione dove si legge che “Il concretarsi di un sostanziale azzeramento delle chance di sopravvivenza si lega al repentino decesso della sig.ra T. che, effettivamente, da un lato rende evidente come il giudizio prognostico svolto dai consulenti d’ufficio si fondi su di un calcolo probabilistico che prescinde dalle effettive sorti del caso concreto […] dall’altro rende evidente come il decesso, cui la malattia da cui era affetta la sig.ra T. inevitabilmente preludeva, nel suo manifestarsi qui e ora sia da ricondurre alla omessa diagnosi tempestiva del medico convenuto”. Anche qui può riscontrarsi (accanto ad un equivoco circa la considerazione delle chance, sul quale si tornerà infra) la coscienza nel Giudicante della tendenziale inidoneità del dato statistico astratto ad esaurire l’indagine sul rapporto eziologico, la quale ultima consiste nell’accertare se l’evento lesivo “nel suo manifestarsi qui e ora” vada collegato alla causa assunta in concreto come fonte di responsabilità; la consapevolezza che il giudizio finale dipende da una prognosi postuma (circa la possibile sopravvivenza a seguito della tempestiva diagnosi), che, appunto, è destinata a rimanere
obbiettivamente incerta nonostante l’elevata probabilità scientifica. Ebbene, il fatto che la paziente era ugualmente deceduta a fronte di una statistica favorevole alla sopravvivenza (o meglio: il fatto che la paziente era rientrata nel più ristretto gruppo di coloro che, a parità di condizioni, non erano sopravvissuti) viene assunto dal Tribunale di Milano, piuttosto, a riprova dell’effettiva riconducibilità della morte all’errore diagnostico. Rispetto alla lesione all’integrità psicofisica, la sentenza annotata non manca, poi, di illustrare con precisione gli esiti della verifica controfattuale, evidenziando che “in caso di diagnosi corretta la paziente avrebbe subito un intervento chirurgico meno demolitivo…; non sarebbe stata sottoposta a due cicli di fisiochinesiterapia… non sarebbe stata sottoposta a chemioterapia… non sarebbe stata sottoposta ad un secondo intervento chirurgico… non avrebbe probabilmente subito la successiva diffusione ossea della malattia”.
3. I danni risarcibili e la loro liquidazione Segue la selezione dei pregiudizi risarcibili in quanto conseguenza immediata e diretta dell’illecito accertato (arg. ex art. 1223 c.c.), “onde ascrivere all’autore materiale della condotta, responsabile tout court sul piano della causalità materiale, un obbligo risarcitorio che non comprenda anche le conseguenze dannose non riconducibili eziologicamente all’evento di danno, bensì determinate dal caso fortuito […]”. Il passaggio in questione appare chiaro, riferendosi a quel segmento della responsabilità che riguarda la relazione tra il danno-evento e il danno-conseguenza (c.d. causalità giuridica). Vale la pena indugiare, invece, sugli esiti cui tale verifica conduce: per quest’aspetto, la pronuncia si innesta nel nutrito filone giurisprudenziale avente ad oggetto la risarcibilità dei pregiudizi derivanti da errore medico cui consegua l’aggravamento della patologia e la morte del paziente; e merita considerazione per le scelte con le quali viene ricostruito e liquidato, personalizzandolo, il pregiudizio non patrimoniale, che l’attrice aveva declinato nelle diverse voci del danno biologico Responsabilità Medica 2019, n. 2
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sia temporaneo che permanente, del danno esistenziale e morale, e, altresì, del danno per la perdita delle chance di sopravvivenza. Il Giudicante muove evidentemente dall’assunto - esplicitato solo nella parte conclusiva della motivazione - che nel nostro ordinamento il “danno da morte non [è] risarcibile in capo alla paziente”, e riconosce ai successori della defunta, jure haereditatis, non solo, comprensibilmente, il danno biologico da invalidità temporanea patito dalla malata, ma anche il danno biologico da invalidità permanente. La decisione è criticabile, come lo stesso Giudice milanese accusa là dove spiega che “l’invalidità permanente, infatti, presuppone che la malattia sia cessata e che l’organismo abbia riacquistato un suo equilibrio, magari alterato, ma stabile” e che “La circostanza in parola rende apparentemente inconciliabile l’invalidità permanente con la morte dell’individuo”. Nello specifico, viene riconosciuto il danno biologico permanente in misura “differenziale”, cioè tenendo conto del fatto che “una invalidità si sarebbe comunque estrinsecata pur in assenza della censurabile condotta del medico”, e dunque detraendo quest’ultima, stimata nella misura del 7%, da quella accertata al momento della consulenza, pari al 35%. Non basta. Tanto il biologico temporaneo, quanto il biologico permanente, indicati dai consulenti d’ufficio e dichiaratamente parametrati alla Tabella del Tribunale di Milano6, vengono “personalizzati” per valorizzare l’incidenza dell’illecito sotto il profilo “esistenziale”, vale a dire le sue ricadute sulle dinamiche relazionali e sulle abitudini di vita della malata, apparse particolarmente gravi alla luce delle specifiche probanti allegazioni riconducibili all’attrice stessa e ai suoi eredi. Il primo (biologico temporaneo) è determinato nella misura tabellare e maggiorato del 48% (entro la soglia di “personalizzazione” indicata dalla Tabella stessa), per un totale di € 12.887,64.
Il secondo (biologico permanente) è dapprima rideterminato in € 80.000, scorporando dall’importo tabellare (circa € 140.000) quella che dovrebbe costituirne la componente “morale” (secondo il Giudicante, € 60.000)7; e quindi “personalizzato” al 100% (e perciò fino ad € 160.000), in una misura largamente eccedente la soglia del 31%, che la Tabella definisce superabile per le (sole) “fattispecie eccezionali rispetto alla casistica comune degli illeciti”. L’ulteriore peculiarità consiste nella decisione del Tribunale milanese di attribuire un’autonomia al danno morale (la sofferenza interiore, transeunte, collegata anzitutto alla lesione dell’integrità psicofisica, e nella specie accresciuta – è da ritenersi – per avere la malata dovuto anche consapevolmente assistere al decorso infausto della malattia), liquidato separatamente e in via equitativa. Quest’ultima scelta, oltre che legittima, appare consapevole: il Giudicante, a cagione della “peculiare sofferenza accertata in capo alla sig.ra T. e legata alla tragica evoluzione repentina della patologia eziologicamente correlata alla omissione diagnostica”, rifiuta l’automatica unificazione, proposta dalla Tabella, dei danni biologico e morale, ritenendoli ontologicamente diversi secondo un recente orientamento della Suprema Corte8; e quantifica questa voce in € 100.000. In definitiva, quindi, per il ristoro del pregiudizio non patrimoniale patito dalla paziente in vita,
Sulla generale applicabilità della Tabella del Tribunale di Milano, v. Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 1058, e Cass., 15.10.2015, n. 20895, consultabile all’indirizzo: www.ilcaso.it.
V. Cass., 17.1.2018, n. 901, in Danno e resp., 2018, 463, con nota di Ponzanelli, Danno non patrimoniale: l’abbandono delle Sezioni Unite di San Martino; cui è già stata data continuità con Cass., 31.5.2018, n. 13770, ivi, 453.
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La Tabella milanese (edizione 2018), nell’unificare il biologico ed il morale, stima un aumento del primo del 44%. Pare a chi scrive, allora, che il Giudicante possa avere moltiplicato l’importo tabellare del danno non patrimoniale “unificato” (€ 136.219, probabilmente arrotondati a € 140.000) per 44%, ritenendo così di accertare la componente morale in € 60.000 (rectius, € 59.936,36); per poi detrarre quest’ultimo importo da quello di partenza: sarebbe così spiegabile la quantificazione del biologico “netto” in € 80.000. Detto questo, l’operazione descritta non sarebbe corretta dal punto di vista matematico: il Giudice avrebbe dovuto svolgere una diversa equazione, la quale avrebbe evidenziato come, anche seguendo il criterio prescelto, il biologico “netto” constava in realtà di € 94.600 e il morale di € 41.600.
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viene riconosciuto ai suoi successori, jure haereditatis, l’importo complessivo di € 272.887,64 (cui aggiungere le spese mediche e non invece, per le ragioni più oltre illustrate, il richiesto danno da perdita di chance); salvo il danno da lesione del rapporto parentale, spettante jure proprio ai congiunti e non azionato nel giudizio. Ora, appare evidente come il Giudice fosse, ragionevolmente, suggestionato dalle ripercussioni che il grave errore ripetuto dal ginecologo aveva comportato per la malata e la sua famiglia; ciò posto, però, l’ingente pregiudizio accertato avrebbe forse potuto essere integralmente ristorato anche percorrendo una via meno tortuosa e scivolosa. Non sembra superabile, in particolare, l’obiezione relativa all’improprio riconoscimento del biologico permanente dopo che sia stato accertato il nesso tra l’illecito e l’exitus della paziente; quest’obiezione non è superata, segnatamente, dall’argomento usato dal Giudice secondo cui “odierno thema decidendum è il danno biologico cristallizzatosi prima e a prescindere dall’evento infausto” (come se si potesse segmentare l’unica sequenza causale che dall’illecito conduce alla morte), né da quello secondo il quale “al momento dell’insorgenza dell’evento dannoso, l’attrice aveva una prospettiva di vita di poco inferiore alla normalità (chance di sopravvivenza pari al 97%) con ciò parificando la propria posizione a quella di soggetti generalmente presi in considerazione dal parametro tabellare” (non potendosi in realtà “fingere” che la paziente fosse integra, per il solo fatto che disponeva di ampie possibilità di guarigione). Invero, il riconoscimento dell’invalidità permanente presuppone che gli esiti della menomazione inferta affliggano il danneggiato, tendenzialmente, per la residua durata naturale della sua esistenza; quando invece l’illecito determini, sia pur in un considerevole arco temporale, il decesso anticipato del danneggiato, di un’invalidità “permanente” non si può sensatamente disquisire. Ciò posto, nel caso in esame non sarebbe stato consentito riferirsi né al c.d. danno alla salute definito da premorienza (previsto dalla Tabella milanese quando la morte sopraggiunta nel corso del giudizio non dipenda dall’illecito che ha determinato l’invalidità), né al c.d. danno termi-
nale (riguardante i casi in cui la morte sia causata dall’illecito e lo segua non istantaneamente, ma comunque in un torno temporale piuttosto circoscritto). Ma il Giudice avrebbe potuto riconoscere un diverso pregiudizio non patrimoniale per ciascun giorno intercorso tra l’illecito e il decesso, in cui la paziente, a causa della condotta negligente del sanitario, aveva dovuto affrontare il progressivo inarrestabile avanzamento della sua malattia, con chiare implicazioni sulle dinamiche relazionali e sulle abitudini di vita. Pregiudizio ragionevolmente riconducibile, ancora, alla categoria descrittiva del biologico temporaneo, ma da liquidare in via puramente equitativa, in quanto l’importo stabilito dalle tabelle milanesi (€ 98 die) non è adeguato là dove la provvisoria lesione all’integrità psicofisica che esso dovrebbe compensare, anziché risolversi, esita nella morte, attraverso un percorso consapevole di dolore e sofferenza.
4. La probabilità scientifica e la chance (non) risarcibile di sopravvivenza Capitolo a parte può destinarsi alla perdita delle c.d. chance di sopravvivenza, lamentata dall’attrice quando era ancora in vita ma le sue possibilità di sopravvivere erano inesistenti, con domanda che risulta poi coltivata anche dai suoi eredi. Perdita di chance qui da considerarsi – anche a voler tutto concedere – in misura solo differenziale, poiché se è vero che al momento della mancata diagnosi le probabilità di sopravvivenza erano stimate nel 97%, è anche vero che due anni dopo, al momento della diagnosi corretta, esse erano stimate nel 73%: sicchè le opportunità svanite a causa dell’inadempimento non potevano che quantificarsi in misura pari al 24%. Ai fini del riconoscimento di questa specie di danno, di cui il Tribunale di Milano definisce astrattamente “pacifica l’autonoma risarcibilità”, la prospettiva da adottare non può che essere quella “ontologica”, l’unica per la quale – a sommesso parere di chi scrive – sarebbe possibile una pur faticosa armonizzazione col sistema.
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Secondo tale ipotesi ricostruttiva, la chance, intesa come opportunità di conseguire un risultato finale vantaggioso o di evitarne uno sfavorevole, è un bene già appartenente al danneggiato, la cui privazione va compensata quando, secondo la regola generale di funzione cui la fattispecie non può sottrarsi, sia stata “più probabilmente che non” causata dalla condotta colpevole. La maggiore o minore consistenza delle chance sfumate non dovrebbe incidere sull’an debeatur, ma sull’entità del risarcimento da riconoscere, venendo quest’ultimo parametrato, in proporzione, al pregiudizio dipendente dal sacrificio del risultato finale (tramite l’applicazione di un coefficiente di riduzione), ed escluso solo allorchè, per la modesta entità delle possibilità accertate, si configuri come “bagatellare”. Detto questo, non può condividersi il superiore assunto secondo cui la risarcibilità del danno da perdita di chance sarebbe oramai “pacifica”, in particolare e proprio nel settore della responsabilità medica, dove talune recenti espressioni dubitative da parte di giurisprudenza e dottrina ne hanno messo in discussione, una volta di più, i presupposti logici. Volendo ricordare solamente i più vicini e significativi sviluppi del dibattito, va citata l’articolata sentenza datata 25.10.2016 con la quale il Tribunale di Rimini ha criticato il risarcimento delle chance come “tecnica (flessibile) di distribuzione del “peso” del danno tra le parti, consentendo di risarcirlo (in parte) anche laddove manchi il nesso causale” (s’intende: rispetto al bene finale verso il quale la chance si proietta). Secondo questo Giudice, l’indispensabile rapporto causale tra la condotta colpevole e l’evento di danno consistente nella perdita della chance “ontologica” risulterebbe inammissibilmente “innestato su una dimensione doppiamente probabilistica, nel senso che il fatto (attivo od omissivo) andrebbe collegato, “più probabilmente che non” ad una… probabilità”. La conclusione è che, in un caso di responsabilità medica con conseguente perdita per il paziente di chance di vivere più a lungo e/o meglio, il pregiudizio da risarcire sarebbe dato, piuttosto, “dal peggioramento delle sue condizioni di vita nel periodo di “effettiva” sopravvivenza. Il che, all’eviResponsabilità Medica 2019, n. 2
Giurisprudenza
denza, integra (né più né meno che) un danno non patrimoniale ex art. 2059 c.c., declinato sub specie di danno biologico in senso stretto, o sofferenza interiore, ovvero contrazione delle attività realizzatrici della personalità, e non già la lesione di altri (inesistenti) beni giuridici a sé stanti”9. Né può ovviamente tacersi della recente Cass. 5641/2018, fortemente avversa alla teorica della responsabilità da perdita di chance per avere essa “sostituito uno degli elementi essenziali della fattispecie dell’illecito – il nesso causale – con il suo oggetto – il bene tutelato dalla lesione” 10; tanto da confinarne l’operatività ai soli casi in cui sarebbe impossibile esprimere una valutazione probabilistica, rinvenibili là dove “le conclusioni della CTU risultano, cioè, espresse in termini di insanabile incertezza rispetto all’eventualità di maggior durata della vita e di minori sofferenze, ritenute soltanto possibili alla luce delle conoscenze scientifiche e delle metodologie di cura del tempo”. In queste - e solo in queste - ipotesi di insuperabile “incertezza eventistica” andrebbe ammesso il risarcimento del danno per la perdita di chance; da liquidare, a questo punto, non in proporzione al pregiudizio discendente dal mancato appagamento dell’interesse finale verso il quale la chance si proietta (giacchè non può dirsi “probabile” che esso si sarebbe realizzato), ma in via equitativa, e solo “se provato il nesso causale (certo, ovvero “più probabile che non”) tra la condotta e l’evento incerto (la possibilità perduta) nella sua necessaria dimensione di apprezzabilità, serietà, consistenza”11.
Tribunale di Rimini, 25.10.2016, in Corr. giur., 2017, 1521, con nota di Garreffa, Il danno da perdita di chance: una sentenza di merito che ne denuncia la fallacia dogmatica. V. anche Azzalini, Nesso causale e perdita di chance: l’illusione ottica della doppia probabilità, in Nuova giur. civ. comm., 2017, I, 691. 9
10 Cass., 9.3.2018, n. 5641, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1285, con nota di Garreffa, I paralogismi della teoria della chance perduta. 11 Sennonché, tali fattispecie residuali pare a chi scrive che non siano concretamente identificabili: infatti, proprio la regola della preponderance of the evidence, ed il suo corollario dell’all or nothing, fornisce (e invero è concepita per garantire) al Giudice lo strumento logico per giungere sempre, senza eccezioni, al riconoscimento o alla negazione del nesso
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Proprio quest’ultima autorevole pronuncia ha offerto l’occasione ad autorevole dottrina12 per sottolineare come il “tallone d’Achille” della responsabilità da perdita di chance “ontologica” andrebbe individuato, piuttosto, nell’impossibilità di dimostrare che nel caso concreto il danneggiato effettivamente disponeva delle opportunità che lamenta di aver smarrito, non bastando a tal fine l’enunciazione del dato statistico astratto, di per sé incapace di rivelare, appunto, se il soggetto leso sarebbe appartenuto all’una piuttosto che all’altra area di probabilità presa in considerazione13. Onde la proposta di un deciso mutamento di prospettiva, che comporti l’abbandono della discussione sulle chance strumentalmente “reificate”, per focalizzare invece, piuttosto, quegli interessi qualificati, già appartenenti al patrimonio del danneggiato, che “più probabilmente che non” l’illecito abbia effettivamente pregiudicato hic et nunc; e quindi riconoscere l’eventuale nocumento all’integrità psicofisica del paziente dipendente dall’aggravamento della malattia in sé, o dall’intervento, o dalla terapia, che la diagnosi corretta e tempestiva avrebbe consentito di evitare; ma anche la lesione del diritto del malato di affrontare il decorso della patologia in una condizione di salute migliore, che può tradursi - lambendo quell’interesse cui la teorica della perdita di chance ha sino ad ora avuto riguardo - nel suo diritto a battersi per rientrare in una classe di malati dotata sul piano statistico di maggiori probabilità
causale, e dunque della responsabilità: di qui la convinzione che con la citata sentenza la Suprema Corte abbia inteso, in realtà, assestare una secca “spallata” alla teorica in discorso. Pucella, L’insanabile incertezza e le chance perdute, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 1684. Per un’utile sintetica ricognizione sulle diverse opzioni risarcitorie fatte proprie dalla giurisprudenza in materia di chance, v. Guidi e Sarani, Il risarcimento del danno da perdita di chance di vita, cura e guarigione: prassi, trend e criteri liquidatori, in Danno e resp., 2016, 505.
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13 Qui c’è il rischio che il ragionamento finisca per avvitarsi, come ci pare colga l’espressione usata dalla Suprema Corte in altra coeva sua non meno importante pronuncia, ove si sottolinea che “Un eccesso di analisi rischia di polverizzare la fattispecie” (Cass., 19.3.2018, n. 6688, in Corr. giur., 2018, 908, con nota di Tessone, La razionalizzazione della chance secondo la Cassazione e in prospettiva di comparazione).
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di sopravvivenza; ed anche del suo diritto di autodeterminarsi, cioè di decidere se, come e dove curarsi14. Con tutte le possibili ricadute che la lesione di questi interessi giuridicamente rilevanti possono avere avuto anche sulla qualità della vita. Insomma, senza poter qui ulteriormente soffermarsi, appare evidente come il formante sia in continua evoluzione. Le ricostruzioni proposte sul piano sistematico, le puntute obiezioni e le risposte date alle molteplici problematiche in sede applicativa appaiono tanto numerose e diversificate da rendere ardua financo una reductio ad unitatem, potendosi riconoscere solamente uno sfondo comune: la percezione condivisa da tutti gli operatori che in fattispecie di responsabilità contraddiste da causalità incerta, dove l’esclusione del risarcimento dipende dall’applicazione della regola della preponderance of the evidence, si generi il rischio di un’area grigia, una “zona franca” dove possono restare prigionieri, privi di considerazione e quindi privi di ristoro, benché chiaramente compromessi, interessi della persona di rango primario. Dopo di che, è invece tutt’ora discusso, e per niente “pacifico”, se la considerazione attribuita alle chance, e l’idea di riconoscerne la risarcibilità, siano risposte corrette da dare a questo “baco” del sistema. Detto ciò, in un contesto assai “liquido”, può considerarsi certo, al postutto, quantomeno l’approdo secondo il quale è inconcepibile ragionare di risarcimento delle chance perdute quando all’agire colpevole sia ascritto come “più probabile che non” l’avverarsi dell’evento di danno finale considerato. E quest’ultima osservazione consente di tornare alla sentenza in commento, per sottolineare che, una volta decisosi a riconoscere che “il ritardo diagnostico ha “più che probabilmente che non”
14 La citata Cass., 19.3.2018, n. 6688, in Corr. giur., 2018, 908, invita a non confondere le possibilità in cui si sostanzia la chance risarcibile (i.e. le possibilità di conseguire un risultato vantaggioso che ancora non appartiene al danneggiato), con le possibilità, ovvero le facoltà, che costituiscono l’essenza di diritti già appartenenti al danneggiato: l’ennesimo paralogismo dal quale lo studioso delle chance deve guardarsi.
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causato il decesso” della malata, il Tribunale di Milano non poteva che escludere il risarcimento del danno per le chance di sopravvivenza perse da quest’ultima tra il momento dell’omessa diagnosi e il momento della diagnosi corretta. Il quesito integrativo assegnato ai CTU dopo l’exitus dell’attrice quantomeno nella prima parte sembrerebbe allinearsi a quest’ultima considerazione, richiedendo esso di verificare, innanzitutto, “se il ritardo diagnostico ed il percorso terapeutico posto in essere di conseguenza abbia concorso a determinate”, e solamente “in caso negativo” di accertare “quali chance di guarigione nell’arco temporale di riferimento secondo la letteratura scientifica più accreditata la sig.ra T. avrebbe avuto […]”. Desta invece perplessità la successiva precisazione (sempre nel quesito integrativo) secondo cui le possibilità di sopravvivenza (che in effetti erano già state indicate dai CTU nel loro primo elaborato, quando la paziente era ancora in vita) dovevano essere “rivalutate” “tenendo conto del dato oggettivo della morte intervenuta a distanza di anni sei e mesi uno dal momento in cui si sarebbe potuta accertare la patologia oncologica”. In questa richiesta, come poi anche in altri passaggi della sentenza annotata, alligna un difetto logico che offre il destro per taluni ultimi spunti di riflessione. Si tratta della fallace convinzione (comune al Giudicante, ai suoi consulenti15 e alla difesa del
Nella sentenza si dà conto che secondo i consulenti d’ufficio “[…] prendendo in considerazione lo stadio ipotetico in cui la malattia, con alta probabilità, si manifestava nel 2010, vale a dire stadio I, la paziente avrebbe avuto una probabilità di morire (a 5 anni) pari al 3% circa. Tale probabilità in termini strettamente statistici, considerato che trascorsero 6 anni, sarebbe stata più alta di qualche piccola frazione”. L’espressione utilizzata non brilla per chiarezza, ma sembra orientata ad ammettere che le possibilità di decesso a 5 anni attribuite dalla scienza medica alla paziente con riferimento al momento della mancata diagnosi potrebbero, o dovrebbero, appunto essere “attualizzate”, col senno di poi, dopo l’avversarsi di un tale evento a distanza di 6 anni: in particolare esse dovrebbero essere corrette al rialzo “di qualche piccola frazione”; mentre le chance di sopravvivenza di cui la paziente disponeva nello steso arco temporale dovrebbero essere, correlativamente, riviste al ribasso. 15
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convenuto16) che il dato statistico astratto possa o debba essere “attualizzato” alla luce dei successivi sviluppi fattuali, essendo questi ultimi idonei a confermarlo ovvero, come nella specie, a smentirlo. Impinge in questo equivoco anche la considerazione secondo cui una volta intervenuta la morte della paziente a distanza di 6 anni dall’omessa diagnosi “Le prospettazioni sostenute dai consulenti tecnici di parte e d’ufficio, risultano […] tragicamente smentite dall’evidenza dei fatti: nonostante le previsioni seppur presuntive e probabilistiche di sopravvivenza a 5 anni con una percentuale del 73%, l’exitus della sig. T. è avvenuto prematuramente nel 2016”. La percezione condivisa era dunque che l’evoluzione della patologia, ed in particolare la nuova informazione costituita dall’exitus della paziente, avesse illuminato l’inadeguatezza del dato statistico a rappresentare correttamente le chance di sopravvivenza di cui, in concreto, la malata avrebbe potuto disporre: le quali avrebbero dovuto, di conseguenza, essere rideterminate. Ora: che il dato statistico sia inidoneo a testimoniare che il danneggiato in concreto disponesse di corrispondenti chance di sopravvivenza, ciò dipende non solo dalla considerazione che esso restituisce all’interprete dei valori astratti, ma prima ancora dal rilievo che esso non avrebbe, naturaliter, quella funzione predittiva che solo per convenzione gli viene affidata. A ben vedere, l’incerta spettanza delle opportunità che il dato statistico dovrebbe rappresentare costituisce un ineliminabile fattore di discontinuità logica nella ricostruzione di questa teorica. Tant’è vero, che essa obbliga chi intenda sostenerla a ricorrere ad una finzione: l’attribuzione al danneggiato, in concreto, di presunte probabilità coincidenti con quelle indicate dal rilievo
16 La motivazione riporta che secondo il convenuto, in caso di riconoscimento del danno da perdita di chance, “occorrerà diminuire lo stesso di alcuni punti percentuali in quanto i CTU hanno determinato, in percentuale, la possibilità di morire […] su un lasso di tempo di 5 anni senza indicare i correttivi per giungere a 6 anni e un mese (lasso temporale a seguito del quale la paziente è deceduta)”.
Danno non patrimoniale risarcibile
statistico astratto, è priva di alcuna giustificazione razionale17. Tornando ora alla sentenza in commento, proprio all’esigenza di superare quest’impasse pare collegarsi la sentita necessità di una rideterminazione ex post, alla luce degli sviluppi fattuali nel caso concreto, delle chance assegnate alla paziente; ma questo tentativo di “attualizzare” il dato statistico è, appunto, fallace, e destinato ad imbattersi nella descritta aporia. Infatti, la probabilità statistica non può mai dirsi “smentita” dall’evolvere in un senso, piuttosto che nell’altro, degli eventi alternativi considerati; essa è per definizione necessariamente destinata ad essere superata dalla realtà fattuale: epperò questo è il punto - tanto dall’avversarsi dell’evento più probabile, quanto dall’avverarsi dell’evento meno probabile. Una volta incaricata, per convenzione, del compito di rivelare “cosa succederà”, ovvero “cosa sarebbe successo se”, la probabilità statistica, a volerla riguardare col senno di poi (cioè dopo avere verificato se l’uno o l’altro evento preso in considerazione si sia avverato in concreto), mostrerà di avere comunque e sempre già esaurito questo suo impossibile mandato. Nel caso di specie, le chance di sopravvivenza attribuite alla paziente al momento dell’omessa diagnosi non andavano dunque rideterminate “tenendo conto del dato oggettivo della morte intervenuta a distanza di anni sei e mesi uno dal momento in cui si sarebbe potuta accertare la patologia oncologica”. Molto più semplicemente, una volta verificatosi l’exitus, doveva riconoscersi che la paziente pote-
Risponde all’esigenza di “gettare un ponte” tra il dato statistico astratto e la fattispecie concreta, l’osservazione di Garreffa, I paralogismi della teoria della perdita di chance, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 1291, secondo cui “ciò che conta affinchè la chance possa assumere rilevanza è che, alla luce di un giudizio da svolgere a posteriori, la stessa presenti l’attitudine, seppure rimanga solo ipotetica, a mutare gli eventi per come si sono verificati. In tale senso, pertanto, la fattispecie del danno da perdita di chance postula un rapporto dialettico imprescindibile tra la mancata possibilità di ottenere un vantaggio e il mancato ottenimento del vantaggio stesso […]”. 17
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va essere rientrata nel gruppo di malati destinati a decedere oltre i 5 anni; e quindi, più che ad una rideterminazione delle probabilità di cui si vagheggia la danneggiata disponesse, il ragionamento seguito avrebbe dovuto condurre, casomai, all’impossibilità logica di tornare ad affrontare la questione delle chance. Completata questa breve digressione, deve darsi atto di ciò, che infine il Tribunale di Milano giunge comunque a negare il risarcimento per la perdita delle chance di sopravvivenza maturata nel torno temporale ricompreso tra la diagnosi mancata e la diagnosi corretta, e lo fa affermando che esso “si atteggerebbe sostanzialmente come un danno da morte non risarcibile in capo alla paziente”. Ebbene, non parrebbe esservi, “a monte”, una piena consapevolezza dell’arresto in precedenza ricordato, secondo cui, appunto, la considerazione della perdita delle chance va esclusa in nuce quando sussista il nesso tra l’illecito e l’evento di danno finale, verso il quale la chance si proietta; nondimeno, la citata motivazione potrebbe rileggersi, in bonam partem, come l’esplicitazione delle ragioni che stabilmente hanno indotto a considerare concettualmente inammissibile un tale epilogo. D’altra parte, essa pare cogliere – sempre a livello “epidermico”, ma al magistrato non può chiedersi di vestire i panni dello scienziato – le motivate perplessità che aleggiano attorno alle c.d. chance di sopravvivenza. La sopravvivenza, infatti, coincide con “l’attitudine a vivere” che già appartiene a tutti; e, se così è, non si dovrebbe discorrere di chance in senso proprio, atteso che queste ultime consistono nelle opportunità, per il danneggiato, di conseguire un’utilità di cui ancora non dispone. Peraltro, l’attitudine a vivere, in definitiva, coincide con la vita stessa, la quale è essenzialmente costituita dall’insieme dei giorni da vivere o vissuti. Mentre la morte è un evento comunque certo, essendo incerto solo quando essa giungerà: onde potrebbe concludersi che ogniqualvolta l’illecito ne cagioni il verificarsi, in realtà, più correttamente, esso ne abbia anticipato la venuta. Su questi presupposti, riconoscere il danno consistente nell’anticipazione della morte può significare ammettere il risarcimento per la perdita del Responsabilità Medica 2019, n. 2
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bene-vita; e un tale esito, per chi possa anche ritenerlo giustificato, imporrebbe quantomeno una difficile ed innovativa sistemazione18.
18 Il riferimento per il danno da morte, allo stato, resta Cass., sez. un., 22.7.2015, n. 15350, in Danno e resp., 2015, 889 ss., secondo cui “Nel caso di morte cagionata da atto illecito, il danno che ne consegue è rappresentato dalla perdita del bene giuridico “vita” che costituisce bene autonomo, fruibile solo in natura da parte del titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente”, con note di Carbone, Franzoni, Pardolesi, Simone e Ponzanelli. V. anche Caso, Le Sezioni Unite negano il danno da perdita della vita: giorni di un futuro passato, in Foro.it, 2015, I, 2682.
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Tribunale di Milano, 10.12.2018
Responsabilità sanitaria – Risarcimento del danno da micropermanente – Applicazione retroattiva della legge n. 24/2017 - Ammissibilità (Preleggi, art. 11; d.lgs. 7.9.2005, n. 209, artt. 138,139; l. n. 189/2012, art. 3; l. n. 24/2017, art. 7 comma 4°)
L’applicazione della legge Gelli a fatti verificatisi in periodi antecedenti la sua entrata in vigore non incide negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione, né modifica le fattispecie della responsabilità civile, con la conseguenza che le sue disposizioni possono trovare applicazione retroattiva senza che da ciò derivi contrasto con i principi di diritto enunciati dalla Suprema Corte. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Il Tribunale di Milano conferma il suo orientamento circa l’applicazione retroattiva della legge Gelli oltre il tempus regit actum: la questione rimane aperta Roberta Victoria Nucci Avvocato in Milano
Sommario: 1. Premessa. – 2. La tesi della applicabilità retroattiva della legge Gelli secondo l’orientamento del Tribunale di Milano. – 3. Gli orientamenti diversi. – 4. Le criticità.
Abstract: La sentenza in oggetto argomenta le ragioni che giustificano l’applicazione retroattiva della legge n. 24/2017 in un caso di responsabilità di un libero professionista che abbia provocato danni permanenti ad un paziente inferiori al 10%, con conseguente possibilità di dare applicazione alle tabelle previste dagli artt. 138 e 139 c. ass., sebbene i fatti fonte di responsabilità si fossero già verificati prima dell’entrata in vigore della legge stessa. La nota prende in esame i differenti orientamenti in tema di applicazione retroattiva della l. n. 24/2017, evidenziandone ragioni e criticità.
The judgement examines the reasons for a retroactive application of law no. 24/2017 in case of medical liability of a freelancer who caused permanent damages to a patient within 10% of sequelae. The tables provided by articles 138 and 139 cod. ass. apply to the case despite the loss occurred before the law came into force. The article examines the case law concerning the retroactive application of l. no. 24/2017, highlighting its reasons and critical points.
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1. Premessa Con sentenza del 10 dicembre 2018, che qui si annota, il Tribunale di Milano ha riconosciuto l’applicazione della legge n. 24/2017 a fatti pregressi alla sua entrata in vigore. La sentenza riguarda il caso di una paziente che nel 2007 si rivolse ad un odontoiatra al fine di migliorare la propria situazione protesica. A seguito dell’installazione di un impianto dentale fisso, la paziente cominciò a riferire forti dolori che evidenziarono un posizionamento erroneo di detta protesi, tanto che fu costretta a sottoporsi a due interventi chirurgici. In ragione di ciò la paziente agì in giudizio chiedendo l’accertamento della responsabilità del medico e la risoluzione del contratto concluso con lo stesso, oltre al risarcimento dei danni subiti dovuti alla condotta imprudente nel predisporre e monitorare l’impianto installato. Al termine del giudizio, il Tribunale ha accertato la responsabilità del professionista sotto il profilo delle errate progettazione ed esecuzione degli impianti protesici, avvenute ante 2012, con conseguente responsabilità del sanitario al risarcimento del danno, da liquidarsi secondo le tabelle previste dagli artt. 138 e 139 del Codice delle assicurazioni, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209. La sentenza, riprendendo il precedente n. 1654 del 16 febbraio 2018 dello stesso Tribunale, ha infatti affermato il principio di retroattività della legge Gelli e, ai fini della commisurazione del danno non patrimoniale patito dalla paziente, ha ritenuto opportuno l’utilizzo della tabella – relativa alle lesioni di lieve entità – prevista dalla legislazione in materia di assicurazione obbligatoria per la responsabilità civile derivante da circolazione, secondo quanto disposto dall’art. 7, comma 4°, l. n. 24/2017. La pronuncia risulta particolarmente interessante in quanto affronta – in modo difforme rispetto ad un differente orientamento che parrebbe prevalente tra i Giudici di merito – il tema dell’applicazione retroattiva delle disposizioni contenute nella legge Gelli.
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2. La tesi della applicabilità retroattiva della legge Gelli secondo l’orientamento del Tribunale di Milano Occorre sin da subito premettere che il quadro di riferimento entro il quale tutte le decisioni si collocano, comprese le pronunce di orientamento differente rispetto a quello scelto dal Tribunale di Milano, è rappresentato dal principio di diritto elaborato in più occasioni dalla Suprema Corte e ben riassunto dalla sentenza n. 1662 del 2013, a mente della quale “il principio dell’irretroattività della legge comporta che la legge nuova non possa essere applicata, oltre che ai rapporti giuridici esauriti prima della sua entrata in vigore, a quelli sorti anteriormente ed ancora in vita se, in tal modo, si disconoscano gli effetti già verificatisi del fatto passato o si venga a togliere efficacia, in tutto o in parte, alle conseguenze attuali e future di esso; lo stesso principio comporta, invece, che la legge nuova possa essere applicata ai fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata”1. È peraltro lo stesso Tribunale di Milano che richiama tale orientamento, non certo con l’intento di sottrarsi ad esso, quanto piuttosto di dimostrare che un’applicazione retroattiva della legge Gelli non costituisce una deroga ai principi ivi sanciti. Afferma infatti il Giudice meneghino che, ferma l’applicabilità del principio tempus regit actum per quanto attiene alle norme processuali, la legge n. 24/2017 trova applicazione anche con riferimento alle disposizioni di natura sostanziale ai fatti anteriori all’entrata in vigore della legge n. 189/2012. A giudizio del Magistrato, infatti, la legge Gelli può trovare applicazione retroattiva senza contraddire il principio di diritto enunciato dal costante orientamento della Cassazione poiché non inciderebbe negativamente sul fatto generatore del diritto alla
1 Cass., 3.7.2013, n. 16620, in Mass. Giust. civ., 2013. In senso conforme Cass., 3.3.2000, n. 2433, in Giust. civ., 2000, 525; Cass., 28.9.2002, n. 14073, in Mass. Giust. civ., 2002, 1743.
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prestazione, non modificando quindi la fattispecie della responsabilità civile. Il caso oggetto del giudizio riguardava, infatti condotte “[…] che potevano comportare responsabilità risarcitoria prima del 1° aprile 2017 – con specifico riferimento all’art. 7 della stessa”, articolo che prevede una responsabilità per il periodo successivo all’entrata in vigore della legge. Dunque la disciplina, nella tesi del Tribunale, sarebbe la medesima sia ante che post riforma, in quanto non sarebbe mutata la natura contrattuale dell’obbligazione, non avendo la legge Gelli modificato il regime di responsabilità del libero professionista che prenda in cura su base contrattuale un paziente privato. Con argomento a contrario il Tribunale ricorda, argomentando sulla scorta dell’ubi voluit dixit ubi noluit tacuit, che allorché il Legislatore ha voluto rimandare l’applicazione della norma – più precisamente l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore, prevista dall’art. 12 della legge n. 24/2017 – lo ha espressamente previsto, disponendo invece l’immediata applicazione di norme quali l’art. 138 cod. ass. per come modificato dalla cosiddetta legge Concorrenza. Sul tema poi – prosegue il Tribunale – della qualificazione della responsabilità dell’operatore sanitario strutturato ex art. 2043 c.c., non vi sarebbe alcuna modifica rispetto alla legislazione precedente, avendo l’art. 7 della legge Gelli un mero contenuto interpretativo di un principio già esistente2, con la conseguenza che il diritto al risar-
La sentenza ricorda i passaggi principali della pronuncia della Corte cost., 22.11.2000, n. 525, in Giust. civ., 2001, 17, a mente della quale la funzione propria della legge interpretativa è: “quella di chiarire il senso di norme preesistenti, ovvero di imporre una delle possibili varianti di senso compatibili col tenore letterale, sia al fine di eliminare eventuali incertezze interpretative, sia per rimediare ad interpretazioni giurisprudenziali divergenti con la linea politica del diritto voluta dal legislatore” (Corte cost., 23.11.1994, n. 397) “il legislatore può adottare norme che precisino il significato di altre disposizioni legislative non solo quando sussista una situazione di incertezza nell’applicazione del diritto o vi siano contrasti giurisprudenziali, ma anche in presenza di un indirizzo omogeneo della Corte di cassazione, quando la scelta imposta dalla legge rientri tra le possibili varianti di senso del testo originario, con ciò vincolando un significato ascrivibile
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cimento del danno o l’aspettativa su di esso da parte del danneggiato non risulterebbe intaccato. Non vi sarebbero pregiudizi nell’applicazione retroattiva della legge neppure sotto il profilo del termine prescrizionale poiché, afferma il Tribunale, “L’art. 252 disp att. fissa, secondo la diffusa giurisprudenza, un principio generale per cui “ove una modifica normativa introduca un termine di decadenza prima non previsto, la nuova disciplina opera anche per le situazioni soggettive già in essere, ma la decorrenza del termine resta fissata con riferimento all’entrata in vigore della modifica legislativa” (Cass. n. 28984/2017 e Cass. SU n. 15352/2015). Il termine prescrizionale più breve troverebbe dunque applicazione dall’entrata in vigore della L. 24/17 (1° aprile 2017)”. Rimarrebbe, dunque il tema della quantificazione del danno e della possibilità o meno di ricorrere ai criteri di liquidazione delle micropermanenti fino al 9% previsto dagli articoli 138 e 139 del Codice delle assicurazioni, ai quali l’art. 7 della legge Gelli3 fa rimando. A fronte di tali argomentazioni, sembrano tuttavia rimanere aperte alcune criticità interpretative che qui di seguito si vanno ad esporre, anche al fine di rendere ragione delle differenti argomentazioni sottese al differente orientamento di altra Magistratura di merito.
3. Gli orientamenti diversi Occorre infatti rilevare che non mancano pronunce che hanno ritenuto la retroattività della legge Gelli incompatibile con i principi della Cassazione e, quindi, hanno affermato che la suddetta legge non possa trovare applicazione per fatti
alla norma anteriore”. Art. 7, comma 4°, l. n. 24/2017: “Il danno conseguente all’attività della struttura sanitaria o sociosanitaria, pubblica o privata, e dell’esercente la professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del codice delle assicurazioni private, di cui al decreto legislativo 7 settembre 2005, n. 209, integrate, ove necessario, con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti alle attività di cui al presente articolo”.
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antecedenti la sua entrata in vigore, poiché in tal modo verrebbero violati proprio quei principi che la Suprema Corte ha individuato con le citate sentenze e che, invece, il Tribunale di Milano ritiene compatibili con la retroattività. Si ricorda in questo senso una pronuncia del Tribunale di Roma del 2017 che, dopo aver ricordato un principio universalmente condiviso, ovvero che “In assenza di norme che diversamente dispongano, il processo civile è regolato nella sua interezza dal rito vigente al momento della proposizione della domanda, non potendo il principio del “tempus regit actum”, in forza del quale lo “ius superveniens” trova applicazione immediata in materia processuale, che riferirsi ai singoli atti da compiere, isolatamente considerati, e non già all’intero nuovo rito”, ha poi affermato l’inapplicabilità retroattiva della legge Gelli. Il Giudice capitolino, riprendendo il principio più volte ricordato della Suprema Corte, afferma che: “Per quanto riguarda però le norme sostanziali il principio di irretroattività, in assenza di diverse disposizioni, comporta che la legge nuova può essere applicata ai soli fatti, agli status e alle situazioni esistenti o sopravvenute alla data della sua entrata in vigore, ancorché conseguenti ad un fatto passato, che ai fini della disciplina disposta dalla nuova legge, debbano essere presi in considerazione in se stessi, prescindendosi totalmente dal collegamento con il fatto che li ha generati, in modo che resti escluso che, attraverso tale applicazione, sia modificata la disciplina giuridica del fatto generatore. La disciplina della legge 8 marzo 2017 n. 24 non è dunque applicabile ai fatti antecedenti la sua entrata in vigore”4. Dello stesso avviso il Tribunale di Livorno il quale, con sentenza n. 134 del 2018, dopo avere sottolineato l’applicabilità del tempus regit actum per le norme di natura processuale5, ricorda che
“… in applicazione del principio generale di cui all’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, i suddetti criteri di liquidazione non possono applicarsi agli eventi anteriori alla entrata in vigore. La pretesa retroattività (non prevista) determinerebbe conseguenze irragionevoli, posto che il diritto al risarcimento del danno sorge in capo al danneggiato sin dal momento in cui si è verificato l’illecito e, in difetto di una diversa (e giustificabile) disciplina, lo scarto temporale tra il sorgere del diritto e la definizione del quantum da risarcire non può che avere carattere di neutralità (si pensi all’esempio fatto in dottrina di due soggetti vittime del medesimo evento, che si vedono liquidati danni con criteri diversi solo in correlazione al diverso momento temporale nel quale interviene la decisione giudiziale)”6. In realtà il punto cruciale che divide i due orientamenti non riguarda, come detto, né il principio del tempus regit actum per le norme di natura processuale, né la possibilità che una legge costituisca, modifichi o estingua diritti derivanti da un fatto generatore antecedente (perché è certo che ciò non può avvenire), quanto piuttosto se un’applicazione retroattiva della Legge Gelli risulti lesiva o meno di diritti acquisiti. Quindi si ribadisce che il contrasto di orientamenti, che lo stesso Tribunale di Milano evoca ricordando una contraria pronuncia del Tribunale di Avellino, non riguarda la possibilità o meno di una legge di modificare gli effetti giuridici di un fatto già accaduto, dal momento che è lo stesso Tribunale di Milano a riprendere i già enunciati principi espressi dalla Suprema Corte. Tale contrasto riguarda la possibilità o meno di dare applicazione retroattiva alla Legge Gelli senza collidere con questi principi. Il Tribunale di Avellino – che lo stesso Tribunale di Milano, come detto, consapevolmente cita
Trib. Roma, 4.10.2017, n. 18687, nota di aggiornamento, 26 ottobre 2017, in www.rivistaresponsabilitamedica.it.
riazioni normative, che, in carenza di una diversa indicazione nel testo di legge, non possono disciplinare i diritti già sorti non avendo, di regola, effetto retroattivo secondo il noto principio generale contenuto nelle c.d. preleggi”. Trib. Livorno, 6.2.2018, n. 134, nota di aggiornamento, 15 aprile 2018, in www.rivistaresponsabilitamedica.it.
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“Il diritto al risarcimento del danno è già sorto nel patrimonio del danneggiato al momento del fatto dannoso. Poiché le norme sopra indicate sono norme di diritto sostanziale, e non di diritto processuale (cui si applichi il principio tempus regit actum), quel diritto resta insensibile alle successive va-
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Trib. Livorno, 6.2.2018, n. 134, cit.
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come esempio del contrario orientamento – costituisce il palese esempio di come lo stesso condiviso principio della Cassazione venga letto diversamente quando si tratta di applicare la legge Gelli nel tempo. Statuisce infatti il Giudice irpino: “… l’applicazione della c.d. legge Gelli a fatti già verificatesi al momento della sua entrata in vigore inciderebbe negativamente sul fatto generatore del diritto alla prestazione, ledendo, così, ingiustificatamente il legittimo affidamento dei consociati in ordine al regime contrattuale della responsabilità del medico”. Da ciò ne consegue che, “le fattispecie perfezionatesi in epoca antecedente all’entrata in vigore della riforma de qua dovranno continuare ad essere regolate dai principi del previgente quadro normativo e giurisprudenziale, sicché si dovrà applicare la normativa della responsabilità contrattuale anche al medico – a prescindere da un formale rapporto di dipendenza – in quanto fondata sulla oramai ben nota teoria del contatto sociale”7. Del medesimo indirizzo il Tribunale Catania, il quale ha avuto modo di sottolineare come “[…] è altresì noto che il terzo comma dell’art. 3 sopra citato ha pure previsto che «il danno biologico conseguente all’attività dell’esercente della professione sanitaria è risarcito sulla base delle tabelle di cui agli articoli 138 e 139 del D. Lgs. 7 settembre 2005, n. 209, eventualmente integrate con la procedura di cui al comma 1 del predetto articolo 138 D. Lgs. 7 settembre 2005, n. 209 e sulla base dei criteri di cui ai citati articoli, per tener conto delle fattispecie da esse non previste, afferenti all’attività di cui al presente articolo». Oggi su tale previsione si sovrappone quella analoga prevista dall’art. 7, co. 4, della legge Gelli Bianco. Per entrambe le previsioni (dato il difetto di previsione ad hoc) si pone la questione dell’efficacia temporale, intesa come possibilità di applicare le tabelle “normative” avuto riguardo a lesioni permanenti riportate prima della loro entrata in vigore. Poiché si tratta di una norma non di diritto processuale, certamente errata è la conclusione indicata dalla
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Trib. Avellino, 12.10.2017.
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difesa […] in sede illustrativa: il fatto che l’art. 3, co. 4, del decreto Balduzzi (e oggi l’art. 7, co. 4, della legge Gelli-Bianco) sia entrato in vigore nella pendenza della lite non è punto conducente. E certamente contraria al disposto dell’art. 11 della preleggi è la soluzione suggerita da quella parte degli interpreti i quali ritengono possibile tout court un’applicazione retroattiva della disposizione”8. Alcune considerazioni appaiono opportune.
4. Le criticità Da un lato sembra a chi scrive che l’orientamento proposto dal Tribunale di Milano risponda di fatto ad un principio di giustizia sostanziale che, in qualche modo, mira a dare regolamentazione uniforme a tutti i casi portati all’attenzione del Giudicante a prescindere dalla data di accadimento, guardando alla legge Gelli e prima ancora alla legge Balduzzi e – come negarlo – al lungimirante orientamento meneghino di cui alla nota “Sentenza Gattari”9 come gli spartiacque fra passato e futuro. Tuttavia l’auspicato obiettivo passa attraverso sentieri impervi. Appare difficile non tener conto che anche le considerazioni sviluppate dal Tribunale di Avellino e dal Tribunale di Catania affrontino questioni non sottovalutabili: come negare, infatti, che l’applicazione retroattiva delle tabelle sulle micropermanenti, esclusa dalla Corte di Cassazione10 fino ad un anno prima dell’entrata in vigore della legge Balduzzi, intacchi il diritto al risarci-
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Trib. Catania, 3.4.2018, in La Nuova Proc. Civ., 5, 2017.
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Trib. Milano, 17.7.2014.
“Poiché l’equità va intesa anche come parità di trattamento, la liquidazione del danno non patrimoniale alla persona da lesione dell’integrità psico-fisica presuppone l’adozione da parte di tutti i giudici di merito di parametri di valutazione uniformi che, in difetto di visioni normative (come l’art. 139 del codice delle assicurazioni private, per le lesioni di lieve entità conseguenti alla sola circolazione dei veicoli a motore e dei natanti), vanno individuati in quelli tabellari elaborati presso il tribunale di Milano, da modularsi a seconda delle circostanze del caso concreto”. Cass., 7.6.2011, n. 12408, in Foro it., 2011, 2274. 10
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mento del danno di un paziente che abbia iniziato una causa con aspettative risarcitorie diverse. Premesso che è indubbio che la gran parte dei profili della legge Gelli effettivamente non ha innovato la disciplina preesistente (si pensi alla responsabilità contrattuale della struttura sanitaria o del libero professionista che abbia stipulato un contratto con il paziente o quella del medico strutturato per fatti accaduti dopo l’entrata in vigore della legge Balduzzi), rimane tuttavia il problema di dare una giustificazione inoppugnabile all’applicazione retroattiva delle norme che abbiano disciplinato in maniera differente rispetto al passato. In questo senso, posto che la legge Gelli appare la continuazione o se si preferisce l’evoluzione della legge Balduzzi, le soluzioni da adottare saranno anche in funzione della data di accadimento dei fatti generatori di responsabilità. Sembra infatti a chi scrive che se un fatto fosse già stato disciplinato in modo analogo dalla legge Balduzzi, l’applicazione della legge Gelli non sarebbe lesiva di alcun diritto, purché tale fatto sia riferibile ad un lasso temporale successivo all’entrata in vigore della Balduzzi stessa. La questione della retroattività della legge Gelli non può essere, infatti, risolta guardando alla legge Balduzzi come una legge retroattiva, posto che anch’essa non poteva modificare o estinguere diritti risarcitori già sorti prima della sua entrata in vigore. In altri termini, l’eventuale retroattività della legge Gelli non può essere fondata sulla presunta retroattività della legge Balduzzi, poiché ciò che non è consentito alla prima, non lo era neppure alla seconda. La sentenza non consente di apprezzare compiutamente se la responsabilità del medico si fondi principalmente o totalmente su fatti anteriori o posteriori l’entrata in vigore della Balduzzi: qualora le responsabilità si fondassero su fatti del 2007, qualche problema interpretativo parrebbe porsi, poiché nel 2007 la legge Balduzzi non operava, sicché nulla quaestio per il regime di responsabilità – ovviamente contrattuale – ma, sotto il profilo della quantificazione, il ragionamento del Tribunale sembra lasciare aperto qualche varco.
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Giurisprudenza
Anche la tesi dell’ubi voluit dixit ubi noluit tacuit non sembra totalmente dirimente, poiché dimostra soltanto che dall’entrata in vigore della legge Gelli è operativa la liquidazione del danno da micropermanente secondo le previsioni degli artt. 138 e 139 cod. ass., mentre non trova ancora applicazione l’azione diretta del danneggiato contro l’assicuratore ex art. 12 della medesima legge, ma ciò non sembra fornire conferme circa la retroattività delle disposizioni sulle micropermanenti. In altri termini, l’argomento sembra provare che il Legislatore abbia voluto dare applicazione immediata ad alcune disposizioni rimandando l’entrata in vigore di altre, ma da qui dedurre che quelle immediatamente in vigore operino anche per il passato, sembra operazione non proprio immediata. Parrebbe a questo punto inevitabile attendere una pronuncia chiarificatrice della Suprema Corte che – ma è difficile fare previsioni per il futuro – potrebbe ripristinare la macro divisione fra norme processuali e norme sostanziali, le prime assoggettate al tempus regit actum, le seconde al principio di irretroattività nei limiti del consolidato orientamento della Suprema Corte di cui alla sentenza del 2013 citata e suoi precedenti conformi11.
Il principio dell’irretroattività della legge è stato affermato a più riprese sin dagli anni ’60 e, recentemente, da Cass., 3.7.2013, n. 16620, cit. In senso conforme Cass., 3.3.2000, n. 2433, cit.; Cass., 28.9.2002, n. 14073, cit. 11
s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Tribunale di Parma, 4.3.2019
Responsabilità penale – Legge n. 24/2017 – Ambito di applicazione – Linee guida – Buone pratiche clinico-assistenziali – Contenuto (c.p., artt. 43, 590-sexies; l. 8.3.2017, n. 24)
Un documento non pubblicato ai sensi dell’art. 5 l. 8.3.2017, n. 24 può integrare comunque una codificazione di una buona pratica clinico-assistenziale. Nell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p., il legislatore ha utilizzato una formula evocativa della sussidiarietà delle buone pratiche, che consente di annoverarvi le linee guida non accreditate nonché i protocolli e le check list. Il testo integrale della sentenza è leggibile sul sito della Rivista
Un’applicazione giudiziale dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. La giurisprudenza di merito percorre la strada delle buone pratiche clinicoassistenziali Matteo Leonida Mattheudakis
Assegnista di ricerca nell’Università di Bologna Sommario: 1. L’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. inizia a trovare applicazione. – 2. I fatti oggetto di giudizio. – 3. Una sentenza “dottrinale”. – 4. La fonte comportamentale evidence-based rilevante nel caso concreto. – 5. Il requisito del rispetto di linee guida e buone pratiche. – 6. L’errore di carattere esecutivo. – 7. La giusta dimensione dell’imperizia. – 8. Il grado della colpa. – 9. Il potenziale del concetto di buone pratiche e le linee guida non accreditate. – 10. I profili intertemporali. – 11. L’importanza della sentenza del Tribunale di Parma.
Abstract: Con la sentenza commentata, la disciplina dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. ha trovato una delle sue prime applicazioni. Decisiva è risultata un’interpretazione non restrittiva del concetto di buone pratiche clinico-assistenziali, tra cui potrebbe rientrare qualsiasi fonte comportamentale, a prescindere dalla sua qualificazione formale, persino linee guida non formalmente accreditate.
The commented decision is one of the first applications of art. 590-sexies, 2° paragraph, c.p. The solution is based on a non-restrictive interpretation of the concept of best practices, which includes any evidence-based source, regardless of its formal qualification, even guidelines not formally accredited.
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1. L’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. inizia a trovare applicazione La decisione in commento rappresenta uno dei primissimi casi1 di applicazione della controversa disciplina di esclusione della responsabilità penale prevista dall’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. (introdotto dall’art. 6 della l. 8.3.2017, n. 24, la nota riforma “Gelli-Bianco”): «Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto». La pronuncia è del Tribunale di Parma in composizione monocratica, che ha assolto un medico di Pronto Soccorso che non era pervenuto tempestivamente alla diagnosi di un ictus ischemico che aveva colpito una donna, la quale, proprio per effetto di tale patologia, ha riportato danni permanenti e molto significativi indicati nel capo di imputazione per lesioni personali colpose gravissime: «inservibile l’arto superiore destro e gravemente deficitaria la postura e la deambulazione […] grave forma di afasia che ostacola notevolmente l’espressione verbale con elevatissima probabilità di una permanente e grave difficoltà della favella».
Leggendo Cass. pen., 9.1.2019, n. 8115, in www.rivistaresponsabilitamedica.it, 19.3.2019, con nota redazionale Sui limiti dell’art. 590-sexies cod. pen, introdotto dalla legge Gelli-Bianco, si apprende di un’assoluzione pronunciata dalla Corte d’Appello di Messina proprio richiamando l’art. 590-sexies, comma 2°, c.p., ma la Corte di legittimità ha annullato tale sentenza, osservando, tra l’altro, che la soluzione è stata raggiunta «omettendo qualsiasi valutazione di merito sulle numerose problematiche che si agitano sulla natura giuridica e sui presupposti applicativi della causa di non punibilità di lesione colposa determinata da imperizia di colui che esercita la professione sanitaria».
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Giurisprudenza
2. I fatti oggetto di giudizio Di seguito una sintesi dei fatti (tratta dalle pp. 4-8) alla base del ragionamento giuridico che ha condotto all’applicazione dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. Nel marzo del 2011, una donna di ventotto anni si trovava in un bar per fare colazione quando all’improvviso svenne e, chiamati i soccorsi, fu portata in autoambulanza al Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore di Parma, dove arrivò circa 45 minuti dopo la sincope. Lì, l’infermiera in servizio al Triage prese subito in carico la paziente, raccogliendo dalla stessa alcune informazioni sull’accaduto e sulle sue condizioni di salute generali e specifiche di quel momento, dalle quali emerse, tra l’altro, una ipostenia marcata dell’arto superiore destro. Fu ritenuta opportuna l’assegnazione alla paziente di un codice giallo, che le consentì di essere visitata dall’imputato, in qualità di medico di Pronto Soccorso, dopo pochi minuti di attesa. L’imputato proseguì l’anamnesi già iniziata in fase di “accettazione” e dispose, tra l’altro, una TAC all’encefalo, all’esito della quale non si palesò però alcuna particolare anomalia. Ciò nonostante, fu deciso dallo stesso medico di attivare una consulenza neurologica. La visita neurologica avvenne nel primo pomeriggio (a poco meno di 5 ore dall’episodio sincopale), quando la specialista, prendendo visione della TAC del mattino e valutando l’evoluzione dei sintomi della paziente (che era vigile e poté quindi comunicare), non percepì concreti segnali d’allarme rispetto alla presenza della patologia ischemica che invece era in corso, orientandosi piuttosto verso l’ipotesi di una semplice indigestione, disponendo comunque accertamenti volti ad escludere la presenza di sclerosi multipla o dell’origine cardiaca della sincope. La paziente fece ritorno in Pronto Soccorso, dove l’imputato fu sostituito nel turno da un altro medico, il quale pure non collegò la sincope alla patologia ischemica. Prima del ricovero a fini di osservazione presso il reparto di Medicina Generale, che avvenne in serata, in ospedale si recò anche l’endocrinologo che seguiva la donna per problemi di tiroide e anch’egli, di fatto, contribuì a sviare l’attenzione dalla reale problematica in corso, confrontandosi con la neurologa e
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suggerendole che la sintomatologia potesse essere ricondotta ad un farmaco che la ragazza assumeva per il suo problema metabolico. I medici che ebbero in carico la paziente nelle ore serali, non avendo le idee chiare sulla causa delle sue condizioni, disposero verso mezzanotte una TAC dalla quale il quadro risultò finalmente più eloquente, riscontrandosi l’occlusione della carotide interna sinistra che determinò l’ischemia cerebrale. La donna entrò in coma il mattino successivo mentre si stava sottoponendo ad una ulteriore TAC e fu portata al reparto di Rianimazione, dove rimase per 20 giorni, per poi essere trasferita in neurochirurgia e dopo circa una ulteriore settimana raggiunse un padiglione dove si dedicò ad attività riabilitative per alcuni mesi, comunque non in grado di scongiurare un calvario destinato a durare per il resto della vita.
3. Una sentenza “dottrinale” Ci si trova di fronte ad una sentenza particolarmente accurata nell’analisi del caso e ordinata nel soddisfare l’obbligo motivazionale, presentando una struttura divisa in paragrafi con relativa intitolazione e riferimenti dettagliati a piè di pagina. Le analogie con lo stile dottrinale non si limitano a questi ultimi aspetti di carattere formale, perché, andando ai contenuti, è possibile rinvenire l’impiego di una sistematica aggiornata della responsabilità penale colposa, con riferimenti, ad esempio, alla necessità: - di assumere una prospettiva ex ante, sviluppando un giudizio di prognosi postuma (pp. 8-9 e 27); - di individuare la regola cautelare secondo il parametro dell’agente modello (p. 27); - di comprendere lo scopo della regola cautelare violata e verificare se l’evento concreto rientri nel suo fuoco preventivo (p. 28); - di accertare la c.d. causalità della colpa, consistente nell’efficacia del comportamento conforme a cautela non osservato (in questo caso sono anche stati opportunamente colti i profili di sovrapposizione strutturale di questo giudizio con quello di accertamento della causalità, stante la natura omissiva della responsabilità) (p. 28);
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- di non trascurare la misura soggettiva della colpa (p. 28). A prescindere dalla condivisibilità delle conclusioni, questa pronuncia mostra di parlare lo stesso linguaggio della dottrina, alla quale, pur non potendo fare riferimento tramite citazioni esplicite, allude comunque in più passaggi cercando conforto per le proprie argomentazioni. È forse superfluo sottolineare come questo aspetto sia importante al fine di sviluppare un dialogo reale e proficuo tra diverse categorie di interpreti del diritto, peraltro in un settore nel quale l’oscurità del dato legislativo – considerando anche la disciplina penale della riforma “Balduzzi” del 2012 – non ha certo posto una premessa a ciò favorevole, finendo anzi per dividere internamente sia dottrina che giurisprudenza, come è noto.
4. La fonte comportamentale evidence-based rilevante nel caso concreto La correttezza del comportamento del medico di Pronto Soccorso è stata misurata alla luce di un documento adottato dall’Azienda Ospedaliero-Universitaria di Parma nel luglio del 2009: il «Percorso trombolisi E.V.», di cui la sentenza passa in rassegna i vari passaggi, particolarmente concatenati e richiedenti, in caso di progressiva conferma dei sintomi ischemici, il coinvolgimento di diversi sanitari – è peraltro disciplinato anche ciò che dovrebbe fare già l’equipaggio dell’autoambulanza – e, in termini di contrasto diretto della patologia, la somministrazione di un farmaco trombolitico entro le 3 ore dai primi sintomi (pp. 12-13). Secondo il Giudice (in particolare, pp. 16, 25-26 e 30), che aderisce ampiamente alla lettura del consulente tecnico del Pubblico Ministero (pp. 14-16), l’imputato avrebbe violato una regola di cautela – inosservanza a cui vengono attribuite sicure implicazioni causali in concreto: su questo si tornerà però più avanti con brevi considerazioni problematiche (§ 11) – nel non attenersi alla perfezione a tale iter diagnostico-trattamentale, la cui opportunità sarebbe stata indiziata dal sintomo percepito e verbalizzato dallo stesso medico nel referto di Pronto Soccorso: «deficit di forza arto superiore destro» (p. 5). Tale sintomo avrebResponsabilità Medica 2019, n. 2
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be dovuto indurre ad indagare più esplicitamente l’ictus ischemico, collocandolo e comunque mantenendolo in diagnosi differenziale. Potrebbe sorgere il dubbio che, a prescindere dalla riconducibilità alle linea guida oppure alle buone pratiche del «Percorso trombolisi E.V.», quest’ultimo non possa affatto ritenersi rispettato, mettendo così “fuori gioco” l’applicazione dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. Di diverso avviso è però il Giudice, che ritiene soddisfatti anche tutti gli altri requisiti della disciplina penale introdotta con la riforma “Gelli-Bianco” del 2017. È quindi opportuno passare a prendere in considerazione, per punti, le argomentazioni su ciascuno di tali requisiti.
5. Il requisito del rispetto di linee guida e buone pratiche Quanto al requisito del rispetto del documento assunto come punto di riferimento, il Giudice sviluppa considerazioni volte ad evidenziare sì l’errore consistente nel non aver immediatamente attivato in modo esplicito e con assoluta fedeltà il «Percorso trombolisi E.V.» (che avrebbe consentito – viene detto in più punti della sentenza – di incidere sull’evento concreto), ma, allo stesso tempo, un approccio diagnostico del medico a ben vedere non così distante da quello indicato dalla stessa fonte comportamentale “codificata”. Alcune prescrizioni vennero effettivamente assecondate, mentre altre no: in particolare, furono svolti, come prescritto, un elettrocardiogramma urgente a dodici derivazioni, esami del sangue nonché controlli della glicemia e dei parametri vitali; fu pure disposta una TAC all’encefalo, ancorché non contestualmente alla convocazione del neurologo di guardia per ottenere una consulenza entro venticinque minuti, come invece doveroso (p. 13). Si legge inoltre – ed è un profilo a cui viene attribuito speciale peso – che è plausibile che l’imputato «abbia effettivamente scartato l’ipotesi diagnostica corretta seguendo i criteri di esclusione dettati dal “Percorso trombolisi E.V.”, che verosimilmente aveva introiettato nel corso della sua lunga carriera di medico di Pronto Soccorso» (p. 25). Poiché il documento è del 2009 e i fatti sono accaduti a soli due anni di distanza, l’esperienResponsabilità Medica 2019, n. 2
Giurisprudenza
za pluriennale a cui il Giudice allude è evidentemente legata a pratiche corrispondenti che erano diffuse già da tempo e che indiziano anche l’adeguatezza dal punto di vista scientifico (almeno in astratto; sull’adeguatezza in concreto si arriverà a breve: § 6) quantomeno di buona parte dei passaggi poi “codificati”. La sentenza considera anche che, da alcuni dettagli della refertazione dello stesso imputato (che dà conto di assenza di problemi analoghi nell’arto inferiore omolaterale o di asimmetrie funzionali del volto), si evincerebbe che la vera causa della sintomatologia della paziente era stata ipotizzata per un momento ma poi esclusa (pp. 25-26). In questo il Giudice, nonostante l’errore, vede un approccio metodologico allineato a ciò che anche la fonte comportamentale ufficialmente adottata suggeriva di valutare: «tale errore diagnostico fu verosimilmente dovuto all’applicazione dei criteri di esclusione del “Percorso trombolisi E.V.”» (p. 26), cioè un elenco di cause ostative al proseguimento del percorso stesso (riportate nel dettaglio a p. 14). Nella medesima direzione, ancorché in chiave comprensibilmente più favorevole all’imputato, il consulente tecnico di questo ha persino ritenuto che, siccome il medico riscontrò «anamnesticamente un miglioramento della paresi» e soprattutto «un deficit neurologico lieve», si potesse concludere che egli tenne un comportamento «strettamente aderente alle linee guida (protocollo aziendale) all’epoca disponibili» (p. 19). In definitiva, sembra potersi dire che questa sentenza abbia recepito una chiave di lettura del requisito del rispetto in linea con quella proposta dalle Sezioni unite della Cassazione, che si erano così pronunciate: «Le fasi della individuazione, selezione ed esecuzione delle raccomandazioni contenute nelle linee-guida adeguate sono, infatti, articolate al punto che la mancata realizzazione di un segmento del relativo percorso giustifica ed è compatibile tanto con l’affermazione che le linee-guida sono state nel loro complesso osservate, quanto con la contestuale rilevazione di un errore parziale che, nonostante ciò, si sia verificato, con valenza addirittura decisiva per la realizzazione di uno degli eventi descritti dagli artt. 589 e/o
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590 cod. pen.»2. Trattasi di un comprensibile sforzo ermeneutico che le stesse Sezioni unite hanno compiuto per non arrendersi ad una prospettiva sterilizzante per cui «la formulazione lessicale del precetto creerebbe un corto circuito capace di renderlo inservibile». Anche chi scrive si era pronunciato in senso analogo già nel commentare la sentenza “Tarabori” (il primo sforzo interpretativo della Cassazione sulla riforma del 2017): se l’errore, «pur risultando decisivo per la verificazione dell’evento, consiste in una minima divergenza dal miglior paradigma attuativo della linea guida alla quale opportunamente è comunque rimasto idealmente fedele il sanitario, quest’ultimo non dovrebbe essere giudicato con estrema severità,
Cass. pen., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, (§ 9), in www. rivistaresponsabilitamedica.it, 25.2.2018, con nota redazionale Le sezioni unite penali sulla responsabilità penale del sanitario. Tra i numerosi commenti della sentenza, Borsari, La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite. Considerazioni rapsodiche, in questa Rivista, 2018, 189 ss.; Caputo, Le Sezioni Unite alle prese con la colpa medica: nomofilachia e nomopoiesi per il gran ritorno dell’imperizia lieve, in Riv. it. med. leg., 2018, 345 ss.; Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ dell’imperizia medica (ancora) punibile, in Dir. pen. cont., 1.3.2018; Di Giovine, A proposito delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione “Mariotti” sulla colpa medica e a margine del libro di Matteo Caputo su “Colpa medica e sicurezza delle cure” (Giappichelli, 2017), in Riv. it. med. leg., 2018, 837 ss.; Di Landro, Colpa medica, linee guida e buone pratiche. Spunti di riflessione comparatistici. Dalle Sez. Un. “Mariotti” alle esperienze angloamericane, in Arch. pen. (web), 2018, 2, ove diffusi riferimenti comparatistici; Risicato, Le Sezioni unite salvano la rilevanza in bonam partem dell’imperizia ‘‘lieve’’ del medico, in Giur. it., 2018, 948 ss.; Roiati, Il compromesso interpretativo praeter legem delle Sezioni unite in soccorso del nuovo art. 590-sexies c.p., in Arch. pen. (web), 2018, 2. Anche chi scrive ha avuto modo di esprimersi direttamente sulla pronuncia in Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, in Dir. pen. cont., 9.4.2018, 25 ss. Per interessanti ricognizioni della giurisprudenza di legittimità successiva alla pronuncia delle Sezioni unite, si vedano Girani, Uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità penale del sanitario a quasi un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite, in questa Rivista, 2018, 437 ss.; Piras, L’accertamento della colpa medica nella giurisprudenza post Mariotti, in Dir. pen. cont., 18.1.2019; Schiavo, La persistente imprevedibilità delle pronunce sulla colpa medica a due anni dall’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco, in Dir. pen. cont., 3.5.2019. 2
potendosi ugualmente ritenere rispettata la linea guida»3.
6. L’errore di carattere esecutivo È opportuno passare ora a valutare se l’errore medico rilevato dalla sentenza possa considerarsi di natura esecutiva e non si tratti di un errore nella scelta di una fonte comportamentale inadeguata. L’opportunità di tale verifica emerge ancora una volta da una chiara presa di posizione delle Sezioni unite: «L’errore non punibile non può, però, alla stregua della novella del 2017, riguardare – data la chiarezza dell’articolo al riguardo – la fase della selezione delle linee-guida […], dipendendo il “rispetto” di esse dalla scelta di quelle “adeguate”»4. Va quindi letto in termini sistematici e contestualizzato il riferimento che le stesse Sezioni unite fanno poche righe dopo (nello stesso paragrafo) all’errore diagnostico, richiedendo che il medico sia «impeccabile nelle diagnosi anche differenziali», perché tale riferimento ha evidentemente (ed esclusivamente) il senso di richiamare l’attenzione sulla necessità che l’errore del sanitario maturi nell’attuazione di una linea guida correttamente individuata, cioè adeguata alle caratteristiche del paziente concreto. Se la fonte comportamentale da seguire si sostanzia in un percorso di contenuto ampiamente diagnostico, come nella vicenda che si sta commentando, si può ben considerare errore esecutivo anche l’imprecisione commessa nell’ «adeguamento» – che è aspetto da non confondersi con l’adeguatezza5 – delle prescri-
Caletti, Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 1374, di commento di Cass. pen., 7.6.2017, n. 28187, annotata anche, tra gli altri, da Caputo, ‘Promossa con riserva’. La legge Gelli-Bianco passa l’esame della Cassazione e viene ‘rimandata a settembre’ per i decreti attuativi, in Riv. it. med. leg., 2017, 724 ss.; Cupelli, La legge Gelli-Bianco e il primo vaglio della Cassazione: linee guida sì, ma con giudizio, in Dir. pen. cont., 13.6.2017; Risicato, Colpa dello psichiatra e legge Gelli-Bianco: la prima stroncatura della Cassazione, in Giur. it., 2017, 2201 ss. 3
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Cass. pen., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, cit. (§ 9.1).
Sia consentito il rinvio alle considerazioni sviluppate in modo più articolato e con gli opportuni riferimenti dottrina-
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zioni al caso concreto. Coerentemente, dunque, la sentenza in commento, dopo aver dato conto dell’adeguatezza del «Percorso trombolisi E.V.» per fronteggiare la patologia concreta (in particolare, pp. 28-29, dove emerge che non c’era l’opportunità di discostarsene, ma, al contrario, quella di attenervisi fino in fondo), conclude nel senso che il medico intuì che la donna «poteva essere stata colpita da un ictus e nel perseguire una possibile diagnosi differenziale individuò correttamente le linee guida/buone prassi da seguire, ma peccò nell’esecuzione di quanto esse prescrivevano» (p. 30).
7. La giusta dimensione dell’imperizia Sul presupposto applicativo dell’imperizia, di cui si trova menzione esplicita nell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p., spesso compresso entro spazi troppo angusti (e che, peraltro, non dovrebbero nemmeno essere vincolati rigidamente alla possibilità di riscontrare una colpa generica in senso stretto, posto che imperizia, negligenza ed imprudenza sembrano caratteri “sostanziali” attribuibili anche alle ipotesi in cui la regola cautelare risulta “positivizzata”), il richiamo dell’autorevole precedente di legittimità è nella sentenza in commento del tutto esplicito, rilevandosi che «anche per le Sezioni Unite l’erronea valutazione del sintomo e la conseguente omessa o ritardata diagnosi è da ascrivere all’imperizia per inosservanza delle leges artis» (p. 30). Proprio questo ambito casistico è stato frequentemente ricondotto alla negligenza (ravvisando peraltro profili di imprudenza nelle conseguenti dimissioni anzitempo del paziente), esclusa invece in concreto dalla sentenza osservando, nel seguito della frase appena sopra riportata (e ancora in linea con le Sezioni unite), che non risulta che il comportamento dell’imputato sia stato «improntato ad indifferenza, scelleratezza o comunque assoluta superficialità e lassismo,
li in Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p., cit., 36 ss.
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che lo condurrebbero nel campo (attiguo) della negligenza» (p. 30).
8. Il grado della colpa Ancora in allineamento ai principi di diritto dettati dalle Sezioni unite, la sentenza si occupa pure del grado della colpa, rilevando che «la colpa dell’imputato fu lieve, considerato che, anche rifacendosi al canone di razionalità e alla massima di esperienza cristallizzate nell’art. 2236 del Codice civile, egli: - intervenne in un contesto emergenziale, come si evince dal codice giallo assegnato alla paziente dall’infermiera del triage del Pronto Soccorso dell’Ospedale Maggiore di Parma; - visitò [la paziente] con urgenza, dato che doveva occuparsi anche di altri ventisei malati (circostanza non messa in dubbio dal Pubblico Ministero, né dal difensore della parte civile); - fronteggiò un quadro clinico piuttosto oscuro, per la contestuale presenza di sintomi confondenti, vale a dire la sincope [della paziente] e, in misura minore, le sue patologie metaboliche, difficili da collegare tra loro; - non aveva specializzazioni in neurologia, tant’è che chiese un consulto alla [neurologa]». Effettivamente, gli elementi passati in rassegna sono tali da non consentire di ravvisare sussistente più che una colpa lieve.
9. Il potenziale del concetto di buone pratiche e le linee guida non accreditate Insieme al raffinato ragionamento sviluppato intorno alla declinazione del requisito del rispetto della fonte comportamentale adottata nel contesto sanitario concreto, uno degli aspetti più interessanti di questa sentenza consiste nel tentativo di superare un limite operativo che potrebbe imporsi all’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. in ragione dell’ancora scarsa implementazione della procedura di accreditamento formale delle linee guida, la quale, secondo quanto previsto dall’art. 5 della legge “Gelli-Bianco”, culmina con la pubblicazione nel sito internet dell’Istituto Superiore di Sani-
Le buone pratiche clinico assistenziali nella giurisprudenza di merito
tà; stadio conclusivo al momento raggiunto solo da 3 linee guida. Ancorché l’accento sia spesso posto proprio sulle linee guida, indubbiamente collocate in una posizione di primo piano dalla riforma “Gelli-Bianco”, è però vero che la disciplina normativa fa anche riferimento, in via sussidiaria, alle buone pratiche clinico-assistenziali, rispetto alle quali l’art. 3 della legge Gelli-Bianco prevede che siano raccolte a fini di monitoraggio e poi divulgate dall’«Osservatorio nazionale delle buone pratiche sulla sicurezza nella sanità», istituito presso l’Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali (AGENAS), senza però assegnare formalmente a tale monitoraggio alcun valore paragonabile a quello della procedura di accreditamento prevista per le linee guida. Più nel merito, trattasi di concetto di non semplice inquadramento e di cui si dispone di una definizione (solo) ufficiosa, perché non contenuta direttamente nella legge o nel decreto istitutivo del predetto Osservatorio, bensì nella pagina internet del preesistente «Osservatorio Buone Pratiche», sempre collegato ad AGENAS e che già dal 2008 svolge un’attività rispetto alla quale l’osservatorio previsto dalla legge “Gelli-Bianco” si pone in sostanziale continuità: «quelle pratiche per la sicurezza dei pazienti – basate su, e realizzate in conformità ai principi della scienza della sicurezza, dell’EBP (Evidence Based Practice), dell’ergonomia o del MCQ (Miglioramento Continuo della Qualità) – la cui efficacia nel migliorare la sicurezza e/o nel ridurre i rischi e i danni al paziente derivanti dall’assistenza sanitaria, sia dimostrata in più di un contesto, previo adattamento alla situazione locale. Sono pratiche sostenibili (i costi di implementazione devono essere dichiarati) e rappresentate in accordo ai principi su cui si basano. Devono inoltre rispettare ed essere rispondenti alle preferenze, ai bisogni e ai valori della persona». Riprendendo gradualmente aderenza con il ragionamento sviluppato dalla sentenza che si commenta, ciò che sembra importante mettere in evidenza è che quello di buone pratiche è un concetto che pare di portata ampia, tale da ricomprendere non solo prassi per nulla “codificate”, ma anche, ad esempio, protocolli e checklist e probabilmente non è distinguibile proficuamente
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sul piano ontologico da quello di linee guida, al punto che risulta legittimo chiedersi se si possano “far passare” per buone pratiche anche documenti espressamente nominati linee guida, ma che non abbiano ricevuto un formale accreditamento. Inutile nascondere che un’obiezione è pronta dietro l’angolo: se linee guida non accreditate potessero filtrare comunque come buone pratiche, non avrebbe forse senso richiedere una procedura formale di accreditamento per selezionare le linee guida da porre alla base della non punibilità prevista dall’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. Questa obiezione sembra però superabile sostenendo che il legislatore non avrebbe necessariamente voluto escludere del tutto la rilevanza delle linee guida non accreditate; semplicemente avrebbe voluto dare la priorità a quelle accreditate laddove esistenti. In questo senso si potrebbe intendere la sussidiarietà richiamata nell’art. 5, comma 1°, della legge “Gelli-Bianco” e anche nel testo dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. La praticabilità dell’operazione non solo non pare preclusa dal testo normativo, ma è accreditata implicitamente da autorevole dottrina medico-legale, che sembra appunto concepire queste fonti secondo un rapporto genere-specie: cioè le buone pratiche includerebbero le linee guida6. Un’ulteriore conferma si ricava dalle pagine internet dell’ «Osservatorio Buone Pratiche» attivo dal 2008, nel cui «database delle buone pratiche» sono raccolti non pochi documenti classificati proprio come linee guida7.
Si vedano Fiori, Marchetti, L’articolo 3 della legge Balduzzi n. 189/2012 ed i vecchi e nuovi problemi della medicina legale, in Riv. it. med. leg., 2013, 563 ss., riferendosi alla disciplina del 2012, che però già menzionava esplicitamente sia linee guida che buone pratiche: «La nuova normativa, se non sarà dichiarata incostituzionale, potrà agire ulteriormente in questa direzione, richiamando esplicitamente ad ogni esercente le professioni sanitarie la necessità di avvalersi delle “buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica” che includono ovviamente, quando esistano relativamente allo specifico caso, le linee guida, o altre autorevoli indicazioni tecnico-professionali» (570).
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Vero è che quelli con tale classificazione risalgono a prima dell’entrata in vigore della disciplina attuale, ma è altrettanto incontestabile che è già dal 2012 che il legislatore si riferisce a linee guida e buone pratiche alimentando il dubbio che
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Vi sono inoltre sentenze di Cassazione, citate dalla pronuncia in commento (p. 29, nota 66), che non escludono esplicitamente la percorribilità della strada qui ipotizzata: esprimono alcune perplessità, ritenendo linee guida e buone pratiche differenti concettualmente, ma chiudono comunque con toni possibilisti8. In definitiva, se il sanitario indagato ha rispettato una linea guida non accreditata, così come un altro documento diversamente classificato oppure ancora una prassi non “codificata”, non sembrano esserci ostacoli alla ricerca della non punibilità ex art. 590-sexies, comma 2°, c.p. sotto il “cappello” delle buone pratiche9. Ed è proprio ciò che ha
possano essere due entità diverse, quindi si può constatare che questa apparenza ha già trovato proprio nell’ «Osservatorio buone pratiche» autorevole smentita. Anche a testimonianza di una tendenza non confinata in una sola area geografica, è possibile menzionare, ad esempio: «Le nuove linee guida aziendali AOU Città della Salute e della Scienza di Torino» (Piemonte; anno 2017); «Linee Guida per la gestione della sepsi in gravidanza e puerperio» (Veneto; anno 2016); «Linee guida per la somministrazione di farmaci in ambito scolastico» (Lombardia; anno 2015); «Linea guida corretto uso dei disinfettanti» (Lazio; anno 2013); «L’igiene delle mani nell’assistenza sanitaria. Linee guida aziendali» (Sicilia; anno 2012). Per prima, Cass. pen., 13.4.2018, n. 33405, di cui l’estratto rilevante è ripreso letteralmente in Cass. pen., 22.6.2018, n. 47748 (entrambe in DeJure), dello stesso estensore (il Cons. Emanuele Di Salvo).
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Sembra invece da escludere, perché in più aperto contrasto con la legge, la plausibilità del tentativo di “far passare” per buona pratica una linea guida diversa da quella che regoli la stessa materia e abbia ottenuto il formale accreditamento, culminato con la pubblicazione nel sito internet dell’Istituto superiore di sanità. Non è che in questo caso la linea guida non possa assolutamente essere considerata una buona pratica. Certo, il fatto che esistano indicazioni comportamentali di segno diverso e che siano formalmente accreditate secondo specifici standard di qualità porta ad interrogarsi sulla possibilità di considerare davvero “buona” una pratica che da quella ufficiale diverga, anche se occorre considerare, peraltro, che, come le persone, anche le linee guida invecchiano e possono risultare superate dal progresso delle conoscenze scientifiche. Il punto, però, è che qualsiasi buona pratica “soccomberebbe” di fronte ad una linea guida accreditata, a meno che non si riesca a dimostrare che tale linea guida accreditata fosse non adeguata alle specificità del caso concreto. In tal caso si potrebbe sostenere che la priorità normalmente accordata dalla legge alla linea guida accreditata venga meno e che la linea guida accreditata, in quanto non adeguata alle specificità del caso concreto, sia
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Giurisprudenza
fatto il Tribunale di Parma nella vicenda giuridica di cui ci si sta occupando. Guardando al «Percorso trombolisi E.V.», il Giudice rileva prima che «dal punto di vista dogmatico i criteri di esclusione dettati in tale atto avevano un carattere così stringente da integrare forse un vero e proprio protocollo o addirittura una cosiddetta check list, poiché […] andavano verificati necessariamente e in modo sistematico, spuntando dalla lista quelli già controllati prima di procedere con il successivo e, se uno soltanto avesse prodotto un risultato di segno negativo, non era consentito proseguire alla fase seguente» (p. 29). Poche righe dopo, viene detto che, nonostante non si tratti di un documento accreditato formalmente nei termini previsti dalla riforma “Gelli-Bianco”, «a parere dello scrivente esso integra comunque una codificazione di una buona pratica clinico-assistenziale. Infatti, come è stato acutamente osservato in dottrina, il legislatore ha utilizzato nella disposizione ora citata una formula evocativa della sussidiarietà delle buone pratiche, che consente di annoverarvi le linee guida non accreditate nonché i protocolli e le check list»10. È così che il Giudice ritiene pos-
considerabile tamquam non esset. Così come tamquam non esset può forse essere considerata la linea guida accreditata messa “fuori gioco” dal rifiuto del paziente, vincolante per il medico per esplicita previsione di più punti dell’art. 1 della l. 22.12.2017, n. 219 (su tale disciplina, nella prospettiva del penalista, per tutti, Canestrari, Rifiuto di cure e rinuncia ai trattamenti, in questa Rivista, 2019, 55 ss., nell’ambito di un numero monografico dedicato al tema Un nuovo diritto per la relazione di cura? Dopo la legge n. 219/2017): anche in tal caso, l’eventuale linea guida non accreditata che sia comunque concretamente adeguata e suggerisca un percorso trattamentale accettato dal paziente non dovrebbe essere estromessa da quelle fonti comportamentali in grado di rendere operativa la causa di esclusione della responsabilità penale. In mancanza di un riferimento bibliografico diretto (come è normale per le sentenze italiane) e considerata la speciale vastità della produzione dottrinale sul tema, ancorché l’argomento specifico non sembra sia stato ancora sviluppato in termini articolati, sembra prudente non sbilanciarsi nell’attribuzione di paternità alla tesi richiamata dalla sentenza. Per un ampio ragionamento sulle buone pratiche e sulla possibilità di attribuire loro una lettura estensiva, per tutti, Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017, 276 ss., in particolare 280 (ancorché con riferimento soprattutto alla disciplina del 2012) e 368 ss. Chi scrive può rilevare di avere quantomeno contribuito a porre la questione: in 10
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sibile attrarre il caso concreto nell’ambito applicativo dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p.
10. I profili intertemporali Nella parte finale, la pronuncia tratta i profili intertemporali e dà conto della riconducibilità del caso, quantomeno in astratto, anche al previgente d.l. “Balduzzi”. Il Giudice dimostra ancora una volta di ragionare secondo i criteri interpretativi delineati dalle Sezioni unite, che avevano infatti individuato un ambito casistico comune alle discipline penali del 2012 e del 2017 (entrambe sopravvenute rispetto a quella ordinaria vigente al momento dei fatti), nel quale pure la vicenda sotto giudizio, per le sue caratteristiche, viene collocata. Ritenendo che anche ai fini della responsabilità civile non ci sarebbero particolari implicazioni nella preferenza di una delle due discipline, la sentenza conclude affermando che «va privilegiata la norma attualmente vigente, non essendovi motivo perché abbia luogo l’ultrattività del citato art. 3 del D.L. 158 del 2012» (p. 31).
11. L’importanza della sentenza del Tribunale di Parma Un bilancio conclusivo su questa pronuncia induce subito a rilevare la speciale importanza della stessa, percepibile anche solo in termini di “cronaca”, perché è tutt’altro che comune avere notizia di applicazioni dell’art. 590-sexies, comma 2°, c.p. Si tratta di una sentenza giuridicamente colta ed in più accezioni aggiornata, anche in quanto ampiamente allineata alle Sezioni unite, come detto in vari passaggi del commento, e che potrebbe dunque effettivamente rappresentare una sorta di prototipo, nella giurisprudenza di meri-
particolare in Caletti, Mattheudakis, Una prima lettura della legge “Gelli-Bianco” nella prospettiva del diritto penale, in Dir. pen. Cont. – Riv. trim., 2017, 2, 104; Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p., cit., 46; da ultimo e con ulteriori dettagli, in parte ripresi prima nel testo, in Mattheudakis, Prospettive e limiti del principio di affidamento nella “stagione delle riforme” della responsabilità penale colposa del sanitario, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2018, 1247 (comprese le nt. 69 e 70).
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to, sull’applicazione della disciplina di esclusione della responsabilità penale introdotta dalla legge “Gelli-Bianco”. Al di là della soluzione, non sono pochi i dettagli del percorso intrapreso per giungervi a meritare attenzione. Si è infatti segnalato un particolare sforzo argomentativo nel dimostrare la sussistenza del problematico requisito del rispetto di una fonte comportamentale opportunamente presa come riferimento ma non perfettamente attuata. A tale parte della sentenza si può senz’altro riconoscere quella valenza esemplificativa di cui la dottrina, spesso impegnata in ragionamenti di carattere più astratto, ha bisogno per poter contribuire realmente al “collaudo” di una disciplina che si temeva persino potesse rimanere del tutto inapplicata, come di fatto indiziava l’esperienza della disposizione penale del previgente d.l. “Balduzzi”. La strada prescelta è stata, inevitabilmente (alla luce del più che limitato catalogo attuale delle linee guida formalmente accreditate), quella di ricorrere al concetto dalle maglie larghe di buone pratiche, capace di attrarre le più diverse declinazioni del sapere scientifico di comprovata validità, comprese le stesse linee guida, accreditate (e in tal caso dotate di un elemento per così dire specializzante) o meno. Da non sottovalutare è anche il corretto riferimento all’imperizia in un caso che – dice bene il Giudice – «è emblematico della responsabilità medica» (p. 26). L’ “entusiasmo” potrebbe essere in parte attenuato considerando che il dispositivo della sentenza è comunque meno favorevole al medico rispetto alla richiesta del Pubblico Ministero, che aveva concluso per un’assoluzione ex art. 530, comma 2°, c.p.p. A ben vedere, al di là dell’affermazione della colpa in condizioni particolarmente complesse e dal giudice valutate solo in fase di graduazione della stessa ed escludendo rilievo a qualsiasi profilo basato sul principio di affidamento, l’accertamento del nesso causale, pur largamente impostato in termini metodologicamente corretti, ad esempio alludendo ad una causalità omissiva (trattandosi di fronteggiare un rischio promanan-
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te aliunde)11, lascia qualche perplessità, forse superabile solo con una più piena conoscenza del fascicolo processuale. Il Giudice ritiene che se fosse stato attivato subito il «Percorso trombolisi E.V.» sarebbe quindi stato presto somministrato il farmaco trombolitico «ed è del tutto ragionevole ipotizzare che (con un grado di probabilità logica prossimo alla certezza) ciò avrebbe ridotto l’entità delle lesioni riportate» (p. 17; ma si vedano anche, ad esempio, pp. 20-21 e 26-27). Non è però del tutto chiaro come maturi tale certezza a fronte di indicazioni un po’ meno ottimistiche di tutti i consulenti intervenuti nello scenario processuale (in particolare, pp. 16-18). Trattandosi di vicenda giudiziaria potenzialmente destinata a svilupparsi ulteriormente, saranno le parti, che certamente si trovano in una prospettiva conoscitiva del processo privilegiata rispetto a quella (ben più limitata) di chi scrive, a giocarsi le proprie carte. In ogni caso, per lo studioso oggi è bene, decisamente, vedere il bicchiere (più che) mezzo pieno.
11 È qui riconoscibile il riferimento alla terminologia impiegata, in particolare, da Veneziani, Il nesso tra omissione ed evento nel settore medico: struttura sostanziale ed accertamento processuale, in Studi in onore di Giorgio Marinucci, a cura di Dolcini e Paliero, Milano, 2006, 1970-1971; più di recente, Id., Causalità della colpa e comportamento alternativo lecito, in Cass. pen., 2013, 1228.
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Giurisprudenza
o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Riflessioni attorno alla legge n. m giu 180/78 a quarant’anni dalla sua approvazione Angelo Venchiarutti
Professore all’Università di Trieste
Peppe Dell’Acqua
Già direttore del dipartimento di salute mentale di Trieste
Angelo Venchiarutti Circa quaranta anni fa, il 13 maggio 1978, veniva approvata dal nostro Parlamento la legge 180, poi conosciuta come “Legge Basaglia”. Qualche mese dopo, la disciplina sarebbe confluita nella legge n. 833/78 istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale. Sono più d’una le innovazioni che la legge 180 ha introdotto nel nostro ordinamento: la cura delle malattie mentali è stata integrata finalmente nell’ambito del servizio sanitario nazionale, ponendo fine alla competenza della Province in materia di assistenza psichiatrica; radicali sono state le modifiche nella cura delle persone con disturbo mentale. Prima di discutere più nel dettaglio del contenuto della legge 180, Ti chiederei, però, di ricordare le esperienze e i cambiamenti culturali che hanno preceduto l’approvazione di quella normativa. Peppe Dell’Acqua Le pratiche che sostennero il lavoro di apertura di Franco Basaglia nell’ospedale psichiatrico a Gorizia, di Carlo Manuali a Perugia, di Sergio Piro a Materdomini, in provincia di Salerno, e di altri in altre zone dell’Italia avviarono, a partire dai primi anni ’60, una stagione di cambiamenti negli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione delle persone affette da disturbi mentali. Basaglia diventa direttore del manicomio di Gorizia nel novembre 1961. È un giovane medico,
non ancora quarantenne. Proviene dall’Università di Padova, dove libero docente è il responsabile del repartino psichiatrico presso la clinica neurologica (Slavich, All’ombra dei ciliegi giapponesi. Gorizia 1961, Merano, 2018). Prima di allora non ha mai visto un manicomio. A Gorizia, vede non solo la violenza delle porte chiuse, delle contenzioni, delle divise. Vede una violenza più grande: gli uomini e le donne non ci sono più. Avverte la vertigine del vuoto, la solitudine dell’assenza. È questa la dolorosa condizione che lo interroga e lo sconvolge. È questa la realtà dei manicomi italiani che è davanti agli occhi di tutti ma che nessuno riesce a vedere. Basaglia per vedere, deve fare ricorso proprio alle sue letture “filosofiche”, che sono già state oggetto di una paterna attenzione di stima del suo direttore padovano. Con altri giovani colleghi si era interessato difatti al lavoro critico sulla persistenza del positivismo scientifico in medicina e in psichiatria e sull’evidenza di considerare la presenza del soggetto nel campo dello studio dei disturbi mentali e alla cura. Cosa fare per far tornare i corpi vivi, le voci, le memorie di tutta quella dolente umanità? Deve interrogarsi su cosa è la psichiatria, sui suoi presunti fondamenti scientifico/biologici, riconoscere la presenza immutata e devastante del paradigma medico, della prepotente cultura figlia del positivismo scientifico che costringe ogni respiro a oggetto. Di fronte alla violenza e all’orrore che Responsabilità Medica 2019, n. 2
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scopre è costretto a chiedersi angosciato “che cos’è la psichiatria?” (Aa. Vv., Che cos’è la psichiatria?, a cura di Basaglia, rist., Milano, 1997). Da qui l’irreparabile rottura del paradigma psichiatrico, del modello manicomiale. Dopo quasi duecento anni, per la prima volta dalla sua nascita il manicomio, le culture e le pratiche della psichiatria vengono toccate alle radici. È un capovolgimento ormai irreversibile: “il malato e non la malattia”. Era la malattia che nascondeva ogni cosa: i nomi e le passioni, le storie e i sentimenti, i bisogni e le emozioni non potevano più abitare quel luogo. Così, messa tra parentesi la malattia, svegliandosi da un lungo sonno, tutti cominciarono come per incanto a chiamarsi per nome, a raccontare una storia, a ricordare un villaggio, a riprendersi il proprio tempo. Ora di fronte a Maria, a Giovanni, a Elia, a Romildo le porte chiuse non potevano più essere tollerate. La vergogna a restare in quel luogo divenne insopportabile. Cominciarono allora a venire aperte le porte; iniziarono a venire abolite tutte le forme di contenzione, i trattamenti più crudeli. Gli internati divennero cittadini, persone, individui. Da allora fu possibile un altro modo di curare, di ascoltare, di esserci e riconoscersi. Fu possibile vedere il malato e non la malattia, le storie singolari e non le diagnosi, di vivere la propria vita malgrado tutto. Fu possibile denunciare le storture e la vergogna di due secoli di istituzioni totali. Ho negli occhi qualche fotogramma de “La favola del serpente”, un bel documentario che una giovane giornalista finlandese, Pirko Peltonen, gira a Gorizia nel 1968 per la televisione del suo Paese. Alcuni degenti sono contrari alle riprese, altri le approvano e pensano che sia utile proprio per loro far sapere a tutti che cosa stia accadendo in quel manicomio ai confini del mondo. L’assemblea di quel giorno ne discute sotto l’occhio della sedici millimetri. Alla fine si vota. Il presidente dell’assemblea invita ad alzare la mano per il sì, e conta. Poi per il no e conta. Vinceranno i sì, le riprese si faranno. Il fotogramma che ho negli occhi sono le mani alzate. Uomini e donne che votano. Alludono all’immane cammino che li aspetta (Aa. Vv., L’istituzione inventata.
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Almanacco, Trieste 1971-2010, a cura di Rotelli, Merano, 2018). I malati di mente, gli internati, i senza diritto, i soggetti deboli diventano cittadini. Entrano sulla scena con la loro singolarità, la diversità e i bisogni emergono per quello che sono, non più col filtro della malattia. “Messa tra parentesi la malattia”, si scopriva la possibilità di vedere la malattia stessa ora in relazione alle persone e alla loro storia. Persone che faticosamente guadagnano margini più ampi di libertà. La libertà intesa come possibilità di desiderare, di scoprire i propri sentimenti, di stare nelle relazioni. Di rientrare nel contratto sociale, di riappropriarsi della cittadinanza come condizione irrinunciabile per affrontare la fatica di attraversarla e costruire le infinite e minime declinazioni per renderla accessibile (Minkonsky, Il tempo vissuto. Fenomenologia e psicopatologia, Torino, 2004). Angelo Venchiarutti Torniamo sul piano delle riforme legislative. Credo vada ricordato come la consapevolezza sullo stato di arretratezza e inadeguatezza più che drammatico degli istituti psichiatrici esistente non soltanto in Italia divenne, in quegli stessi anni, via via più diffusa: mi riferisco tra l’altro, alle tante inchieste giornalistiche, alle indagini condotte anche per iniziativa del Ministero della Salute. Lo stesso ministro della Sanità Luigi Mariotti giungeva a paragonare gli ospedali psichiatrici a lager (che costituiva, in quegli anni, un’immagine, oltre che drammatica, molto attuale). Anche a seguito di queste denunce, si giunse ad una parziale mutamento di tendenza con legge n. 431 del 18 marzo 1968. Ricordo che, pur costituendo solo uno stralcio del più ambizioso testo di riforma messo a punto in quegli anni dallo stesso ministro Mariotti, la nuova legge cercava di eliminare le tracce della funzione repressiva dall’ospedale psichiatrico e di portare in primo piano il fine terapeutico dell’assistenza psichiatrica. A fianco degli ospedali psichiatrici, venne prevista la presenza dei centri di igiene mentale, e affermato il principio dell’assistenza psichiatrica proiettata sul “territorio”. Era il primo, pur se parziale, superamento, della centralità del manicomio. La legge poi introdusse, pur senza abolire la normativa precedente
Quarant’anni dalla legge Basaglia
sui ricoveri d’autorità, la facoltà per il malato, di chiedere volontariamente la sua ammissione in ospedale psichiatrico, per accertamento diagnostico e cura. Cominciava ad affermarsi un diritto alla salute prevalente su ogni interesse di ordine pubblico. Una lettura dell’art. 32 della Costituzione – ove il diritto alla salute viene configurato come “fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività” – in termini non meramente programmatici bensì nel segno dell’immediata percettività comincia ad affermarsi del resto anche tra gli studiosi del diritto proprio nel corso degli anni ’60 del secolo scorso. Per giungere ad una complessiva riformulazione della materia, ci vorrà ancora del tempo. Il nostro Parlamento, che da anni discuteva intorno a vari progetti di riforma sanitaria, giunse a varare la legge n. 180 il 13 maggio 1978, pur in una fase drammatica della vita del nostro Paese: pochi giorni prima era stato ritrovato il corpo senza vita di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate Rosse. La legge, dal titolo emblematico “Accertamenti e trattamenti sanitari volontari e obbligatori”, costituisce l’approvazione anticipata di alcune disposizioni della normativa istitutiva del Servizio sanitario nazionale: approvazione volta ad evitare la celebrazione del referendum abrogativo della vecchia legge manicomiale del 1904. La legge 180 rimarrà in vigore pochi mesi. Il suo testo verrà poi trasfuso in alcuni articoli della legge n. 833 del 23 dicembre 1978, istitutiva appunto del Servizio sanitario nazionale. La portata innovativa della legge è ben nota nel suo complesso. In questa sede basta ricordare che il manicomio riceve una condanna senza appello. Il legislatore supera la concezione custodialistica nell’approccio alla malattia mentale, abbandona ogni motivo funzionale alla difesa della società, cancella del tutto la presunzione di pericolosità sociale del malato di mente, mette in evidenza il tema del diritto alla salute. Sul piano degli interventi sanitari, viene accolto senza riserve il principio della volontarietà, come regola, e della eccezionalità dell’intervento pubblico d’autorità, specie in regime di ricovero ospedaliero. Principio che trova la sua forza ispiratrice nel 2° comma dell’art. 32 della Costituzione (alla
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cui redazione aveva contribuito lo stesso Aldo Moro in sede di Assemblea Costituente: Piccione, Il pensiero lungo. Franco Basaglia e la Costituzione, Merano, 2014) secondo cui “Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge” e secondo cui “la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana”. Il legislatore del 1978 mostra di riservare un’attenzione particolare proprio al testo della Costituzione, nel momento in cui stabilisce che gli accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori, previsti dalla legge, possano essere disposti dall’autorità sanitaria nel rispetto della dignità e dei diritti civili e politici garantiti della persona, compreso per quanto possibile il diritto alla libera scelta del medico e del luogo di cura, e ritiene che la collaborazione personale dell’interessato vada sempre ricercata in ordine ad ogni aspetto della cura da effettuare. Va poi evidenziato come, nelle previsioni della legge, oltre alla progressione soppressione degli ospedali psichiatrici (cfr. art. 7, comma 5°, l. 180/78), si contempla l’indicazione circa l’apertura di una pluralità di centri e servizi di assistenza, distribuiti in tutto il territorio: da quel momento in poi attraverso questi nuovi dispositivi organizzativi e mezzi di cura dovranno svilupparsi, di norma, gli interventi di prevenzione, cura e riabilitazione nei confronti delle persone affette da disturbi mentali. Peppe Dell’Acqua In effetti, con la legge 180 non è più lo Stato che interna, che interdice per salvaguardare l’ordine e la morale; non vi è più il malato di mente “pericoloso per sé e per gli altri e di pubblico scandalo”, ma una persona bisognosa di cure. Un cittadino cui lo stato deve garantire, e rendere esigibile, un fondamentale diritto costituzionale: quello della salute. Cambiamenti legislativi, culturali, istituzionali hanno restituito la possibilità ai malati di mente di sperare di rimontare il corso delle proprie esistenze, perfino di guarire. Da quel momento il campo del lavoro terapeutico è davvero cambiato.
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Esistono oggi associazioni di persone che hanno vissuto l’esperienza del disturbo mentale, che rivendicano la propria storia, raccontano le loro singolari rimonte, vogliono vivere malgrado la malattia; sono presenti sulla scena associazioni di familiari che fino all’altro ieri erano condannati alla vergogna, all’isolamento, al silenzio, a sentirsi colpevoli (Dell’Acqua, Fuori come va? Famiglie e persone con schizofrenia. Manuale per un uso ottimistico delle cure e dei servizi, Milano, 2010). Si pensi alla grande esplosione italiana della cooperazione sociale: si scoprono così le molteplici opportunità di cui dispongono oggi le persone con disturbo mentale. La cooperativa sociale come luogo per formarsi, per entrare nel mondo del lavoro, per riprendere un ruolo sociale e un posto in famiglia. Qui si incontrano uomini e donne che lavorano, che guidano l’automobile, che hanno figli, che vivono con serenità nella loro famiglia, che si scommettono quotidianamente nella normalità e nella fatica delle relazioni. La legge, malgrado resistenze ostinate e un percorso in molte regioni lento e faticoso ha dimostrato che è possibile cambiare e in tanti luoghi si sono realizzate profonde trasformazioni e radicate le buone pratiche. Ma non a tutti i cittadini del nostro paese e non dovunque è garantita una tale possibilità. Angelo Venchiarutti Ecco hai toccato un argomento di grande rilevanza. L’attuazione della riforma non è stata affatto omogenea nelle diverse aree del paese. Anzi, in certi casi, la realizzazione delle nuove idee è stata frenata. Molto è dipeso, mi pare di capire, dalla maggiore o minore attenzione delle amministrazioni regionali competenti alle nuove teorie e pratiche di cura, talvolta dalle resistenze ai cambiamenti degli ambienti accademici e psichiatrici, dalla mancanza, in certi casi, di un’adeguata preparazione tra gli operatori sanitari. Né sono mancate le opinioni che hanno lamentato lacune e genericità nella formulazione stessa della legge, sia per quanto concerne la nuova organizzazione dei servizi territoriali, che la regolamentazione e l’attuazione pratica dei trattamenti sanitari obbligatori. Opinioni che sono sfociate anche nella presentazione di progetti per la modifica delle Responsabilità Medica 2019, n. 2
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disposizioni introdotte dalla legge 180 (dalla sua approvazione ad oggi ne sono stati presentati una cinquantina). Peppe Dell’Acqua Certo benché la legge italiana abbia aperto spiragli di possibilità, e il tema dell’inclusione sociale sia una priorità per tutti i paesi europei (WHO, European ministerial conference on Mental health, Mental Health Declaration for Europe Helsinki, Facing the Challenges, Building Solutions, Helsinki, 12-15 gennaio 2005), hanno continuato a persistere cattive pratiche, scandalosi abbandoni, inspiegabili violenze, sottrazioni, abusi. Cattive pratiche che oggi è possibile svelare grazie al cambiamento di scena prodotto proprio dalla legge 180. Quarant’anni dopo l’approvazione della legge, pur se sono state messe in campo esperienze, competenze e risorse, il problema rimane: che cosa si fa per permettere alle persone di vivere veramente le possibilità che ora sono alla loro portata? Si fa ancora poco. Le persone rischiano di nuovo di essere rinchiuse dentro mura ancora più spesse di quelle del manicomio. Sono le mura costruite dalla forza del modello medico e dal ritorno prepotente di una psichiatria che vede solo malattia, che fonda la sua credibilità sulla promessa della sicurezza e dell’ordine, sull’industria del farmaco, su fondamenti disciplinari quanto mai incerti e controversi. Mi riferisco ai servizi psichiatrici di diagnosi e cura ospedalieri blindati, alle affollate e immobili strutture residenziali, alle comunità senza tempo che si dicono terapeutiche e che si situano fuori dal mondo delle relazioni, ai Centri di salute mentale vuoti e ridotti a miseri ambulatori. È tornata la “psichiatria” con la falsa promessa della medicina, alleata alle psicologie più svariate, con la rinnovata chimera del farmaco e in alcune parti d’Italia, pochissime per fortuna, con l’utilizzo dell’elettroshock (se ne contano circa 1.000 in Italia ogni anno: un numero peraltro molto contenuto rispetto a quello che si riscontra in tutti gli altri paesi europei). Non a caso più di una delle proposte di modifica della legge 180 si è mossa nella direzione appena ricordata. Si argomenta, per esempio, che
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l’approccio definito spontaneistico alla malattia mentale determinato dalla riforma deve lasciare il posto a un approccio che faccia appello alle certezze del modello medico-scientifico. Si propongono adeguate “strutture” di cura “ad alta protezione” e procedure più restrittive, più rapide e meno garantiste di obbligatorietà alla cura. La malattia mentale si definisce come disturbo grave, con poche speranze di guarigione, fonte di disagio in famiglia e nella società: malattia, potenzialmente pericolosa, da trattare in unità ospedaliere e in residenze protette. L’invalidazione totale della persona sofferente nelle sue capacità cognitive, affettive e sociali consegue inevitabilmente. Preoccupano le culture e le pratiche che derivano da questi modelli, psicologici o biologici che siano. I farmaci, per esempio, leniscono il dolore, attenuano i sintomi, aiutano a stare nelle relazioni, sostengono percorsi di ripresa. Ma quando il “modello medico-biologico” pretende di spiegare le emozioni, la creatività, i sentimenti, le passioni, le paure, sottrae significato, riduce, medicalizza la vita. I farmaci finiscono per impedire allo psichiatra di vedere la persona che ha davanti. Basaglia amava ricordare le parole di Ernst Toller. Il drammaturgo tedesco, morto suicida nel 1939 a 40 anni dopo l’esperienza del manicomio, aveva scritto che “lo psichiatra è un uomo che ha occhi ciechi e orecchie sorde”. In generale, il problema ancora una volta sono le pratiche. Come viene evidenziato nella stessa relazione finale sull’attività della commissione parlamentare d’inchiesta (del 2013), presieduta dal sen. Ignazio Marino, sull’efficacia e l’efficienza del servizio sanitario nazionale, i Servizi di diagnosi e cura rimangono, per la maggior parte, luoghi chiusi, ove sono ancora largamente diffuse pratiche di contenzione, privi frequentemente di possibilità di interventi riabilitativi e sociali, che possano fungere da collegamento con i servizi territoriali come prevenzione della cronicità. Nei Dipartimenti di Salute Mentale dove i servizi ospedalieri di diagnosi e cura lavorano a porte chiuse è più che evidente il fenomeno della “porta girevole”; i servizi territoriali risultano carenti e aperti per fasce orarie insufficienti. Cresce così la domanda di residenze dove collocare i “nuovi cronici”.
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La persistenza del modello medico che vede da una parte la “crisi” e dall’altra la “cronicità”, condiziona anche la crescita dei servizi di salute mentale, delle comunità terapeutiche, delle cooperative sociali. La crisi si colloca in ospedale, nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura, o come in alcune regioni, in cliniche private. La cronicità sedimenta nelle strutture residenziali, negli istituti pubblici e religiosi, nei centri diurni infantilizzanti, nelle pratiche assistenzialiste di fragili cooperative sociali. Tra crisi e cronicità si crea un vuoto, un abisso. Come se la vita delle persone non potesse esistere al di fuori di queste definizioni. “Acuto e cronico” finiscono per determinare percorsi di cura e servizi frammentati e incoerenti. I Centri di salute mentale pensati come luoghi privilegiati della presa in carico territoriale restano vuoti, le comunità residenziali diventano terminali del fallimento terapeutico. Le cooperative luoghi di intrattenimento. Angelo Venchiarutti Hai toccato il tema della contenzione. Di recente anche il Comitato Nazionale di Bioetica ha formulato un parere su questo tema (CNB, La contenzione: problemi bioetici, 23 aprile 2015). Il CNB riscontra che nonostante le prese di posizione, anche di organismi internazionali, la pratica di legare i pazienti contro la loro volontà risulta tuttora applicata, in forma non eccezionale, senza che vi sia un’attenzione adeguata alla gravità del problema. Il CNB ribadisce l’orizzonte bioetico del superamento della contenzione, nell’ambito di un paradigma di cura fondato sul riconoscimento della persona, nella pienezza dei suoi diritti. Sul piano giuridico, il Comitato sottolinea i limiti rigorosi della giustificazione della contenzione. Vale a dire che, venendo in rilievo i diritti fondamentali della persona, il ricorso alle tecniche di contenzione meccanica deve rappresentare l’estrema ratio, esso può avvenire solamente in situazioni di necessità e urgenza, in modo proporzionato alle esigenze concrete, utilizzando le modalità meno invasive e solamente per il tempo necessario al superamento delle condizioni che abbiano indotto il personale medico-sanitario a ricorrervi.
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Peppe Dell’Acqua Preciso anzitutto che la contenzione non può essere considerata un atto medico, vale a dire che non ha funzioni terapeutiche e dunque non può essere giustificata come conseguenza della malattia della persona. La contenzione rende impossibile, limita e ostacola qualsivoglia atto terapeutico, di assistenza o di cura. Rende impossibile qualsiasi percorso di consapevolezza da parte di chi la subisce. Tutte le ricerche e le osservazioni che sono state effettuate giungono a queste conclusioni. Ed è per questo che non può essere considerata atto sanitario e dunque non ha senso che sia prescritta da un medico né attuata da un infermiere, non può essere protocollata né essere oggetto di linee guida. Sul piano giuridico – come ricorda anche il CNB nel suo parere – per giustificare il ricorso a questo tipo d’intervento si invoca, più o meno coerentemente, lo stato di necessità ai sensi dell’articolo 54 del Codice Penale. Lo stato di necessità dovrebbe esaurirsi davvero nell’arco di un tempo brevissimo. Non può essere giustificata una contenzione che persiste per 24 ore. Il ricorso alla contenzione è quanto meno molto controverso sia sul piano normativo che etico. Sul piano terapeutico poi essa appare ancora più inaccettabile, anche in ragione dei rischi che è destinata a comportare sul piano fisico: asfissia, trombosi, traumi meccanici, lesioni dei tessuti molli. Negli ultimi 5 anni, in Italia, si sono verificati nei Servizi Psichiatrici di Diagnosi e Cura molti eventi mortali dei quali non sempre si parla. Alle cronache, anche per gli esiti giudiziari, sono giunti i casi riguardanti i decessi di Franco Mastrogiovanni, morto dopo 72 ore di atroce contenzione nel reparto psichiatrico dell’ospedale di Vallo della Lucania, e Giuseppe Casu, rimasto per ben 7 giorni degato ad un letto dell’ospedale di Cagliari. Le conseguenze, per certi versi ancora più gravi per la vita della persona, sono quelle di ordine psicologico. Tutti i pazienti sottoposti a questo trattamento vivono l’esperienza con una profonda perdita di autostima, con un doloroso senso di umiliazione e di paura. Alla contenzione fa spesso seguito l’insorgere di un sentimento di rancore, di cupezza, di rabbia. Responsabilità Medica 2019, n. 2
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Talvolta, alla fine della contenzione, consegue una profonda depressione, una sorta di perdita della speranza: la consapevolezza d’aver toccato il fondo e che non sarà più possibile recuperare fiducia in se stessi. Non è un caso che la maggior parte delle persone sottoposte a contenzione faccia molta fatica a raccontare quell’esperienza. Naturalmente queste pratiche all’interno di un’istituzione producono effetti nei confronti degli altri, nel sostenere culture di paura e terrore e di profondo condizionamento. Non ultimo è l’effetto di conferma, assieme all’esuberante uso dei farmaci, del modello di malattia e dei pregiudizi ad essa connessa, soprattutto la pericolosità, l’incomprensibilità e l’incurabilità. Va evidenziato poi che dalle ricerche disponibili emergono indicazioni circa le variabili che più incidono sul ricorso alla contenzione: la cultura, l’organizzazione dei servizi, l’atteggiamento degli operatori rivestono un ruolo decisivo, più della gravità dei pazienti e del loro profilo psicopatologico. Il superamento della contenzione s’intreccia dunque con una nuova cultura e organizzazione dei servizi. Ciò non significa rimandare al cambiamento di cultura la risoluzione del problema, di fatto accettando una scissione fra principi e pratiche e declassando i primi a proclami moralistici, quanto, al contrario, partire dal rifiuto della contenzione quale fondamento di “buone prassi”, presupposto cioè per costruire nel concreto una diversa cultura dei servizi, a partire da una corretta relazione fra chi cura e chi è curato. È questo il senso e il valore di iniziative e di servizi che hanno già scelto di non applicare la contenzione. Angelo Venchiarutti Nonostante la persistenza, in certi contesti, di culture e di pratiche di cui hai appena riferito, va evidenziato che la riforma del 1978 ha fatto il suo corso e ha generato i suoi “frutti”. L’ultimo rapporto sulla salute mentale disponibile relativo all’anno 2016 sembra confermare il percorso positivo del cambiamento avviato nel ’78. Il rapporto attesta che le indicazioni del secondo progetto obiettivo nazionale per la tutela della salute mentale sono state in buona misura realizzate, i Dipartimenti e le strutture per la salute mentale sono diffusi in tutte le regioni, sono presenti, 285
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servizi ospedalieri per acuti (SPDC) con più di 3.000 posti letto; e soprattutto circa 1500 servizi sul territorio (in crescita rispetto alla rilevazione precedente). Il rapporto riscontra inoltre che l’assetto attuale della rete dei Dipartimenti di salute mentale e delle articolazioni che li compongono si basa sostanzialmente su quanto previsto dal Progetto Obiettivo “Tutela della salute mentale 1998-2000”. Va aggiunto poi che le norme della legge 30 maggio 2014, n. 81, hanno previsto la chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari (OPG) e delineato un nuovo sistema di trattamento per gli autori di reati ritenuti “incapaci di intendere e volere” al momento del fatto (totale infermità mentale) e perciò prosciolti per essere avviati al circuito di trattamento particolare (misure di sicurezza). Ricordo che l’OPG è sopravvissuto per molti decenni all’abolizione dei manicomi sancita dalla legge n. 180/78. La chiusura degli OPG costituisce dunque una tappa rilevante nel processo di deistituzionalizzazione delle persone con malattie mentali. Peppe Dell’Acqua Per fortuna oggi si possono raccontare molte storie differenti. Storie di persone, sempre più numerose, che malgrado la severità della loro malattia mai hanno subito restrizioni e mortificazioni. Hanno potuto attraversare Centri di salute mentale orientati alla guarigione, capaci di accoglierle e accompagnarle nel percorso di ripresa fino a quando abbiano trovato la propria strada. Alcune esperienze esemplari e pratiche diffuse in tutto il territorio, hanno dimostrato che è possibile non fare danni e costruire percorsi terapeutici efficaci e nuove opportunità di partecipazione per le persone, i familiari, i cittadini coinvolti. La scelta che privilegia il territorio, le reti, la prossimità, la domiciliarità contrasta di fatto il modello medico. Anche la rottura relazionale, la crisi dolorosa, quando non determina l’espulsione della persona dal proprio contesto, assume il significato di un evento storico che ritorna sempre alla storia del soggetto. Il Centro di salute mentale, aperto 24h - non già l’ospedale e le residenze diventa la modalità organizzativa forte che orienta la domanda e sostiene il lavoro terapeutico-riabi-
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litativo a fianco della vita reale delle persone. In molte regioni ormai sono presenti reti di servizi di salute mentale ben articolati e integrati che operano appunto sulle 24h, 7 giorni su 7. Le esperienze di questi anni hanno mostrato quanto la malattia, la clinica in una parola, si mette alla prova proprio nella dimensione territoriale. Il lavoro che bisogna fare per incontrare le persone si situa proprio in quello spazio aspro e tesissimo tra la clinica e il territorio, i luoghi delle persone, i contesti, le relazioni. Quanto più si riconosce il territorio come luogo del lavoro terapeutico, della riabilitazione, dell’inclusione, tanto più si colloca in questa dimensione la clinica, e la malattia assume una diversa visibilità. Non può che essere in relazione alla persona. Si scopre il bisogno di inventare “istituzioni” capaci di garantire la permanenza delle persone nel contratto sociale e fronteggiare il rischio di marginalizzazione. Sistemi di servizi e dislocazioni di risorse in grado di reggere alle nuove scommesse: la “presa in carico”, la continuità delle cure, il sostegno alla famiglia, i percorsi di formazione e di inserimento lavorativo, la cooperazione sociale, il sostegno a tutte le forme dell’abitare. I percorsi di guarigione. Il Centro di salute mentale laddove ha assunto una funzione forte e ordinativa, tende a diventare un luogo di transito, una piazza, un mercato: un luogo intenzionato a favorire lo scambio, l’incontro, il riconoscimento reciproco, ad accogliere con cura singolare. Un luogo che vuole vedersi abitato non (soltanto) dai “folli”. Un luogo che progetta, costruisce e cura un “dentro” senza mai perdere di vista il “fuori”. Tra il Centro di salute mentale e il territorio si disegna una soglia che definisce lo spazio dell’incontro, dell’ascolto, dell’aiuto, della terapia. Il Centro come passaggio, confine, attraversamento che si dispone instancabilmente tra lo star bene e lo star male, tra la normalità e l’anormalità, tra il regolare e l’irregolare, tra il singolo e il gruppo, tra le relazioni plurali e la riflessione singolare, tra gli spazi dell’ozio e gli spazi dell’attività. Un luogo che contrasta il rischio della sottomissione e dell’assoggettamento così presente quando ricorre l’esperienza della malattia. Un luogo dove le persone, senza la paura del confine che si Responsabilità Medica 2019, n. 2
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chiude alle loro spalle, possono entrare per dire il proprio male, condividerlo. Un confine aperto che garantisce sempre il ritorno. In questi anni è stato possibile dimostrare che “il folle” può essere curato in un altro modo. I Centri di salute mentale, lì dove sono attivi e presenti quotidianamente a sostegno della vita delle persone; le cooperative sociali, lì dove veramente sono in grado di stare sul mercato e produrre lavoro; le associazioni di persone con disturbo mentale e dei familiari, lì dove veramente alimentano protagonismo e partecipazione; i luoghi dell’abitare ed i laboratori, lì dove davvero si coltiva il valore della relazione, la bellezza degli spazi e degli oggetti, la qualità dei lavori e delle produzioni dimostrano che è possibile curare senza contenzioni, con le porte aperte, con programmi riabilitativi personalizzati, con percorsi di formazione e di inserimento lavorativi reali, con il coinvolgimento nel lavoro terapeutico dei familiari, con il sostegno puntuale, anche economico, della vita quotidiana, con la possibilità per le persone di abitare diverse e plurali identità. Con la possibilità di guarire. Come hai ricordato è stata disposta, finalmente anche la definitiva chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari. Per molto tempo, quelle strutture hanno assunto il carattere di veri e propri luoghi di esclusione ed emarginazione in cui l’elemento repressivo rappresentava la preoccupazione prevalente rispetto a qualsiasi prospettiva terapeutica. Insomma anche dopo la legge 180 abbiamo continuato ad avere manicomi-carceri. Questa non è la sede per un’analisi approfondita dei singoli aspetti di una riforma ancora in via di attuazione. La legge 30 maggio 2014, n. 81 ha avuto finora un’attuazione differenziata nelle diverse regioni, con importanti esempi di eccellenza e situazioni di criticità (v. Consiglio superiore della magistratura, Disposizioni urgenti in materia di superamento degli Ospedali psichiatrici giudiziari (OPG) e di istituzione delle Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS), di cui alla legge n. 81 del 2014. Questioni interpretative e problemi applicativi, 12 aprile 2017). Tra i primi, vorrei segnalare come la Regione Friuli Venezia-Giulia abbia adottato un programma per realizzare le misure idonee al superamento degli OPG perseguendo la continuità con il modello Responsabilità Medica 2019, n. 2
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culturale e organizzativo di riferimento regionale in tema di politiche per la salute mentale. In luogo della creazione delle Residenze per Misure di Sicurezza (REMS), il programma messo a punto prevede la dislocazione di dieci posti letto su tre strutture regionali facenti parte della rete dei servizi regionali per la salute mentale. In chiusura, a conferma dell’impostazione ispiratrice della legge 180, vorrei aggiungere questa annotazione. Nell’introduzione del recente documento “On the Future of Psychiatry” (della World Psychiatry Association e della Lancet Psychiatry Commission) si può leggere la seguente considerazione: “The dramatic neuroscience research advances in psychiatry of the second half of the 20th century have not yet led to substantial advances in patient care. In spite of this, patient care has been transformed by a number of other influences. The increasing recognition of social determinants of health has clearly led to increased appreciation of demographic, economic, and sociocultural aspects of risk for development of psychiatric disorders, patient acceptance of treatment, and design and implementation of systems of care”.
r o t Osservatorio medico-legale a Osservatorio medico-legale er v ico s d le s e o Rifiuto alla trasfusione m ga le ematica per motivi religiosi. Considerazioni medico-legali a margine di una recente sentenza
Matteo Bolcato*, Marianna Russo**, Anna Aprile*** Sommario: 1. La vicenda clinica. – 2. La sentenza. – 3. Il consenso informato quale fondamento giuridico dell’attività medico-chirurgica. – 4. Trasfusione ematica in assenza di consenso e stato di necessità. – 5. Trasfusione ematica non voluta quale specifica configurazione del reato di violenza privata. – 6. Verso una (inattesa) conclusione. Lo standard di cura in medicina trasfusionale alla luce del Patient Blood Management.
Abstract: Il contributo prevede l’analisi sotto il profilo medico legale della sentenza n. 465 del 30.5.2018 emessa dal Tribunale di Termini Imerese (PA) che, in assenza di precedenti storici consimili, ha condannato un medico per il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. per aver ordinato l’esecuzione di una trasfusione ematica ad una paziente che ne aveva opposto il rifiuto per motivazioni religiose. Viene analizzato il disposto del giudice in ordine all’identificazione della violenza nell’effettuazione della trasfusione ematica, l’assenza della scriminante dello “stato di necessità” ed è effettuata una aggiornata ricognizione dell’attuale standard di cura in medicina trasfusionale. Our contribution provides the medico-legal analysis of the sentence n. 465 issued on 30 May 2018 by the Court of Termini Imerese (PA). For the first time in Italian legal history, a physician was condemned, pursuant to article 610 of Penal Code that codifies the crime of “private violence”, for having prescribed a blood transfusion to a subject who had unequivocally refused it on religious grounds. The main key points of the verdict have been discussed, as the peculiarity of the violence perpetrated in performing the blood
transfusion against the consent and the absence of the requirements to apply the defence of necessity. Finally, the most updated therapeutic standards of Transfusion Medicine have been investigated.
1. La vicenda clinica In data 6.11.2010 una giovane donna di 24 anni accede al Pronto Soccorso dell’Ospedale “Cimino” di Termini Imerese. La paziente è in stato di gravidanza, alla 14° settimana di gestazione e lamenta, già a partire dall’inizio del III mese, episodi di vomito di difficile gestione. La stessa paziente riferisce decremento ponderale nell’ordine di 3-4 kg. In anamnesi è segnalata pregressa gravidanza a termine con taglio cesareo ed episodi di tachicardia negli anni precedenti. La giovane viene rico-
Specialista in Medicina legale ** Specialista in Medicina legale *** Professoressa Associata di Medicina legale – Università degli Studi di Padova
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verata per gli accertamenti e le cure del caso. La stessa fa presente di essere Testimone di Geova e di voler rifiutare, in ogni caso, le trasfusioni di emocomponenti accettando invece tutte le strategie atte alla gestione del suo stesso sangue al fine di evitarne o ridurne la perdita così come la somministrazione di emoderivati. In data 13.11.2010, la giovane viene dimessa con la raccomandazione di assumere folati e sali minerali; la stessa è rassicurata sullo stato di salute del feto. Il giorno 21.11.2010, la paziente accede nuovamente al Pronto Soccorso dell’Ospedale di Termini Imerese per dolore epigastrico e vomito. Per tale ragione è ricoverata nel reparto di Ginecologia ed Ostetricia. La stessa fa nuovamente presente di essere Testimone di Geova ribadendo che rifiuta, in ogni caso, le trasfusioni di emocomponenti. Tra le indagini durante il ricovero è effettuato esame ecografico che evidenzia colecisti che presenta abbondante sabbia biliare e qualche microcalcolo endoluminale. La paziente è inizialmente trattata conservativamente ma nei giorni successivi la sintomatologia algica ed il vomito tornano ad essere presenti e, in data 28.11.2010, vi è un aumento della bilirubinemia. È compiuta una nuova rivalutazione chirurgica ed ecografica e stanti le risultanze, i curanti indicano la necessità di eseguire l’intervento di colecistectomia. Sono effettuati esami ematochimici di controllo, che mostrano valori emocromocitometrici nella norma: 12,8 g/ dl di emoglobina, ematocrito pari a 35,7%. In data 01.12.2010, in mattinata, è effettuato l’intervento chirurgico tramite laparoscopia. Dalla lettura della cartella non sono riportati gli orari di inizio e fine dell’intervento ma si evince che a breve distanza dal termine dell’intervento si manifesta un’importante fuoriuscita ematica sia dai drenaggi sia dagli accessi chirurgici. I controlli e la visita ginecologica vengono eseguiti solo alcune ore dopo. La consulenza ginecologica, effettuata alle ore 15.00, rileva bradicardia fetale (83 bpm), ragione per cui è prescritta e somministrata atropina e sono richieste l’effettuazione di un emocromo e una rivalutazione dopo un’ora. Intorno alle ore 16.00 la paziente appare ipotesa. Viene deciso di sottoporla ad un reintervento. La revisione chirurgica documenta, in corrispondenza della sede di accesso della strumentazione del primo intervento, Responsabilità Medica 2019, n. 2
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un focolaio di sanguinamento che viene arrestato con coagulazione e punto transfisso parietale. Nelle ore successive la giovane paziente appare, seppure in condizioni di sofferenza, in compenso in assenza di qualsivoglia perdita ematica. La mattina successiva vengono somministrati Eritropoietina 40.000 U e ferro per via endovenosa 1 g/die, farmaci entrambi indicati per l’incremento dell’emopoiesi. La consulenza ginecologica effettuata accerta la morte fetale. La mattina del giorno successivo il rilievo emoglobinico all’emocromo è pari a 5,3 g/dl. Al successivo prelievo effettuato nella stessa mattina prima della trasfusione forzata il valore emoglobinico aveva subito una risalita sino a 5,8 g/dl. Alle ore 11.00 del giorno 03.12.2010 si legge nel diario medico della cartella clinica: “Alla luce dell’emocromo effettuato stamattina (5,3 Hb) considerato lo stato di necessità del caso specifico, tenuto conto altresì del credo religioso (Testimone di Geova) si informa il magistrato di turno del tribunale di Termini Imerese e si procede con emotrasfusione di emergenza”. Alle ore 12.00 due infermieri, a seguito dell’ordine diretto del Direttore dell’Unità Operativa, dopo aver fatto uscire i parenti dalla stanza di degenza, staccano dall’accesso venoso precedentemente posizionato sull’arto superiore destro la fleboclisi che era in corso e collegano al sistema una sacca di emazie concentrate. La paziente chiedeva immediatamente spiegazioni sull’attività che gli infermieri stavano svolgendo e per tutta risposta le viene riferito che la trasfusione è stata autorizzata dal magistrato e che quindi non avrebbe dovuto opporsi e fare resistenza. La paziente manifesta il suo dissenso verbalmente e cerca di contrastare come può le manovre degli infermieri muovendo gli arti; il personale intervenuto la tiene ferma con la forza e dopo un certo lasso di tempo la giovane desiste dal tentativo di divincolarsi. Gli operatori le dicono di non pensare di togliersi l’apparato infusivo in quanto “ci sarebbero state gravi conseguenze”. L’infermiera coordinatrice, presente alla trasfusione praticata da un altro infermiere, ha poi dichiarato che “la donna era molto triste e piangeva perché la situazione chiaramente era molto triste”. Successivamente la stessa paziente viene nuovamente trasfusa con altre due unità di emazie concentrate.
Rifiuto alla trasfusione ematica per motivi religiosi
In merito alle modalità con cui viene condotta l’operazione è da specificare che il medico ha riferito alla paziente che la avrebbe trasfusa perché aveva avuto telefonicamente dal magistrato l’autorizzazione. In effetti il medico aveva richiesto al magistrato l’autorizzazione sottolineando come fosse in pericolo la vita della donna e del feto che tuttavia, al momento della telefonata, era invece già deceduto. Il magistrato ha poi riferito di essere stato interpellato telefonicamente sulla questione negando di aver concesso qualsivoglia autorizzazione. In data 7.12.2010 è effettuato travaglio abortivo e in data 9.12.2010 la paziente è dimessa a domicilio. Successivamente alle dimissioni dall’ospedale, la giovane ha sporto denuncia e il Pubblico Ministero ha indagato i medici che a vario titolo hanno preso parte alle attività sulla paziente in concorso fra loro per il reato di aborto colposo ex art. 17, comma 1°, Legge n. 194/78 in quanto con le errate manovre chirurgiche avrebbero procurato la morte del feto e per il reato di violenza privata ex art. 610 c.p. per aver volontariamente costretto la paziente a subire l’emotrasfusione che la stessa aveva per più volte “ostinatamente” (cit.) rifiutato.
2. La sentenza A seguito di un lungo iter processuale è stata depositata la sentenza n. 465 del 30.5.2018, che assolve gli imputati per il reato di aborto colposo mentre condanna il direttore di struttura per il reato di violenza privata per aver ordinato la trasfusione ematica rifiutata dalla paziente. In questa nota ci concentreremo su quest’ultima fattispecie di reato tralasciando la fattispecie relativa all’altro capo di imputazione, sebbene l’ipotesi del verificarsi di un aborto colposo a causa della malpractice chirurgica degli operatori sia evenienza sostenuta con forza dai consulenti del pubblico ministero e della parte civile. Con riferimento al secondo capo di imputazione la sentenza è di peculiare interesse non solo perché per la prima volta in assoluto qualifica in concreto come reato di violenza privata di cui all’art. 610 del codice penale la coazione a subire una trasfusione ematica a fronte del dissenso espresso dal paziente ma anche perché il Tribunale di Termini Imerese ef-
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fettua una puntuale ricostruzione del fondamento giuridico e della legittimazione dell’attività medico-chirurgica, oltre che dell’istituto del consenso informato, richiamando le sentenze più significative intervenute sulla tematica, tra le quali la nota sentenza delle Sezioni Unite penali della Suprema Corte n. 2437 del 18.12.2008, che ha affrontato nel dettaglio tutte le citate questioni giuridiche. La sentenza prende poi in esame lo specifico caso del rifiuto della trasfusione di sangue, le ipotesi di applicazione della scriminante dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., nonché i fondamenti dello specifico reato di violenza privata di cui all’art. 610 c.p.
3. Il consenso informato quale fondamento giuridico dell’attività medico-chirurgica La sentenza cita e recepisce le conclusioni della giurisprudenza di legittimità secondo cui il consenso espresso dal paziente è vero e proprio presupposto di liceità dell’attività del medico che somministra il trattamento, al quale non è attribuibile un generale diritto di curare a prescindere dalla volontà dell’ammalato. Sul punto si esprime come segue: “L’analisi della giurisprudenza scolpisce dunque il principio assolutamente sintonico con il nostro ordinamento giuridico incentrato sulla concezione personalistica dell’uomo – della volontà del paziente come limite ultimo (non valicabile e non sacrificabile) dell’esercizio dell’attività medica; invero il criterio di disciplina della relazione medico malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso della capacità intellettive e volitive, secondo una totale autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita che deve essere sempre rispettata dal sanitario. Va dunque riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio stesso della vita. Più specificamente in tema di consenso informato nella trasfusione di sangue, non può non rilevarsi la peculiarità della fattispecie in cui sia il Testimone di Geova, maggiorenne e pienamente capace, a negare il consenso alla terapia trasfusionale, essendo in tal caso il medico obbligato Responsabilità Medica 2019, n. 2
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alla desistenza da tale terapia posto che, in base al principio personalistico, ogni individuo ha il diritto di scegliere tra la salvezza del corpo e la salvezza dell’anima. Il dispositivo prima di arrivare alle conclusioni sopradette effettua un’ampia ricognizione della giurisprudenza in merito al tema. Dapprima è evidenziato il recepimento in ambito penale della tesi civilistica (cfr. Cass., 25.11.1994, n. 10014; Cass., 15.1.1997, n. 364; Cass., 16.10.2007, n. 21748; Cass., 28.11.2007, n. 24742; Cass., 15.9.2008, n. 23676) del principio consensualistico della legittimazione dell’attività medico-chirurgica fondato sugli artt. 13 e 32 della Carta costituzionale. A tal proposito è poi richiamata la sentenza Cassazione Penale, 11.7.2001, n. 35822 (Firenzani) ove si afferma che la manifestazione del consenso del paziente costituisce “presupposto di liceità del trattamento chirurgico”. Tale assunto afferisce alla libertà morale del soggetto, alla sua autodeterminazione, alla sua libertà fisica: profili chiaramente riconducibili al concetto di libertà della persona, tutelato dall’art. 13 della Costituzione. Viene poi richiamata la successiva Cassazione Penale, 29.5.2002, n. 26446 (Volterrani), nella quale è definito “insuperabile” l’espresso, libero e consapevole rifiuto manifestato dal paziente, ancorché l’omissione dell’intervento possa cagionare il pericolo di un aggravamento dello stato di salute o, persino, la sua morte. In tali ipotesi, qualora il medico effettui ugualmente il trattamento rifiutato, potrà profilarsi a suo carico il reato di violenza privata in quanto non è consentito al medico “manomettere” il corpo e l’integrità fisica del paziente contro il suo dissenso. Infine, richiama Cassazione Penale, 14.2.2006, n. 11640 (Caneschi) nella quale si ribadisce che l’intervento medico contra volontà determina una palese “arbitrarietà del trattamento medico-chirurgico e, quindi, la sua rilevanza penale, in quanto compiuto in violazione della sfera personale del soggetto e del suo diritto di decidere se permettere interventi estranei sul proprio corpo”. Più sommariamente è fatto riferimento alla celebre sentenza della Corte costituzionale n. 438 del 2008 nella quale si riporta che: “Il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della Responsabilità Medica 2019, n. 2
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persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 Cost. che ne tutela e promuove i diritti fondamentali e negli artt. 13 e 32 Cost., i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la libertà personale è inviolabile” e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”. La sentenza del Tribunale di Termini Imerese richiama poi varie fonti internazionali quali, la Convenzione sui diritti del fanciullo, firmata a New York il 20 novembre 1989 ratificata e resa esecutiva con legge 27/5/1991, n. 176; la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, firmata ad Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata in Italia con legge 28/3/2001, n. 145; la Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, oltre diverse leggi nazionali che disciplinano specifiche attività mediche, e, segnatamente, la legge 21 ottobre 2005, n. 219 art. 3 (Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione nazionale di emoderivati), la legge 23 dicembre 1978, n. 833 art. 33 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) la quale prevede che le cure sono di norma volontarie e nessuno può essere obbligato ad un trattamento sanitario se ciò non è previsto dalla legge.
4. Trasfusione ematica in assenza di consenso e stato di necessità La sentenza del Tribunale di Termini Imerese ha condannato il medico per il reato di violenza privata e ha ritenuto di non poter accogliere la tesi dell’imputato che invocava, a propria difesa, l’aver agito in stato di necessità, escludendo nel caso “la ricorrenza di un pericolo imminente di danno grave alla persona, non essendo documentati in cartella clinica né la presenza di fattori di rischio o di inadeguati meccanismi di compenso né una compromissione delle funzioni vitali” della paziente. Viene sottolineato che, sebbene ai rilievi laboratoristici la paziente mostrasse un basso (secondo i range normalmente utilizzati) valore emoglobinico (5,8 g/dl al momento della trasfusione, dopo un nadir di 5,3 g/dl) non versava in uno stato di pericolo di vita. A tal proposito la sentenza riporta i dati clinici e di laboratorio dai quali si evince che tutti i meccanismi fisiologici di
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compenso propri dell’anemia erano presenti e in grado di sopperire al calo emoglobinico. I consulenti tecnici della parte civile, a questo riguardo, hanno sottolineato come “il dato emoglobinico non deve e non può costituire unico parametro da considerare nella decisione di effettuare una trasfusione né tantomeno divenire irrazionale elemento costitutivo di terrore psicologico nel ragionamento clinico”. A sostegno di tale affermazione i Consulenti hanno riportato casi provenienti dalla letteratura scientifica internazionale di pazienti con valori emoglobinici particolarmente bassi ma in assoluto compenso dal punto di visita clinico. Tra i casi pubblicati ne vengono riportati alcuni tra i più estremi: paziente di 34 anni con cancro al colon che si presenta autonomamente al pronto soccorso con un livello emoglobinico pari a 1,8 g/dl1; paziente di 58 anni con carcinoma renale operato che raggiunge nadir emoglobinico pari a 1,1 g/dl; paziente di 39 anni con severo sanguinamento gastrointestinale da ulcere multiple che viene sottoposto a chirurgia nel momento in cui il valore emoglobinico è pari a 4g/dl e raggiunge nadir emoglobinico pari a 2 g/dl2. Il Tribunale ha accertato che la paziente non era quindi in pericolo di vita. Questa parte della motivazione, supportata da un’approfondita ricostruzione del fatto attraverso le risultanze documentali e testimoniali, è importante ma ancora più significativa appare, a nostro avviso, l’ulteriore spiegazione che la sentenza fornisce per negare la tesi difensiva: anche qualora l’anemizzazione fosse stata, effettivamente, in fase di ingravescenza e tale da poter far presumere la morte imminente e scongiurabile solo con la trasfusione, secondo il Giudice, non era possibile ritenere applicabile la scriminate di cui all’art. 54 c.p. poiché la paziente, pienamente consapevole sulle possibili conseguenze della sua decisione, aveva espressamente
1 Schmitt e Buckley, Extreme anemia (hemoglobin 1.8 g/dL) secondary to colon cancer (2016) 29(4) Proceedings (Baylor University. Medical Center) 393 ss.
Padmakumar et al., Successful bowel surgery at hemoglobin 2 g/dL without blood transfusion (2013) 8 World Journal of Gastrointestinal Surgery 252 ss.
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e ripetutamente negato il consenso all’emotrasfusione. In merito alla (non) applicabilità di tale scriminante la sentenza indica: “non esiste, infatti, nel nostro ordinamento un soccorso di necessità cosiddetto coattivo, che appunto possa travalicare la contraria volontà dell’interessato, posto che il perimetro della scriminante dello stato di necessità, alla luce dei sopra richiamati principi costituzionali è rigidamente circoscritto all’ipotesi in cui il paziente non sia in grado – per le sue condizioni – di prestare il proprio dissenso o consenso, come pure chiarito dalla costante giurisprudenza di legittimità. Invero, l’urgente necessità terapeutica può rilevare solo in caso di paziente in stato di incoscienza, trovando poteri e i doveri del medico unico fondamento nel consenso del paziente, mai sacrificabile: il medico non può dunque imporre il trattamento sanitario da lui ritenuto salvifico a chi consapevolmente e lucidamente lo rifiuti”. La sentenza rimarca quindi che l’unico caso in cui è possibile ritenere operante la scriminante del c.d. “stato di necessità” è quello in cui il paziente versi in una situazione di incapacità di manifestazione del volere e non abbia espresso in precedenza nessuna volontà circa il quadro clinico riconducibile al pericolo imminente e attuale di danno grave alla persona. Sotto questo specifico aspetto riteniamo di non poter condividere la sentenza in quanto l’intervento terapeutico finalizzato a salvaguardare il paziente in pericolo e, contestualmente, in condizioni psico-fisiche tali da non consentirgli di manifestare la propria volontà, impone al medico di intervenire e, in queste circostanze, l’intervento è da ritenere non solo non punibile ma bensì dovuto in virtù della posizione di garanzia che il professionista ha nei confronti dell’assistito. Risulta di interesse rilevare che la stessa indicazione proviene anche dalla legge del 22 dicembre 2017 n. 219, nell’art. 1, comma 7°, che riporta: “Nelle situazioni di emergenza o di urgenza il medico e i componenti dell’equipe sanitaria assicurano le cure necessarie, nel rispetto della volontà del paziente ove le sue condizioni cliniche e le circostanze consentano di recepirla”.
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5. Trasfusione ematica non voluta quale specifica configurazione del reato di violenza privata La sentenza procede con la disamina della specifica fattispecie del reato di violenza privata, indicando che, affinché possa ritenersi sussistere il reato di cui all’art. 610 c.p., occorre che siano chiaramente individuati i due elementi costitutivi: la condotta violenta e l’evento, ossia ciò che la persona è costretta a subire contro la sua volontà. Nel caso di specie il reato è identificato come segue: “Sono dunque ben individuati e distinti, nella fattispecie in esame, i requisiti della condotta violenta e dell’evento finale: la prima si è concretizzata in tutte le manovre poste in essere al fine di introdurre l’ago cannula in vena e quindi nel corpo della paziente, mentre l’“evento di coazione” si realizza nell’immissione in circolo del sangue all’interno del corpo della stessa e quindi nell’emotrasfusione”. La sentenza motiva la decisione in merito alla possibilità di identificare il requisito della violenza in qualsiasi mezzo idoneo a comprimere la libertà di determinazione e di azione della parte offesa e fa riferimento alla Cass. pen., 3.3.2009, n. 11522, che ha ribadito come l’interesse tutelato dall’art. 610 c.p. sia la libertà morale, da intendersi come libertà di determinarsi spontaneamente: “La giurisprudenza ammette che integri il reato di violenza privata la condotta non esplicitamente connotata da violenza o minaccia, compresa la condotta che consista nel compimento di manovre insidiose al fine di interferire con la libertà di autodeterminazione della persona offesa”. In tale reato è tutelata la libertà psichica dell’individuo e la fattispecie criminosa ha carattere generico e sussidiario rispetto ad altre figure criminose in cui la violenza alle persone sia elemento costitutivo del reato. La norma in esame, infatti, reprime genericamente fatti di coercizione, non espressamente considerati da altre norme di legge, esplicabili in molteplici forme dirette (anche con mezzi anomali) ad esercitare pressioni sulla volontà altrui, impedendone la libera determinazione. Nel reato in esame la trasfusione, contestualmente alle attività propedeutiche alla stessa, è qualificata come atto di
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violenza nei confronti della paziente che la aveva rifiutata. La sentenza conclude con la condanna dell’imputato direttore del reparto (ancora qualificato come primario), “avendo il predetto agito quale mandante della violenza privata, disponendo che alla paziente fosse praticata, nonostante il suo espresso dissenso, l’emotrasfusione con ciò volendo tutte le manovre (ben note all’imputato in ragione della sua qualifica) che concretamente sarebbero state necessarie al raggiungimento dello scopo e che erano appunto funzionali a praticare il trattamento sanitario da lui disposto”. Il medico è identificato come mandante di infermieri esecutori; il primario avrebbe quindi sfruttato la sua qualifica per imporre agli infermieri, evidentemente non consapevoli del proprio ruolo e della propria autonomia professionale, manovre atte a eseguire una trasfusione senza consenso. È chiara la stigmatizzazione di una cultura organizzativa ospedaliera di tipo gerarchico, svilente la dignità di tutti i membri dell’equipe coinvolti, e distruttiva dei rapporti di alleanza terapeutica tra operatori e pazienti oltreché tra operatori.
6. Verso una (inattesa) conclusione. Lo standard di cura in medicina trasfusionale alla luce del Patient Blood Management Il Tribunale di Termini Imerese, ribadisce e mette in pratica il principio sintonico con il nostro ordinamento giuridico incentrato sulla concezione personalistica dell’uomo: la volontà del paziente come limite ultimo dell’esercizio dell’attività medica in cui il criterio che disciplina la relazione medico-malato è quello della libera disponibilità del bene salute da parte del paziente in possesso delle capacità intellettive e volitive, secondo una autonomia di scelte che può comportare il sacrificio del bene stesso della vita e che deve essere sempre rispettata dal professionista sanitario. Sottolinea anche come lo “stato di necessità”, qualora fosse presente, non possa essere usato quale “grimaldello capace di scardinare ogni diritto della
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persona”3. Nonostante tali considerazioni dirette e chiare per l’attività medica, peraltro completamente in linea con i dettami imposti dalla legge del 22 dicembre 2017 n. 219, è indubbio che, per il professionista sanitario, interagire con il paziente che rifiuta la somministrazione di emocomponenti può essere fonte di grave frustrazione e di conflitto. Si tratta di questione che meriterebbe un approfondimento sotto il profilo dei valori in gioco e dell’etica professionale, ma che non è nostra intenzione affrontare in questa sede. Osserviamo, invece, come non di rado alcune situazioni conflittuali siano tali solo apparentemente in quanto sia il rispetto dell’autodeterminazione del paziente a non voler essere trasfuso sia il rispetto dell’autonomia professionale del medico nel perseguire percorsi terapeutici diretti alla tutela della salute e della vita della persona potrebbero risultare ugualmente soddisfatti rivalutando ed aggiornando le attuali, diffuse, conoscenze in materia trasfusionale con le più moderne evidenze internazionali. Il tema del risparmio del sangue in ambito medico chirurgico è argomento di assoluto interesse, non solo per i pazienti che rifiutano le trasfusioni ma per l’intera popolazione. La trasfusione ematica rappresenta una delle attività maggiormente praticate negli ospedali di gran parte del mondo, ma è solo negli ultimi decenni che si è cominciato a porre in discussione la reale utilità ed efficacia di tale presidio ed a chiedersi quali siano i reali risultati della somministrazione dei componenti ematici nei pazienti. I risultati provenienti dalle evidenze scientifiche hanno portato a conclusioni inattese e, per certi versi, sorprendenti. Studi su ampi campioni di popolazione e metanalisi hanno correlato la somministrazione di trasfusioni di componenti ematici ad un aumento della mortalità, morbilità, degenza ospedaliera e delle infezioni nosocomiali. È scientificamente provato4 che pazienti trasfusi, rispetto a quelli in
cui si è evitata la trasfusione, a parità di condizioni ed intervento muoiono di più, si ammalano di più di ulteriori patologie, restano più tempo in ospedale e contraggono più infezioni ospedaliere. Altri studi presenti in letteratura ormai da alcuni anni mostrano che i globuli rossi trasfusi hanno in realtà una scarsa capacità di trasporto di ossigeno, molto inferiore rispetto ai globuli rossi del paziente. Parimenti sono apparse scarse le evidenze di una effettiva prevenzione del sanguinamento attraverso la trasfusione piastrinica5. Anche per tali ragioni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) raccomanda già dal 2009 che i medici utilizzino “alternative alla trasfusione” laddove possibile per non esporre i pazienti (adulti o bambini) ai “gravi” rischi medici associati alle trasfusioni di sangue6. Per far questo, già dal 2010, ha introdotto una risoluzione vincolante per tutti i paesi membri (Risoluzione WHA63.12 del 21.05.2010) per la creazione ed implementazione del programma internazionale Patient Blood Management – (PBM). La Società Italiana di Anestesia e Rianimazione – S.I.A.A.R.T.I. dà questa definizione del Patient Blood Management: “Approccio multidisciplinare, multimodale e personalizzato volto a ridurre
adult tertiary-care hospitals (2017) 6 Transfusion 1347 ss.; Frank et al., Risk-adjusted clinical outcomes in patients enrolled in a bloodless program (2014) 10pt2 Transfusion 2668 ss.
Santosuosso, Di una triste trasfusione ematica a Milano/1. Le parole e le cose: a proposito di “violenza etica” su un paziente, in Bioetica, 2000, 461 ss.
Zimmerman et al., A Mechanistic Analysis of Possible Blood Transfusion Failure to Increase Circulatory Oxygen Delivery in Anemic Patients (2019) 4 Annals of Biomedical Engineering 1094 ss.; Hopewell et al., A systematic review of the effect of red blood cell transfusion on mortality: evidence from large-scale observational studies published between 2006 and 2010 (2013) 5 BMJ Open e002154.; Yalcin et al., Microhemodynamic aberrations created by transfusion of stored blood (2014) 4 Transfusion 1015 ss.; Zimmerman et al., Posttransfusion increase of hematocrit per se does not improve circulatory oxygen delivery due to increased blood viscosity (2017) 124(5) Anesthesia and Analgesia 1547 ss.; Desborough et al., Alternatives to allogeneic platelet transfusion (2016) 175(3) British Journal of Haematology 381 ss.; Baharoglu et al., Platelet transfusion versus standard care after acute stroke due to spontaneous cerebral haemorrhage associated with antiplatelet therapy (PATCH): a randomised, open-label, phase 3 trial (2016) 387(10038) The Lancet 2605 ss.
Leahy et al., Improved outcomes and reduced costs associated with a health-system-wide patient blood management program: a retrospective observational study in four major
6 World Health Organization, The clinical use of blood in general medicine, obstetrics, paediatrics, surgery and anaesthesia, trauma and burns, 2009.
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o eliminare la necessità di trasfusioni allogeniche attraverso la gestione evidence-based dell’anemia, la riduzione delle perdite e l’ottimizzandone delle strategie volte al risparmio del sangue.” Si tratta di una strategia che ha lo scopo di mettere al centro la salute e la sicurezza del paziente migliorando i risultati clinici riducendo in modo significativo l’utilizzo dei prodotti del sangue e si fonda su tre concetti applicativi o pilastri fondamentali7: a. L’ottimizzazione dell’eritropoiesi: rilevare e trattare l’anemia prima di un intervento programmato, stimolare se occorre l’eritropoiesi e far arrivare il paziente all’intervento con i migliori indici ematici possibili; b. Contenimento delle perdite ematiche: identificare precocemente e trattare il rischio emorragico all’interno dell’intervento e nel periodo post-operatorio con un attento monitoraggio del paziente; c. Ottimizzazione della tolleranza all’anemia: adottare soglie trasfusionali restrittive e valutare e incrementare la riserva fisiologica del paziente ottimizzando l’ossigenazione e ventilazione. Tale approccio ha reso possibile l’esecuzione di interventi di estesa chirurgia maggiore, tra cui trapianti d’organo e di cellule staminali, senza ricorrere all’utilizzo di trasfusioni di sangue. L’apertura pratica di tale approccio è avvenuta dapprima nell’assistenza ai pazienti Testimoni di Geova (in letteratura internazionale Jehovah’s Witness - JW), facendo sì che divenissero risorsa di stimolo per la applicazione di metodiche per il risparmio di sangue e l’attuazione di terapie alternative alla trasfusione divenute poi di beneficio per tutti i pazienti. L’applicazione del programma PBM ha consentito di migliorare gli outcome dei pazienti con ingenti risparmi in termini economici. A tale riguardo, alcuni osservatori internazionali sul tema, che contribuiscono all’attività del NATA (Network for the Advancement of Transfusion Alternatives), hanno recentemente definito i risul-
Hofmann, Farmer, Shander, Five drivers shifting the paradigm from product-focused transfusion practice to patient blood management (2011) Suppl 3 The Oncologist 3 ss. 7
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tati dell’accurata implementazione del PBM in Australia come “impressionanti”8. Anche in Italia, il Decreto del Ministro della Salute 2 novembre 2015: “Disposizioni relative ai requisiti di qualità e sicurezza del sangue e degli emocomponenti” prevede che siano definiti e implementati, su tutto il territorio nazionale, specifici programmi di PBM sulla base di specifiche Linee Guida emanate dal Centro Nazionale Sangue – CNS, organo dell’Istituto Superiore di Sanità. Tali Linee Guida sono disponibili nella versione più aggiornata del 27.10.2016 sul sito del CNS9. La commissione Europea nel marzo 2017 ha introdotto una Guida10 per le autorità sanitarie nazionali sulla gestione del sangue attraverso il PBM; a tale proposito la commissione ha osservato: “(...) un gran numero di evidenze cliniche mostra che in molti scenari clinici sia l’anemia che la perdita di sangue possono essere efficacemente trattati con una serie di misure basate sulle evidenze per gestire e preservare il sangue proprio del paziente, piuttosto che ricorrere a sangue di un donatore, portando così ad una significativa riduzione complessiva delle trasfusioni di sangue”. Ha inoltre aggiunto: “Per decenni il trattamento predefinito per la perdita di sangue o l’anemia è stato tramite trasfusione di sangue allogenico (...) Tuttavia, l’accumulo di prove dimostra che, in modo particolare nei pazienti emodinamicamente stabili, la trasfusione è un altro fattore di rischio indipendente per esiti avversi”. I soggetti Testimoni di Geova non accettano trasfusioni ematiche per ragioni di carattere religioso e per tale motivo, nel corso degli anni e tuttora, in alcune realtà meno aggiornate, trovano resistenze all’applicazione di metodiche alternative all’utilizzo di prodotti ematici, quasi a considerarli pazienti scomodi. È tuttavia necessario ammettere che la loro posizione in merito alle trasfusioni ematiche ha costituito risorsa di stimolo all’implementazione di programmi di strategie
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Consultabile all’indirizzo: www.nataonline.com.
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Consultabile all’indirizzo: www.centronazionalesangue.it.
European Commission, Building national programmes of Patient Blood Management (PBM) in the EU - A Guide for Health Authorities, Brussels, 2017, 9 ss. 10
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alternative e di riduzione dell’uso di prodotti del sangue come il PBM che ha comportato un radicale mutamento nello standard di cura11 in medicina trasfusionale ed ha consentito di aumentare la sicurezza di tutti i pazienti. Non sono da ritenere verificate le credenze in merito al fatto che i pazienti che rifiutano le trasfusioni non possano ricevere cure di qualità. Sono a questo riguardo presenti in letteratura molti contributi in merito alla possibilità di effettuazione di interventi complessi e cure di gravi patologie senza utilizzo del sangue con risultati del tutto sovrapponibili se non migliori a quelli dei pazienti trasfusi12. Tra questi contributi sono compresi complesse procedure come i trapianti d’organo13 e la chirurgia a cuore aperto14 anche nei bambini e neonati15. Tale accumulo di prove di evidenza a livello internazionale costituisce un nuovo interrogativo e aspetto a livello medico legale, a questo punto non circoscritto ai pazienti che rifiutano la som-
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ministrazione di emocomponenti ma per l’intera popolazione di pazienti, che per certi versi modifica completamente il quadro delle cose. Se prima di questa sentenza l’interrogativo del medico poteva essere legato alle conseguenze dell’esecuzione di una trasfusione ematica contro la volontà del paziente, ora la nuova frontiera della responsabilità professionale è quella legata alla mancata applicazione dei principi del PBM, dovendosi valutare quali possano essere le conseguenze di un qualsiasi evento avverso trasfusionale per chi somministra emotrasfusioni che potevano essere evitabili attraverso l’applicazione corretta e diffusa del programma di PBM per tutti i pazienti.
Spahn, Patient Blood Management: the new standard (2017) 6 Transfusion 1325 ss. 11
Shander et al., What is really dangerous: anaemia or transfusion? (2011) 107(Suppl 1) British Journal of Anaesthesia 41 ss.; Hare, Freedman, David Mazer, Review article: Risks of anemia and related management strategies: can perioperative blood management improve patient safety? (2013) 2 Canadian Journal of Anesthesia 168 ss.; Langhi et al., Guidelines on transfusion of red blood cells: Prognosis of patients who decline blood transfusions Guidelines on transfusion of red blood cells: Prognosis of patients who decline blood transfusions (2018) 4 Hematology, Transfusion and Cell Therapy 377 ss.; Bhaskar et al., Comparison of Outcome in Jehovah’s Witness Patients in Cardiac Surgery: An Australian Experience (2010) 11 Heart, Lung and Circulation 655 ss.; Posluszny e Napolitano, How do we treat life-threatening anemia in a Jehovah’s Witness patient? (2014) 12 Transfusion 3026 ss.; Pattakos et al., Outcome of patients who refuse transfusion after cardiac surgery: a natural experiment with severe blood conservation (2012) 15 Archives of Internal Medicine 1154 ss.;Vaislic et al., Outcomes in cardiac surgery in 500 consecutive Jehovah’s Witness patients: 21 year experience (2012) 95 Journal of Cardiothoracic Surgery. 12
13 Darwish, Liver transplant in Jehovah’s Witnesses patients (2011) 3 Current Opinion in Organ Transplant 326 ss. 14 Guinn et al., Costs and outcomes after cardiac surgery in patients refusing transfusion compared with those who do not: a case-matched study (2015) 12 Transfusion 2791 ss. 15 Alexi Meskishvili et al., Correction of congenital heart defects in Jehovah’s Witness children (2004) 3 The Thoracic and Cardiovascular Surgeon 141 ss.
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