Ottobre- Dicembre 2018
Diritto e pratica clinica 4 RESPONSABILITÀ MEDICA
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ISSN 2532-7607
RESPONSABILITÀ MEDICA
Diritto e pratica clinica IN QUESTO NUMERO Consulenza tecnica preventiva e responsabilità sanitaria, di Francesca Cuomo Ulloa La responsabilità civile del “primario” ospedaliero, di Giampaolo Miotto La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza, di Stefano Corso Trattamenti di sostegno vitale e sedazione palliativa profonda, di Alessandra Pisu Il diritto di lasciarsi morire, di Mario Cardia Segnalazione all’autorità giudiziaria per sospetto maltrattamento su minore, di Anna Aprile e Marianna Russo
Ottobre-Dicembre 2018 Rivista trimestrale diretta da Roberto Pucella
Pacini
INDICE Saggi e pareri Francesca Cuomo Ulloa, Consulenza tecnica preventiva tra conciliazione e accertamento della responsabilità sanitaria........................................................................................................pag. 355 Massimo Foglia, Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura......................................................................................................................» 373 Daniela Infantino, Alcune considerazioni in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento....» 381 Giampaolo Miotto, La responsabilità civile del “primario” ospedaliero...........................................» 389 Italo Partenza, Il cumulo di indennizzo e risarcimento e la compensatio lucri cum damno.......» 401 Stefano Corso, La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza...................................» 411
Giurisprudenza Cass. civ., III sez., (ord. ) 22 agosto 2018, n. 20885, con nota di commento di Luca Russo, La tutela del diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute. Le condizioni poste dalla Cassazione......................................................................................................................» Rebecca Girani, Uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità penale del sanitario a quasi un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite..............................................»
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Dialogo medici-giuristi Alessandra Pisu, Interruzione di trattamenti di sostegno vitale e sedazione palliativa profonda prima e dopo la legge n. 219/2017. L’esperienza della Sardegna...................................» Mario Cardia, Il diritto di lasciarsi morire: l’ultima frontiera del consenso informato, nella malattia e oltre..................................................................................................................................»
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Osservatorio medico-legale Anna Aprile, Marianna Russo, Segnalazione all’autorità giudiziaria per sospetto maltrattamento su minore e richiesta di risarcimento dei genitori al medico refertante.............» Fabio Cembrani, Qualità documentale, peculiarità del metodo ed unitarietà delle scienze medico-legali.....................................................................................................................................»
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Osservatorio normativo e internazionale Nicola Brutti, Intelligenza artificiale e responsabilità in ambito medico: la prospettiva statunitense........................................................................................................................................»
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Indice analitico 2018.........................................................................................................................» I Indice per autori 2018.......................................................................................................................» VII
Saggi e pareri
Saggi e pareri
Consulenza tecnica preventiva tra conciliazione e accertamento della responsabilità sanitaria
g g sa re e a p
Francesca Cuomo Ulloa Avvocato in Genova
Sommario: 1. Obiettivi della riforma e contenimento del contenzioso. – 2. Il funzionamento della consulenza tecnica preventiva: profili problematici e possibili sviluppi applicativi. – 3. Complessità della lite e consulenza preventiva. – 4. Doppio binario e consulenza tecnica preventiva.
Abstract: Nell’articolo l’autrice esamina brevemente il nuovo procedimento (consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione delle controversie) introdotto dall’art. 8 della legge n. 24 del 2017 allo scopo di promuovere la definizione anticipata delle controversie, dedicando particolare attenzione al tema della risoluzione delle controversie complesse che possono coinvolgere oltre alla struttura sanitaria, il medico e le loro compagnie di assicurazione. In this article the author briefly analyzes the new proceeding (preliminary technical expertise for the settlement of the dispute) introduced by art. 8 of Law n. 24/2017 in order to promote the early settlement of medical malpractice disputes, with specific reference to the resolution of complex disputes involving both healthcare facilities and medical professionals as well as their insurance companies.
1. Obiettivi della riforma e contenimento del contenzioso Il contenimento del contenzioso in materia di responsabilità sanitaria è uno degli obiettivi primari della legge Gelli Bianco (l. n. 24 del 2017) che a tal fine ha introdotto diversi istituti sia di natu-
ra sostanziale sia di natura processuale. Il nuovo filtro precontenzioso disciplinato dall’art. 8 si inserisce a pieno titolo tra questi istituti, mirando a favorire la definizione anticipata delle liti tra pazienti, medici e strutture sanitarie attraverso la previsione di un nuovo meccanismo di alternative dispute resolution. L’introduzione di filtri all’accesso non è però una novità in questa materia, posto che già dal 2010 le controversie in materia di responsabilità medica sono sottoposte al preliminare tentativo di mediazione regolato dal d.lgs. n. 28/2010. Quando si era trattato di individuare le materie da sottoporre al tentativo obbligatorio di mediazione la scelta era, infatti, ricaduta tra le altre anche sulla responsabilità medica: scelta che ben poteva giustificarsi in considerazione della crescita esponenziale del contenzioso sanitario e dell’elevata conflittualità dei rapporti tra medici e pazienti, oltre che dell’esigenza di individuare rimedi rispetto alle conseguenze patologiche generate da questi fenomeni1.
Nella relazione al d. lgs. n. 28/2010 si chiariva che, nella scelta delle materie indicate nel comma 1° dell’art. 5 e ss. si erano seguiti principalmente tre criteri: quello del carattere duraturo del rapporto controverso (criterio che aveva indotto ad includere le controversie in materia di diritti reali, condominio, successioni, divisioni e locazioni, affitto d’azienda, patti di famiglia); quello della diffusione di massa del contenzioso, in forza del quale si erano incluse le controversie in
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La dottrina, tuttavia, aveva fin da subito manifestato le sue perplessità rispetto alla inclusione di questa, così come di alcune delle altre materie prescelte2, all’interno del catalogo contenuto nel primo comma dell’art. 5 del d. lgs. n. 28 del 2010. Il ruolo centrale giocato dalle assicurazioni, in assenza di seri incentivi economici alla definizione anticipata delle liti; il frequente coinvolgimento di strutture pubbliche, in mancanza di norme capaci di esonerare da responsabilità erariale i funzionari coinvolti nei procedimenti, ma anche la centrali-
materia bancaria, assicurativa e finanziaria ed aggiunte anche le controversie relative al risarcimento del danno da circolazione dei veicoli (che verranno poi espunte nel 2013, per essere successivamente sottoposte alla condizione di procedibilità della negoziazione assistita) ed infine quello della elevata conflittualità del rapporto (criterio che, sovrapponendosi a quelli precedenti aveva suggerito di inserire nell’elenco anche le controversie relative al risarcimento dei danni da responsabilità medica, oltre che quelle derivanti da diffamazione a mezzo stampa): v. sulla genesi della norma Dalfino, Mediazione civile e commerciale, Bologna, 2016, spec. 91 ss.; sia consentito il rinvio anche a Cuomo Ulloa, La mediazione nel processo civile riformato, Bologna, 2011, 100 ss. In generale, la dottrina ha espresso giudizi piuttosto critici rispetto ai criteri seguiti dal legislatore osservando ad esempio come nei casi di conflittualità particolarmente elevata possa risultare più fruttuoso (rispetto alla mediazione obbligatoria) un intervento giudiziale rapido che, con una decisione definitiva, interrompa velocemente l’escalation conflittuale: v. Finocchiaro, Scatta dal 20 marzo la prima informativa al cliente, in Guida al dir., 2010, 62, che d’altro canto segnala come rispetto al contenzioso di massa o seriale potrebbe risultare preferibile l’introduzione di meccanismi di aggregazione processuale (come le class action) capaci, più della mediazione, di tutelare le posizioni soggettive coinvolte; v. anche Caponi, La riuscita della legge per ridurre il contenzioso passa per un’adeguata formazione degli operatori, in Guida al dir., 2010, 12, 48. Come tutte le elencazioni normative, anche quella in esame si esponeva e si espone al rischio di sotto e sovra inclusività, ricomprendendo controversie tra loro eterogenee (cfr. sul punto: Dittrich, Il procedimento di mediazione nel d.lgs. n. 28 del 4 marzo 2010, in www.judicium.it, 11; Romano, in Castagnola, Delfini, (a cura di), La mediazione nelle controversie commerciali, Padova, 2010, 71): tra le materie indicate nell’art. 5, comma 1° rientravano e rientrano, infatti, tipologie di controversie che possono prestarsi a buone mediazioni, ma anche controversie che presentano caratteristiche difficilmente conciliabili con la logica della mediazione e rispetto alle quali l’imposizione a priori della mediazione rischia di tradursi (e spesso si è tradotta) in una inutile se non addirittura dannosa formalità. 2
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tà che – in queste controversie – è destinato ad assumere l’accertamento tecnico erano stati individuati fin da subito come concause del presumibile fallimento cui sarebbe andata incontro la nuova mediazione in ambito sanitario3: con una valutazione prognostica che ha trovato sostanziale conferma nell’esperienza della prima fase di applicazione del procedimento di mediazione ed è stata poi convalidata nel nuovo contesto della mediazione riformata, dopo che la Corte Costituzionale aveva travolto l’obbligatorietà ed il legislatore del 2013 l’aveva reintrodotta, riformandola parzialmente e riproducendo nel nuovo comma 1° bis dell’art. 5, il catalogo delle materie già contemplato dal comma 1°4. Le modifiche apportate alla disciplina della mediazione con la riforma del 2013 (che avrebbero dovuto quanto meno favorire la partecipazione da parte degli enti e dei professionisti convenuti oltre che delle loro assicurazioni) non sono, infatti, riuscite ad invertire il trend deludente della mediazione sanitaria, né ad incidere sull’atteggiamento di rifiuto dei convenuti in mediazione, come confermano le statistiche ministeriali dalle quali risulta, per questo settore, non solo una percentuale di diserzione del primo incontro superiore alla media, ma anche una percentuale significativamente inferiore alla media degli accordi raggiunti. Il nuovo procedimento di adr che l’art. 8 affianca – ponendolo in alternativa5 – alla mediazione
Per più ampie considerazioni al riguardo si rinvia a: Pagni, Dal tentativo obbligatorio di conciliazione al ricorso ex art. 702 bis c.p.c., in Gelli, Hazan, Zorzit, (a cura di), La nuova responsabilità sanitaria e la sua assicurazione. Commento sistematico alla legge 8 marzo 2017, n. 24 (cd. Legge Gelli), Milano, 2017, 439 ss.; Cuomo Ulloa, La nuova mediazione, Bologna, 2013, 148. 3
Per precisione è opportuno ricordare che con la riforma del 2013 il riferimento inizialmente limitato alla materia della responsabilità medica è stato esteso anche alla responsabilità sanitaria, così risolvendo l’iniziale incertezza circa l’inclusione nell’elenco delle controversie soggette al tentativo obbligatorio di mediazione, anche di quelle tra paziente e struttura sanitaria.
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L’art. 8 fa, infatti, espressamente salva in alternativa la disciplina della mediazione obbligatoria disciplinata dall’art. 5 comma 1° bis del d.lgs. n. 28/2010 lasciando al danneggiato la scelta se soddisfare la condizione di procedibilità median-
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obbligatoria dovrebbe almeno in parte correggere la rotta, offrendo alle parti un meccanismo conciliativo più adeguato alle caratteristiche di questo tipo di contenzioso6. L’art. 8 prevede, infatti, che, ferma la possibilità di ricorrere in alternativa alla mediazione, chi intenda promuovere una domanda di risarcimento del danno da responsabilità sanitaria debba preliminarmente avviare il procedimento di consulenza tecnica preventiva finalizzato alla conciliazione delle controversie già disciplinato dall’art. 696 bis, c.p.c.7, chiedendo
al giudice competente la nomina di un consulente tecnico affinché questi esegua gli accertamenti richiesti e tenti la conciliazione delle parti. Coniugando le finalità conciliative con quelle istruttorie tipiche della consulenza tecnica8, questo meccanismo dovrebbe dunque porre rimedio ai difetti genetici della mediazione, promuovendo la definizione anticipata delle controversie sanitarie attraverso il conferimento ai consulenti tecnici del duplice compito di anticipare l’accertamento tecnico e di tentare la conciliazione delle parti9.
te quel procedimento ovvero mediante il nuovo procedimento di consulenza preventiva disciplinato dall’art. 8 (sul punto, oltre agli autori citati infra nota 6, v. spec. Pagni, Dal tentativo obbligatorio di conciliazione, cit., 440; Carratta, Le più recenti riforme del processo civile, Torino, 2017, 95 ss.; v. anche Cuomo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie in materia di responsabilità sanitaria: le novità della legge Gelli (parte I e II), in Resp. civ. e prev., 2018, 297 ss., e 654 ss.) Resta invece escluso il ricorso all’istituto della negoziazione assistita che pur potendo essere utilizzato su base volontaria non potrà tuttavia soddisfare la condizione di procedibilità: cfr. Trisorio Liuzzi, La riforma della responsabilità professionale sanitaria. I profili processuali, in Giusto proc. civ., 2017, 649 ss., spec. 657 e Ansanelli, Struttura e funzione della consulenza tecnica preventiva in materia medico-sanitaria, in Il giusto processo civile, 2018, 166; v. anche Bove, Il tentativo obbligatorio di conciliazione nella responsabilità medica, in www.cortedicassazione.it.
piche della consulenza tecnica e finalità conciliative proprie dei meccanismi stragiudiziali di adr (v. tra i molti contributi spec. Bonatti, Un moderno dottor Jekyll: la consulenza tecnica conciliativa, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2007, 247; Tedoldi, La consulenza preventiva ex art. 696 bis c.p.c., in Riv. dir. proc., 2010, 806; Ansanelli, Esperti e risoluzione anticipata delle controversie civili nei nuovi artt.696 e 696 bis c.p.c., in Riv. trim. dir. proc. civ., 2006, 1245; Montanari, Brevi note sulla natura giuridica della consulenza tecnica preventiva in funzione di composizione della lite (art. 696 bis cod. proc. civ.) e sulle relative conseguenze d’ordine applicativo, in Giusto proc. civ., 2012, 705 ss; Nardo, La consulenza tecnica preventiva ex art. 696 bis cod. proc. civ. tra conciliazione della lite ed anticipazione della prova, in Studi in onore di Carmine Punzi, III, Torino, 2008, 340 ss.; v. anche Cuomo Ulloa, Consulenza tecnica ai fini della composizione della lite, in Digesto IV ed., Disc. priv., sez. civ., Agg.***, Torino, 2007, 273; Pezzani, Gli effetti processuali e sostanziali della domanda di consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite, in Riv. dir. proc., 2013, 45.
Tra i primi commenti dedicati al nuovo istituto, si possono in particolare segnalare, oltre a quelli citati nella nota precedente, quelli di Consolo, Bertollini, Buonafede, Il “tentativo obbligatorio di conciliazione” nelle forme di cui all’art. 696 bis c.p.c. e il successivo favor per il rito semplificato, in Corr. giur., 2017, 762 ss.; Zumpano, Profili processuali della nuova legge sul rischio clinico, in Nuove leggi civ. comm., 2017, 480 ss.; Donzelli, Profili processuali della nuova responsabilità sanitaria, in Riv. dir. proc., 2017, 1195 ss. 6
Come noto, l’art. 696 bis c.p.c. è stato introdotto nel codice di rito dall’art. 2, comma 3°, lett. e-bis), n. 6 della l. 14 maggio 2005, n. 80, per disciplinare un procedimento volontario che la parte può promuovere – per ottenere un accertamento preventivo finalizzato anche al tentativo di conciliazione – anche al di fuori delle condizioni di pericolo ed urgenza di cui all’art. 696 c.p.c., ogni qualvolta la controversia riguardi l’accertamento e la relativa determinazione di crediti derivanti dalla mancata o inesatta esecuzione di obbligazioni contrattali o da fatto illecito; si tratta di un istituto che ha riscosso notevole interesse in dottrina (v. in part. anche per considerazioni sulla derivazione comparatistica dell’istituto: Besso, La prova prima del processo, Torino, 2004, 101; Romano, Il nuovo art. 696 bis c.p.c. tra mediation ed anticipazione della prova, in Corr. giur., 2006, 2 ss.) che ne ha evidenziato il carattere ibrido nel quale si fondono finalità istruttorie ti7
Gli esperti nominati in seno al procedimento ex artt. 696 bis c.p.c. e 8 l. n. 24/2017 devono, infatti, svolgere un’attività di istruzione preventiva della controversia i cui risultati confluiranno in una relazione peritale che, in caso di mancato raggiungimento della conciliazione, potrà essere acquisita al successivo processo di merito.
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Dovrebbe trovare applicazione anche nel procedimento in esame l’art. 15 della l. n. 24 del 2017 in forza del quale nei procedimenti civili e nei procedimenti penali aventi ad oggetto la responsabilità sanitaria, l’autorità giudiziaria affida l’espletamento della consulenza tecnica e della perizia a un «medico specializzato in medicina legale e a uno o più specialisti nella disciplina che abbiano specifica e pratica conoscenza di quanto oggetto del procedimento» avendo cura che i soggetti da nominare non siano in posizione di conflitto di interessi nello specifico procedimento o in altri connessi. L’incarico dovrebbe dunque avere sempre natura collegiale; tuttavia dalle prime applicazioni della giurisprudenza (cfr. Trib. Verona 10.5.2018, in Quot. giur., 2018) così come dalle considerazioni della prevalente dottrina [v. spec. Olivieri, Prime impressioni sui profili processuali della responsabilità sanitaria (legge 8 marzo 2017 n. 24), in www.judicium.it, 2017, § 3] emerge un’interpretazione elastica della norma che
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Mentre i rigorosi meccanismi coercitivi che presidiano l’istituto nella sua nuova veste obbligatoria dovrebbero ulteriormente favorire questo risultato10, sollecitando la partecipazione di tutti i protagonisti della lite fin dalle fasi iniziali del procedimento, ben più di quanto hanno potuto e possono fare le deboli sanzioni previste per la mediazione dall’art. 8 del d. lgs. 28/201011. Dal nuovo quadro normativo ci si potrebbe quindi attendere che tutti i soggetti coinvolti in un
non avrebbe inteso limitare la discrezionalità del giudice né imporre la collegialità quale requisito di validità della consulenza; si tratterebbe in altri termini di un’indicazione operativa che il giudice potrebbe anche disattendere ove non ravvisi l’opportunità di un incarico collegiale, potendo eventualmente procedere a nominare più consulenti nel caso di richiesta in tal senso da parte del consulente già nominato o delle parti. L’art. 8, comma 4°, della l. n. 24 del 2017 stabilisce che la partecipazione al procedimento è obbligatoria per tutte le parti, comprese le imprese di assicurazione, aggiungendo poi che «in caso di mancata partecipazione, il giudice, con il provvedimento che definisce il giudizio condanna le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite, indipendentemente dall’esito del giudizio, oltre che ad una pena pecuniaria, determinata equitativamente, in favore della parte che è comparsa alla conciliazione». Sollevano dubbi di costituzionalità rispetto alla nuova previsione: Consolo, Bertollini, Buonafede, Il “tentativo obbligatorio di conciliazione”, cit., 768, secondo cui l’illegittimità si manifesterebbe sia con riferimento alla mancata previsione di «cause di giustificazione» dell’assenza (a differenza di quanto avviene nella disciplina della mediazione che sanziona solo la mancata partecipazione ingiustificata: cfr. da ultimo Trib. Verona, 13.5.2016, consultabile in www.101mediatori.it, secondo cui non sarebbe giustificabile la mancata partecipazione alla mediazione dovuta al convincimento della inutilità della stessa o della assoluta fondatezza delle proprie ragioni; v. anche Trib. Vasto, ord. 17.12.2016, consultabile in www. 101mediatori.it, sia perché la condanna alle spese prescinde dalla soccombenza, sia infine perché la norma non prevede alcun criterio di quantificazione della sanzione pecuniaria ponendosi sotto tale profilo in potenziale contrasto anche con il principio di neutralità della contumacia accolto nel nostro ordinamento processuale; per considerazioni analoghe v. Donzelli, op. cit., 1216. 10
L’ art. 8, comma 4° bis, d.lgs. n. 28/2010 prevede – quale sanzione per la parte che senza giustificato motivo (v. nota prec.; v. anche infra nt. 32) non abbia partecipato alla mediazione – la condanna al pagamento, in favore dello Stato (e non in favore della parte che ha partecipato, come stabilisce invece l’art. 8 della l. 24) di una somma pari al contributo unificato dovuto, oltre alla possibilità che il giudice desuma da tale comportamento argomenti di prova ex art. 116 c.p.c. 11
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contenzioso di natura sanitaria, partecipando necessariamente al procedimento regolato dagli artt. 8 l. 24/2017 e 696 bis c.p.c. e potendo conoscere anticipatamente l’esito delle indagini tecniche, aderiscano più convintamente anche al tentativo di conciliazione, essendo altresì consapevoli che – nel caso di mancato accordo – la relazione nella quale verranno tradotte le conclusioni del consulente tecnico verrà acquisita nel successivo giudizio per essere utilizzata dal giudice ai fini della decisione12. In questo contesto spiccatamente valutativo i margini negoziali entro cui si svolgerà la trattativa dovrebbero allora dipendere essenzialmente dalle previsioni che ciascuna parte potrà formulare in ordine alla possibilità che gli esiti dell’indagine preventiva vengano confermati, sovvertiti o anche solo modificati nel successivo giudizio di merito, oltre che dal peso che, nella decisione della controversia, potrebbero assumere elementi di fatto o di diritto ulteriori rispetto alle questioni oggetto dell’accertamento tecnico eseguito in via preventiva. Potendosi considerare non un semplice auspicio, ma una ragionevole previsione, il fatto che, nella maggior parte dei casi, le parti si adegueranno all’indagine del consulente e ne recepiranno le conclusioni in un accordo conciliativo che consenta loro di risparmiare tempi e costi del giudizio di merito.
2. Il funzionamento della consulenza tecnica preventiva: profili problematici e possibili sviluppi applicativi La prima esperienza applicativa parrebbe tuttavia consegnarci un quadro a tinte meno brillanti, mettendo in luce alcune incongruenze che potrebbero
12 V. Corea, I profili processuali della nuova legge sulla responsabilità medica, in www.judicium.it, secondo cui « una volta ricostruiti i fatti dal c.t.u., il quale avrà anche accertato le responsabilità e quantificato i danni (ferma restando ogni valutazione da parte del giudice), le parti avranno ben chiare le chances di successo della causa e saranno indotte a conciliare», fermo restando altresì che qualora «gli esiti del futuro contenzioso rimangono aperti, la macchina della giustizia non si sarà mossa invano potendo essere acquisiti agli atti del giudizio le risultanze della consulenza tecnica».
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limitare l’efficacia del nuovo procedimento. Una prima questione riguarda i costi: nelle prime pronunce viene, infatti, riproposto per il procedimento regolato dall’art. 8 il principio – già applicato dalla prevalente giurisprudenza con riferimento all’art. 696 bis13, c.p.c. – secondo cui le spese della consulenza tecnica preventiva (comprensive di oneri di difesa, di consulenza tecnica d’ufficio e di consulenza di parte) andrebbero poste a carico della sola parte richiedente, salva la possibilità di una loro diversa distribuzione all’esito del successivo giudizio di merito sulla scorta del principio generale della soccombenza (evidentemente non applicabile nella fase preventiva)14. Al fine di soddisfare la condizione di procedibilità il danneggiato dovrà dunque anticipare integralmente le spese del procedimento dovendo poi (in difetto di conciliazione in seno alla quale potrebbero essere raggiunte intese anche al riguardo) attendere l’esito del giudizio per poter ottenere una rifusione delle spese sostenute, in virtù e nei limiti di quanto stabilito dall’art. 91, c.p.c. Questa conseguenza applicativa, se per un verso può far apprezzare (anche sul piano costituzionale) la scelta, che altri invece hanno sotto altri profili contestato15, di mantenere l’alternatività della
13 Trib. Taranto, 31.3.2016, in Pluris, 2016, per cui in le spese della procedura di accertamento tecnico preventivo ex art. 696 bis c.p.c., vanno disciplinate quali spese legali e, pertanto, vanno ripartite sulla base del principio di soccombenza al termine del giudizio di merito e non vanno invece considerate quale risarcimento del danno; v. anche Trib. Milano, 30.6.2011, in Giur. it. 2012, 5, con nota di Corrado.
V. Trib. Alessandria, 26.4.2017 in Pluris, secondo cui «Le spese dell’accertamento tecnico preventivo “ante causam” vanno poste, a conclusione della procedura, a carico della parte richiedente e vanno prese in considerazione nel successivo giudizio di merito (ove l’accertamento stesso venga acquisito) come spese giudiziali, da porre, salva l’ipotesi di possibile compensazione totale o parziale, a carico del soccombente e da liquidare in un unico contesto», v. anche Trib. Verona, 10.5.2018, cit. 14
V. Ansanelli, Funzionamento della consulenza tecnica preventiva nelle controversie in materia medico-sanitaria in Aa.V.v. Il contenzioso sulla nuova responsabilità sanitaria, Torino, 1018, 64 che critica, come altri, la facoltà lasciata in via esclusiva al danneggiato, di scegliere tra i due procedimenti, facoltà che a suo avviso rischierebbe di svuotare di effettività una delle scelte di fondo del legislatore della 15
(meno onerosa e per ciò stesso più accessibile) mediazione e dare anche ragione del perché non pochi16 «danneggiati» continuano ad utilizzare17 questo istituto per soddisfare la condizione di procedibilità18, per altro verso sollecita una riflessio-
riforma; condividono questa critica anche Zumpano, Profili processuali, cit., spec. 435; v. Consolo, Bertollini, Buonafede, op. cit., 768 ss. 16 L’esame dei dati statistici relativi al 2017 e al 2018, pur mostrando una riduzione nei depositi delle istanze di mediazione in materia di responsabilità sanitaria, rivela anche l’esistenza di uno zoccolo duro di litiganti che, esercitando la scelta loro riservata dall’art. 8 della l. n. 24, optano per la mediazione: le statistiche aggiornate possono essere consultate sul sito del Ministero della Giustizia: www.giustizia.it.
In effetti le considerazioni che potrebbero indurre a privilegiare l’uno o l’altro strumento sono varie, potendo a questo riguardo rivelarsi fondamentale l’attività di orientamento svolta dall’avvocato della parte (sulla funzione di orientamento tra i diversi percorsi di dispute resolution che oggi è chiamato a svolgere l’avvocato, v. le illuminanti considerazioni di Pascuzzi, Il problem solving nelle professioni legali, Bologna, 2017, 32); la natura del conflitto e la qualità del rapporto tra le parti dovrebbero in particolare costituire il primo criterio di scelta, orientando il danneggiato verso la consulenza preventiva nel caso in cui la controversia manifesti un elevato grado di complessità tecnica ed indirizzando invece verso la mediazione quando siano preponderanti gli aspetti relazionali o quando sia marginale la rilevanza delle questioni tecniche, come potrebbe ad esempio accadere nei casi di controversie che riguardino il consenso informato, ma anche nel caso di controversie sul cosiddetto danno da nascita indesiderata, ove si consideri l’importanza che in questi casi assume sul piano probatorio non tanto la prova tecnica del nesso causale quanto quella «a-tecnica» (e necessariamente presuntiva) della volontà di porre termine alla gravidanza (secondo l’impostazione accolta da ultimo anche da Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, in Nuova giur. civ. comm., 2016, 3, 443, con nota di Pizzimenti) nonché, sul piano relazionale, l’esistenza di una relazione di fiducia tra medico e paziente che potrebbe essere meglio valorizzata in sede di mediazione rispetto a quanto potrebbe avvenire dinanzi al c.t.u. 17
A differenza della consulenza tecnica preventiva, infatti, l’avvio della mediazione implica il pagamento delle sole spese di avvio (pari a 40 o 80 euro a seconda del valore della lite) e tanto può essere sufficiente (sotto il profilo economico) a soddisfare la condizione di procedibilità (v. Dalfino, Mediazione e conciliazione, cit., sub art. 8) specie quando le parti convenute in mediazione non compaiono al primo incontro; solo nel caso in cui la mediazione prosegua e dunque solo nel caso in cui le parti convenute aderiscano e tutti si convincano della possibilità di proseguire oltre il primo incontro saranno dovute le spese di mediazione (per importi variabili rispetto al valore della controversia, ma ten18
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ne sui correttivi che potrebbero essere introdotti allo scopo di riequilibrare la disciplina delle spese di questo procedimento e renderla più coerente con le sue finalità conciliative. Porre interamente a carico del ricorrente le spese dell’accertamento tecnico preventivo “obbligatorio” rischia, infatti, non solo di scoraggiare l’accesso a questo procedimento, ma anche di costituire un disincentivo alla chiusura anticipata della lite, sollecitando l’instaurazione del giudizio di merito anche solo allo scopo di recuperare le spese di lite sostenute19.
denzialmente ridotte rispetto ai costi della CTU); mentre solo nel caso in cui tutte le parti siano d’accordo si potrà far luogo ad una consulenza, incaricando un medico legale e/o un esperto i cui compensi (determinati sulla base dei criteri di cui all’art. 8 comma 3° del d. lgs. n. 28/2010) saranno posti a carico di entrambe le parti (su questi profili sia consentito ancora rinviare a Cuomo Ulloa, La nuova mediazione, cit., 274 ss.; sulla possibilità di nominare un consulente esperto in mediazione e sulla individuazione delle regole applicabili v. Arianna, La consulenza in mediazione, in I contratti, 2016, 193). Una sollecitazione in tal senso (anche de iure condendo) proviene dal richiamo all’istituto disciplinato dall’art. 445 bis c.p.c. (inserito con l’art. 38 comma 1°, lett. b, n. 1, del d.l. 6.7.2011, n. 98, conv. con modificazioni dalla l. 15 luglio 2011, n. 151; per un’analisi del quale si rinvia in part. a Battaglia, L’accertamento tecnico preventivo nelle controversie previdenziali e assistenziali connesse allo stato di invalidità, in Riv. dir. proc., 2016, 80; v. anche Cossignani, L’accertamento tecnico preventivo obbligatorio ex art. 445 bis c.p.c., ivi, 2013, 629) che, pur presentando sensibili differenze rispetto al procedimento in esame, ne condivide la finalità conciliativa (oltre che il meccanismo tipicamente anticipatorio delle valutazioni tecniche): quella norma, infatti, prevede espressamente (v. art. 445 bis, comma 5°, c.p.c.) che il giudice, con il decreto che omologa l’accertamento relativo al requisito sanitario, provveda anche sulla liquidazione delle spese in favore della parte vittoriosa e secondo i criteri della soccombenza; mentre nulla dispone per l’ipotesi di contestazione (e dunque di prosecuzione del giudizio a norma dei commi 6° e 7°): nel qual caso la giurisprudenza anche di legittimità parrebbe ferma nel considerare applicabili i principi generali che regolano la materia, e quindi, in primis, l’art. 91 c.p.c. e la regola della soccombenza (cfr. Cass., 10.6.2016, n. 12028; Cass., 8.6. 2015, n. 11781; v. anche Cass., 5.8.2016, n. 16515, in Ced Cassazione, 2016 secondo cui nel procedimento ex art. 445 bis le spese di consulenza tecnica di ufficio non possono gravare sul ricorrente che si trovi nelle condizioni reddituali di cui all’art. 152 disp. att. c.p.c., salvo che la sua pretesa sia manifestamente infondata e temeraria). Sarebbe invece necessaria (de iure condito) una forzatura dell’art. 696 bis (e dell’art. 8 che quella norma testualmente richiama) per ipotizzare – alla luce dell’attuale formulazione normativa – 19
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Un ulteriore problema attiene ai termini stabiliti dalle nuove norme per lo svolgimento del procedimento: la dottrina ha fin da subito evidenziato l’eccessiva brevità del termine semestrale entro cui dovrebbe svolgersi il procedimento, rilevando altresì l’incongruenza della sua natura perentoria. Se interpretata rigorosamente, infatti, la perentorietà parrebbe impedire la proroga del termine, vanificando le attività compiute dopo il suo decorso, ma mettendo a rischio anche l’utilità di quanto compiuto dai consulenti prima della scadenza. Pur evidenziando l’esigenza di contenere i tempi del procedimento per assicurarne l’effettività, si sono pertanto suggeriti condivisibili correttivi, prospettando la posticipazione del dies a quo (che potrebbe coincidere con l’effettivo conferimento dell’incarico, per lo meno in tutti quei casi in cui si verifichino complicazioni nella instaurazione del contraddittorio) ma anche la mitigazione delle conseguenze del decorso del termine, così che fermo il diritto del danneggiato di iniziare il giudizio di merito decorsi 6 mesi dall’avvio del procedimento a prescindere dalla già avvenuta conclusione del procedimento, il consulente potrebbe comunque proseguire le sue attività e così anche promuovere la conciliazione quanto meno fino all’udienza ex art. 702 ter c.p.c. nella quale il giudice – preso atto dello stato di avanzamento delle operazioni peritali – potrebbe assumere i provvedimenti più idonei a garantire la loro prosecuzione e/o l’acquisizione dei risultati. Alcune incongruenze sono emerse poi in relazione ai meccanismi di raccordo che l’art. 8 istituisce tra il procedimento di consulenza preventiva e l’eventuale successivo giudizio di merito.Una prima questione attiene al rilievo della improcedibilità nell’ipotesi in cui il danneggiato abbia promosso il giudizio di merito senza aver prima esaurito il procedimento di consulenza preventiva (né aver
la possibilità che il giudice – affidato l’incarico e formulati i quesiti – fissi comunque un’udienza per l’esame della CTU nella quale (ferma la possibilità di omologare l’eventuale conciliazione raggiuta dalle parti ai sensi dell’art. 696 bis, comma 3°), provvedere anche sulle spese, tenendo conto dell’esito delle indagini ed in applicazione dei principi di cui all’art. 91.
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assolto la condizione mediante il procedimento di mediazione): la norma, infatti, è chiara20 nel riconoscere al giudice il potere di rilevare anche d’ufficio il vizio21 e così pure nell’ammettere la sanatoria della improcedibilità; non altrettanto chiaro
20 Al di là della apprezzabile chiarezza della norma si potrebbe tuttavia dubitare della sua funzionalità oltre che della sua congruenza con i principi che regolano l’istituto della consulenza tecnica: il nuovo meccanismo della improcedibilità impone, infatti, uno stallo del processo ed una ulteriore complicazione per le parti che ben potrebbero essere evitati consentendo semplicemente al giudice di esercitare l’ordinario potere di disporre ex officio la consulenza ed affidando poi al consulente, come sempre è possibile fare, anche il compito di tentare la conciliazione delle parti (salve le eventuali sanzioni in danno delle parti che non partecipino al tentativo). 21 In linea con la configurazione del procedimento in esame come condizione di procedibilità la nuova disposizione prevede che l’improcedibilità debba essere eccepita dalla parte o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza: la previsione replica dunque quella contenuta nell’art. 5, comma 1° bis, del d.lgs. n. 28/2010, potendosi condividere per entrambe le disposizioni l’interpretazione secondo cui, una volta esauriti gli adempimenti della prima udienza, la questione che non sia stata tempestivamente rilevata non possa più essere sollevata né in primo grado, né in grado di appello. Come per la mediazione dispone l’art. 5, comma 1° bis, così per la consulenza preventiva la nuova norma distingue poi a seconda che all’udienza venga rilevato il mancato esperimento o il mancato esaurimento della procedura: nel primo caso, il giudice dovrà fissare un termine per la presentazione davanti a sé dell’istanza di consulenza preventiva; nel secondo caso – essendo la procedura già avviata – il giudice fisserà un termine per l’istanza di completamento: termine che in entrambi i casi è di 15 giorni. La norma invece nulla dispone in ordine alla prosecuzione del procedimento di merito dopo lo svolgimento della consulenza preventiva: una volta completata la consulenza tecnica ed esaurito inutilmente il tentativo di conciliazione, non è dunque chiaro come possa avvenire la prosecuzione: se cioè la parte interessata abbia comunque l’onere di proporre un nuovo ricorso ex art.702 bis, come potrebbe suggerire una lettura rigorosa della norma (Consolo, Bertollini, Buonafede, op. cit., 766) o se, come pare preferibile e come suggerito da altra dottrina (v. Donzelli, op. cit., 1206), si possa ipotizzare una modalità più fluida, affidando al giudice del merito, che abbia rilevato il mancato esperimento o esaurimento del procedimento ex art. 8, il potere di stabilire le modalità di prosecuzione del giudizio a seguito del completamento della procedura, in particolare fissando già con l’ordinanza con cui viene indicato il termine, anche l’udienza per la prosecuzione del processo, nel rispetto del termine perentorio di sei mesi entro il quale dovrebbero completarsi la consulenza preventiva e/o il tentativo di conciliazione.
è invece se, per sanare quel vizio e soddisfare la condizione di procedibilità il danneggiato possa ancora avvalersi di entrambi i procedimenti o se, come parrebbe suggerire la lettera dell’art. 8, lite pendente, la condizione di procedibilità possa essere soddisfatta solo mediante l’instaurazione del procedimento di consulenza preventiva: soluzione questa che, pur giustificabile in ragione della utilità istruttoria che questo sub-procedimento è in grado di fornire anche in caso di fallimento della conciliazione, potrebbe rivelarsi inopportuna o poco efficace nelle ipotesi (magari rare e pur tuttavia possibili) in cui la controversia non presenti aspetti tecnici di particolare difficoltà o nelle quali per la natura della lite e/o la qualità delle parti – l’intervento del mediatore possa risultare più efficace in termini di dispute resolution di quanto possa essere quello del consulente tecnico22; in considerazione di ciò pare dunque preferibile l’opinione di chi ritiene sempre possibile l’opzione della mediazione (sia questa suggerita dal giudice o scelta dalla parte interessata a soddisfare la condizione di procedibilità), potendosi richiamare a sostegno di questa conclusione anche quanto stabilito dall’art. 5, comma 1° bis e comma 2° del d. lgs. 28/2010: norme queste non certo superate, ma espressamente fatte salve dal nuovo art. 8 della l. 24/201723. Qualche incertezza interpretativa si è posta poi anche con riferimento alla disciplina del raccordo tra procedimento di consulenza preventiva e giudizio di merito. Premesso, infatti, che nell’ipotesi in cui le parti raggiungano un accordo all’esito del procedimento ex art. 8, non vi sarà alcun giudizio di merito (né sarà depositata alcuna relazione la cui utilità sarebbe evidentemente superata dalla intervenuta conciliazione) talché il procedimento si potrà esaurire con la sottoscrizione del verbale di conciliazione giudiziale24 o anche senza tale
22
V. supra nt. 17.
V. Pagni, Dal tentativo obbligatorio di conciliazione, cit., passim; v. anche Dalfino, Il processo civile per responsabilità medica: condizioni di procedibilità e riparto dell’onere della prova, in Quest. Giust., 2018, passim. 23
24 Ove la conciliazione riesca, si applicheranno i commi 2° e 3° dell’art. 696 bis c.p.c. Pertanto, si formerà processo ver-
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adempimento mediante la semplice conclusione di un accordo transattivo tra le parti, nel caso in cui la conciliazione non venga raggiunta, sarà invece onere della parte danneggiata iniziare il giudizio di merito. In linea con la finalità anticipatoria assegnata al nuovo istituto il legislatore, sul presupposto della maggiore semplicità (o quanto meno della minore complessità) delle questioni che potrebbero residuare una volta accertati i profili tecnici dirimenti, ha immaginato che, esaurita la fase di consulenza e fallito il tentativo di conciliazione, il giudizio di merito possa svolgersi nelle forme semplificate del procedimento sommario25.
bale al quale il giudice potrà attribuire con decreto efficacia di titolo esecutivo, ai fini dell’espropriazione e dell’esecuzione in forma specifica e per l’iscrizione di ipoteca giudiziale. Inoltre, ai sensi del comma 4°, il processo verbale è esente dall’imposta di registro. 25 Condivisibile è peraltro l’opinione suggerita dalla prevalente dottrina secondo cui il rito sommario sarebbe obbligatorio solo quando il tentativo di conciliazione ha assunto le forme del procedimento ex artt. 8 l. n. 24/17 e 696 bis c.p.c. e non anche quando la parte abbia soddisfatto la condizione di procedibilità promuovendo la mediazione. In generale sul rito sommario e sulla sua progressiva estensione anche nell’ambito della semplificazione dei riti processuali, si vedano senza alcuna pretesa di completezza: Tiscini, Sub artt. 702 bis e segg., in Comoglio, Consolo, Sassani, Vaccarella, Commentario del codice di procedura civile, Milano, 2014, 559 ss.; Martino, Conversione del rito ordinario in sommario e processo semplificato di cognizione, in Riv. dir. proc., 2015, 916; Tedoldi, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, Torino, 2013; Id., Procedimento sommario di cognizione. Artt. 702 bis–702 quater, nel Commentario del codice di procedura civile, Bologna, 2016; Poli, Sulla “simmetria” del giudicato nel procedimento sommario a cognizione piena, in Giusto proc. civ., 2014, 283 ss.; Acierno, Il nuovo procedimento sommario: le prime questioni applicative, in Corr. giur., 2010, 503 ss.; Arieta, Il rito «semplificato» di cognizione, in Studi in onore di Modestino Acone, vol. II, Napoli, 2010, 737 ss.; Balena, Le novità del processo civile (l. 18 giugno 2009 n. 69). Il procedimento sommario di cognizione, in Foro it., 2009, V, 323 ss.; Basilico, Il procedimento sommario di cognizione, in Giusto proc. civ., 2010, 767; Biavati, Appunti sul processo a cognizione semplificata, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2010, 1; Consolo, La legge di riforma 18 giugno 2009, n. 69: altri profili significativi a prima lettura, in Corr. giur., 2009, 882 ss.; Dittrich, Il nuovo procedimento sommario di cognizione, in Riv. dir. proc., 2009, 1582 ss.; Lupoi, Sommario (ma non troppo), in www.judicium.it, par. 7; Sassani, Meanwhile, in a parallel universe..., in www.judicium.it; Tiscini, L’accertamento del fatto nei procedimenti con struttura sommaria, ibidem, passim; Volpino, Il procedimento sommario di cogni-
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Correttamente peraltro, il legislatore (non ha previsto ma) non ha nemmeno escluso la possibilità di conversione del rito che potrebbe aver luogo in tutti i casi in cui, al di là degli accertamenti tecnici già compiuti, si rendano necessarie attività istruttorie ulteriori che non possono esaurirsi nelle forme sommarie dettate dagli artt. 702 bis e ss. c.p.c. Se questa linea di sviluppo è chiara non altrettanto chiare sono però le conseguenze che potrebbero verificarsi sul piano processuale nel caso in cui l’attore, anziché seguire l’indicazione del legislatore, promuova il giudizio nelle forme ordinarie per errore sul rito o perché convinto della maggiore complessità della lite e della conseguente necessità di chiedere supplementi o rinnovazioni della CTU: stando al dato normativo ed in coerenza con i principi che regolano la scelta del rito, l’unica conseguenza plausibile parrebbe comunque la perdita della «anticipazione» degli effetti della domanda già proposta con il ricorso ex art. 696 bis26 c.p.c. e non certo l’ulteriore preclusione alla produzione degli effetti della nuova domanda proposta mediante la notificazione dell’atto di citazione27. Mentre per ciò che attiene
zione, in Nuova giur. civ. comm., 2010, II, 69; Besso, Il nuovo rito ex art. 702 bis c.p.c.: tra sommarietà del procedimento e pienezza della cognizione, in Giur. it., 2010, 723; Carratta, in Mandrioli, Carratta, Come cambia il processo civile, Torino 2009, 158 ss.; Luiso, Il procedimento sommario di cognizione, in Giur.it., 2009, 1568 ss.; Menchini, L’ultima «idea» del legislatore per accelerare i tempi della tutela dichiarativa dei diritti: il processo sommario di cognizione, in Corr. giur., 2009, 1032 ss.; Proto Pisani, La riforma del processo civile: ancora una legge di riforma a costo zero del processo civile, in Foro it., 2009, V, 223. Ritiene che la proposizione del giudizio di merito con atto di citazione, anziché con ricorso ex art.702 bis c.p.c. non determini l’invalida instaurazione del procedimento, potendo al più escludere la salvezza degli effetti della domanda nel caso in cui il deposito dell’atto avvenisse oltre il termine di novanta giorni Donzelli, op. cit., 1213; v. però Carratta, op. cit., 100, secondo cui anche questa mitigata conseguenza sarebbe di dubbia costituzionalità, ove si interpretasse la norma nel senso che l’errore nella scelta delle forme dell’atto introduttivo possa impedire la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda. 26
La medesima questione si pone con riferimento all’altro «paletto» che la norma pone al danneggiato che abbia promosso il procedimento ex art. 696 bis c.p.c. senza che all’esito sia stato trovato un accordo: la salvezza degli effetti della 27
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al successivo svolgimento del giudizio – in assenza di diverse indicazioni – dovrebbero trovare applicazione le regole ordinarie, potendosi riconoscere al giudice il potere (ma non anche il dovere) di convertire il rito ordinario in sommario (anche ai sensi dell’art. 183 bis c.p.c.) nell’ipotesi in cui si convinca che la trattazione della causa possa svolgersi nelle forme sommarie; altrimenti il giudizio potrà regolarmente proseguire nelle forme ordinarie scelte dall’attore, con la concessione dei termini di cui all’art. 183, comma 6°, c.p.c., l’acquisizione della consulenza e l’eventuale completamento dell’attività istruttoria secondo le regole di cui agli artt. 184 e ss.
3. Complessità della lite e consulenza preventiva Al di là di questi profili di incertezza – cui la giurisprudenza potrà dare in tempi brevi soluzioni auspicabilmente univoche – ci sono poi alcuni aspetti della nuova disciplina che meritano una riflessione supplementare anche nella prospettiva del loro coordinamento con le molte novità introdotte dalla legge n. 24 del 2017. Degne di nota mi paiono in particolare le questioni che possono sorgere in conseguenza della eventuale complessità soggettiva della lite. Posto, infatti, che è certamente possibile prospettare un evento di medical malpractice che sia imputabile alla responsabilità del medico e della struttura sanitaria28, in questa sede non mi
soffermerò sugli aspetti di diritto sostanziale cui tale complessità potrebbe dar luogo, limitandomi piuttosto ad affrontare alcuni riflessi processuali ed in particolare alcune ricadute che potrebbero manifestarsi nel procedimento di consulenza preventiva29 e nel tentativo di conciliazione in ragione della partecipazione di una pluralità di parti a vario titolo coinvolte nella controversia30. In effetti, l’art. 8 della l. 24 del 2017 e l’art. 696 bis c.p.c. non forniscono indicazioni in merito alla estensione del contraddittorio, limitandosi a prevedere, con formulazione dai più giudicata imprecisa31, che la partecipazione al procedimento sia
Milano, 2018, 107 ss., nonché Id., Le responsabilità in ambito sanitario, Milano, 2017, spec. cap. III. Il procedimento in esame (ed in alternativa quello di mediazione) è obbligatorio rispetto alla proposizione della domanda risarcitoria, quale che sia il soggetto convenuto in giudizio e il titolo (contrattuale o extracontrattuale) della responsabilità invocato dal danneggiato (v. infra). Non è invece necessario superare alcun “filtro” per le altre azioni in ipotesi proponibili sulla base delle nuove disposizioni ed in particolare rispetto al giudizio di rivalsa promosso dall’impresa di assicurazione contro l’esercente la professione sanitaria in caso di dolo o colpa grave (v. art. 9, comma 1°, l. n. 24/2017): rispetto al giudizio di responsabilità amministrativa, proponibile per dolo o colpa grave, nei confronti dell’esercente la professione sanitaria, da parte del pubblico ministero presso la Corte dei conti in caso di accoglimento della domanda di risarcimento proposta dal danneggiato nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica (v. l’art. 9, comma 5°); e rispetto al giudizio di regresso promosso dal Fondo di garanzia per i danni derivanti da responsabilità sanitaria, nei confronti del responsabile del sinistro (v. art. 14). 29
Su questi profili v. in particolare: Zulberti, La consulenza tecnica preventiva ai fini della composizione della lite in materia di responsabilità sanitaria. Riflessioni a margine dell’art. 8 della l. n. 24/2017, in Riv. arb., 2018, 97 ss., spec. 113; v. anche Olivieri, Prime impressioni, cit. § 4; Corea, op.cit., § 2.1.
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domanda, prodottisi con il deposito del ricorso, parrebbe infatti subordinata, oltre che alla corretta instaurazione del rito sommario anche al rispetto dell’ulteriore termine di 90 giorni decorrente dal (non necessariamente conoscibile) deposito della relazione del CTU (o dalla scadenza del termine semestrale entro cui la c.t.u. avrebbe dovuto concludersi); entro tale termine infatti il giudizio di merito dovrebbe essere iniziato, potendosi anche al riguardo condividere l’opinione di chi ritiene che unica conseguenza dell’eventuale ritardo sia comunque solo la perdita della anticipazione degli effetti originariamente prodotti dal ricorso ex art. 696 bis, salvi gli effetti della nuova domanda proposta con ricorso ex art. 702 bis, c.p.c. 28 Al riguardo si rinvia, anche per ulteriori riferimenti, ai contributi di De Matteis, Il regime binario: dal modello teorico ai risvolti applicativi, in A.a. V.v. Responsabilità sanitaria,
L’imprecisione riguarda anche le conseguenze della eventuale violazione dell’obbligo di partecipazione: fermo quanto si dirà infra in ordine alle sanzioni, non è infatti chiaro se in assenza dei convenuti il procedimento debba immediatamente concludersi, in considerazione della impossibilità di svolgere il tentativo o se, come pare certamente preferibile il giudice possa comunque formulare i quesiti ed il consulente svolgere il suo incarico anche nella contumacia dei convenuti (e pur nella impossibilità di svolgere il tentativo di conciliazione), rimanendo comunque salva la finalità istruttoria del procedimento e l’efficacia della consulenza il cui esito sarebbe opponibile ai convenuti stessi ancorché non 31
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«obbligatoria per tutte le parti32», incluse le compagnie assicurative della struttura sanitaria e/o del medico convenuti. Questa indicazione ovviamente non significa che l’attore sia tenuto ad evocare nel procedimento tutti i soggetti potenzialmente coinvolti dall’episodio di malpractice, dovendosi certamente riconoscere la facoltà del danneggiato di individuare (anche per il procedimento in questione) la parte o le parti da convenire in giudizio sulla base delle proprie insindacabili valutazioni d’opportunità33. Al contempo dovrà però anche
abbiano partecipato alle operazioni peritali: sul punto sia consentito il rinvio a Cuomo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie, cit., II, 656. L’obbligo è ulteriormente presidiato dalla sanzione di cui al comma 3° che – in modo assai più severo rispetto a quanto prevede l’art. 8 del d. lgs. 28 del 2010 per le parti che disertano la mediazione (v. supra note 10 e 11) – stabilisce che il giudice condanni le parti che non hanno partecipato al pagamento delle spese di consulenza e di lite «indipendentemente dall’esito del giudizio», nonché ad una pena pecuniaria da determinarsi equitativamente in favore della parte comparsa alla conciliazione. Giudica tale previsione addirittura lesiva dei principi costituzionali, in quanto tale da mortificare il diritto di azione e difesa, «privando la parte che ha ragione del diritto al rimborso delle spese processuali, senza che vi sia alcun nesso effettivo tra il comportamento sanzionato ed il successivo svolgimento del processo»: Donzelli, op. cit., 1216 secondo cui la norma – così come formulata – potrebbe addirittura favorire la litigiosità (che nelle intenzioni si vorrebbe invece scoraggiare) dal momento che il presunto danneggiato, potrebbe essere indotto a coltivare anche nei successivi gradi di impugnazione e «senza remore» iniziative giudiziali infondate, certo di non doverne sopportare i costi; v. anche per ulteriori considerazioni critiche: Consolo, Bertollini, Buonafede, op. cit., 768, che contestano altresì la mancata previsione di una clausola di salvaguardia che consenta alla parte di sottrarsi a dette conseguenze, dimostrando la sussistenza di cause giustificatrici; per ulteriori considerazioni critiche v. anche Zumpano, op. cit., 440; pur evidenziandone l’eccessiva severità, ritiene la norma comunque costituzionalmente legittima, facendo salva la possibilità di un’interpretazione più mite ad opera del giudice che ritenga giustificabile alla luce delle circostanze complessivamente considerate la mancata partecipazione: Pagni, cit. 32
In estrema sintesi la pretesa del danneggiato potrà rivolgersi nei confronti della struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata anche quando questa, «nell’adempimento della propria obbligazione», si sia avvalsa «dell’opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa», la quale «risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose» (v. art. 7, comma 1°, disposizione questa, che «si applica anche alle prestazioni 33
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riconoscersi la facoltà per le parti convenute di chiamare in giudizio altri interessati, così come l’eventualità che questi ultimi intervengano volontariamente, nel rispetto dei principi dettati dagli artt. 105, 106 e 107 c.p.c.: valendo poi per tutte le parti inizialmente chiamate o successivamente intervenute l’obbligo di partecipare alle operazioni del consulente tecnico e al tentativo di conciliazione. Anche nel procedimento di consulenza preventiva potrà pertanto aversi un litisconsorzio iniziale (tutte le volte in cui il danneggiato avvii il procedimento di consulenza preventiva nei confronti di più soggetti), così come un litisconsorzio successivo che potrebbe in particolare verificarsi quando più strutture o più operatori siano convolti nella causazione dell’evento e quelli, tra loro direttamente convenuti dal danneggiato, intendano estendere la lite nei confronti degli altri o quando in tal senso si determini il danneggiato alla luce delle eccezioni e delle difese svolte dai convenuti (così come nel caso di intervento volontario del terzo cui l’avvio della lite sia stato comunicato ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1334): in tutti i casi l’estensione del contraddittorio sarà non solo ammissibile, ma anche opportuna anche nella
sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell’ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina»: v. art. 7, comma 2°); così come potrà rivolgersi (anche o solo) nei confronti dell’esercente la professione sanitaria di cui ai commi 1° e 2° del cit. art. 7 il quale «risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile» (art. 7, comma 3°), salvo che «abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente» (v. art. 7, comma 3°); per l’azione diretta nei confronti dell’assicurazione v. infra nt. 37. Secondo la prevalente interpretazione il riferimento all’ «atto introduttivo del giudizio» contenuto nell’art. 13 si riferisce anche al ricorso ex art. 696 bis c.p.c. onerando i convenuti di comunicare l’avvio del procedimento al medico al fine di soddisfare la condizione cui la norma stessa subordina l’ammissibilità dell’azione di rivalsa; mentre il riferimento all’«avvio di trattative stragiudiziali» contenuto nella stessa norma dovrebbe comprendere anche la comunicazione dell’istanza di mediazione (nel caso in cui il danneggiato soddisfi la condizione di procedibilità avvalendosi di questo istituto): su questo aspetto v. più ampiamente Donzelli, op. cit., 1198. 34
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prospettiva della eventuale conciliazione e – ancorché non espressamente regolata dall’art. 696 bis né dall’art. 8 della l. 24/2017 – potrà avvenire nel rispetto delle regole generali in materia di partecipazione dei terzi e nelle forme semplificate tipiche dei procedimenti cautelari35. Quanto poi al coinvolgimento delle compagnie di assicurazione deve certamente essere ammessa la chiamata in garanzia da parte del medico e/o della struttura convenuti i quali potranno evocare le proprie compagnie fin dal procedimento di consulenza tecnica preventiva chiedendo che la nomina del consulente e le operazioni peritali, così come il tentativo di conciliazione vengano effettuati anche nel loro contraddittorio36: a questo riguardo occorre anzi ricordare che, per favorire il raggiungimento di accordi, le nuove disposizioni impongono alle assicurazioni, non soltanto di partecipare al procedimento, ma anche di formulare in quella sede un’offerta transattiva o di illustrare le ragioni per le quali non sia possibile farlo, pena la segnalazione della loro omissione all’ISVAP per gli adempimenti di sua competenza. Infine, per l’ipotesi in cui il danneggiato, avvalendosi del nuovo meccanismo dell’azione diretta, intendesse promuovere il giudizio direttamente nei confronti della compagnia di assicurazione del medico e/o della struttura37, l’art. 12 – fer-
Proprio per l’ipotesi di chiamata dei terzi e per il conseguente inevitabile allungamento dei tempi di integrazione del contraddittorio si renderebbe opportuno il differimento del dies a quo per la decorrenza del termine semestrale entro cui il procedimento dovrebbe concludersi, cui si è accennato supra sub par. 2. 35
Nel caso in cui la compagnia non partecipasse al procedimento infatti, sarebbe compromessa non soltanto la finalità conciliativa (non potendo un eventuale accordo – quand’anche potesse essere trovato senza la collaborazione della «tasca capiente della assicurazione» spiegare alcuna efficacia nei confronti della Compagnia che non vi avesse preso parte) ma anche quella istruttoria, posto che nell’eventuale successivo giudizio la consulenza eseguita in sua assenza non le sarebbe opponibile. 36
37 L’art. 12 riconosce al paziente danneggiato la facoltà di agire direttamente nei confronti dell’impresa di assicurazione della struttura, come del sanitario non dipendente (ovvero dei soli sanitari non strutturati di cui all’art. 10, comma 2°), ma solo nei limiti delle somme previste dal contratto assicurativo [cfr. Hazan, L’azione diretta nell’assicurazione ob-
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ma la disciplina appena ricordata in ordine alla partecipazione obbligatoria e all’onere della formulazione delle proposte gravante sulla compagnia – prevede anche il litisconsorzio necessario dell’assicurato che, in tale veste, dovrà dunque necessariamente essere convenuto e a sua volta obbligatoriamente partecipare al procedimento di consulenza preventiva e, nell’ambito di questo, al tentativo di conciliazione38.
bligatoria della rc sanitaria (e il regime delle eccezioni), in Danno e resp. 2017, 317 ss.]; si tratta di una facoltà regolata sulla falsariga di quella di cui all’art. 144 del codice delle assicurazioni per i sinistri derivanti dalla circolazione stradale, a fronte della quale la compagnia non potrà sollevare eccezioni derivanti dal contratto di assicurazione se non nei limiti di quanto disporrà un apposito decreto ministeriale al quale è demandata la disciplina delle polizze e dei loro requisiti minimi e alla cui entrata in vigore è pertanto subordinata la stessa applicazione della norma sull’azione diretta. 38 Come accennato nella nota precedente l’art. 12 subordina la possibilità di esercitare l’azione diretta nei confronti delle compagnie alla entrata in vigore dei decreti attuativi che devono disciplinare i requisiti delle polizze e stabilire i limiti entro i quali le compagnie convenute potranno opporre all’attore le eccezioni derivanti dal contratto. Allo stato dunque il meccanismo in questione non è operativo. Particolarmente degna di nota appare allora una prima pronuncia di merito (si tratta di Trib. di Palermo, 7.12.2017, inedita; v. anche Trib. Verona, 10.5.2018, cit.) che, nell’ambito di un procedimento ex art. 8 della l. 24 ha invece ritenuto che la limitazione posta dall’art. 12 riguardi solo il giudizio di merito, mentre non impedirebbe al danneggiato di chiamare direttamente la Compagnia nel procedimento di consulenza preventiva qui in esame. Ritiene infatti il giudice palermitano – valorizzando il principio di economia processuale e la funzione conciliativa del nuovo istituto, anche a scapito della rigorosa applicazione dei principi in tema di legittimazione – che, ancorché i decreti attuativi non siano ancora stati approvati e non possa dunque ancora essere esercitata l’azione di merito ai sensi dell’art. 12, il coinvolgimento delle compagnia debba considerarsi non solo ammissibile ma anche auspicabile in questa fase preliminare, potendo contribuire al perseguimento degli obbiettivi deflattivi voluti dalla riforma; d’altra parte, sottolinea ancora il giudice investito della questione, allo scopo di giustificare la deviazione dai principi sopra richiamati e consentire al paziente di chiamare la Compagnia pur in assenza di un titolo direttamente azionabile, la norma che, come sopra ricordato, prevede l’obbligo per le assicurazioni di formulare offerte transattive nell’ambito del procedimento ex artt. 8 e 696 bis sarebbe immediatamente applicabile (riguardando il differimento di cui all’art. 12 solo l’azione di merito) mentre la sua efficacia potrebbe essere vanificata qualora si ritenesse che (in attesa dell’approvazione dei decreti attuativi) il coinvolgimento delle assicurazioni
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Ferme queste considerazioni in merito alla partecipazione dei terzi, l’aspetto a mio avviso più delicato riguarda le modalità attraverso le quali nell’ambito del procedimento di consulenza preventiva potrebbero venire in gioco le diverse responsabilità ascrivibili ai soggetti coinvolti nell’illecito sanitario: è noto, infatti, che una delle novità più significative della legge 24 del 2017 consiste proprio nella divaricazione del regime delle responsabilità delle strutture e dei medici, con il definitivo approdo della responsabilità dei secondi nell’alveo della responsabilità extracontrattuale e la conseguente diversificazione delle discipline (ed in particolare dei regimi probatori) applicabili alle domande risarcitorie proposte rispettivamente nei loro confronti e nei confronti delle prime. La volontà di superare la concezione della responsabilità da contatto sulla quale si era fondato il modello unitario della responsabilità elaborato negli anni dalla giurisprudenza39
potesse ottenersi solo a seguito della chiamata in causa da parte degli assicurati. Ad ulteriore conferma delle conclusioni raggiunte il Tribunale di Palermo precisa infine che in difetto di iniziativa da parte del ricorrente, potrà essere il giudice a disporre la chiamata ex art. 107 c.p.c. tenuto conto delle esigenze di economia processuale e del fatto che «l’accertamento tecnico preventivo ai fini conciliativi di cui agli artt. 696 bis ss. c.p.c., essendo un procedimento di giurisdizione contenziosa e non volontaria, è soggetto alla norme di diritto comune sulla partecipazione dei terzi al processo»; la sentenza è interessante anche per la soluzione che essa offre alla ulteriore questione relativa alla necessità o meno della partecipazione al procedimento anche del medico della struttura; sul presupposto che nei confronti di quest’ultimo il paziente potrebbe non avere interesse ad agire nel successivo giudizio di merito, il Tribunale afferma infatti che solo nel giudizio contro la Compagnia di assicurazione del medico libero professionista questi è litisconsorte necessario; mentre il medico che sia dipendente di una struttura non è litisconsorte nel processo che vede coinvolta la Compagnia e la struttura presso cui questi lavora; da tanto consegue che nel procedimento di consulenza preventiva il medico è litisconsorte necessario solo «ogni volta venga in questione una sua responsabilità quale libero professionista e non quale dipendente di una struttura pubblica o privata», dovendo egli comunque partecipare al procedimento ex art. 696 bis c.p.c. quando gli venga notificato un ricorso su iniziativa del paziente-attore. Non è questa ovviamente la sede per ripercorrere l’evoluzione della giurisprudenza che, come noto, per lungo tempo aveva interpretato il rapporto tra struttura e paziente sul39
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dovrebbe, infatti, comportare un ripensamento anche nella distribuzione degli oneri probatori i quali, alla luce della riforma, potrebbero seguire una diversa distribuzione in ragione della individuazione del convenuto (struttura o medico) nei cui confronti sia rivolta la pretesa del paziente40 . Questa divaricazione, tuttavia, mentre risulta agevolmente percorribile nel caso in cui la pretesa sia rivolta unicamente nei confronti del medico o della struttura, potrebbe risultare più problematica nelle ipotesi in cui la pretesa risarcitoria sia indirizzata nei confronti di entrambi. Pur non essendo questa la sede per entrare nel vivo di un dibattito che si preannuncia acceso ed intenso, si possono, infatti, già segnalare le diverse posizioni al riguardo assunte dalla dottrina che all’indomani della riforma ha prospettato sul punto diversi scenari interpretativi. A fronte di coloro che, valorizzando l’unitarietà del fatto dannoso quale fatto comune alla struttura ed al medico, hanno ribadito la necessità di procedere ad un accertamento unitario della responsabilità, salvo poi ipotizzare soluzioni diverse in ordine al criterio di imputazione dell’illecito applicabile41 nell’accertamento
la base dell’applicazione analogica delle norme in materia di contratto di prestazione d’opera intellettuale vigenti nel rapporto medico-paziente, appiattendo poi il regime della responsabilità della struttura su quella del medico e, sulla scorta di quella impostazione, individuando quale presupposto per l’affermazione della responsabilità contrattuale della struttura l’accertamento del comportamento colposo del medico operante presso la stessa. Altrettanto noti sono i passaggi argomentativi che, anticipati dalla giurisprudenza di merito, hanno infine condotto la Cassazione (che tale esito interpretativo ha sancito nella nota sentenza a Sez. un. n. 9556 del 1°.7.2002, in Giust. civ., 2003, 2196) a riconsiderare quel rapporto in termini autonomi dal rapporto paziente – medico e quindi a riqualificarlo come contratto autonomo di spedalità, regolato dalle norme ordinarie sull’inadempimento contrattuale, nell’ambito del quale trova fondamento anche la responsabilità per il fatto del dipendente sulla base dell’art. 1228, c.c. Per una esauriente disamina dell’evoluzione e del possibile approdo della disciplina della distribuzione degli oneri probatori in questo settore, v. da ultimo Dalfino, Il processo, cit., sez. II. 40
E così in particolare, prospettando l’applicabilità del criterio più favorevole alla vittima, si afferma che questa non dovrà rivolgere la propria pretesa nei confronti di ciascun condebitore, dimostrando per ciascuno il criterio di imputazione 41
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Consulenza tecnica preventiva
della fondatezza della pretesa risarcitoria nei confronti dei diversi convenuti; vi è infatti chi, anche allo scopo di valorizzare l’impatto della riforma42, ha invece sostenuto la possibilità di tradurre la diversificazione “sostanziale” delle responsabilità in una divaricazione dei regimi probatori, segnalando l’esigenza di percorrere nell’accertamento della responsabilità della struttura e del medico, due binari paralleli, anche in caso di domanda cumulativamente proposta nei confronti di entrambi: l’uno incentrato sulla responsabilità contrattuale ed impostato sulla base del regime probatorio più rigoroso di cui all’art. 1218 e 1228 c.c.43; l’altro
del suo illecito, ma potrà limitarsi a fornire la prova che un condebitore ha commesso l’illecito per ottenere (sulla base del regime probatorio ad esso applicabile) una pronuncia di condanna eseguibile nei confronti di ognuno dei condebitori solidali (così Franzoni, Colpa e linee guida nella nuova legge, in Danno e resp., 2017, 271 ss., spec. 273; v. anche Id., Dalla colpa grave alla responsabilità professionale, 3 ed., Torino, 2017, 295): il che significa dunque che di norma, non occorrerà alla vittima dimostrare la negligenza del medico secondo il modello dell’art. 2043 c.c. ma sarà sufficiente soddisfare i criteri di cui all’art. 1218, c.c. per dimostrare l’inadempimento della struttura ed ottenere una sentenza spendibile anche nei confronti del medico condebitore solidale (ferma restando la rilevanza del singolo apporto sul piano causale o soggettivo, in sede di regresso). Partendo dal medesimo presupposto della unitarietà del fatto dannoso, può pervenire a risultati sostanzialmente opposti se si ritiene che ai fini dell’accoglimento della domanda risarcitoria debba trovare applicazione il regime più rigoroso, non potendo la struttura rispondere nel caso in cui non venga dimostrato, sulla scorta del regime ex art. 2043 c.c., la responsabilità del medico; di conseguenza graverebbe sull’attore l’onere di provare tutti gli elementi costitutivi del fatto illecito: dolo o colpa del professionista, nesso causale tra il danno lamentato e la condotta, e antigiuridicità del danno, con l’ulteriore conseguenza per cui la mancata dimostrazione della colpa del medico esonera quest’ultimo, e di riflesso, escluderà la responsabilità della struttura che non dovrà subire l’inversione dell’onere probatorio tipico della responsabilità contrattuale. 42
V. spec. De Matteis, Il regime binario, cit., §§ 3 e 4.
Nulla dunque dovrebbe cambiare rispetto al passato nella distribuzione degli oneri probatori nella controversia che vede contrapposto il danneggiato alla struttura, spettando al primo unicamente la prova del contratto e dell’aggravamento della situazione patologica/insorgenza di nuove patologie, e restando invece a carico dell’ente la prova che la prestazione sia stata eseguita in modo diligente e che gli esiti peggiorativi siano determinati da eventi imprevisti e imprevedibili (la prova cioè che l’impossibilità della corretta esecuzione della prestazione non è ad essa imputabile: il che significa 43
costruito invece sulle regole e sui criteri della responsabilità aquiliana, in forza dei quali grava sul paziente danneggiato l’onere di provare oltre al danno, la colpa professionale (intesa peraltro in modo oggettivo) ed il nesso causale tra condotta e danno44. Con la conseguenza per cui, seguendo questi due diversi binari, si potrebbe in ipotesi giungere ad esiti diversi, ogni qualvolta la domanda accolta nei confronti della struttura (in forza della regola codificata nell’art. 1218, c.c.) non venisse accolta (per difetto di prova dei presupposti di cui all’art. 2043, c.c.) nei confronti del medico45, come potrebbe in particolare avvenire in tutti i casi di incidenza della cosiddetta causa ignota il cui rischio è destinato a ricadere sulla struttura (in virtù degli obblighi di protezione scaturenti dal contratto oltre che del concorrente principio della vicinanza della prova46), ma non anche sul
esigere l’accertamento in positivo del fatto che è stato causa dell’impossibilità dell’esatto adempimento e che per ciò stesso esclude il collegamento causale tra il danno e l’attività sanitaria svolta dalla struttura); in questo immutato contesto è quindi destinato a rimanere fermo anche il consolidato orientamento della Supr. Corte che, individuato il fondamento della responsabilità dell’ente nel contratto atipico di spedalità, ne ravvisa la responsabilità per fatto proprio ai sensi dell’art. 1218 ove i danni siano dipesi dalla inadeguatezza della struttura ovvero per fatto altrui, ex art. 1228 c.c. ove tali danni siano dipesi dalla colpa dei sanitari di cui l’ospedale si avvale. Da ultimo, però, v. per un’esame dell’evoluzione giurisprudenziale Pardolesi e Simone, Nesso di causa e responsabilità della struttura: indietro tutta!, in Danno e responsabilità, 1, 2018, 5 e ss. Sul nuovo regime v. comunque più ampiamente, De MatLe responsabilità, cit., spec. 380 ss.; v. anche da ultimo Barbarisi, L’onere della prova nella responsabilità sanitaria, in I contratti, 2018, 217 ove anche con riferimenti alla letteratura più recente sul tema. 44
teis,
45 In effetti si tratta di conseguenza che ben potrebbe trovare giustificazione nella considerazione per cui la struttura, quale soggetto che presiede all’organizzazione di un’attività diretta all’erogazione di servizi alla persona, è in grado non solo di prevenire ma anche di sopportare i costi dei danno correlati a disfunzioni interne; il trasferimento del costo del danno dal soggetto che lo subisce a quello che, in ragione dell’attività svolta, gestisce il rischio del suo accadimento, dovrebbe peraltro incentivare il ricorso a misure e a procedure atte a prevenire il verificarsi dell’accadimento stesso, concorrendo a promuovere quelle politiche gestionali del rischio sanitario volute e perseguite dalla riforma Gelli. 46
Tutta l’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale di cui
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medico; quest’ultimo, infatti, non essendo più chiamato a rispondere dell’inadempimento ad un obbligo di prestazione, risulterebbe responsabile unicamente del danno ingiusto imputabile alla propria condotta negligente/imperita, con l’ulteriore possibilità di configurare obbligazioni risarcitorie solo parzialmente coincidenti, tutte le volte in cui sia possibile isolare – all’interno del danno riconosciuto – quello effettivamente ascrivibile al sanitario47 del quale dovrà rispondere solidalmente anche la struttura e quello di cui invece dovrà rispondere esclusivamente quest’ultima, non essendo la sua causazione imputabile al medico.
4. Doppio binario e consulenza tecnica preventiva Accogliendo quest’ultima interpretazione, che in effetti sembra quella più in linea con la volontà del legislatore del 201748, resta allora da chiedersi se e quali ripercussioni essa sia in grado di produrre nel procedimento di consulenza tecnica preventiva che dovrà precedere il giudizio di merito, anticipando l’accertamento dei profili tecnici di responsabilità in vista della conciliazione ma anche, per il caso di fallimento di questa, in funzione della successiva decisione; al contempo ci si può domandare se e quali ripercussioni possa
si è dato conto anche nelle note precedenti mira ad evitare il rischio che l’incertezza probatoria venga sopportato da chi si trova nella situazione in cui meno agevole è il controllo dei dati e l’accesso alle informazioni. V. ancora De Matteis, Le responsabilità, cit., 380 ss. Nel caso di acquisizione di prove esaustive in ordine alla presenza di profili di colpa nella condotta mantenuta dal sanitario dovrà infatti ritenersi pienamente provata la sussistenza della sua responsabilità sia pure sotto il profilo extracontrattuale.
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Non mi pare invece che rispetto a questa conclusione possano rappresentare un ostacolo insormontabile i principi che governano l’accertamento nei processi litisconsortili ed in particolare quelle della comunicabilità della prova: seguendo il ragionamento esposto nel testo, infatti, non si tratterebbe di accertare diversamente un unico fatto ma di porre alla base delle decisioni in ordine alle pretese indirizzate dalla vittima nei confronti dei potenziali responsabili fatti diversi, ed in particolare di addossare sulla struttura (ai sensi dell’art. 1218 c.c.) anche la responsabilità per cause ignote che non può invece essere addossata al medico, responsabile unicamente del fatto ad esso imputabile. 48
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invece avere l’esperimento di quel procedimento preventivo sul concreto operare degli oneri probatori che le nuove disposizioni hanno posto rispettivamente a carico della struttura, del medico e/o del paziente. Una prima, scontata, osservazione con riferimento ad entrambi i profili attiene alla centralità che la consulenza tecnica assume nelle cause in materia di responsabilità sanitaria nelle quali la prova non può di regola essere data se non con l’ausilio degli accertamenti compiuti dai tecnici cui le parti possono concorrere unicamente mediante il contributo dei propri consulenti di parte49. La necessaria anticipazione della consulenza che attraverso il nuovo meccanismo disegnato dall’art. 8 si vuole realizzare non potrà che ulteriormente rafforzare questa centralità alla quale potrebbe anche concorrere la maggiore autorevolezza del collegio nominato ai sensi dell’art. 15 per lo svolgimento dell’incarico e del tentativo di conciliazione50. Una seconda e connessa osservazione riguarda invece l’oggetto e le modalità attraverso le quali l’accertamento tecnico si forma in questa sede ed incide poi sulle dinamiche conciliative. Se è vero, infatti, che il riferimento all’accertamento contenuto nell’art. 696 bis c.p.c. e, per esso, nell’art. 8 non può riguardare l’accertamento del diritto (che è attività riservata al giudice51) ma solo i pro-
49 Ciò che non esclude, coma già osservato, l’esistenza di controversie che possono prescindere dall’accertamento tecnico per essere decise sulla base degli ordinari mezzi di prova: v. per un’analisi esauriente della rilevanza che possono assumere i diversi mezzi di prova nell’accertamento del danno da responsabilità sanitaria da ultimo Rossetti, Il danno alla salute, Padova, 2017, 346 ss. 50
V. supra nt. 9.
Per una riaffermazione della necessaria distinzione tra questioni di fatto che il consulente deve risolvere tramite le proprie cognizioni tecniche e questioni giuridiche rimesse alla valutazione del giudice nonché per la chiara affermazione dei limiti intrinseci della consulenza che è funzionale alla sola «risoluzione delle questioni di fatto che presuppongono cognizioni di ordine tecnico e non giuridico sicché i consulente tecnici non possono essere incaricati di accertamenti e valutazioni circa la qualificazione giuridica dei fatti e la conformità al diritto di comportamenti…»: v. Cass., 22.1.2016, n. 118, in Ced Cassazione, 2016. 51
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fili tecnici e fattuali che inserendosi nel percorso logico deduttivo potranno condurre, insieme agli altri elementi di fatto e di diritto, alla decisione circa l’esistenza del diritto e la sua quantificazione52; altrettanto vero è però che nelle controversie in materia di responsabilità sanitaria questo confine appare particolarmente labile e sottile: potendosi condividere l’opinione di chi ritiene che la consulenza tecnica costituisca il passaggio nodale di ogni decisione sulla esistenza del danno e sulla sua risarcibilità53.
Fin dall’entrata in vigore dell’art. 696 bis, c.p.c. la dottrina ha rilevato l’improprietà del riferimento ad una attività – quella di accertamento del diritto – che esula dai compiti dell’esperto, tanto se nominato in via ordinaria, quanto se nominato in via preventiva, censurando la norma che, riferendosi espressamente alla attività di accertamento e quantificazione del credito, consentirebbe di demandare al consulente tecnico un’attività di qualificazione e di deduzione giuridica che dovrebbe invece essere riservata al giudice (cfr. Romano, Il nuovo art. 696 bis, cit., 8). In realtà, l’improprietà della formulazione normativa e con essa le conseguenze lamentate dalla dottrina potrebbero ridimensionarsi, inquadrando diversamente il significato del riferimento all’«accertamento» del diritto contenuto nella norma. Tale riferimento, infatti, non deve essere letto come indicazione del tipo di attività che viene affidata al consulente ma, più semplicemente, come criterio utile al fine di delimitare l’ambito di applicazione dell’istituto, il quale può essere utilizzato, se e solo se, la controversia in vista della quale è richiesto, riguarderà l’accertamento o la quantificazione di un credito di natura contrattuale o extracontrattuale (condizione questa che – per definizione – sussiste nelle controversie aventi ad oggetto il risarcimento del danno da responsabilità sanitaria, quale che sia il titolo azionato dal danneggiato). Il riferimento all’accertamento, in altre parole, non riguarderebbe l’oggetto dell’esame tecnico (ciò che si chiede al consulente di valutare), ma il suo scopo, dovendo la consulenza richiesta in via preventiva inserirsi, sul versante tecnico-fattuale, all’interno del percorso logico deduttivo che, nell’eventuale futura controversia, potrà condurre il giudice ad accertare, insieme agli altri elementi di fatto e di diritto, l’esistenza o l’inesistenza del diritto e/o a procedere alla sua quantificazione. Sempre che le parti, a fronte dei risultati dell’esame tecnico, non preferiscano rinunciare alla lite o transigere la controversia. Interpretazione questa che tuttavia non attenua il rischio – pure paventato dalla dottrina: v. Ansanelli, Esperti e risoluzione anticipata delle controversie, cit., 1254 (e ora in Id., Funzionamento, cit. 70 ss.) – di un utilizzo improprio del procedimento il quale potrebbe, se non correttamente impiegato, comportare uno svilimento della funzione giurisdizionale di risoluzione delle controversie. 52
53 È altrettanto noto come, in questo settore, sia destinata ad assumere una connotazione affatto particolare la distinzione
D’altro canto, l’accertamento che, in questi termini, viene demandato al consulente è necessariamente delimitato dal contenuto dei quesiti i quali, a loro volta, sono formulati dal giudice sulla base delle allegazioni delle parti e delle loro richieste istruttorie: ciò significa dunque che – nel procedimento ex artt. 8 l. 24 del 2017 e 696 bis c.p.c. – il consulente dovrà di regola rispondere a quesiti formulati sulla base di una allegazione “primitiva” dei fatti di causa54, dedotti dalle parti prima55
tra consulenza deducente e percipiente, posto che l’indagine del tecnico è destinata a fungere da fonte oggettiva di prova (e dunque a presentare carattere percipiente), tutte le volte in cui, attesa l’innegabilità delle conoscenze tecniche specialistiche necessarie non solo alla comprensione dei fatti, ma alla loro stessa rilevabilità, il giudice debba affidare al consulente non solo l’incarico di valutare i fatti accertati, ma anche quello di accertare i fatti medesimi. Altra e diversa questione cui in questa sede è possibile solo accennare e per la quale sia consentito rinviare anche per ulteriori riferimenti, a Cuomo Ulloa, Risoluzione alternativa delle controversie, cit., 311, attiene al vaglio di ammissibilità che sul ricorso il giudice potrebbe svolgere: stante la natura obbligatoria del procedimento, ritengo che il giudice non possa svolgere un vaglio di rilevanza della consulenza né respingere il ricorso sulla base di una prognosi di inconciliabilità della lite (e così ad esempio rigettare l’istanza nel caso di contestazione dell’an oltre che del quantum da parte dei convenuti), potendosi giustificare un eventuale rigetto del ricorso solo nelle ipotesi in cui difetti un presupposto processuale, oppure l’istanza sia manifestatamente inammisibile oppure ancora il contenuto della stessa sia palesemente abnorme (così Dalfino, Il processo civile, cit., § 9; Ansanelli, Funzionamento, cit., 70; cfr. anche Donzelli, Profili processuali, cit., 1209, secondo cui, in ogni caso «laddove l’istanza ex art. 696-bis c.p.c. sia rigettata in rito senza dar luogo all’accertamento tecnico, la condizione di procedibilità deve intendersi avverata ed il giudizio di merito pienamente procedibile»). 54
55 A questo riguardo si è da più parti evidenziato il rischio di un’eccessiva anticipazione dell’indagine tecnica: il meccanismo ex art. 8 sconta infatti lo stesso difetto che viene imputato in generale al procedimento regolato dall’art. 696 bis c.p.c. costringendo le parti a svolgere la consulenza tecnica in una fase troppo anticipata della lite quando non è stato nemmeno ancora definito il thema decidendum (né evidentemente ed a maggior ragione il thema probandum). In altri termini il giudice nomina il consulente e assegna l’incarico quando le parti non hanno ancora scoperto tutte le loro carte o comunque hanno ancora la possibilità di scoprirne altre, ben potendo modificare le domande, allegare nuove circostanze di fatto, sollevare nuove eccezioni, produrre nuovi documenti e formulare istanze istruttorie nel successivo giudizio di merito. La finalità deflattiva che ha indotto il legislatore ad
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che siano scattate le preclusioni che impediranno loro di ulteriormente modificare le domande56 e le eccezioni, così come di allegare nuovi fatti e di produrre – se rilevanti – nuovi mezzi di prova. In linea di massima dunque si tratterà di un accertamento tecnico certamente utilizzabile dal giudice nel successivo giudizio e tuttavia potenzialmente “rivedibile” sulla scorta di eventuali nuove allegazioni e nuove deduzioni che, in ipotesi di mancata conciliazione, le parti potranno formulare nel giudizio di merito. Una terza considerazione, necessariamente connessa a quelle precedenti, riguarda infine il rapporto tra l’accertamento che si può ottenere mediante la consulenza preventiva (nei limiti sopra indicati) e la conciliazione della controversia. Se è vero, infatti, che gli strumenti conciliativi per loro natura prescindono dall’accertamento per essere rimessi alla libera autodeterminazione delle parti e alla ricerca di un punto di incontro dei contrapposti interessi57, altrettanto vero è però che nel caso di procedimenti valutativi – quale certamente è il nuovo procedimento disciplinato dall’art. 8 – quella ricerca passa attraverso la preventiva
anticipare la CTU rispetto all’inizio del giudizio di merito rischia così di compromettere o quanto meno indebolire l’utilità istruttoria dell’indagine, aumentando la probabilità che – fallita la conciliazione – vengano introdotti nel giudizio di merito ulteriori elementi di fatto e nuovi temi di indagine alla luce dei quali il giudice dovrà disporre onerose integrazioni della consulenza già espletata, se non addirittura una sua integrale rinnovazione. 56 A questo riguardo è peraltro opportuna una precisazione: rispetto all’oggetto del ricorso ex art. 696 bis, c.p.c., infatti, è certamente consentito all’attore modificare la domanda nell’atto introduttivo del giudizio di merito (così come dovrebbe essere consentito ai convenuti di sollevare nuove eccezioni nella memoria di costituzione). La formulazione di nuove domande invece incorrerebbe nell’eccezione di improcedibilità (con la conseguenza che l’attore dovrebbe per queste riproporre il procedimento conciliativo); ferma restando però la loro ammissibilità nel giudizio di merito (nel quale il divieto di nuove domande potrà rilevare solo dopo il deposito degli atti introduttivi).
In questo senso chiaramente Bove, op. cit., secondo cui il procedimento dovrebbe condurre al superamento della lite per mezzo della fissazione autonoma della regola di condotta del rapporto; su questi profili v. in generale Luiso, La conciliazione nel quadro della tutela dei diritti, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2004, 1201.
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valutazione da parte del consulente dei fatti posti a fondamento della domanda risarcitoria e della loro potenziale concludenza ai fini dell’accertamento della responsabilità58. A questo riguardo occorre però anche sottolineare che la nuova norma non impone al consulente tecnico una precisa scansione delle sue attività, limitandosi ad indicare che il tentativo di conciliazione debba essere svolto prima del deposito della relazione; nel silenzio della norma il consulente potrebbe dunque compiere il tentativo anche prima di dare avvio alle indagini tecniche o anche nel corso di queste, così come effettuarlo nella fase finale del procedimento, dopo aver trasmesso alle parti la bozza di relazione ed in attesa delle repliche dei consulenti di parte o anche dopo quel momento, purché prima di procedere al deposito della relazione59. Nella scelta della collocazione del tentativo di conciliazione, così come nella individuazione delle modalità del suo svolgimento60, d’altro canto, il consulente potrà considerare fattori diversi (quali la natura della relazione tra le parti, l’oggetto della controversia e la rilevanza che per la sua definizione assumono le questioni tecniche): e così ad esempio, antici-
È bene tuttavia chiarire che in questo caso le parti non sono vincolate alla valutazione del tecnico – come accade nel caso di perizia contrattuale – ma solo alla sua efficacia persuasiva: ciò significa che per un verso le parti saranno sempre libere di disattendere l’esito della valutazione che il consulente potrà loro dare in ordine ai fatti tecnici e, per altro verso, che lo stesso giudice non ne sarà vincolato, ben potendo in ossequio ai principi generali in materia di consulenza disattendere le conclusioni del tecnico e disporre una nuova CTU. 58
Sulla collocazione del tentativo di conciliazione potrebbero del resto influire valutazioni di tipo diverso: essendo compito del consulente incaricato stabilire, tenuto conto della qualità delle parti e della natura della controversia, così come delle distanze che dividono le posizioni delle parti, quale sia il momento più propizio per tentare la conciliazione. 59
Ancorché la norma non lo preveda espressamente si ritiene opportuna la partecipazione personale delle parti al tentativo di conciliazione, in analogia a quanto l’art. 8 del d. lgs. 28 del 2010 prevede per il procedimento di mediazione (per lo meno secondo l’interpretazione più rigorosa accolta dalla prevalente giurisprudenza di merito a partire dalla nota pronuncia del Trib. Firenze, 19.3.2014, in Ilcaso.it); su questi profili v. Pagni, Dal tentativo di conciliazione, cit. § 3. 60
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pare gli esiti delle sue indagini rispetto al tentativo di conciliazione, qualora ritenga che la conoscenza di quelle informazioni possa favorire il raggiungimento di un accordo, indurre le parti ad assumere atteggiamenti più ragionevoli e convincerle ad abbandonare le posizioni più “inconciliabili”; ovvero posticiparli61, qualora si convinca che la conoscenza dei risultati cui le indagini potrebbero condurre possa invece determinare un irrigidimento di quelle posizioni tale da scoraggiare anziché favorire l’accordo delle parti62. Ferme queste considerazioni (sulle quali è certamente necessaria una riflessione supplementare anche nella prospettiva del potenziamento delle capacità conciliative dei consulenti tecnici che verranno incaricati in seno ai procedimenti ex art. 863) è tuttavia innegabile che – ben più di quanto
61 Secondo Tedoldi, La consulenza., cit., 815, questa sarebbe la modalità principale da seguire anche nel procedimento ex art. 696-bis, ad evitare che gli esiti dell’elaborato possano spostare l’ago della bilancia inducendo o illudendo le parti a far aggio sull’expertise e generando ostacoli all’incontro delle volontà conciliative; v. anche Romano, Il nuovo art. 696 bis c.p.c., cit., 407; e, più in generale con riferimento alle tecniche di mediazione: Nela, Tecniche della mediazione della lite, in Riv. trim. dir. proc. civ., 2003, 1037. 62 La conoscenza degli esiti della CTU potrebbe in particolare irrigidire la posizione della parte che ne è favorita la quale potrebbe essere meno disponibile a ragionare di soluzioni transattive, ma anche quella della parte in ipotesi sfavorita che alla luce dei risultati potrebbe sviluppare atteggiamenti di diffidenza o rifiuto nei confronti del consulente e della sua opera di mediazione. La possibilità di conoscere anticipatamente la valutazione neutrale, del resto, si rivela particolarmente utile nel caso in cui il livello di condivisione delle informazioni tra le parti sia piuttosto basso ed occorra dunque una base informativa comune sulla base della quale avviare e proseguire le trattative; mentre in altre situazioni ciò che impedisce la conciliazione non è (solo) la mancanza di informazioni, ma (soprattutto) l’assenza o la difficoltà di dialogo tra le parti, per favorire il quale è certamente più utile un confronto tra il paziente e l’operatore sanitario che – poste in secondo piano le valutazioni tecniche e giuridiche – consenta al secondo (con l’aiuto esperto di un facilitatore della comunicazione quale dovrebbe essere il conciliatore) di fornire al primo tutte le spiegazioni richieste in ordine all’accaduto.
Significativa al riguardo la previsione inserita nell’art. 15 della l. n. 24/2017 che richiede ai consulenti che partecipano ai collegi per lo svolgimento del procedimento ex art. 696 bis c.p.c. la conoscenza delle tecniche di conciliazione acquisita anche mediante la partecipazione ad appositi percorsi di for63
possa accadere nel caso in cui il danneggiato si avvalga del procedimento di mediazione per soddisfare la condizione di procedibilità – l’indicazione che (in termini più o meno definitivi e precisi) potrà provenire dal consulente in ordine alla sussistenza dei presupposti “tecnico fattuali” della responsabilità dei convenuti (siano questi attinenti alla imperizia, al danno o alla sussistenza del nesso causale) peserà nella ricerca dell’accordo e potrà orientare le parti nella individuazione dei suoi contenuti64, potendo poi a maggior ragione incidere sulla decisione qualora, fallito il tentativo di conciliazione, il danneggiato promuova il giudizio di merito ed il giudice acquisisca la relazione ai sensi dell’art. 696 bis c.p.c. In questo senso si può dunque ipotizzare che l’incidenza del nuovo regime del doppio binario sulla definizione (anche consensuale) delle controversie sarà tanto maggiore quanto più la sua applicazione possa retroagire nel procedimento di consulenza preventiva. A questo riguardo, invero, coloro che per primi hanno indagato i rapporti tra il nuovo procedimento di consulenza preventiva ed il nuovo regime probatorio introdotto dalla legge 24 del 2017 hanno per lo più evidenziato le ripercussioni riduttive che il primo potrebbe spiegare sul secondo, sottolineando come dalla previsione di quel meccanismo dovrebbe discendere “una riduzione della forbice tra giudizi di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale quanto agli oneri probatori posti a carico del paziente”65.
mazione. Ciò a maggior ragione in considerazione della più volte ricordata natura ibrida del procedimento che unisce alla descritta finalità conciliativa anche quella istruttoria: questo aspetto ulteriormente valorizza l’attività di accertamento compiuta dai consulenti tecnici i quali – qualora fallisca la loro missione conciliativa – dovranno depositare la relazione e rispondere ai quesiti in vista non più della conciliazione ma dell’accertamento e della decisione. 64
Così Dalfino, Il processo civile per responsabilità medica, cit., § 20; per la rilevanza che può assumere l’anticipazione della c.t.u. nel ridimensionare l’effetto della qualificazione della responsabilità del medico in termini di responsabilità extracontrattuale v. anche Franzoni, Dalla colpa grave, cit., 296, secondo cui nella dialettica processuale tra medico e paziente non sarebbe decisivo il titolo di responsabilità fatto valere dal secondo poiché «per il suo accertamento non si 65
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Mi pare tuttavia, che – ferma l’innegabile rilevanza della consulenza tecnica nell’accertamento dei presupposti tecnico – fattuali della responsabilità – non si possa in radice escludere la possibilità di valorizzare il nuovo doppio binario anche nel contesto dell’accertamento preventivo, sollecitando i consulenti incaricati nell’ambito di questo procedimento a procedere, ove possibile, ad un “accertamento” distinto dei fatti costitutivi dell’illecito imputabile al medico e di quelli tecnicamente rilevanti ai fini dell’accertamento dell’inadempimento della struttura sanitaria, lasciando poi alle dinamiche negoziali delle parti in sede di conciliazione e poi ovviamente al giudice, in caso di mancato accordo66, il compito di trarre le conseguenze giuridiche e decidere la controversia accogliendo ovvero respingendo nei confronti di tutti o di alcuni la pretesa risarcitoria.
può prescindere dalle allegazioni delle parti e dall’espletamento della consulenza tecnica». La centralità che è destinata ad assumere la conciliazione potrebbe sollecitare anche una riflessione – cui in questa sede è possibile solo accennare – sulle eventuali implicazioni che potrebbero discendere dal regime del doppio binario sul tema della transazione delle obbligazioni solidali. Il tema della transazione delle obbligazioni solidali è infatti troppo articolato per essere affrontato compiutamente in queste brevi note: e tuttavia è quanto meno opportuno sottolineare come la diversa articolazione della solidarietà cui potrebbe pervenirsi sviluppando compiutamente la tesi del cosiddetto doppio binario (cfr. al riguardo De Matteis, Le responsabilità, cit., 388, secondo cui dal sistema a doppio binario potrebbe discendere la possibilità di scorporare i danni imputabili alla condotta del medico – di cui risponderebbe solidalmente anche la struttura – da quelli imputabili solo a quest’ultima, ipotizzando una sorta di solidarietà atipica) potrebbe avere un’incidenza anche sul tema degli effetti della transazione parziale ed in particolare sulla applicazione della regola giurisprudenziale (sancita da Cass., sez. un., 30.12.2011, n. 30147) in forza della quale ove la transazione tra il creditore ed uno dei condebitori abbia avuto ad oggetto solo la quota del condebitore che l’ha stipulata, il residuo debito gravante sugli altri debitori in solido si riduce in misura corrispondente all’importo pagato dal condebitore che ha transatto solo se costui ha versato uno somma pari o inferiore alla quota ideale di debito; se invece il pagamento è stato inferiore alla quota che faceva idealmente capo al condebitore che ha raggiunto l’accordo transattivo, il debito residuo gravante sugli altri coobbligati dovrà essere ridotto in misura pari alla quota di chi ha transatto. Per un’interessante applicazione di quei principi in materia di responsabilità sanitaria, v. anche Cass. 19.12.2016, n. 26113, in Foro. it., 2017, I, 913. 66
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Saggi e pareri
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Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura
g g sa re e a p
Massimo Foglia
Ricercatore nell’Università di Bergamo Sommario: 1. Nel reparto di oncologia. – 2. La medicina narrativa. – 3. Consensualità della relazione di cura. – 4. Il consenso progressivo. – 5. Tempo della comunicazione, tempo di cura.
Abstract: La prospettiva della medicina narrativa è utile al discorso giuridico sul consenso informato perché interviene nella mediazione tra fatto e diritto, aprendolo alla considerazione dell’esperienza, al riconoscimento dei fatti e delle vicende di vita che sono alla base della costruzione della propria identità, anche nell’ottica delle scelte terapeutiche. La metafora dell’acquario chiarisce come la malattia grave provochi un profondo sconvolgimento della persona e del suo universo, sicché la ri-costruzione della soggettività del malato, e così la sua capacità di esprimere un consenso autentico, è subordinata alla capacità del sanitario di far ingresso nel mondo del paziente attraverso le narrazioni. The perspective of narrative medicine is useful to the legal discourse on informed consent because it intervenes in the mediation between fact and law, opening it to the consideration of experience, to the recognition of the facts and the life events that are at the base of the construction of one’s own identity also in view of therapeutic choices. The aquarium metaphor highlights how a serious illness may cause a biographical disruption, and that the reconstruction of the patient’s subjectivity, and thus his capacity to express genuine consent, is subordinated to the physician’s ability to enter into the patient’s world by using narrative competence.
1. Nel reparto di oncologia Ecco, quella è la stanza. Un cartello affisso sulla porta mi avvisa che il suo ospite è in “isolamento protettivo”. Mi lavo bene le mani, e indosso la mascherina. Faccio un respiro profondo: sono pronto a varcare la soglia, ad immergermi, come se entrassi in un acquario. Dentro, ad attendermi nel suo letto, c’è Filippo1, un ragazzo con sindrome di Down di diciassette anni, ricoverato da giorni nel reparto di oncologia. Mi sorride e inizia subito a parlarmi, benché mi veda per la prima volta nella sua vita; forse intuisce il mio sorriso dietro la mascherina. Iniziamo a parlare e a raccontarci, mi fa entrare nel suo mondo, mi racconta e si racconta. Dopo pochi minuti ho la sensazione di nuotare insieme a lui, di muovermi nello stesso universo. I gesti e le parole tra noi scorrono, fluiscono come in una danza che è lui a guidare. Credo davvero che intuisca i miei sorrisi e le espressioni del mio viso nonostante la mascherina, che vorrei tanto strapparmi. Passa più di un’ora. Il tempo della mia visita è finito. Ringrazio Filippo, lo saluto ed esco dalla stanza.
1
Il nome è di fantasia.
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Chiudo la porta alle mie spalle, levo la mascherina e riemergo dall’acquario. Trattengo le gocce sulla pelle, come se fossero emozioni che non vorrei più asciugare. Fuori, nel mondo dei sani, il sole scotta, asciuga tutto e il tempo fa dimenticare in fretta. Non sono più quello di prima. Qualcosa di me è rimasto lì, insieme a Filippo, dentro l’acquario. Questa è l’acqua2.
2. La medicina narrativa «Dottoressa, sorrida: quello che sta morendo sono io»3. Scriveva Susan Sontag che la malattia è il lato notturno della vita: tutti abbiamo una doppia cittadinanza, nel regno dello star bene e in quello dello star male4. La metafora dell’acquario è utile a comprendere lo sconvolgimento che provoca la malattia grave nell’universo della persona malata ed in quello dei suoi cari5. Quando la malattia colpisce la persona si è costretti, almeno per un certo periodo, a riconoscersi cittadini di quell’altro paese. Da quel momento è come osservare dal vetro di un
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acquario la vita che scorre nella sua routinaria normalità6. Entrare in contatto con il malato significa immergersi nell’acquario, fare ingresso nell’universo della malattia, mettersi in ascolto per comprendere le narrazioni dell’altro e incontrare così la sua storia7. È la dinamica del riconoscere e riconoscersi, e dunque del reciproco trasformarsi, che intercorre tra medico e paziente in un percorso che conduce, infine, alla costruzione della propria soggettività8. È aggiungere senso alla consensualità della relazione di cura9: quel consenso alle cure che in definitiva è rappresentazione di un’identità costruita sulle proprie esperienze, e perciò sempre soggetta a costruzioni e de-costruzioni, finché non diviene chiara, a ciascuno, quale immagine di Sé vogliamo trovare riflessa dentro il vetro opaco dell’acquario10.
Parla di soglie nell’interazione medico-paziente, Lizzola, Soglie, fratture, prossimità: l’esperienza della cura nelle terapie intensive, in Bertolini (a cura di), Scelte sulla vita. L’esperienza di cura nei reparti di terapia intensiva, Milano, 2007, 51 ss. 6
Vi è, inoltre, la consapevolezza che certe cose, come la malattia o il mistero della morte e le sue manifestazioni empiriche e biologiche, si possano conoscere soltanto vivendole di persona. Ciò è ancor più vero nell’esperienza della malattia e del dolore: «Il dolore si conosce per esperienza»: così Natoli, L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (1986), Milano, 2010, 7. Sull’importanza del coinvolgimento emotivo per afferrare alcuni fenomeni umani, v. Rosaldo, Il dolore, e la rabbia di un cacciatore di teste (1993), in Id., Cultura e verità. Ricostruire l’analisi sociale, II ed., Roma, 2002, 37 ss. 7
Si allude al famoso discorso di David Foster Wallace per il conferimento delle lauree tenuto al Kenyon College il 21 maggio 2005, e alla storiella d’impianto parabolico da questi raccontata in quell’occasione: «Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di saluto e dice: Salve, ragazzi. Com’è l’acqua? – I due pesci giovani nuotano un altro po’, poi uno guarda l’altro e fa: - Che cavolo è l’acqua?» (Foster Wallace, Questa è l’acqua, Torino, 2009, 143).
2
Tratto da Lonati, L’ultima cosa bella. Dignità e libertà alla fine della vita, Milano, 72.
3
4 Sontag, Malattia come metafora. Il cancro e la sua mitologia, Einaudi, 1979.
In letteratura tale evento è definito efficacemente come “rottura biografica”, v. Bury, Chronic illness as biographical disruption (1982) Sociology of Health & Illness, 4: 167-182: «First, there is the disruption of taken-for-granted assumptions and behaviours; the breaching of commonsense boundaries. […] Second, there are more profound disruptions in explanatory systems normally used by people, such that a fundamental re-thinking of the person’s biography and self-concept is involved. Third, there is the response to disruption involving the mobilisation of resources, in facing an altered situation». 5
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8 Cfr., di recente, Schillaci, Le storie degli altri. Strumenti giuridici del riconoscimento e diritti civili in Europa e negli Stati Uniti, Napoli, 2018.
Per una più ampia trattazione sul tema del consenso alle cure, anche alla luce della recente l. n. 219/2017, sia consentito il rinvio a Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, e alla bibliografia ivi indicata: una ricerca condotta sovrapponendo e intrecciando la fattispecie giuridica (situazione di diritto) con la realtà degli scenari di cura (situazione di fatto) finalizzata a sistematizzare sub specie iuris il rapporto tra il paziente e l’équipe sanitaria, ed a far emergere l’effettiva realtà del fatto con le sue implicazioni umane.
9
10 «Medico palliativista: - Leggo sulla relazione che ha rifiutato la chemio per non perdere i capelli. Come mai? - Paziente: - Dottoressa, l’ho fatta già tre volte e per tre volte ho perso
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Medicina narrativa e relazione di cura
Rivelatrici, in questo senso, sono le parole del giovane neurochirurgo statunitense Paul Kalanithi, allorché nel suo libro “Quando il respiro si fa aria” osserva: «Proteggere la vita – e non semplicemente la vita ma l’identità, e forse non sarebbe esagerato dire l’anima – di altre persone rappresentava una vocazione la cui sacralità era evidente. Mi ero reso conto che prima di operare il cervello di un paziente avrei dovuto capirne la mente: la sua identità, i suoi valori, cosa rendeva la sua vita degna di essere vissuta, e quale devastazione avrebbe reso ragionevole l’accettazione della morte»11. La medicina narrativa (o “Narrative Based Medicine”) è un termine coniato da Rita Charon per sottolineare il ruolo della narrazione, sia essa scritta, verbale o para-verbale, nell’ambito della relazione di cura. Partendo dal presupposto che si cura la persona e non la malattia, la componente narrativa contribuisce a migliorare il rapporto terapeutico e, in definitiva, la cura della persona12. Con le parole della studiosa americana, la medicina narrativa «fortifica la pratica clinica con la competenza narrativa per riconoscere, assorbire, metabolizzare, interpretare ed essere sensibilizzati dalle storie della malattia: aiuta medici, infermieri, operatori sociali e terapisti a migliorare l’efficacia di cura attraverso lo sviluppo della capacità di attenzione, riflessione, rappresentazione e affiliazione con i pazienti e i colleghi»13. Non solo. La medicina narrativa favorisce la conoscenza del malato e della malattia. E l’appren-
dimento raggiunto mediante la narrazione (narrative knowledge) agevola la comprensione del significato delle storie del singolo malato per il tramite di un approccio che si avvale di mezzi cognitivi, simbolici e affettivi. Questo tipo di apprendimento consente una piena e autentica comprensione della specifica situazione che sta vivendo il paziente nel dipanarsi della malattia14. La prospettiva della medicina narrativa è dunque utile al discorso giuridico sul consenso informato perché interviene nella mediazione tra fatto e diritto, disvelando un aspetto fondamentale del problema15: l’acquisizione del consenso informato non consiste soltanto nella raccolta o comunicazione di informazioni, ma pone in capo al sanitario il dovere di creare le condizioni per una relazione: l’aiuto di un uomo a un altro uomo16, che risponde sul piano giuridico al precetto costituzionale di solidarietà sociale di cui all’art. 2 Cost.17; quel contatto umano che l’avanzamento della medicina e l’inevitabile burocratizzazione
Per maggiori informazioni v. Good, Narrare la malattia. Lo sguardo antropologico sul rapporto medico-paziente, Torino, 2006. 14
Sul rilievo della dimensione narrativa come linea guida nell’impostazione e soluzione dei problemi giuridici v., da ultimo, Resta, Raccontare i diritti, in Alpa, Roppo, La vocazione civile del giurista. Saggi dedicati a Stefano Rodotà, Roma-Bari, 2013, 63 ss. 15
P. Laín Entralgo parla di «amicizia terapeutica»: Laín EnAntropologia medica, Cinisello B., 1988, 340. Sul tema della “relazione” v. anche Canguilhem, Sulla medicina. Scritti 1955-1989, Torino, 2007, 31: «Il mio medico è solitamente colui che accetta che io lo istruisca su ciò che solo io posso dirgli, ossia su ciò che il mio corpo annuncia a me stesso con sintomi il cui senso non mi è chiaro. Il mio medico è colui che accetta che io veda in lui un esegeta, prima ancora che accettarlo come riparatore. Ogni definizione della salute che includa il riferimento della vita organica al piacere o al dolore sentiti introduce surrettiziamente il concetto di corpo soggettivo nella definizione di uno stato che il discorso medico crede di poter descrivere alla terza persona» (corsivo dell’A.). Per un utile approfondimento v., più di recente, Trabucchi, L’ammalato e il suo medico: successi e limiti di una relazione, Bologna, 2009; Bobbio, Il malato immaginario, Torino, 2010; Rugarli, Medici a metà. Quel che manca nella relazione di cura, Milano, 2017. 16
tralgo,
i capelli. Adesso ho quattro pelucchi che mi stanno ricrescendo e se mi guardo allo specchio comincio a riconoscere un po’ la mia faccia. Mi dicono di farne un’altra. Per cosa? Per provare a rallentare questa malattia. Sa che cosa c’è? Che preferisco morire con i miei capelli piuttosto che senza…» (racconto-dialogo tra un medico e un’anziana paziente tratto da Lonati, op. cit., 100 s.). Kalanithi, Quando il respiro si fa aria. Un medico, la sua malattia e il vero significato della vita, Milano, 2016, 64.
11
Cfr. Chiodi, Reichlin, Morale della vita. Bioetica in prospettiva filosofica e teologica, 2, Brescia, 2017, 381.
12
Charon, Narrative Medicine. A Model for Empathy, Reflection, Profession, and Trust (2001) JAMA 286(15):18971902. Il malato, attraverso la narrazione, esprime valori, credenze e atteggiamenti che difficilmente possono essere colti con altre metodologie.
13
17
Percorre la genealogia del concetto di “solidarietà”, RoSolidarietà. Un’utopia necessaria, Roma-Bari, 2014.
dotà,
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della pratica medica rischia di spersonalizzare, di inibire, di raffreddare18. Il primo passo del medico con un nuovo paziente dovrebbe essere finalizzato proprio ad instaurare una relazione19: «Gli chiedo di raccontare la storia del suo mal di testa e poi rimango a lungo in silenzio», racconta un medico statunitense che opera in un centro specializzato nella cura delle emicranie. Egli non interrompe il paziente e non commenta, se non per dire: “mi racconti qualcosa di più”: finché «non viene fuori tutta la storia»20. E tuttavia, è noto come nella pratica sanitaria l’acquisizione del consenso alle cure abbia molto a che fare con la compilazione di moduli prestampati21. La registrazione del consenso informato è una formalità inevitabile, e non solo perché richiesta dalla legge. Il punto è che tale attività non può e non deve sostituirsi al processo relazionale di decisione che conduce il paziente ad esprimere la sua volontà in ordine ai trattamenti medici proposti22; un processo non riducibile alla sottoscrizione di un modulo, ma che sovente si articola in “consensi multipli”, in singole autorizzazioni
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di volta in volta accordate dal paziente, un consenso – insomma – progressivo, espressione della vicenda umana dell’interessato costantemente in divenire23.
3. Consensualità della relazione di cura È in questa dimensione che la costruzione della volontà è possibile anche per il soggetto incapace, di colui o colei rimasti senza voce, a condizione che vi sia «un vero e proprio ingresso nella loro esperienza di vita e relazione, anzitutto attraverso l’ascolto di una storia»24, e purché si accetti di spogliarsi completamente del proprio abito mentale e di immergersi nell’acquario. Ciò serve a comprendere il punto di vista dell’altro25, e ad accettarlo per valido, ché «…il medico non può sovrapporre la sua concezione di vita a quella del paziente»26. È quindi evidente come la visuale introspettiva, valorizzando l’idea che un individuo ha di sé stesso, risospinga ad un ruolo preminente l’identità del paziente nella decisione su determinate scelte terapeutiche. Perché quand’anche il paziente non fosse in grado di prender parte al processo decisionale, le scelte operate da terzi devono essere esercitate nel pieno rispetto della sua dignità27.
18 Con riguardo all’incidenza del progresso tecnologico sulla relazione di cura v., da ultimo, D’Avack, Il dominio delle biotecnologie. L’opportunità e i limiti dell’intervento del diritto, Torino, 2018.
Cfr. Curi, Le parole della cura. Medicina e filosofia, Milano, 2017, 57, il quale osserva che il medico assume «l’onere di un servizio che prevede una disponibilità virtualmente illimitata […] il pieno coinvolgimento (emotivo, affettivo e intellettuale) nella condizione di colui del quale si è posto al servizio, anche senza “fare” concretamente nulla …» 19
20 Così Gawande, The Heroism of Incremental Care, The New Yorker, January 23, 2017 (trad. it. Il medico che ti può salvare la vita, in Internazionale, 10 novembre 2017, n. 1230, 43 ss.).
Cfr. Borsellino, Consenso informato. Riconoscimenti di principio e strategie di svuotamento, in Bioetica. Rivista interdisciplinare, 1995, 3, 430 ss.
21
22 È emblematico l’esempio riportato in Quagliariello, Fin, Il consenso informato in ambito medico. Un’indagine antropologica e giuridica, Bologna, 2016, 92, con riguardo al colloquio tra un medico del reparto di oftalmologia pediatrica e la madre di un bambino ricoverato per un problema all’occhio, alla quale viene chiesta la firma del consenso per l’intervento chirurgico previsto per il giorno dopo: «Medico: Questo foglio serve a dimostrare che ci siamo parlati. Ha delle domande? - Madre: (silenzio) - Medico: Ecco, vuol dire che ha capito tutto. Può firmare senza problemi».
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23 Cfr. Barbisan, Legge 219: tormenti, chiarezze, insidie, in BioLaw Journal – Rivista di BioDiritto, n. 1/2018, 14, il quale osserva: «Non è fuori di luogo affermare che la l. n. 219/2017 tratta il tempo non come chronos bensì come kairos: il tempo opportuno – valutato soggettivamente come tale – per decidere, per esprimere la propria identità proiettandola in un tempo nel quale questa dovrebbe massimamente esprimersi, ma il corpo, a causa della malattia, non lo consente del tutto o in parte. Ma ancora il riconoscimento forte del tempo dato alla relazione fra curanti e curati come “tempo di cura”». 24
Schillaci, op. cit., 206.
Ulteriori riflessioni in Cricenti, Il sé e l’altro. Bioetica del diritto civile, Pisa, 2013.
25
26 È quanto si legge in un documento approvato alla Conferenza Internazionale degli Ordini dei Medici citato in Comitato Nazionale per la Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, 20 giugno 1992, 25.
L’idea di dignità è soggettiva. Dà il senso di ciò l’efficace espressione di Indro Montanelli scritta in un editoriale da titolo “Due o tre cose sulla dignità”: «Per dignità intendo anche (e dico anche) l’abilitazione a frequentare da solo la stanza da bagno» (Corriere della Sera, 21 dicembre 2000). Il 27
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Medicina narrativa e relazione di cura
La minore età, una malattia mentale o la stessa malattia fisica (si pensi, per quest’ultima ipotesi, al paziente anziano) possono incidere sulla concreta capacità di decidere delle proprie sorti terapeutiche. Tuttavia gli esperti ritengono che non vi sia una persona completamente inferma di mente; che un frammento di “anima” sia pur sempre recuperabile. Ed è compito del medico, magari con l’ausilio della medicina narrativa, andare alla ricerca di una forma condivisa di dialogo con il paziente, per riuscire ad entrare in relazione con lui; e anche laddove non fosse possibile ottenere da lui un’esplicita indicazione circa la sua volontà terapeutica, c’è spazio per un tentativo di valorizzare la narrazione emersa nella relazione di cura, avvalendosi eventualmente del supporto di psicologi o altre figure professionali in grado di effettuare tale accertamento, allo scopo di coglierne il significato. La narrazione porta a galla quel frammento di anima utile al caregiver o al rappresentante per la pianificazione del percorso terapeutico proposto28. Su tali premesse diviene allora chiaro perché il consenso venga definito «biografico»29 e la salute «identitaria»30. L’esigenza di “documentare” il consenso esplicitamente manifestato dal paziente non deve contrastare con le diverse modalità di accertamento della volontà della persona individuate dal c.d. biodiritto. Nella prospettiva bioetica, dimensione in cui si discute dell’«essere» e non dell’«avere», la volon-
tà può assumere una pluralità di forme diverse31. Essa si può desumere anche da fatti, come da un modo d’essere della persona o persino da un tatuaggio32, e non solo da atti. L’autodeterminazione può, ad esempio, identificarsi nel progetto di vita realizzato e perseguito dalla persona, come accaduto nella nota vicenda di Eluana Englaro, allorché la Corte di Cassazione ha potuto fare esplicito riferimento agli stili di vita come a uno dei criteri da seguire per l’accertamento della volontà presunta della persona in relazione alle scelte riguardanti la fine della vita33.
4. Il consenso progressivo L’idea di una “narrazione” soggettiva ed individuale che avvicina il medico alla storia del paziente implica un consenso che si manifesta in progressione34, seguendo un percorso informativo condotto dai curanti nell’interazione di questi con il malato, la famiglia e le altre persone per lui significative. Nella prospettiva di diritto, il consenso è la condizione continuativa della relazione di cura nella quale avviene l’incontro tra il paziente e l’équipe sanitaria35. La relazione di cura si fonda «sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza,
V. di recente Azzalini, Azione, omissione, astensione: semantica della condotta nell’atto medico e tutela dell’autodeterminazione del paziente, in questa Rivista, 2017, 457 ss. 31
principio-dignità è anche l’elemento guida nella valutazione dell’appropriatezza e del limite delle cure: cfr., sul punto, Forni, Scelte giuste per salute e sanità. L’appropriatezza nelle cure tra doveri di informazione e corretta gestione delle risorse, in questa Rivista, 2017, 471 ss. 28 La l. n. 219/2017 assicura all’incapace, in qualsiasi caso, la garanzia di ascolto e di esercizio delle sue concrete capacità di autodeterminarsi («ha diritto alla valorizzazione delle proprie capacità di comprensione e di decisione», recita l’art. 3, comma 1°).
Ci si interroga se possano assumere rilevanza, ai fini del consenso o del rifiuto alle cure, anche particolari forme espressive della personale volontà terapeutica, come, ad esempio, è accaduto nel caso di un singolare tatuaggio trovato sulla pelle di un paziente settantenne ricoverato in stato di incoscienza presso un ospedale americano. Per ulteriori informazioni v. Foglia, op. cit., 101 ss. 32
Per ulteriori approfondimenti v., di recente, Cacace, Autodeterminazione in salute, Torino, 2017.
33
Usa questa espressione Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2012, 273, per affermare che «è dunque la stessa persona che può decidere la misura dell’accettabilità dell’intervento esterno».
Non esiste un “momento magico” in cui il consenso possa dirsi definitivamente acquisito: così Graziadei, Il consenso informato e i suoi limiti, nel Trattato di bio diritto, diretto da Rodotà e Zatti, I diritti in medicina, a cura Lenti et al., Milano, 2011, 220.
30 Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 69 ss.
35 In questi termini Zatti, La via (crucis) verso un diritto della relazione di cura, in Riv. crit. dir. priv., 2017, 16.
29
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l’autonomia professionale e la responsabilità del medico» (Art. 1, comma 2°, l. n. 219/2017). Il consenso alle cure si può identificare giuridicamente con il concetto di autorizzazione36, e più in generale si riflette nel genus del consenso negoziale, pur differenziandosi nella species37: esso non è un elemento stabile e risente di innumerevoli fattori personali, psicologici, familiari, sociali, culturali e religiosi38. Presupposto della consensualità è l’informazione. La conoscenza è fondamentale per poter assumere qualsiasi decisione. È così anche nelle scelte terapeutiche. Il medico deve apprendere la storia della malattia e del malato, mentre quest’ultimo dev’essere informato del male che lo affligge, delle possibilità di cura, dei rischi di un possibile intervento medico, dei benefici e degli svantaggi di una terapia, anche con riguardo alla qualità di vita. Ma non basta comunicargli l’informazione come se fosse una fase di un processo unidirezionale. Alle volte, il malato, dell’informazione medica non sa che farsene: è confuso e perduto e desidera soltanto affidarsi al curante. In altre occasioni, invece, il paziente vuole sapere che malattia ha, se soffrirà, se potrà ancora curarsi o quanto gli resta da vivere39. Ecco che la competenza del medico entra in gioco nella sua qualità di guida nell’ambito di un processo relazionale di decisione: il c.d. consenso informato. L’informazione e la conoscenza servono a mettere in luce la singolarità del malato e gli aspetti personali, aiutandolo ad elaborare una
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propria idea di salute affinché egli possa prendere decisioni con più consapevolezza40. Eppure ancora oggi persiste l’erronea convinzione che la prestazione si esaurisca con l’atto medico; e che essa vada valutata esclusivamente sulla base della perizia tecnica. Mentre la conoscenza del “corpo” è impossibile senza la conoscenza del “tutto” (metodo ippocratico): il corretto approccio del medico nell’avvicinarsi alla persona del malato deve porsi in primo luogo nell’ottica di capire i desideri, i proponimenti e le necessità di quest’ultima. Oggi è il legislatore a riconoscere che «il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura» (Art. 1, comma 8°, l. n. 219/2017), sicché tale aspetto non può più rimanere al di fuori della riflessione giuridica intorno al consenso alle cure, dato che esso si integra e si salda con la prestazione contrattualmente dovuta dalla struttura sanitaria e/o dal medico41. Non basta però l’intervento del legislatore, né quello del giudice, per garantire l’effettività dei principi sanciti dall’ordinamento, oggi cristallizzati nella l. n. 219/2017. È necessaria un’attività di attuazione senza la quale gli interessi individuali rischiano di rimanere insoddisfatti, e tale elaborazione deve avvenire anche a livello amministrativo attraverso l’organizzazione di servizi pubblici o privati improntanti alla realizzazione dei diritti e interessi del malato42.
V. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, cit., 65. 40
Anche sotto questo profilo si avverte l’esigenza di un ripensamento del rapporto medico-paziente. Cfr. Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, 3 ss. 41
V. Castronovo, Autodeterminazione e diritto privato, in Eur. dir. priv., 2010, 1052 ss.
36
Sottolinea la non sovrapponibilità del consenso alle cure con il consenso dell’atto negoziale di chi stipula, ad esempio, un contratto bancario, Zatti, «Parole tra noi così diverse». Per una ecologia del rapporto terapeutico, in Nuova giur. civ. comm., 2012, II, 148. 37
38 Cfr. Raccomandazioni della SICP: Informazioni e consenso progressivo in cure palliative: un processo evolutivo condiviso (ottobre 2015). 39 Orsi nella sua Introduzione a Miglioli, La notte può attendere. Lettere e storie di speranza nelle stanze della malattia terminale, Milano, 2013, 13-14.
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Per un ampio studio v. N. Vettori, Diritti della persona e amministrazione pubblica. La tutela della salute al tempo delle biotecnologie, Milano, 2017, la quale giustamente osserva a p. 138: «Il medico, se “lasciato solo” nella comunicazione con il malato e i suoi familiari, finisce per essere investito di oneri e responsabilità molto gravosi e che talvolta trascendono la sua specifica professionalità. Il paziente, se tenuto a interagire singolarmente con vari professionisti, corre il rischio di ricevere informazioni incomplete, trasmesse frettolosamente e con modalità inadeguate ad una reale comprensione». L’attuazione di tali misure, specialmente nell’ambito della sanità pubblica, si scontra con le esigenze di “sostenibi-
42
379
Medicina narrativa e relazione di cura
5. Tempo della comunicazione, tempo di cura Un’indagine sul campo restituisce un dato che merita un’attenta riflessione. Nei reclami e nei questionari di customer satisfaction raccolti dall’Urp delle strutture sanitarie emerge una costante: le critiche non riguardano tanto gli aspetti tecnici della professionalità, quanto le carenze nella relazione con chi cura43. La comunicazione e il rapporto che si instaura tra il medico e il paziente sono fattori chiave per il successo della cura, ed è perciò evidente che la preparazione del medico non possa limitarsi all’aspetto tecnico della prestazione sanitaria44. In effetti, ciò che più rileva nell’ambito del rapporto medico-paziente è una capacità di relazionarsi con l’altro che ha poco o nulla di tecnico. È necessario comprendere che cosa abbia realmente importanza45 per il malato e per la sua famiglia nell’esperienza della malattia46. È comprensibile che nella realtà ospedaliera non ci sia “tempo di spiegare tutto a tutti”, ma il problema del consenso, è utile ribadirlo, non è solo questione di quantità delle informazioni trasmesse al paziente. Ciò che conta è anche e soprattutto la qualità del dialogo, ovverosia la maniera in cui il medico comunica e i modi che ha nel relazionarsi con il paziente47.
È richiesta, soprattutto, una capacità comunicativa, indispensabile «per riconoscere la capacità decisionale del paziente, sapere veramente comprenderla, per offrire un’informazione corretta alla quale faccia seguito un consenso convinto»48. Gli esperti la definiscono anche “competenza dialogica”, quella competenza che permette «alla parola e alla relazione di ristrutturare un orizzonte simbolico», che trasforma una cura impersonale in una buona cura49. Nonostante studi antropologici abbiano assegnato alla capacità di relazionarsi il carattere di “competenza culturale”, e non di una capacità tecnica che si può apprendere per mezzo di un training50, una condivisibile soluzione al problema comunicativo resta quella di affidarsi alla formazione e alla selezione del personale medico-sanitario, e
medico-paziente troppo spesso diseguale, sovente dovuto alla scarsa capacità del sanitario, intesa come competenza culturale, di “saper comunicare” con il paziente. Per una testimonianza e una lucida analisi linguistica v. Fontanella, La comunicazione diseguale. Ricordi di ospedale e riflessioni linguistiche, Roma, 2011. Comitato Nazionale per la Bioetica, Informazione e consenso all’atto medico, cit., 14.
48
49
Lizzola, op. cit., 59 ss.
In tal senso, e per un’utile guida sui percorsi comunicativi e sulle tecniche indicati come efficaci in letteratura, v. Moja, Poletti, Comunicazione e performance professionale: metodi e strumenti, II, La comunicazione medico-paziente e tra operatori sanitari (aprile 2016), Ministero della Salute, Direzione Generale della Programmazione Sanitaria, 10 (reperibile nel sito internet del Ministero): «Sino agli anni ’80 dello scorso secolo, era opinione prevalente che lo stile comunicativo del medico nelle consultazioni cliniche fosse, inevitabilmente, individuale e innato o, al meglio, appreso per imitazione dai maestri presso cui il professionista si formava. Negli anni successivi questa prospettiva si è progressivamente modificata sotto la spinta di due importanti aree di ricerca: in primo luogo si è dimostrato che alcuni stili comunicativi attenti al vissuto/prospettiva del paziente sono più efficaci di altri nel determinare risultati clinici quali la soddisfazione dei pazienti al termine delle visite o la loro aderenza ai trattamenti proposti; in secondo luogo si è dimostrato che tali stili comunicativi sono insegnabili e apprendibili con il conseguente inserimento di Corsi di insegnamento dedicati a tali temi in molte Università straniere (l’Italia in questo campo, con l’eccezione dell’Università Statale di Milano, appare in marcato ritardo)». 50
lità”, innanzitutto economico-finanziaria, delle cure erogate e dei livelli qualitativi. Per un approfondimento su quest’ultimo aspetto v. Busatta, La salute sostenibile. La complessa determinazione del diritto ad accedere alle prestazioni sanitarie, Torino, 2018. 43
V. di recente Quagliariello, Fin, op. cit., 63 ss.
Cfr. le Raccomandazioni SIAARTI per l’approccio alla persona morente - Update 2018, 9. 44
Kleinman, What Really Matters. Living a Moral Life Amidst Uncertainty and Danger, Oxford, 2006.
45
46 L’antropologia medica insegna che la capacità di relazionarsi richiede «la volontà di mettere tra parentesi gli stereotipi, porsi in un atteggiamento di disponibilità verso la persona con cui ci si confronta… Si tratta dunque di vedere il paziente come una persona in una condizione di incertezza e non come un “caso clinico”» (così Gusman, Comuni-care: un percorso sulla comunicazione nel passaggio alle cure palliative, in Salute e società, 2015, 3, 162). 47
Va altresì considerato il problema di una comunicazione
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non più all’indole o alla filosofia professionale del singolo professionista51. La capacità di parlare in modo sincero con chi è malato o sta per spegnersi dovrebbe fare parte della medicina moderna così come l’abilità di prescrivere farmaci o svolgere delicati interventi chirurgici. La parola può essere curativa: «il bel discorso» (logos kalòs) è una dote che perfeziona l’attività terapeutica; la parola “guarisce”, acquista il senso di una cura in grado, entro lo spazio di relazione col malato, di restituire dignità e significato all’esperienza della malattia o della morte. La comunicazione non è solo verbale. Anche il silenzio fa parte della comunicazione tra il medico e il paziente. Nell’acquario a volte non c’è spazio per le parole. Il silenzio può rivelarsi anche più importante e benefico della parola52: «… il medico deve anche “saper tacere”. Tacendo dinanzi al malato, ascoltando con attenzione e benevolenza, il medico conosce e cura, perché solo nel silenzio si scopre pienamente il senso delle parole dette e udite e, soprattutto, perché niente dà tanto sollievo a chi parla quanto il regalo di un silenzio comprensivo da parte di chi ascolta»53. Non va poi dimenticato che la comunicazione passa anche attraverso il linguaggio del corpo. Chi opera nello spazio ospedaliero è consapevole di poter influenzare le scelte dei pazienti e dei familiari anche solo attraverso uno sguardo, un sorriso o un’espressione di disagio durante la comunicazione dell’informazione medica54. Gli sguardi spesso ricercati dai pazienti servono a capire cosa
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pensa il personale medico delle loro condizioni di salute o, semplicemente, a cercare un conforto55. Sguardi, invece, che a volte sono negati al paziente. È il caso del medico che riceve il malato nel proprio studio e lo interroga trincerandosi dietro allo schermo di un computer, senza neppure alzare lo sguardo dalla tastiera. Oppure quello dell’infermiera che entra nella stanza del paziente, si rivolge a lui in tono brusco e con fare sbrigativo compie le quotidiane attività igienico-sanitarie, come se questi fosse un infante o peggio. È ancora troppo poca l’attenzione che il mondo della sanità dedica al tema della comunicazione, e specialmente alla formazione degli operatori sanitari con riguardo alla capacità di dialogare con il paziente. Il personale sanitario viene a trovarsi carente di formazione, ancorché sempre maggiore sia la consapevolezza da parte dei dirigenti delle aziende sanitarie della necessità di organizzare corsi gestiti da esperti in psicologia e in comunicazione, al fine di preparare il personale a rapportarsi con i pazienti56. Il rischio è quello di entrare nell’acquario impreparati, incapaci di comprendere il linguaggio del suo ospite, di farci riconoscere come cittadini di un mondo altro e perciò non in grado di capire… che questa è l’acqua.
Cfr. Nardone nella Prefazione a R. Milanese, S. Milanese, Il tocco, il rimedio, la parola. La comunicazione tra paziente e medico come strumento terapeutico, Firenze, 2015: «Numerose, quanto purtroppo poco considerate dalla medicina ufficiale, sono le ricerche che mostrano quanto i risultati a livello di osservanza e aderenza alle terapie siano significativamente migliori quando il medico comunica con il paziente utilizzando anche solo alcuni dei fattori persuasori del linguaggio, per esempio guardandolo negli occhi e mantenendo il contatto oculare durante la prescrizione, scandendo le parole, usando un tono caldo della voce».
55
51 Oggi la l. n. 219/2017 in tema di consenso informato fa della capacità di comunicare con il paziente un aspetto ineludibile della formazione medica: «La formazione iniziale e continua dei medici e degli altri esercenti le professioni sanitarie comprende la formazione in materia di relazione e di comunicazione con il paziente, di terapia del dolore e di cure palliative» (Art. 1, comma 10°). Tra le materie obbligatorie nel percorso di studi di qualsiasi professionista della sanità dovrebbe esserci quella della «logotecnica clinica», e cioè dell’arte di parlare all’infermo. 52 Parla di «terapia del silenzio» e di «silenzio che va oltre le parole», Kübler-Ross, La morte e il morire, Assisi, 2013, 308 s. 53
Laín Entralgo, Il medico e il malato, Caserta, 2007, 157.
54
V. Quagliariello, Fin, op. cit., 71.
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Sono gli stessi medici a denunciarlo: «I medici della mia generazione non hanno ricevuto una formazione specifica alla comunicazione, che, nelle sue diverse forme, è elemento costitutivo della relazione. Siamo stati però educati alla semeiotica medica, che è premessa ineludibile all’avvio del processo diagnostico. Forse da lì dobbiamo ripartire. Quando incontriamo un paziente, alla raccolta anamnestica dovrebbe seguire la visita». Sono le parole di una brava medica palliativista: Lonati, op. cit., 68. 56
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Alcune considerazioni in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento
g g sa re e a p
Daniela Infantino
Professoressa a contratto nell’Università di Trieste Sommario: 1. Introduzione. – 2. Le DAT. – 3. La forma. – 4. Il contenuto. – 5. Segue: la nomina del fiduciario. – 6. Durata e modifica delle DAT. – 7. Segue: la vincolatività. – 8. E in assenza del fiduciario? – 9. Conclusioni.
Abstract: Il contributo affronta il delicato tema delle dichiarazioni anticipate di trattamento (DAT) previste dalla legge n. 219/2017, esaminandone i contenuti, il valore e l’importanza, partendo dal mutato rapporto medico/paziente e dalla centralità della persona nell’essere protagonista delle proprie scelte esistenziali. Si analizzano altresì gli aspetti formali relativi alla redazione delle DAT, ai soggetti coinvolti, delineandone i compiti, nonché alla figura del fiduciario, ivi compresa la eventuale designazione di un amministratore di sostegno. The paper deals with the delicate theme of the advanced treatment directives (ATD) established by the law no. 219/2017. It examines the contents, the value and the importance of the ATD, starting from the changed doctor/patient relationship and the centrality of the person in being the protagonist of his existential choices. The paper also analyzes the formal aspects related to the drafting of the ATD, to the parties involved, outlining the tasks, as well as to the figure of the trustee, including the possible designation of an administrator.
1. Introduzione
buona”1, l’articolo 4 è dedicato, in particolare, alle “Disposizioni anticipate di trattamento”. C’era bisogno nel nostro ordinamento di una normativa che mettesse fine al “forum shopping” e alla disuguaglianza sostanziale che si era verificata, lasciando le decisioni di cui alla legge in oggetto nelle mani della prudenziale valutazione e della esegesi normativa di alcuni giudici tutelari aditi caso per caso. Dal loro canto, gli stessi giudici hanno avvertito, in più di un’occasione, la necessità di riempire il vuoto legislativo2, ed hanno sviluppato uno sforzo ermeneutico per trovare una soluzione che considerasse prioritariamente l’interesse del malato. La legge pone al centro la persona, attraverso la creazione di un diritto mite3: un diritto capace di
Si veda Canestrari, Una buona legge buona (DDL recante “Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento”), in Riv. it. med. leg., 2017, 975 ss.
1
V. in particolare, Cass., 16.10.2007, n. 21748, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 83, con nota di Venchiarutti, ove si legge “Per far fronte ad una attuale carenza di una specifica disciplina legislativa, il valore primario ed assoluto dei diritti coinvolti esige una loro immediata tutela ed impone al giudice una delicata opera di ricostruzione della regola del giudizio nel quadro dei principi costituzionali”. 2
Diritto mite non deve essere confuso con diritto debole. Un diritto ancorché mite produce sempre decisioni definitive. Il mite non contraddice la forza, la usa in modo ragionevole, cercando di armonizzare tra le diverse posizioni, così Zagrebelsky, Solo il diritto protegge la ragione dal risentimen3
Nel corpo della legge 22 dicembre 2017, n. 219, definita da autorevole dottrina “una buona legge
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promuovere una relazione di cura degna di una società e di una medicina gentile4. Vi è dunque un forte coinvolgimento del paziente nelle sue scelte esistenziali in ordine ai trattamenti sanitari da ricevere; trattamenti che, soprattutto in determinate circostanze, sono suscettibili di diventare sempre più invasivi e che talvolta servono solo a prolungare una condizione di vita senza offrire significativi miglioramenti per la salute della persona. Bisogna piuttosto essere padroni delle tecnologie e non prigionieri di esse5. Le DAT si candidano dunque a divenire uno strumento per costruire un nuovo rapporto tra il medico, o meglio tra l’equipe sanitaria, ed il paziente nella elaborazione di una decisione esistenziale. È giusto dare un senso alla qualità della vita del paziente e alla sua libertà di scegliere: decidere quando si è ancora in tempo, evitando che altri decidano per lui6. La relazione di cura ha come obiettivo la salute7 del paziente, la quale si definisce attraverso i suoi aspetti oggettivi e soggettivi che tengono conto della specificità della singola persona, nella sua individualità fisica, psichica, morale, relazionale, di appartenenza e delle sue scelte consapevoli. Le DAT costituiscono una sorta di rafforzamento del consenso informato previsto all’articolo 1 della legge n. 219/2017.
2. Le DAT In cosa consistono le DAT, vale a dire le disposizioni anticipate di trattamento?
Saggi e pareri
Si tratta di disposizioni, non vincolanti, anche se il temine giuridicamente lo farebbe presumere, attraverso le quali un soggetto capace8, acquisite le adeguate informazioni mediche, individua, anticipatamente, i trattamenti sanitari ai quali intenda (o non intenda) sottoporsi, per il tempo in cui non sarà più in grado di farlo9. Si tratta dunque di un negozio giuridico unilaterale, con efficacia differita ad un momento successivo coincidente con la perdita della capacità, non avente contenuto patrimoniale. Il legislatore, correttamente, non ha usato la terminologia “testamento” (pur se prima dell’approvazione della legge era uso utilizzare, anche tra gli addetti ai lavori, le espressioni di testamento biologico, biotestamento o testamento di vita): non si tratta infatti di un atto mortis causa, bensì di una manifestazione di volontà destinata ad avere efficacia quando l’autore è ancora in vita. Le DAT possono essere predisposte da una persona maggiorenne e capace. Ci si è chiesti se debba trattarsi di una persona sana oppure già malata. La maggior parte dei commentatori ritiene debba trattarsi di una persona già malata, ovvero di una persona che, rispetto agli esiti di una malattia di cui già è affetta, dia indicazioni in merito alle cure che vuole, o non vuole, ricevere. Nondimeno può ipotizzarsi che anche una persona sana possa, dopo un serio e ponderato confronto con il medico, esprimere le proprie volontà in relazione al cammino terapeutico al quale sottoporsi nel timore di contrarre una determinata malattia:
Per un approfondito esame in materia di capacità, si rinvia a Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017, in questa Rivista, 2018, 249 ss. 8
to, intervista apparsa su Repubblica del 20.3.2018. Definizione mutuata dal d.d.l. «Norme in materia di relazione di cura, consenso, urgenza medica, rifiuto e interruzione di cure, dichiarazioni anticipate», a firma di Manconi (S.13-XVII legisl.).
4
Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Padova, 2009, 38 ss.
5
6 Masoni, DAT: quando si nomina l’amministratore di sostegno, in Il familiarista, 2018, 1 ss.
L’OMS definisce la salute come uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale non la semplice assenza di malattia o infermità.
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Le DAT erano già contemplate dalla Convenzione di Oviedo (firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, ratificata con l. 28.3.2001, n. 145, legge di ratifica però mai depositata dall’Italia al Consiglio di Europa), all’art. 9: “i desideri precedentemente espressi a proposito di un intervento medico da parte di un paziente che, al momento dell’intervento, non è in grado di esprimere la sua volontà saranno tenuti in considerazione” dai giuristi attraverso un’interpretazione estensiva, ad opera di una parte della giurisprudenza, dell’istituto giuridico dell’amministrazione di sostegno, attraverso il quale veicolare le direttive anticipate di trattamento. In argomento, v. Trib. Modena, 13.5.2008, in Fam. e dir., 2008, 923 ss.
9
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Dichiarazioni anticipate di trattamento
ciò è ipotizzabile soprattutto con riguardo alle patologie di carattere genetico, ove cioè non sia possibile prevedere l’evoluzione della malattia, e dunque programmare le terapie alle quali decidere o meno di sottoporsi. Un problema che i primi commentatori hanno rilevato riguarda l’accertamento della capacità richiesta per la redazione delle DAT, e in particolare l’individuazione del soggetto che dovrà essere preposto a tale accertamento. Nel caso in cui la redazione delle DAT avvenga davanti ad un notaio, la soluzione della questione può essere rintracciata nella stessa disciplina che governa l’attività notarile. Il notaio, come gli viene imposto dalla propria legge professionale, ha il compito di “indagare” la volontà delle parti10, accertandosi della loro capacità di intendere e di volere. L’eventuale riscontro dell’assenza della capacità comporterà, per il notaio, la non ricevibilità dell’atto. Diversamente l’ufficiale dello Stato Civile, soggetto preposto anch’esso a “ricevere” le DAT, non partecipa in alcun modo alla formazione delle stesse e tanto meno all’accertamento della capacità di intendere e di volere del suo autore. Egli si deve limitare a verificare l’identità del dichiarante e la residenza nel Comune, a registrare le DAT secondo un ordine cronologico, oltre che a rilasciare una ricevuta dell’avvenuto deposito11. In circostanze del genere, all’eventuale contestazione della capacità dell’autore delle DAT non potrà essere opposta l’esistenza di un vaglio preventivo paragonabile a quello svolto di prassi dal notaio.
3. La forma Consideriamo ora la forma delle DAT. Le DAT possono essere ricevute dal notaio sotto forma di atto pubblico o di scrittura privata autenticata, e saranno soggette alla loro conservazione secondo quanto previsto dalle Legge Notarile in tema di conservazione degli atti12.
10
Art. 47, l. 16.2.1913, n. 89.
11
Circ. Ministero dell’Interno n. 1/2018.
12
Art. 61, l. 16.2.1913, n. 89.
Le DAT, come già detto, possono essere ricevute, rectius consegnate, anche all’Ufficiale dello Stato Civile, ovvero alle strutture sanitarie delle Regioni che si sono dotate di cartelle o fascicolo sanitario elettronico13. La consegna delle DAT costituisce prova dell’autenticità delle stesse, ma nulla più. Va aggiunto che il problema della conservazione delle DAT corre lungo il filo della conoscibilità delle stesse. In che modo quindi i sanitari possono venire a conoscenza dell’esistenza delle DAT dei loro pazienti?14 Varie sono le ipotesi prospettate per la conservazione delle dichiarazioni di cui si discute, tuttavia nessuna di esse è stata peraltro ancora pienamente attuata. Tra le soluzioni ipotizzate, assume un rilievo particolare la creazione di un registro nazionale in cui far confluire tutte le DAT15.
Previsto dall’art. 12 d.l. 18.10.2012, n.179 in materia di “Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese”. Tuttavia solo 17 Regioni risultano aver attivato il FSE. Si veda anche d.lgs. 7.3.2005, n. 82, d.P.C.m. 22.03.2013 e d.P.C.m. 3.12.2013. 13
14 La l. reg. Friuli Venezia Giulia 13.3.2015, n. 4 «Istituzione del registro regionale per le libere dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (DAT) e disposizioni per favorire la raccolta delle volontà di donazione degli organi e dei tessuti», consentiva ai residenti nel Friuli Venezia Giulia, o a coloro che in essa abbiano eletto domicilio, di annotare le DAT sulla propria carta regionale dei servizi nonché sulla tessera sanitaria personale. La normativa regionale è stata impugnata dal Governo per violazione della competenza legislativa statale con ricorso n. 55 del 26 maggio 2015. A seguito di tale ricorso, il legislatore regionale ha modificato il provvedimento contestato con la l. reg. n. 16/2015, anch’essa impugnata dal Governo con ricorso n. 87/2015. I giudizi in via principale sono stati definiti con la sentenza della Corte cost., 14.12.2016, n. 262, in Foro it., 2017, I, 439 ss., che ha dichiarato l’incostituzionalità di entrambe le leggi regionali. 15 La legge di bilancio del 27.12.2017, n. 205, art. 1, commi 418° e 419°, stabilisce: “È istituita presso il Ministero della salute una banca dati destinata alla registrazione delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) attraverso le quali ogni persona maggiorenne e capace di intendere e di volere, in previsione di un’eventuale futura incapacità di autodeterminarsi, può esprimere le proprie volontà in materia di trattamenti sanitari, nonché il consenso o il rifiuto rispetto ad accertamenti diagnostici o scelte terapeutiche e a singoli trattamenti sanitari. Per l’attuazione del presente comma è autorizzata la spesa di 2 milioni di euro per l’anno 2018. Entro centottanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, con decreto del Ministro della salute, previa intesa in sede di Conferenza permanente per i rapporti tra
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In alternativa, si pensa alla creazione di registri comunali – strada che è stata già seguita da alcune amministrazioni locali16 – o ancora all’inserimento delle DAT all’interno del fascicolo sanitario elettronico: la diversità di piattaforme informatiche presenti nel nostro sistema sanitario renderebbe però alquanto complessa la consultazione delle dichiarazioni da parte di amministrazioni diverse da quelle presso le quali il documento è conservato. In assenza, almeno per ora, del registro nazionale, il Consiglio Nazionale del Notariato si sta attivando per l’istituzione di un registro sussidiario delle DAT. L’idea del notariato è quella di consentire, tramite l’uso di password, l’accesso ai medici, al fine di agevolare la circolazione anche delle DAT ricevute dai notai, il tutto nel pieno rispetto della normativa sulla privacy17. Alla luce di quanto appena illustrato, può dunque affermarsi che il ricevimento di una DAT da parte di un notaio assicura alla dichiarazione un maggior grado di conoscibilità rispetto alle dichiarazioni ricevute da qualche esponente della Pubblica Amministrazione.
4. Il contenuto Quanto al contenuto? L’art. 5 contiene la locuzione “dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche”, il che fa presumere che il soggetto autore delle DAT deve ricevere preventivamente un’adeguata informazione. Dal testo della locuzione legislativa, non si comprende però se le “informazioni mediche” debbano essere fornite dal medico di base dell’interessato o da uno specialista. Forse sarebbe stato più opportuno, che la
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legge avesse previsto la presenza obbligatoria da parte del medico, indicandone espressamente la tipologia, in modo da rendere più chiaro e consapevole il percorso della “adeguata informazione”. Il soggetto può inserire nelle DAT le indicazioni circa l’accettazione o il rifiuto di esami diagnostici invasivi, scelte terapeutiche, singoli trattamenti sanitari, nonché l’indicazione di tutte le cure alle quali intende o non intende essere sottoposto in futuro. Una novità di rilievo contenuta nella normativa del 2017 riguarda la possibilità di esprimere nelle DAT, da parte dell’interessato, la propria volontà anche circa l’idratazione e la nutrizione artificiale. Diversamente da quanto previsto nel precedente disegno di legge, noto come “d.d.l. Calabrò”18, la legge n. 219/2017 ha espressamente stabilito che queste ultime siano da considerarsi trattamenti sanitari in quanto consistenti in somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici19.
5. Segue: la nomina del fiduciario All’interno delle DAT, può anche essere prevista la nomina di un fiduciario: non si tratta però di un elemento essenziale. Come il disponente anche il fiduciario deve essere una persona maggiorenne e capace. Una volta nominato, il fiduciario deve accettare la nomina. Quest’ultima preferibilmente dovrebbe essere contestuale alla redazione delle DAT. Se ciò non è possibile, e, quindi, l’accettazione da parte del fiduciario avverrà con atto separato, questo dovrà essere allegato materialmente alle DAT20.
Nel d.d.l. Calabrò, S. 10 (mai approvato) l’art. 3 disponeva che “l’alimentazione l’idratazione, nella misura in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, sono forme di sostegno vitale e fisiologicamente finalizzate ad alleviare le sofferenze fino alla fine della vita. Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento”. 18
lo Stato, le regioni e le province autonome di Trento e di Bolzano e acquisito il parere del Garante per la protezione dei dati personali, sono stabilite le modalità di registrazione delle DAT presso la banca dati di cui al comma 418”. Al momento sembra siano 253 i Comuni che hanno istituito un Registro Comunale. 16
D.lgs. 30.6.2003, n. 196 recante «Codice in materia di protezione dei dati personali» integrato con le modifiche introdotte dal d.lgs. 10.8.2018, n. 101, recante «Disposizioni per l’adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) 2016/679». 17
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D’avack, Norme in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una analisi della recente legge approvata in senato, in Dir. fam. e pers., 2018, 179 ss. 19
Trattasi di definizione “atecnica” con riferimento all’allegazione dell’accettazione alle DAT. Nel caso in cui le DAT siano state redatte da un Notaio, per atto pubblico o scrittura privata autenticata, è impossibile allegare un documento 20
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La figura del fiduciario non è nuova per il nostro ordinamento. Il legislatore del 2016, in materia di unioni civili e convivenze di fatto, aveva già previsto la possibilità di nominare un fiduciario il quale poteva prendere delle decisioni in materia di salute in caso di malattia o ricovero21. Deve ritenersi pertanto che la nomina del fiduciario ai sensi della legge n. 76/2016, contenuta in DAT preesistenti alla legge n. 219/2017, sia valida. Per altro verso, dalla data di entrata in vigore della legge n. 219/2017, la normativa prevista dalla legge n. 76/2016 dovrà intendersi abrogata implicitamente, stante il carattere di specialità della disposizione successiva. Resta salva solo la previsione della lettera b) del comma 40°, dell’art. 1, l. n. 76/2016, ove sono contenute, in caso di morte del disponente, alcune disposizioni relative alla donazione di organi e al trattamento delle spoglie. Il fiduciario, incaricato di interagire con i sanitari, si fa portavoce delle volontà espresse nelle DAT, fornendo una interpretazione autentica della volontà del soggetto (paziente), nell’ottica di far emergere l’universo valoriale dello stesso, le sue concezioni di vita, i limiti di essa e le scelte rispetto al fine vita. Costui si configura dunque alla stregua di un custode della volontà del paziente. Qual è dunque il rapporto che si instaura tra il disponente ed il fiduciario? Se volessimo utilizzare un linguaggio tradizionale del diritto si potrebbe definirlo un rapporto di mandato, ai sensi dell’articolo 1703 e ss. del codice civile, dove il fiduciario opera, non post mortem, ma oltre la soglia dello stato di vita cosciente22.
intervenuto successivamente. Il Notaio si limiterà ad inserire l’accettazione nel fascicolo delle DAT. Art. 1, commi 40° e 41°, l. 20.5.2016, n. 76 “Ciascun convivente di fatto può designare l’altro quale suo rappresentante con poteri pieni o limitati: a) in caso di malattia che comporta incapacità di intendere e di volere, per le decisioni in materia di salute; b) in caso di morte, per quanto riguarda la donazione di organi, le modalità di trattamento del corpo e le celebrazioni funerarie. La designazione di cui al comma 40 è effettuata in forma scritta e autografa oppure, in caso di impossibilità di redigerla, alla presenza di un testimone”. 21
22 Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 247 ss.
Tra i commentatori non è mancato chi ha obiettato che tale ricostruzione incontrerebbe il limite previsto dal n. 4 dell’articolo 1722 c.c., ovvero l’estinzione del mandato per sopravvenuta incapacità del mandante23. Pare preferibile pertanto ipotizzare un ufficio di diritto privato, paragonabile all’ufficio di esecutore testamentario, disciplinato dall’art. 700 e ss. del c.c.: in altri termini, il fiduciario attua le volontà del disponente per il tempo in cui costui sarà impossibilitato a farlo personalmente.
6. Durata e modifica delle DAT Quanto durano le DAT? Il legislatore non ha previsto espressamente un termine di scadenza per la loro efficacia24. Ciò non toglie che nella redazione delle DAT il soggetto possa indicare precisamente la durata delle stesse nonché contemplare, in caso di scadenza del termine indicato, la possibilità di essere rinnovate. È comunque da ritenersi che, nell’ipotesi di DAT scadute, queste costituiscono un punto di partenza per ricostruire la biografia reale della persona. Strettamente collegata alla durata delle DAT è la questione attinente alla modifica e alla revoca delle stesse. La legge prevede espressamente che le DAT possano essere rinnovate, modificate e revocate. Le modalità sono diverse a seconda che si tratti di un paziente che intenda modificare le DAT per sopravvenute esigenze (si pensi a nuove scoperte scientifiche, modifica della diagnosi, regresso o acutizzarsi della malattia); in questo caso dovranno essere osservate le stesse modalità con le quali le DAT originarie sono state redatte. Se invece vi sono ragioni di urgenza, la modifica delle DAT può essere recepita tramite una dichiarazione ver-
Romano, Legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento: l’ultrattività del volere e il ruolo del notaio, in Not., 2018, 15 ss.
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Diversamente nel precedente d.d.l. Calabrò il quale aveva previsto una efficacia delle DAT a tempo determinato, disponendone la loro inefficacia decorsi cinque anni dalla redazione. 24
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bale o video registrata dal medico alla presenza di due testimoni. Ultima ipotesi è quella riferita alle DAT predisposte da una persona sana alla quale, stante il lungo lasso di tempo intercorso tra la stesura delle DAT ed il tempo in cui le scelte esistenziali dovranno essere attuate, viene attribuita la possibilità di modificarle. Le DAT devono garantire la massima personalizzazione della volontà futura del disponente; devono essere a misura delle esigenze di ogni singolo individuo; precise e non generiche, e non tradursi in una sottoscrizione di format o modelli/ fac-simile25.
7. Segue: la vincolatività Le DAT possono anche essere disattese, e ciò accade quando sono palesemente incongrue, non sono più rispondenti alle esigenze del disponente o sono state scoperte nuove terapie. In circostanze del genere si rischia di restituire al medico un potere decisorio di cura, che invece spetta al malato o in sua vece al fiduciario26. Può anche sorgere un conflitto tra il fiduciario nominato e il medico. In tal caso la legge prevede la possibilità di far dirimere la “controversia” dal Giudice Tutelare, organo preposto a svolgere un’attività giurisdizionale che, seppur in regime di rito camerale, ha ad oggetto diritti soggettivi fondamentali. L’articolo 4 richiama, con riferimento ai soggetti legittimati attivi a promuovere il ricorso al giudice tutelare, il comma 5° dell’art. 3 della legge n. 219/201727. Tra questi anche “il legale rappresen-
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tante della persona minore”; in tale previsione vi sarebbe un evidente spostamento di competenza dal Tribunale dei Minori al Giudice Tutelare28. Il Giudice Tutelare decide con decreto motivato, ai sensi dell’art. 43 disp. att. c.c., e, laddove la questione sia complessa da risolvere, può avvalersi anche di un CTU, così come può assumere informazioni sommarie da parte di parenti ed amici nell’ottica di chiarire la volontà del disponente. Il decreto è sempre reclamabile al collegio ai sensi dell’art. 45 disp. att. c.c. Non sono previste norme in relazione alla competenza per territorio. Si può ritenere che la stessa si radichi nel luogo della residenza abituale della persona del cui interesse si discute29.
8. E in assenza del fiduciario? Il legislatore ha previsto l’ipotesi in cui le DAT, nel caso di assenza di nomina del fiduciario all’interno delle DAT stesse, che come abbiamo visto non è un elemento essenziale, o laddove il fiduciario abbia rinunciato, sia deceduto o divenuto incapace, mantengano la loro efficacia, ma il Giudice Tutelare in caso di necessità può nominare un amministratore di sostegno (ADS).
le della persona minore rifiuti le cure proposte e il medico ritenga invece che queste siano appropriate e necessarie, la decisione è rimessa al giudice tutelare su ricorso del rappresentante legale della persona interessata o dei soggetti di cui agli articoli 406 e seguenti del codice civile o del medico o del rappresentante legale della struttura sanitaria”. Il Tribunale dei Minorenni è l’organo competente a decidere, ai sensi degli artt. 330 e 333 c.c., anche in caso di rifiuto alle cure, trattandosi di una limitazione della responsabilità genitoriale. Tali interventi sono stati sempre di competenza del Tribunale dei Minori, anche alla luce del fatto che, in decisioni del genere, la collegialità e la partecipazione nell’istruttoria di esperti, oltre che dei giudici onorari, è da ritenersi essenziale. Non si tratta, come nel caso della IVG, di ragioni di urgenza a provvedere, ma di casi in cui vi sarebbe tutto il tempo per accompagnare i genitori nella decisione da prendere. 28
In risposta al terzo quesito posto dal Ministero della Salute al Consiglio di Stato è emersa la possibilità di mettere a disposizione un modulo tipo, il cui utilizzo è naturalmente facoltativo, per facilitare il cittadino, non necessariamente esperto, a rendere le DAT. 25
Masoni, Il rispetto della persona umana nelle disposizioni in materia di consenso informato medico e di disposizioni anticipate di trattamento, di cui alla legge 22 dicembre 2017 n. 219, consultabile all’indirizzo: www.personaedanno.it. 26
Art. 3, comma 5°, “Nel caso in cui il rappresentante legale della persona interdetta o inabilitata oppure l’amministratore di sostegno, in assenza delle disposizioni anticipate di trattamento (DAT) di cui all’articolo 4, o il rappresentante lega27
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In linea con le previsioni della Convenzione dell’Aja del 13 gennaio 2000 per la protezione internazionale degli adulti “vulnerables” e con quelle della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006 che fanno riferimento al c.d. forum conveniens. 29
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La locuzione “in caso di necessità”, inserita nel comma 4°, è di certo assai ampia: solo la sua reale applicazione e la prassi potrà definirne i contorni. In linea di principio si può tentare di individuare alcune ipotesi tra le quali ad esempio la non attinenza delle DAT rispetto alla situazione clinica del paziente o la difficoltà di interpretazione o ancora la non comprensibilità. Si apre dunque una procedura per la nomina di un amministratore di sostegno che presuppone esclusivamente la richiesta di parte. Si applica l’art. 406 c.c., che richiama il 471 c.c., con la precisazione che il “medico” che ha in cura il paziente della cui DAT si sta discutendo, non è e non può essere un soggetto legittimato attivo alla presentazione della relativa istanza di nomina. Nel corpo dell’art. 405 c.c., al comma 4°, è prevista l’ipotesi che il Giudice Tutelare possa, ove ne sussista la necessità, adottare d’ufficio provvedimenti urgenti per la cura della persona interessata e procedere alla nomina di un ADS provvisorio. L’ADS nominato avrà un ruolo diverso rispetto a quello abituale. Egli non è tenuto a sostituirsi al paziente/beneficiario, ma deve svolgere un ruolo di portavoce/nuncius nei rapporti con il medico, operando nel rispetto della volontà del suo beneficiario e nel raggiungimento del suo best interest, il tutto come rileva dal contenuto delle DAT precedentemente redatte30.
precisione lessicale. Tuttavia la scelta di non intervenire con emendamenti avrebbe implicato un ritorno del disegno di legge alla Camera, con un rischio elevato, stante la fine della legislatura, di non riuscire a giungere alla sua approvazione. È stato, in fondo, scelto il male minore. Dopo vari tentativi di legiferare in questa materia, era tempo per il nostro Paese di coprire il vuoto normativo, portando a compimento quella scia riformatrice di norme poste a tutela della persona fragile. Adesso la chiave di volta sarà l’attuazione della legge. Anche la legge migliore rischia di essere azzoppata dall’attuazione di regolamenti e decreti o da pratiche organizzative e amministrative31. È di fondamentale importanza che si instaurino scambi, approfondimenti, collaborazioni multidisciplinari tra i professionisti che a vario modo possono portare il loro contributo, finalizzato a tradurre le norme in buone prassi applicative, anche attraverso l’ausilio di linee guida.
9. Conclusioni Come si diceva in esordio di quest’articolo, la legge n. 219/2017 è una “buona legge buona”, nonostante qualche lacuna, incongruenza o im-
Circa possibilità di affidare al rappresentante legale dell’incapace le decisioni in materia sanitaria, prima della emanazione della legge n. 219/2017, si vedano tra gli altri Trib. Modena, 28.6.2004, in Riv. it. med. leg., 2005, 185 ss.; Trib. Modena, 20.3.2008, in Giust. civ., 2008, I, 2037 ss. e Trib. Firenze, 22.12.2010, in Foro it., 2011, I, 608 ss., con i quali si riconosceva all’ADS la possibilità di esprimere il consenso informato in nome e per conto del beneficiario. Si parlava infatti di testamento di sostegno, un possibile strumento per veicolare le direttive anticipate di trattamento. Si consenta il rinvio a Infantino, Direttive anticipate e amministrazione di sostegno, in Nuova giur. civ. comm., 2011, I, 483 ss. 30
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Zatti, op. cit., 252.
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La responsabilità civile del “primario” ospedaliero
g g sa re e a p
Giampaolo Miotto Avvocato in Treviso
Sommario: 1. Successione di norme in tema di “attribuzioni” dei “primari” ospedalieri e giurisprudenza sulla loro responsabilità civile: i d.P.R. nn. 128/1969 e 761/1979. – 2. La nuova figura del “dirigente sanitario” introdotta dal d.P.R. n. 502/1992 e successive modificazioni ed integrazioni. – 3. La nuova prospettiva della responsabilità dirigenziale sanitaria. – 4. La responsabilità del dirigente sanitario nella giurisprudenza più recente. – 5. I limiti della responsabilità omissiva del dirigente sanitario oggi.
Abstract: Tradizionalmente la giurisprudenza si è ispirata ad un’interpretazione rigorista della responsabilità del “primario”, ricavandola da una sua “posizione di garanzia” nei confronti di tutti i pazienti ricoverati nella sua divisione ospedaliera e da un suo conseguente potere/ dovere di controllo su ogni singolo atto dei medici a lui gerarchicamente subordinati. Le profonde modifiche del modello organizzativo degli ospedali pubblici, dei compiti dei dirigenti sanitari in posizione apicale e delle loro relazioni con i rispettivi collaboratori introdotte dalle nuove norme sopravvenute nel tempo hanno imposto il superamento di questa concezione, come la più recente giurisprudenza civile e penale ha avvertito. In particolare, la responsabilità omissiva del dirigente sanitario per culpa in vigilando deve oggi essere riformulata in relazione ai compiti di controllo che effettivamente il diritto vigente gli attribuisce, nel quadro del nuovo modello organizzativo dell’ospedale pubblico definito dalle norme precitate. Traditionally jurisprudence is inspired to a rigorist interpretation of the responsibility of the “chief”, drawing it from his “position of guarantee” towards all the patients hospitalized in his hospital division and from his consequent power/duty of control on every single action of the physicians who are hierarchically subordinates to him.
The deep changes of the organizational model of the public hospitals, of the assignments of the sanitary executives in high position and of their relationships with the respective collaborators introduced by the new norms arrived unexpectedly in the time have imposed the overcoming of this conception, as the most recent civil and penalty jurisprudence has warned. Particularly, the negligent responsibility of the sanitary executive for culpa in vigilando must today be re-phrased in relationship to the assignments of control today that indeed the existing law attributes him, under the new organizational model of the public hospital defined by the abovementioned norms”.
1. Successione di norme in tema di “attribuzioni” dei “primari” ospedalieri e giurisprudenza sulla loro responsabilità civile: i d.P.R. nn. 128/1969 e 761/1979 La non nutritissima giurisprudenza in tema di responsabilità del “primario” ospedaliero (ovvero della figura apicale dei reparti degli ospedali pubblici) è tradizionalmente molto severa, avendo nel passato configurato una sua vera e propria “responsabilità da posizione o status nell’ambito
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delle strutture sanitarie”1 che, a dire di non pochi commentatori, era arrivata “a lambire i confini della responsabilità oggettiva”2, se non ad oltrepassarli. Il nucleo concettuale di tale orientamento era stato ben sintetizzato da una pronuncia della Cassazione civile, secondo la quale “se non può certo affermarsi che il primario sia responsabile di tutto quanto accade nel suo reparto, non essendo esigibile un controllo continuo e analitico di tutte le attività terapeutiche che vi si compiono, egli ha tuttavia il dovere di informarsi dello stato di ogni paziente ricoverato, di seguirne il decorso anche quando non provveda direttamente alla visita, di dare le istruzioni del caso o comunque di controllare che quelle impartite dagli altri medici siano corrette e adeguate”3. Ciò nondimeno, in quel caso, il fatto che il primario non avesse nemmeno visitato la paziente (una gestante), affidata ad un suo collaboratore (che l’aveva assistita durante il parto), non fu ritenuto sufficiente ad evitargli l’addebito di aver concausato un danno, per non essere “intervenuto” nella gestione di un caso clinico complicato dalle “condizioni di prematuro e dismaturo del feto” e dall’“indisponibilità del cardiotocografo”. Tale pronuncia, come le poche altre della Cassazione civile ad essa seguite4, aveva però deciso un caso di malpractice verificatosi nel periodo di tempo in cui l’organizzazione dei reparti ospedalieri e le attribuzioni delle figure professionali apicali che li dirigevano erano delineate dall’art. 7 del d.P.R. 27.3.1969, n. 128, recante disposizioni
De Matteis, La responsabilità del primario tra passato e futuro, in Danno e resp., 2011, 1217.
1
2 Cursi, “Malasanità” e responsabilità del primario ospedaliero, in Corr. mer., 2007, 588.
Cass., 16.5.2000, n. 6318, in Resp. civ. e prev., 2000, 940, con nota di Gorgoni.
3
Fra le quali, ad esempio, Cass., 25.2.2005, n. 4058, in Ragiusan, 2005, 367, che ha confermato la decisione assunta dalla Corte territoriale, constatando come “è coerente agli obblighi specifici che la norma e la prassi impongono al primario ospedaliero relativamente alla cd. ‘responsabilità del malato’, che gli attribuisce l’art. 7 del DPR 27 marzo 1969, n. 128, il cui ambito applicativo questa Corte pure ha già definito”.
4
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in tema di “ordinamento interno dei servizi ospedalieri”5. Si trattava di un’organizzazione di tipo verticale, strutturata sulla base di un rapporto di stretta subordinazione gerarchica dei medici delle singole divisioni ospedaliere, al vertice delle quali si collocava il “primario”, cui erano sottordinati, in ordine discendente, l’aiuto e l’assistente. Le amplissime competenze del primario, definite dal terzo comma del citato art. 76, comprendevano, fra l’altro, non solo “gli interventi diagnostici e curativi” che non avesse ritenuto “affidare ai suoi collaboratori” e la formulazione dei “criteri diagnostici o terapeutici che devono essere seguiti dagli aiuti e dagli assistenti”, ma pure “la responsabilità dei malati”, e cioè la responsabilità di tutti i pazienti degenti nella sua divisione, ancorché affidati alle cure di qualche aiuto od assistente. Fu proprio dalla “responsabilità del malato che la legge assegna al primario” che la Cassazione derivò la sussistenza dei suoi doveri di cui s’è detto, e cioè quelli di “informazione” continua sullo stato di tutti pazienti del proprio reparto, di “direttiva”
Si noti che si trattava di un decreto attuativo di quanto disposto dalla legge 12 febbraio 1968, n. 132 (c.d. legge Mariotti) in tema di “enti ospedalieri e assistenza ospedaliera”, sostanzialmente superata da quanto previsto dalla “riforma sanitaria” attuata con la legge 23 dicembre 1978, n. 833 e la legislazione successiva.
5
“Il primario vigila sull’attività e sulla disciplina del personale sanitario, tecnico, sanitario ausiliario ed esecutivo assegnato alla sua divisione o servizio, ha la responsabilità dei malati, definisce i criteri diagnostici o terapeutici che devono essere seguiti dagli aiuti e dagli assistenti, pratica direttamente sui malati gli interventi diagnostici e curativi che ritenga di non affidare ai suoi collaboratori, formula la diagnosi definitiva, provvede a che le degenze non si prolunghino oltre il tempo strettamente necessario agli accertamenti diagnostici ed alle cure e dispone la dimissione degli infermi, è responsabile della regolare compilazione delle cartelle cliniche, dei registri nosologici e della loro conservazione, fino alla consegna all’archivio centrale; inoltra, tramite la direzione sanitaria, le denunce di legge; pratica le visite di consulenza richieste dai sanitari di altre divisioni o servizi; dirige il servizio di ambulatorio, adeguandosi alle disposizioni ed ai turni stabiliti dal direttore sanitario; cura la preparazione ed il perfezionamento tecnico professionale del personale da lui dipendente e promuove iniziative di ricerca scientifica; esercita le funzioni didattiche a lui affidate” art. 7, comma 3°, d. P. R. 27.3.1969, n. 128.
6
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nei confronti dei suoi collaboratori e di costante “controllo” dell’operato di costoro, con riferimento ai singoli pazienti ad essi affidati. La Corte ne ricavò il principio per cui “quand’anche [avesse] affidato l’ammalato ad un medico in sottordine […] volta che l’affidamento determina la responsabilità del medico affidatario per gli eventi a lui imputabili che colpiscano l’ammalato”, ciò non esimeva il primario “dall’obbligo di assumere, sulla base delle notizie acquisite o che aveva il dovere di acquisire, le iniziative necessarie per provocare in ambito decisionale i provvedimenti richiesti da eventuali esigenze terapeutiche”7. In altri termini, secondo l’orientamento succitato, il primario, pur potendo delegare ai propri aiuti ed assistenti la cura di singoli pazienti, in virtù del predetto ordinamento dell’organizzazione divisionale, conservava anche riguardo ad essi tanto un potere/dovere di vigilanza, quanto un obbligo di costante e continua informazione sulle condizioni dei pazienti loro affidati8, tali da implicare pressoché necessariamente, salvo casi del tutto residuali, la sua responsabilità anche per gli errori compiuti dai predetti subordinati, e non a lui direttamente imputabili. A conforto di tale impostazione veniva addotto altresì quanto disposto dall’art. 63 del d.P.R. 20.12.1979, n. 761, in tema di “stato giuridico del personale delle unità sanitarie locali”, che aveva classificato il “personale medico” in “posizione iniziale” distinguendolo da quello in “posizione intermedia” e ovvero in “posizione apicale”, e così riproducendo in sostanza la sua suddivisione in assistenti, aiuti e primari di cui al d.P.R. n. 128/1969, ma riconoscendo alle prime due categorie di medici differenziati gradi di autonomia
nell’ambito delle direttive emanate dai rispettivi superiori gerarchici9. Inoltre, il d.P.R. n. 761/1979 aveva previsto espressamente che il primario assegnasse “a sé e agli altri medici i pazienti ricoverati”, potendo anche “avocare casi alla sua diretta responsabilità, fermo restando l’obbligo di collaborazione da parte del personale appartenente alle altre posizioni funzionali”. Nonostante queste novità e, in particolar modo, l’esplicito riconoscimento di una sfera di autonomia operativa ai collaboratori del primario, la giurisprudenza non attribuì una valenza innovativa a queste disposizioni, ravvisandovi null’altro che la conferma del contenuto precettivo del citato art. 7 del d.P.R. n. 128/196910. Ai fini della loro responsabilità civile, quindi, quella giurisprudenza, sulla base di una lettura rigorista delle anzidette disposizioni11, continuò a tratteggiare la figura dei primari ospedalieri come quella di soggetti “onnipresenti ed onniscienti, gravati dall’obbligo di tutelare la salute di tutti i pazienti contro ogni pericolo, in qualsiasi mo-
Per i medici in posizione iniziale si trattava di un’“autonomia vincolata alle direttive ricevute” (art. 63, comma 3°), mentre per quelli in posizione intermedia di “funzioni autonome nell’area di servizi” ad essi affidata “nel rispetto del lavoro di gruppo e sulla base di direttive ricevute dal medico appartenente alla posizione apicale” (art. 63, comma 4°). Queste previsioni trovavano riscontro in quell’altra, per cui i poteri “di indirizzo e di verifica” del professionista medico in posizione apicale fossero condizionati al “rispetto dell’autonomia professionale operativa del personale dell’unità assegnatagli” (art. 63, comma 5°).
9
10 In proposito si veda Cass., 16.5.2000, n. 6318, cit., nonché, ad esempio, Cass., 25.2.2005, n. 4058, cit.
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Cass., 16.5.2000, n. 6318, cit.
In tal senso, in dottrina, si veda Cursi, op. cit., 586: “Appare, dunque, evidente che la posizione di garanzia del primario non viene meno a seguito dell’affidamento dello spedalizzato ad altro medico. Egli è tenuto ad informarsi assiduamente dello stato di salute di tutti i pazienti ricoverati nel suo reparto, a fornire direttive circa le terapie che ritiene più opportune e perfino a controllare che l’azione dei suoi sottoposti sia conforme alle sue prescrizioni”. 8
11 “Sulla base di tale normativa si è sviluppata una giurisprudenza particolarmente rigoristica in relazione alla responsabilità del soggetto apicale, la quale partiva dalla concezione della sussistenza di una generalizzata posizione di garanzia del medico in posizione apicale rispetto ad ogni paziente ricoverato, con la conseguenza che gli doveva rispondere per colpa di ogni evento verificatosi” (Castronuovo e Ramponi, Dolo e colpa del trattamento medico-sanitario, nel Trattato di bio diritto, diretto da Rodotà e Zatti, Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano, 2011, 992).
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mento creato dalla condotta di uno qualsiasi dei medici in posizione subordinata”12. Ciò in una prospettiva in cui, pur essendo normativamente prevista l’anzidetta facoltà di delega, “il delegante non [era] mai esente da responsabilità per l’omesso controllo del delegato”, com’è stato efficacemente scritto13, così da divenire, di fatto, pressoché immancabilmente corresponsabile degli errori e delle omissioni di quest’ultimo. Sotto il profilo civilistico un simile scenario interpretativo implicava sostanzialmente una responsabilità oggettiva delle figure apicali degli ospedali pubblici14, costruita sulla base di una loro specifica “posizione di garanzia” nei confronti dei pazienti15, come venne osservato da qualche decisione di merito che, pur rifacendosi formalmente al principio di diritto affermato dalla giurisprudenza di legittimità, ne ripudiò la rigorosa applicazione16.
Risicato, Omesso controllo sul (mal)governo di macchinari capricciosi: non c’è responsabilità penale del dirigente medico, in Giur. it., 2016, 1496. 12
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Risicato, op. cit., 1496.
Questa impostazione era stata criticata dalla dottrina: FarLa responsabilità civile del primario, in La responsabilità medica in ambito civile. Attualità e prospettive. Atti del convegno di Siena 22-24 settembre 1988, Milano, 1989, 59; Ciauri, La responsabilità professionale del medico in posizione apicale, in Nuovo dir., 1993, 655. 14
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Ed a principi non dissimili si è ispirata, per un lungo periodo, la giurisprudenza penale, negando che il primario potesse invocare a propria discolpa il “principio di affidamento” nella correttezza dell’operato dei suoi collaboratori ed affermando a chiare lettere che “il primario ospedaliero è titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti alla quale non può sottrarsi adducendo che ai reparti sono assegnati altri medici o che il suo intervento è dovuto solo in casi di particolari difficoltà o di complicazioni”17.
2. La nuova figura del “dirigente sanitario” introdotta dal d.P.R. n. 502/1992 e successive modificazioni ed integrazioni Il quadro normativo che aveva ispirato quella visione, tuttavia, è stato, e da tempo, superato da una serie di norme che hanno istituito la dirigenza medica e ristrutturato l’organizzazione del lavoro nei reparti ospedalieri, secondo una logica assai diversa da quella meramente gerarchica e marcatamente verticistica che connotava, seppur con differenti e non secondarie sfumature, tanto il d.P.R. n. 128/1969, quanto il d.P.R. n. 761/1979. In primo luogo, il d.P.R. n. 128/1969 è stato integralmente ed espressamente abrogato dall’art. 4, comma 10°, d.lgs. 30.12.1992, n. 502 (come modificato dall’art. 5, comma 1°, lettera g), del d.lgs. 7.12.1993, n. 517)18.
15 “Il primario ospedaliero, essendo titolare di una specifica posizione di garanzia nei confronti dei suoi pazienti, è civilmente responsabile laddove ometta di dare istruzioni direttive adeguate per il trattamento di un caso e di verificarne la puntuale attuazione” (Trib. Napoli, 13.1.2007, in Corr. mer., 2007, 583).
17 Cass. pen., 7.12.1999, n. 1126, in Riv. it. med. leg., 2005, 441.
16 Si veda, ad esempio, Trib. Torino, 3.6.2011, in Pluris, laddove, subito dopo il richiamo al principio di diritto affermato da Cass., 25.2.2005, n. 4058, cit., si legge: “Ne deriva […] che il dott. G. debba andare esente da responsabilità, in quanto non è ipotizzabile una responsabilità del primario anche in relazione ad un intervento chirurgico praticato da équipe medica di cui non faceva parte, per il solo fatto della posizione apicale ricoperta. Ciò, infatti, si tradurrebbe nel risultato inaccettabile di ritenere il primario responsabile anche di atti rispetto ai quali non è concretamente esigibile un dovere di vigilanza o di supervisione, e quindi senza che siano individuabili condotte colpose allo stesso direttamente imputabili”, negandosi che possa affermarsi un’“automatica attribuzione di responsabilità per il solo fatto di ricoprire una posizione apicale all’interno del reparto ospedaliero”.
18 In proposito va osservato che l’espressa abrogazione del d. P. R. n. 128/1969 disposta dal d. P. R. n. 502/1992 non può essere revocata in dubbio per il fatto che esso sia stato ricompreso nell’elenco delle “disposizioni legislative statali, pubblicate anteriormente a 1° gennaio 1970, anche se modificate con provvedimenti successivi” delle quali l’art. 15 del d.lgs. n. 179/2009 (c.d. decreto salvaleggi) ha dichiarato “indispensabile la permanenza in vigore”, a differenza delle altre emanate anteriormente a quella data. Infatti, a parte l’evidente svista in cui sono incorsi i compilatori di quell’elenco, posto che il decreto presidenziale in questione era stato da tempo abrogato, l’effetto giuridico proprio del citato art. 15 fu quello di sottrarre le norme comprese nel suddetto elenco all’“effetto abrogativo di cui all’articolo 2 del decreto-legge 22 dicembre 2008, n. 200, convertito, con modificazioni,
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Quest’ultimo, poi, all’art. 15, ha istituito la figura del “dirigente sanitario”, che ha soppiantato quella del “primario”, prevedendo due livelli differenziati di dirigenza. A seguito di svariate modificazioni ed integrazioni del suo testo originario19, questa disposizione è pervenuta a delineare i compiti e, correlativamente, gli obblighi propri della nuova figura apicale in termini sostanzialmente diversi da quelli che connotavano la posizione del “primario”. Ciò che la nuova normativa si preoccupa di definire, invero, non sono tanto gli attributi della posizione sovraordinata che il dirigente riveste nei confronti dei sottoposti e la sua assorbente “responsabilità” nei confronti dei pazienti, bensì gli ambiti di “autonomia tecnico-professionale” di cui egli può godere nell’ambito della “struttura” in cui si trovi ad operare ed in vista del “risultato” che la sua attività deve conseguire, sempre “nel rispetto della collaborazione multiprofessionale” e “nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attività” elaborati a livello aziendale o, quanto meno, dipartimentale20.
dalla legge 18 febbraio 2009, n. 9”. Ma riguardo al d. P. R. n. 128/1969 quell’effetto abrogativo non si produsse, poiché esso era stato già abrogato, molto tempo prima, dalla norma anzidetta. Ragion per cui la “salvezza” della sua efficacia prevista dal medesimo art. 15 non si è prodotta, essendo rimasto fermo il previgente effetto abrogativo disposto dal d.lgs. n. 502/1992. Non può, quindi, condividersi quanto affermato dalla Cassazione civile, con la sentenza n. 22338/2014, laddove ha ritenuto applicabile al caso deciso il disposto del d. P. R. n. 128/1969 perché la sua “permanenza in vigore è stata dichiarata “indispensabile” dal D.lgs. 1° dicembre 1969, n. 179, art. 1, comma 1” (Cass., 22.10.2014, n. 22338, in Guida al dir., 2015, 36), senza tener conto di quanto testé evidenziato. 19 Introdotte dapprima dall’art. 16, comma 1°, lett. a), del d.lgs. 7.12.1993, n. 517, poi dall’art. 2, comma 1° quinques, del d.l. 18.11.1996, n. 583, dall’art. 13, comma 1°, del d.lgs. 19.6.1999, n. 229, dall’art. 8, comma 1°, lett. d), del d.lgs. 28.7.2000, n. 254 e, infine, dall’art. 4, comma 1°, lett. d), del d.l. 13.12.2012, n. 158, come sostituito dall’art. 1, comma 1°, della legge 8.11.2012, 189, in sede di conversione. 20 In proposito, si consideri quanto prevede il terzo comma dell’art. 15 citato: “L’attività dei dirigenti sanitari è caratterizzata, nello svolgimento delle proprie mansioni e funzioni, dall’autonomia tecnico-professionale i cui ambiti di esercizio, attraverso obiettivi momenti di valutazione e verifica, sono progressivamente ampliati. L’autonomia tecnico-pro-
In questa prospettiva, a differenza del primario, che era l’apice di una struttura gerarchica autoreferenziale, il singolo dirigente diviene uno dei (molteplici e pariordinati) corpi intermedi di un organismo più complesso (la struttura ospedaliera), al cui complessivo funzionamento deve contribuire mediante il “raggiungimento degli obiettivi prefissati” ed il “perfezionamento delle competenze tecnico professionali e gestionali riferite alla struttura di appartenenza”, in una prospettiva di “collaborazione e corresponsabilità nella gestione delle attività”21, essendo, per di più, soggetto a “verifica annuale”22. Mentre l’Ospedale della legge Mariotti e delle sue norme attuative (come il d.P.R. n. 128/1969) era un conglomerato di singoli reparti, eloquentemente denominati “divisioni”, quello del nuovo Servizio Sanitario Nazionale, a seguito delle riforme succedutesi nel tempo, diviene un organismo unitario, complesso, multidisciplinare, strutturato su base “dipartimentale”23, che proprio dell’integrazione dei suoi molteplici servizi interni (organizzati in “strutture complesse”) fa un punto di forza. E il “dirigente sanitario” (che, nel linguaggio corrente, si tende a chiamare ancora “primario”) diviene il punto di snodo fondamentale di questa complessità e di questa integrazione, quet’ultima fondata sulla sua “autonomia tecnico-professionale”, ma pure su quella, graduata in misure diverse e soggetta al suo coordinamento ed alla sua supervisione, di tutti i suoi collaboratori medici (e non)24.
fessionale, con le connesse responsabilità, si esercita nel rispetto della collaborazione multiprofessionale, nell’ambito di indirizzi operativi e programmi di attività promossi, valutati e verificati a livello dipartimentale ed aziendale, finalizzati all’efficace utilizzo delle risorse e all’erogazione di prestazioni appropriate e di qualità. Il dirigente, in relazione all’attività svolta, ai programmi concordati da realizzare ed alle specifiche funzioni allo stesso attribuite, è responsabile del risultato anche se richiedente un impegno orario superiore a quello contrattualmente definito”. 21
Come prevede l’art. 15, comma 3°, d.lgs. n. 502/1992.
Nei termini disciplinati dall’art. 15, comma 4°, d.lgs. n. 502/1992. 22
23
Come prescritto dall’art. 4, comma 10°, d. P. R. n. 502/1992.
24
“Dopo l’approvazione del d.lgs. n. 229/1999, è risultato
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È all’interno di questa dimensione organizzativa che la nuova disciplina25 attribuisce ai “dirigenti con incarico di direzione di struttura complessa […] oltre a quelle derivanti dalle specifiche competenze professionali, funzioni di direzione e organizzazione della struttura” e il compito di attuare gli “indirizzi operativi e gestionali del dipartimento di appartenenza”, anche impartendo “direttive a tutto il personale operante nella stessa, e l’adozione delle relative decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura loro affidata”26. Non vien meno, quindi, il potere-dovere della figura apicale di impartire “direttive” agli altri medici della “struttura” affidatagli, ma esso si integra con quello di “decidere” non già ciò che sia neces-
superato l’impianto fortemente gerarchizzato […] Si è accentuata la autonomia decisionale degli stessi medici di seconda fascia, sia pure sotto la supervisione ed il coordinamento del medico in posizione apicale […] Tuttavia, poiché la migliore efficienza delle cure organizzate richiede una divisione dei lavori che, per espresso riconoscimento legale, presuppone una autonomia del personale sottoposto (ed in particolare di quello medico) nel compimento anche di attività complesse (e persino di studio o ricerca), i doveri di sorveglianza non dovranno tradursi in un controllo capillare e pervasivo che annullerebbe i margini di libertà professionale del medico di seconda fascia: ciò significa che doveri di intervento diretto o di avocazione scatteranno solo allorché emergano elementi concreti che facciano venir meno l’affidamento nella normale e ordinaria diligenza del personale, in relazione alla qualifica ed alla conoscenza circa le capacità, la professionalità e l’esperienza di ciascuno” (Castronuovo e Ramponi, op. cit., 993). 25
Art. 15, comma 6°, d.lgs. n. 502/1992.
26 A questo proposito si noti come il disposto del citato art. 63 del d. P. R. n. 761, mai espressamente abrogato, debba però esser necessariamente armonizzato con le norme sopravvenute che hanno ridisegnato il modello organizzativo dei reparti ospedalieri, facendo leva proprio sui quei differenziati gradi di autonomia tecnico-professionale che esso garantiva ai medici sottoposti all’autorità del “primario”, aspetto questo totalmente misconosciuto dalla giurisprudenza più lontana e che assume ora, alla luce delle successive riforme, un rilievo del tutto nuovo. Quella norma, infatti, va letta oggi proprio come presidio dell’“autonomia” funzionale dei medici in posizione sottordinata a quella del dirigente sanitario, seppur “vincolata” al potere direttivo di quest’ultimo, inteso nei termini che si sono precisati.
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sario per ogni singolo paziente, ma piuttosto “per il corretto espletamento del servizio”, allo scopo di assicurare l’appropriatezza del suo funzionamento anche quando non possa attuarsi un personale, puntuale, diretto intervento del dirigente sanitario nella cura del singolo paziente27. Nell’ambito dell’“espletamento del servizio”, e tenuto conto dell’autonomia professionale dei collaboratori (medici e non) del dirigente sanitario, l’affidamento dei singoli pazienti ad altri medici della “struttura complessa”, per l’intero processo di cura o per singoli atti, non appare più un’ipotesi residuale, né una prassi soggetta all’assiduo ed invasivo controllo della figura apicale, bensì il normale modus operandi di un’équipe organizzata di professionisti medici, ciascuno dei quali con una propria sfera di autonomia tecnico-professionale28. Questo cambiamento strutturale dell’organizzazione della medicina ospedaliera ha da tempo indotto la dottrina ad affermare che “il passaggio dalla figura del primario a quella del dirigente di struttura complessa non debba semplicemente leggersi sul piano formale in un mero succedersi di etichette bensì come espressivo dell’esigenza di valorizzare al massimo le autonomie tecnico-pro-
“Il potere/dovere di ‘verifica sulle prestazioni’ cede dunque il passo al potere/dovere “di adottare decisioni” […] in un’ottica di sicura promozione di una cooperazione che, ormai in ambito sanitario, deve essere sottratta alla gerarchia dei controlli, per svolgersi sul piano orizzontale all’insegna dell’integrazione delle competenze e delle esperienze professionali diverse” (De Matteis, op. cit., 1223). 27
“Dal quadro normativo in sintesi tratteggiato emerge come il momento di equilibrio tra i poteri di direzione, spettanti ai dirigenti di struttura, ed il riconoscimento dell’autonomia tecnico-professionale dei singoli medici sia stato individuato esigendo dai primi un controllo sull’organizzazione attraverso l’adozione di procedure ben individuate, nonché la definizione di linee programmatiche e di indirizzo, e riconoscendo ai secondi una piena autonomia nella diagnosi e cura dei casi affidati alla loro competenza oltre che la responsabilità esclusiva di qualsiasi deviazione delle linee dalle procedure imposte a livello organizzativo. Il momento di raccordo va colto in quel ‘potere di decisione’ attribuito oggi al dirigente di struttura non più in termini di ‘vigilanza’ sui singoli atti medici bensì come espressione di una maggiore esperienza professionale organizzativa…” (De Matteis, ibidem). 28
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fessionali dei singoli medici nell’ambito di una cooperazione in chiave orizzontale”29. Ciò anche allo scopo di chiedersi “se con l’attribuzione di funzioni programmatiche ad indirizzo sanitario […] sia ancora possibile evocare un controllo capillare sull’operato dei medici (in termini di verifica di tutte le prestazioni di diagnosi e cura erogate nel reparto) ovvero debba mutarsi angolazione di analisi nell’interpretazione della nuova normativa per avvalorare un controllo da svolgere a monte dell’organizzazione stessa”30.
3. La nuova prospettiva della responsabilità dirigenziale sanitaria Il riconoscimento di una sfera di “autonomia tecnico-professionale” in capo ai singoli medici operanti della “struttura complessa” (seppur nell’ambito delle direttive impartire dal dirigente sanitario) che inevitabilmente consegue al nuovo quadro normativo testé delineato, se implica da un lato una loro diretta assunzione di responsabilità, dall’altro impone un profondo mutamento di prospettiva per ciò che attiene, invece, alla responsabilità del “dirigente sanitario”. Del resto, l’anzidetta riorganizzazione dei servizi ospedalieri e gli incisivi mutamenti della fisionomia stessa delle rispettive figure apicali rispetto a quella che connotava il “primario” non possono non avere importanti ricadute sul piano della loro responsabilità31. Da una responsabilità connessa alla “posizione di garanzia” attribuita al “primario” si deve necessariamente passare ad una inequivoca responsabilità per colpa del dirigente sanitario che, quando non derivi dalle prestazioni di diagnosi e cura personalmente rese ad un singolo paziente, ma riguardi invece quelle eseguite dagli altri medici (o operatori sanitari) della struttura affidata alla
29
De Matteis, op. cit., 1220.
30
De Matteis, op. cit., 1221.
In proposito si veda: Fornari, La posizione di garanzia del medico, nel Trattato di bio diritto, diretto da Rodotà e Zatti, Le responsabilità in medicina, a cura di Belvedere e Riondato, Milano, 2011, 856 ss.
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sua direzione, deve farsi risalire ad una diversa condotta commissiva del dirigente o ad una sua culpa in vigilando correttamente intesa (quando non ad una culpa in eligendo, come si dirà poi). Quanto alla prima, come si è visto, la nuova disciplina dei compiti del dirigente della “struttura complessa” ne mantiene il potere/dovere di impartire “indirizzi operativi e gestionali” agli operatori di quest’ultima, anche mediante le necessarie “direttive”, ciò che deve fare assumendo tutte le “decisioni necessarie per il corretto espletamento del servizio e per realizzare l’appropriatezza degli interventi con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche e riabilitative, attuati nella struttura”. Si tratta di compiti che afferiscono alla programmazione ed organizzazione del lavoro nella “struttura complessa”, non solo in senso generale, ma anche con riguardo alle singole, concrete “decisioni” da prendere in merito ai casi e questioni che gli vengano sottoposti o di cui comunque venga a conoscenza e per le quali ritenga di dover intervenire direttamente. Ma, oltre a questi, indubbiamente residua pure il potere/dovere del dirigente di vigilare sull’attuazione delle anzidette “direttive”, sulla concreta esecuzione delle precitate “decisioni” e, in generale, sull’operato del personale (medico e non) affidatogli32. Ai fini della sua responsabilità, mentre le condotte rilevanti per ciò che attiene ai compiti della prima specie sono facilmente identificabili, alla stregua
32 In proposito si è parlato di “controllo sull’organizzazione attraverso l’adozione di procedure ben individuate” (De Matteis, op. cit., 1223). Una decisione della Cassazione penale ha così sintetizzato i compiti del dirigente sanitario desumibili dal nuovo quadro normativo anzidetto, sotto il profilo delle condotte rilevanti per la sua eventuale responsabilità: “tre condotte vanno attribuite al dirigente con funzione apicale in una divisione ospedaliera, per evitare un suo possibile coinvolgimento in una attività omissiva del sanitario collaboratore: a) il potere-dovere di fornire preventivamente le informazioni di carattere programmatico per un’efficiente svolgimento dell’attività sanitaria, e quindi l’esercizio di direttive tecnico-organizzative; b) in conseguenza di ciò, il potere c.d. di delega per quei casi sicuramente risolubili in base all’espletamento dei poteri organizzativi di carattere generale; c) un potere-dovere di verifica, vigilanza ed eventuale avocazione” (Cass. pen., 23.12.2005, n. 1430, in Riv. it. med. leg., 2006, 931, con nota di Iadecola).
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degli ordinari canoni dell’imperizia, dell’imprudenza, della negligenza e della violazione di norme, quelle riguardanti i suoi compiti di controllo dell’altrui operato richiedono una precisa puntualizzazione. È, invero, sul contenuto e sui limiti di tali compiti di controllo che occorre intendersi. Come si è visto, la giurisprudenza formatasi sotto l’imperio dei d.P.R. nn. 128/1969 e 761/1979 riteneva che essi riguardassero “ogni paziente ricoverato” nel reparto ospedaliero diretto dal “primario”, anche se affidato alle cure di altri medici a lui gerarchicamente sottoposti, ed in conseguenza configurava a suo carico tanto un “dovere di informazione” sullo stato di salute di ciascuno di essi e di intervenire direttamente ad impartire le “istruzioni del caso”, quanto quello di controllare non solo l’attuazione di queste, ma anche la congruenza dei provvedimenti assunti “dagli altri medici” per i pazienti loro affidati per “delega” primariale. Così di certo non è più per i dirigenti sanitari, a seguito dell’entrata in vigore della nuova disciplina anzidetta. Un così pervasivo potere (prima che dovere) di controllo, infatti, sarebbe inconciliabile sia con l’“autonomia tecnico-professionale” che la nuova organizzazione riconosce, seppur in misure diversificate, a tutti gli operatori sanitari dei presidi ospedalieri pubblici33, sia con l’anzidetta ridefinizione dei compiti delle figure apicali delle “strutture complesse” ospedaliere34.
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Di questa opinione si è dimostrata la dottrina sin dai primi commenti del nuovo scenario normativo35, osservando che “quel potere di vigilanza “sull’attività dei medici subordinati”, che un tempo si riconosceva al primario […] dovrà cedere il passo ad un controllo da esercitarsi sui fattori di organizzazione e su quelle situazioni che, per gravità del caso o per complessità della storia clinica del paziente, reclamano, all’insegna della miglior cura e massima tutela della salute dello stesso, l’intervento di chi, avendo incarichi di direzione, ha maturato sul campo un’esperienza professionale che va ad integrare ed ad interagire con quella dei singoli medici nel confronto tra esperienze e competenze diverse”36. In questa diversa prospettiva il potere/dovere di controllo del dirigente sanitario non implica necessariamente la verifica preventiva di ogni singolo atto dei suoi collaboratori, ma l’organizzazione generale del reparto affidatogli, la rispondenza delle prassi concretamente attuate alle “direttive” impartite, l’operato e i risultati ottenuti dai predetti collaboratori37. In tal modo, il controllo dirigenziale, come si è detto, si sposta per un verso “a monte” dei singoli atti di costoro, e cioè sulla rispondenza della loro attività alle direttive dirigenziali, e per un altro
concreto, con la completezza ed assiduità ipotizzata da certe pronunce. “[…] la vigente descrizione delle competenze e del raggio di intervento della c.d. figura apicale (‘alias’ direttore) non sembra, però, espressamente (continuare a) contemplare anche poteri-doveri di generalizzata continuativa sorveglianza sulle scelte diagnostico-terapeutiche operate dagli altri sanitari, la quale sia strumentale rispetto all’esercizio di un ordinario sindacato in ordine alle medesime: aspetto questo che, del resto, sul piano normativo, si raccorda con l’esplicito riconoscimento dei maggiori spazi di autonomia terapeutica in capo a tutti i medici di dirigenti” (Iadecola, Sulle prime riflessioni della Cassazione in ordine all’implicazioni penali della rinnovata disciplina delle figure dirigenziali mediche, in Riv. it. med. leg., 2006, 948). 35
Quindi non solamente ai medici, ma anche alle altre figure professionali, quali gli infermieri, cui sono ormai pacificamente riconosciuti degli spazi di autonomia professionale. In proposito, si consideri, ad esempio, quanto affermato da un recente arresto della Cassazione penale: “In tema di responsabilità organizzative del direttore di reparto ospedaliero, il c.d. ‘primario’ è tenuto ad organizzare correttamente i turni di lavoro del personale infermieristico, ma non ricade su di lui l’obbligo di organizzare corsi di formazione per lo stesso né quello di verificare la competenza di ogni singolo operatore, potendo egli fare affidamento sulla autonoma professionalità degli infermieri, riconosciuti dalle recenti normative come veri e propri ‘professionisti sanitari’ e non più meri ausiliari del medico” (Cass. pen., 3.12.2015, n. 2541, in Riv. it. med. leg., 2016, 729, con nota di Caletti). 33
34
Oltre che umanamente quasi impossibile da esercitare, in
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De Matteis, ibidem.
In proposito, in dottrina, si veda: Di Landro, Vecchie e nuove linee ricostruttive in tema di responsabilità penale nel lavoro medico d’équipe, in Riv. trim. dir. pen. econ., 2005, 255. 37
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“a valle” di questi, sui risultati conseguiti da tale attività. È nell’esercizio di questa attività di controllo “generale” dell’attività del reparto che il dirigente sanitario potrà anche venire a conoscenza dei casi clinici che, per i più diversi motivi, richiedano un suo diretto intervento e, se necessario, un’avocazione. Quest’ultima potrà essere provocata pure dalla buona prassi dei medici subordinati, anch’essa oggetto di controllo dirigenziale, consistente nel rimettere alla maggior competenza ed esperienza del dirigente i casi che si rivelino di maggior complessità e gravità, magari a dispetto di un’iniziale, diversa valutazione. E in questa stessa ottica si pone pure il tema di una possibile culpa in eligendo del dirigente, laddove questi non abbia rispettato il criterio prudenziale dell’affidamento al proprio collaboratore di quei (soli) casi clinici che siano proporzionasti alla sua concreta esperienza ed alla sua effettiva competenza tecnico-professionale. Tali premesse portano ovviamente ad escludere che al dirigente che abbia correttamente espletato i propri compiti di programmazione, organizzazione, direzione e controllo del servizio affidatogli possa essere attribuita, in virtù della sola “posizione” rivestita, una qualche responsabilità per eventi dannosi causati dalla condotta commissiva od omissiva dei suoi collaboratori (medici e non).
4. La responsabilità del dirigente sanitario nella giurisprudenza più recente Queste conclusioni hanno trovato riscontro nella più recente giurisprudenza di legittimità. Dapprima in proposito si è espressa la Cassazione civile, in termini, per la verità, assai pragmatici, cassando una sentenza che aveva ritenuto la responsabilità di un primario per l’operato dei suoi collaboratori in relazione agli esiti di un intervento chirurgico eseguito mentre egli era in ferie. La Corte ha censurato la sentenza impugnata, imputandole di aver trascurato “il diritto vigente che delinea i compiti del primario, anche quando si assenta per ferie” laddove gli aveva ascritto “a titolo di responsabilità oggettiva, per il semplice fatto
di essere primario” una “ritardata diagnosi, che egli era nella obbiettiva impossibilità di verificare”. L’anzidetta decisione, peraltro, non ha specificato quali fossero le norme del “diritto vigente” violate dalla sentenza impugnata. Subito dopo essa ha rilevato l’infondatezza dell’“assunto […] secondo cui il primario […] risponde ai sensi del citato art. 7 del DPR 1969 N.128 in quanto ha la responsabilità dei malati della divisione”, che la Corte territoriale aveva posto a fondamento della propria decisione, evidentemente uniformatasi alla giurisprudenza precitata. Secondo la Cassazione, la responsabilità ipotizzata dalla Corte d’Appello a carico del primario “si configura[va] come obbiettiva”, mentre “nella evoluzione giurisprudenziale intorno al contatto sociale ed alla coesistenza tra la funzione apicale del reparto e la sua organizzazione, la responsabilità civile attiene alla imputabilità soggettiva dello inadempimento”, che nel caso concreto, invece, “manca[va] all’origine del primo contatto, del primo ricovero e del primo intervento”38 e doveva, quindi, reputarsi insussistente. Mentre risulta difficilmente comprensibile la pertinenza del riferimento al “contatto sociale” contenuto nella suddetta motivazione, quello, assai sbrigativo, alla relazione tra la “funzione apicale” e l’“organizzazione” delle “strutture” ospedaliere è sì condivisibile, ma non risulta sostenuto da alcun supporto argomentativo. Per non dire che il riferimento all’art. 7 del d.P.R. n. 128/1969 lascia sospeso l’interrogativo in merito alla consapevolezza della sua abrogazione da parte del Collegio. Ciò che si deve cogliere è però la chiara affermazione per cui al dirigente sanitario può attribuirsi solo una responsabilità per colpa, ove effettivamente ne sussistono i presupposti, non essendo ammissibile una sua responsabilità oggettiva, seppur formalmente travisata sotto le sembianze di una “responsabilità da posizione”.
38
Cass., 31.3.2015, n. 6438, in Ragiusan, 2015, 129.
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Di notevole interesse, sotto questo profilo, è una recente sentenza della Cassazione penale che, pur nell’ottica propria della responsabilità penale, si segnala per un’elaborata ricostruzione della materia39. Anche in quel caso si trattava di un medico “in posizione apicale” che non aveva mai visitato un paziente, né aveva partecipato ai due interventi chirurgici cui questi era stato sottoposto dai suoi collaboratori di reparto, che era stato condannato in appello per responsabilità “da posizione”. La Corte ha formulato anzitutto delle premesse teoriche fondate sulla constatazione per cui “il medico in posizione apicale sulla base della disciplina di settore attualmente vigente, ha, oltre che compiti medico-chirurgici propri, anche l’obbligo di dividere il lavoro fra sé e gli altri medici del reparto e di verificare che le direttive e istruzioni che impartisce relativamente alle prestazioni di diagnosi e cura che devono essere effettuate siano correttamente attuate”. Da ciò ha tratto la conclusione che “i possibili profili di colpa” del “medico in posizione apicale” sarebbero “di vario genere, ma riconducibili a due macrocategorie: la c.d. culpa in eligendo e la c.d. culpa in vigilando”. Riguardo a quest’ultima, la Corte ha osservato che “deve quindi escludersi che il medico di vertice abbia effettivamente in carico la cura di tutti i malati ricoverati nel proprio reparto”, perché “l’organizzazione del lavoro attraverso l’assegnazione dei pazienti (anche) ad altri medici assolve ad una funzione di razionalizzazione dell’erogazione del servizio sanitario: con lo strumento dell’assegnazione, il primario suddivide con precisione ruoli e competenze all’interno del reparto” e dà altresì risposta “ad esigenze di carattere prettamente cautelare”, facendo sì che “il singolo paziente” riceva “cure più efficaci ed efficienti” da parte di “medici specificamente incaricati di seguirne il decorso patologico e diagnostico-terapeutico”.
Cass. pen., 21.6.2017, n. 18334, consultabile all’indirizzo: www.italgiure.giustizia.it. 39
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In proposito la Corte ha richiamato i propri precedenti40, secondo i quali “il medico in posizione apicale con l’assegnazione dei pazienti opera una vera e propria «delega di funzioni impeditive dell’evento» in capo al medico in posizione subalterna […], conservando una posizione di vigilanza, indirizzo e controllo sull’operato dei delegati […] che si traduce […] nella verifica del corretto espletamento delle funzioni delegate e nella facoltà di esercitare il residuale potere di avocazione alla propria diretta responsabilità di uno specifico caso clinico”. Ed è proprio relativamente a questo dovere di controllo che si tratta di stabilire quale sia “il limite all’operatività del principio di affidamento”. Secondo risalente giurisprudenza, invero, “chi abbia istituzionalmente un obbligo di controllo dell’altrui operato non potrebbe confidare nella sua correttezza, assurgendo questa proprio ad oggetto della propria vigilanza”, per cui “il dovere di controllo segna un limite apparentemente invalicabile all’applicazione del principio di affidamento”. La Cassazione penale, però, si è domandata se gli “obblighi di controllo sull’operato altrui”, di per sé stessi, “escludano completamente la possibilità di fare affidamento sulla altrui diligenza”, per cui dell’“evento infausto” cagionato dal delegato debba in ogni caso rispondere anche il delegante, che aveva l’obbligo di controllarne l’operato. La risposta è stata negativa. Infatti, “ipotizzare un obbligo di controllo tanto pervasivo da non consentire alcun margine di affidamento sulla correttezza dell’operato altrui significa esporre a responsabilità penale il medico in posizione apicale per ogni evento lesivo possa occorrere nel reparto affidato alla sua direzione […], a prescindere da fattori quali le dimensioni della struttura, il numero di pazienti ricoverati, l’assegnazione degli stessi a medici di livello funzionale inferiore ma comunque dotati per legge di un’autonomia professionale il cui rispetto è imposto alla stessa figura apicale”41.
40
Cass. pen., 28.6.2007, n. 39609, in Ragiusan, 2009, 196.
41
Si noti che la stessa Cassazione penale, in un precedente
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In sostanza, attribuire un simile contenuto all’obbligo di controllo del dirigente sanitario significherebbe porsi in contraddizione con la realtà stessa dell’organizzazione ospedaliera e con le norme che la ispirano. Ciò che, invece, deve richiedersi al dirigente sanitario, ai fini dell’obbligo in questione, è che egli svolga “correttamente […] i propri compiti di organizzazione, direzione, coordinamento e controllo”, nel senso che si è dianzi precisato. Quando egli vi abbia adeguatamente adempiuto, non potrà esser chiamato a rispondere penalmente dell’“evento infausto” cagionato dai propri “subordinati”. Diversamente, infatti, si finirebbe per attribuirgli proprio quella “responsabilità da posizione” che la Cassazione penale ripudia esplicitamente “in quanto non può pretendersi che il vertice di un reparto possa controllare costantemente tutte le attività che ivi vengono svolte, anche per la ragione, del tutto ovvia, che anch’egli svolge attività tecnico-professionale”42. Di qui la cassazione, senza rinvio, della sentenza impugnata nel caso specifico.
abbastanza recete, si era pronunciata in termini ben diversi, escludendo l’applicabilità del “principio di affidamento” in nome di quella che sostanzialmente doveva ritenersi una riaffermazione della “responsabilità da posizione” del dirigente medico: “il principio di affidamento non può essere invocato da chi in virtù della sua particolare posizione ha l’obbligo di controllare e valutare l’operato altrui, se del caso intervenendo per porre rimedio ad errore altrui. Nel caso di esito infausto tale medico [n.d.r.: in posizione apicale] non ne risponderà se l’inosservanza non poteva essere da lui prevista né era prevedibile in ragione della specificità della branca dell’ars medica in cui si colloca quella inosservanza; altrimenti il suo ruolo di garante lo esporrà a responsabilità penale sempre che sussista il nesso di causalità tra la l’omissione e l’evento” (Cass. pen., 13.6.2015, n. 31241, in DeJure). A quest’ultimo riguardo, la Corte annota inoltre che “in tal caso, appare evidente il rischio di contrasto col principio di responsabilità penale personale, ex art. 27, comma I Cost.” e, dunque, col principio della personalità della responsabilità penale. 42
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5. I limiti della responsabilità omissiva del dirigente sanitario oggi Le considerazioni che precedono dimostrano, con immediata evidenza, come la teorizzazione di una “posizione di garanzia” del dirigente sanitario dell’ospedale pubblico, ai fini di ricavarne una responsabilità per colpa nei termini un tempo ipotizzati dalla giurisprudenza, non sia più compatibile col diritto vigente. Questo ha, infatti, completamente ridisegnato il modello organizzativo delle strutture ospedaliere, rispetto a quello tratteggiato in termini verticistici e compartimentalizzati, ormai mezzo secolo fa, dalla legge Mariotti e dai suoi decreti di attuazione, quale il d.P.R. n. 128/1969, ormai da tempo, e non casualmente, abrogato. A ben guardare, anzi, quella lettura della responsabilità primariale spinta all’eccesso produceva l’effetto pratico di sostituire alla responsabilità per colpa una forma di responsabilità oggettiva non prevista dall’ordinamento, in quanto tale inammissibile in sede civile (e semplicemente inconcepibile ai fini penali, in relazione al disposto dell’art. 27, comma 1°, Cost.). Sicché appariva già di per sé decisamente discutibile. Certo è che, in ogni caso, essa è divenuta oggi puramente e semplicemente improponibile. Il contenuto ed i limiti della responsabilità omissiva del dirigente sanitario vanno, invero, ridisegnati nella loro naturale configurazione, da un lato con riguardo alle ipotesi di inadempimento degli anzidetti compiti dirigenziali di programmazione e coordinamento e dall’altro a quelle di culpa in eligendo e, soprattutto, di culpa in vigilando correttamente intesa nei termini dianzi illustrati, e cioè in relazione a quelli che effettivamente sono i poteri/doveri di controllo affidati al dirigente sanitario dal diritto vigente. È quindi auspicabile che la giurisprudenza accolga, più consapevolmente di quanto non abbia fatto sino ad ora, questo modello di responsabilità, facendone corretta applicazione alle fattispecie sulle quali sarà chiamata a decidere.
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Saggi e pareri
Saggi e pareri
Il cumulo di indennizzo e risarcimento e la compensatio lucri cum damno
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Italo Partenza
Avvocato in Milano Sommario: 1. La compensatio lucri cum damno: le ragioni antiche e gli abusi interpretativi. – 2. Il contrasto di giurisprudenza in tema di cumulo di indennizzo e risarcimento. – 3. L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite. – 4. Quale disciplina per indennizzo e risarcimento del danno alla salute dopo le pronunce delle Sezioni Unite.
Abstract: Chi subisce un danno per atto illecito di un terzo o per inadempimento di una parte può trattenere la prestazione assicurativa – indennitaria o previdenziale – percepita a seguito del danno o la stessa deve essere detratta dal risarcimento? Alcune riflessioni sul ruolo delle prestazioni assicurative di natura indennitaria a seguito della pronuncia delle Sezioni Unite del maggio 2018. Can damaged party receive compensation together with any private or public indemnity due because of the loss? The paper suggests some channel of thoughts concerning casualty insurance after the judgment of the Supreme Court S.U. of May 2018.
1. La compensatio lucri cum damno: le ragioni antiche e gli abusi interpretativi Qualora un paziente subisca un danno ingiusto a causa dell’inadempienza contrattuale dell’istituto di cura al quale si sia rivolto e per responsabilità professionale del medico e nel contempo – in ragione di una polizza sottoscritta precedentemente al fatto o di una previsione di legge – diventi beneficiario di una prestazione indennitaria
o previdenziale proprio in ragione dei postumi riportati dalle errate cure, avrà diritto a percepire risarcimento e prestazione aggiuntiva o soltanto il risarcimento, non risultando consentito che il danneggiato si trovi post illecito in una situazione migliore rispetto al momento antecedente il danno sofferto? La risposta a questo quesito implica la necessità di addentrarsi in un antico istituto – da taluno amato, da altri mal sopportato – che prende il nome di compensatio lucri cum damno. Vi sono alcuni istituti nel nostro ordinamento che, in ragione della loro rispondenza a principi generali di buon senso e di derivazione romanistica, trovano una cittadinanza indiscussa ed un utilizzo frequente nonostante non abbiano trovato un espresso riconoscimento codicistico. Uno di questi è sicuramente la compensatio lucri cum damno, ovvero il principio in virtù del quale il danno subito in conseguenza di un atto illecito o di un inadempimento debba essere ridotto proporzionalmente nella sua risarcibilità in ragione di un arricchimento (lucrum) che dal danno stesso sia derivato1.
Critici sull’istituto numerosi esponenti della Dottrina fra i quali si ricordano Visintini, Inadempimento delle obbligazioni, nel Trattato dir. priv., diretto da Rescigno, IX, a cura di Visintini e Cabella Pisu, Torino, 1999, 207, 263 e Franzoni,
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Il fondamento dell’istituto è certamente da rinvenire nel diritto romano2 e – confermato nei secoli dalla migliore dottrina3 – ha trovato nei più recenti interpreti un suo collegamento normativo nell’art. 1223 c.c. in virtù del quale “Il risarcimento del danno per l’inadempimento o per il ritardo deve comprendere così la perdita subita dal creditore come il mancato guadagno, in quanto ne siano conseguenza immediata e diretta”. Il riferimento a tale norma consente di fornire un quadro normativo ancora attuale richiamando la necessità di non calcolare come perdita quell’utile che sia derivato al danneggiato dall’inadempimento o dall’atto illecito in quanto la perdita o il mancato guadagno non possono che essere guardati come complessivi e non in modo particolare o meramente contabile. Esigenze di giustizia sostanziale impongono infatti che il danneggiante non venga gravato di obblighi compensativi di fatto inesistenti e che il danneggiato non lucri vantaggio “sine titulo”. Il principio di carattere generale – più volte ripreso nel nostro ordinamento – trova altresì un richiamo in diverse parti del nostro codice, si pensi ad esempio all’art. 1592 c.c. che consente al conduttore di computare, nella quantificazio-
Il danno al patrimonio, Milano, 1996, 159. Più di recente si segnala anche Izzo, La compensatio lucri cum damno come «latinismo di ritorno», in Resp. civ. e prev., 2012, 1738, che evidenzia i numerosi casi nei quali essa è stata ritenuta non applicabile dalla Suprema Corte. Per una colta e approfondita analisi – anche comparatistica e storica – dell’istituto si segnala l’autorevole ed importante monografia di Izzo, La “Giustizia” del beneficio. Fra responsabilità civile e welfare del danneggiato, Trento, 2018. In ambito di negotiorum gestio Sesto Pomponio ricordava la necessità – in un’operazione complessiva di acquisto di schiavi – di calcolare il vantaggio derivante dall’acquisto di schiavi “utili” il cui vantaggio andava defalcato dal danno derivante dagli schiavi “dannosi” “[…] Quod si in quibusdam lucrum factum fuerit, in quibusdam damnum, absens pensare lucrum cum damno debet”, le Pandette di Giustiniano – Riordinate da Pothier, Venezia, 1841, 877. Sulla non riferibilità del discusso passo alla compensatio si veda tuttavia Cogliolo, voce «Danno», nel Digesto, IX, Torino, 1926, 23 ss. 2
De Cupis, Il Danno: teoria generale della responsabilità civile, 1, Milano, 1979, 317, con importanti richiami alla dottrina tedesca, Mommsen ed in particolare la sua opera Zur Lehre von dem Interesse, Braunschweig, 1855, 194 ss.
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ne dei danni provocati da deterioramenti nell’uso del bene a lui locato, i miglioramenti apportati al bene stesso. Anche in questo caso il significato – abbastanza ovvio diremmo – della norma risponde al principio – quasi di diritto naturale – che vieta arricchimenti (in questo caso del danneggiato) sine causa, imponendo in sede di liquidazione del danno la necessità di rinvenire contemperamenti legati a vantaggi indotti dell’evento lesivo che altrimenti – e su questo punto torneremo con estrema chiarezza e decisione – rimarrebbero privi di una causa, di un titolo, di una giustificazione giuridicamente rilevante. Il collegamento dunque del vantaggio da calcolare nel calcolo del danno risiede nella necessità di evitare arricchimenti ingiusti come sancito dalla norma sussidiaria dell’art. 2041 c.c., comma 1°, a mente della quale “Chi, senza una giusta causa, si è arricchito a danno di un’altra persona è tenuto, nei limiti dell’arricchimento, a indennizzare quest’ultima della correlativa diminuzione patrimoniale”.
2. Il contrasto di giurisprudenza in tema di cumulo di indennizzo e risarcimento La giurisprudenza delle Suprema Corte, rispettosa della storia del pensiero giuridico e delle sue vie maestre, era in verità sempre stata abbastanza chiara su ambiti e limiti interpretativi dell’istituto: “il risarcimento deve coprire tutto il danno cagionato, ma non può oltrepassarlo, non potendo costituire fonte di arricchimento del danneggiato, il quale deve invece essere collocato nella stessa curva di indifferenza in cui si sarebbe trovato se non avesse subito l’illecito: come l’ammontare del risarcimento non può superare quello del danno effettivamente prodotto, così occorre tener conto degli eventuali effetti vantaggiosi che il fatto dannoso ha provocato a favore del danneggiato, calcolando le poste positive in diminuzione del risarcimento”4.
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Cass., 11.7.1978, n. 3507, in Dir. ed econ. ass., 1978, 551.
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Sempre secondo il medesimo orientamento la compensatio, potrebbe operare “solo quando il pregiudizio e l’incremento discendano entrambi, con rapporto immediato e diretto, dallo stesso fatto”, ma non risulterebbe operante “[…] quando il vantaggio derivi da un titolo diverso ed indipendente dall’illecito stesso, il quale costituisce soltanto la condizione perché il diverso titolo spieghi la sua efficacia”5. Da alcuni anni, tuttavia, la III sezione della Suprema Corte – in tema di responsabilità civile e di sua assicurazione – appare animata da un desiderio di rivisitazione di orientamenti ritenuti forse eccessivamente sedimentati, avvertendo la necessità di “provocare” una rottura rispetto a linee perfettamente delineate da precedenti orientamenti di legittimità, mediante pronunce ampiamente argomentate che però collidono fortemente con le precedenti decisioni della medesima sezione, con conseguente ricorso poi all’intervento delle Sezioni Unite chiamate a segnare un nuovo corso interpretativo o a confermare quello precedente. Ciò è avvenuto in occasione della presunta risarcibilità del c.d. diritto a non nascere se non sano6 (meglio nota come sentenza Travaglino), nel caso dell’asserita risarcibilità del danno non patrimoniale da morte in via ereditaria7 (c.d. sentenza
“In tema di liquidazione del danno alla persona, qualora la vittima dell’illecito, a causa dell’invalidità dallo stesso derivata, abbia perduto in tutto o in parte il proprio reddito da lavoro e la prospettiva di futuri guadagni, ma abbia ugualmente lucrato vantaggi patrimoniali con altri mezzi o per effetto di un rapporto giuridico indipendente dal fatto illecito, tali vantaggi, in quanto meramente occasionati dal fatto illecito e dall’evento dannoso, e non causalmente ricollegabili ad esso, non riducono né elidono il pregiudizio legato alla perdita del reddito da lavoro. (In applicazione di tale principio, la S.C. ha ritenuto che il lavoratore costretto al pensionamento anticipato a causa dell’invalidità provocata dall’altrui illecito extracontrattuale ha diritto al risarcimento del danno conseguente alla perdita dei proventi della sua attività lavorativa fino al compimento dell’età pensionabile, escludendo l’operatività della ‘compensatio lucri cum damno’ con il reddito derivante dalla pensione eventualmente percepita)” Cass., 28.7.2005, n. 15822, in Mass. Giust. civ., 2005.
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Cass., 2.10.2012, n. 16754, in Mass. Giust. civ., 2012.
Cass., 23.1.2014, n. 1361, in Arch. giur. circ., 2014, 901, con nota di Gussoni.
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Scarano), con la pronuncia sulla clausole claims made (c.d. sentenza Rossetti) dopo una sentenza delle Sezioni Unite di pochi mesi prima8 e, argomento che ci riguarda, in tema di negazione del diritto al cumulo fra indennizzo assicurativo/previdenziale per un danno riconducibile ad un fatto illecito e conseguente risarcimento dello stesso. Premesso che il riferimento della pronuncia al nome del Relatore è questione diffusa fra i pratici del diritto ma sostanzialmente inappropriata, essendo sempre la decisione proveniente da un Organo collegiale, è indubbia una certa vivacità nel proporre nuove riletture di questioni assai discusse che, tuttavia, non hanno mai trovato conferma dalle Sezioni Unite. Chi scrive non intende certamente porsi domande sulle ragioni di un approccio di questo tipo a questioni ampiamente dibattute e condivise, ma alcune di esse sembrano non valorizzare a sufficienza l’importanza che un orientamento di legittimità rimanga consolidato (consolidato, certo non cristallizzato) onde favorire comportamenti consapevoli da parte dei fruitori delle norme, anche nel rispetto della storia del pensiero giuridico che non invano ha lasciato autorevoli linee guida. Nell’ambito di queste incertezze interpretative introdotte dallo spirito rivisitativo della III sezione si colloca la questione della compensatio lucri cum damno, ovvero della sua interpretazione estensiva a casi di erogazione di indennizzo e risarcimento sia pure originati da titoli differenti. Il punto è infatti questo: nessun dubbio che la compensatio debba riguardare l’ipotesi in cui da un medesimo titolo derivino vantaggi e pregiudizi risarcibili alla medesima persona, mentre è discusso se al danneggiato vada sottratto in tutto o in parte quanto reclamabile a titolo di indennizzo contrattuale in ragione della percezione di un risarcimento. Modificando, infatti, un precedente orientamento della medesima Sezione, la Suprema Corte nel 20149 aveva fortemente criticato la tesi della cu-
Cass., 28.4.2017, n. 10506, in questa Rivista, 2017, 237, con nota di Partenza.
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Cass., 13.6.2014, n. 13537, in Riv. it. med. leg., 2015, 283,
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mulabilità di una rendita per reversibilità previdenziale nel danno da morte. In questa interpretazione la prevalente giurisprudenza di legittimità si sarebbe da sempre espressa in favore del cumulo di risarcimento e pensione di reversibilità sulla base di erronea interpretazione dell’istituto della compensatio lucri cum damno, e cioè procedendo dall’asserita errata visione secondo la quale l’istituto troverebbe applicazione nella liquidazione del danno al fine di scomputare tutti i vantaggi patrimoniali conseguiti dal danneggiato, ma soltanto nel caso in cui gli stessi trovassero la medesima fonte nell’illecito e non anche in titoli diversi fra loro. Afferma la Suprema Corte in questa pronuncia che l’istituto della compensatio – ove inteso nei termini di cui all’orientamento tradizionale – non potrebbe trovare di fatto alcuna applicazione, dal momento che “è assai raro (se non impossibile) che un fatto illecito possa provocare da sé solo, e cioè senza il concorso di nessun altro fattore umano o giuridico, sia una perdita, sia un guadagno”. In questa diversa rilettura dell’istituto la compensatio dovrebbe essere intesa sì come una conseguenza di quanto previsto dall’art. 1223 c.c., che come detto impone di tener conto – nell’accertamento e nella quantificazione del danno – di tutte le utilità eventualmente percepite dal danneggiato a seguito dell’illecito, ma – e qui la novità – non necessariamente legate all’atto produttivo del danno. Disattendendo tale approccio interpretativo “si perverrebbe alla assurda conseguenza che il patrimonio complessivo del nucleo familiare della vittima sarebbe paradossalmente accresciuto in conseguenza del decesso” e ciò violerebbe il c.d. principio dell’indifferenza del risarcimento in virtù del quale il danneggiato dovrebbe trovarsi post risarcimento nella situazione ex ante illecito e non in una posizione migliore; e poi, ove si ammettesse che il danneggiato possa cumulare risarcimento e trattamento di reversibilità l’assicuratore sociale – rileva la Corte – sarebbe di fatto privato della facoltà di agire in surrogazione nei confron-
con nota di Bonaccorsi.
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ti del responsabile (il quale, col pagamento del risarcimento in favore del danneggiato, estinguerebbe integralmente la propria obbligazione). A fronte del contrasto giurisprudenziale di cui sopra, la III sezione della Corte (con ordinanza n. 15536/2017) richiedeva l’intervento delle Sezioni Unite cui veniva posto il seguente quesito di diritto: “se il risarcimento del danno patrimoniale patito dal coniuge di persona deceduta, e consistito nella perdita dell’aiuto economico offertole dal defunto, va liquidato detraendo dal credito risarcitorio il valore capitalizzato della pensione di reversibilità attribuita al superstite”. A tale quesito facevano in realtà compagnia altri analoghi10, tutti fondati sul tema (di fatto negato nelle ordinanze) della cumulabilità di indennizzo assicurativo e risarcimento del danno, sul presupposto che l’indennizzo in sé costituisca – se cumulato – un’indebita locupletazione per il danneggiato da defalcare dal risarcimento.
3. L’orientamento espresso dalle Sezioni Unite Le Sezioni Unite si son dunque trovate a dover decidere circa l’applicabilità della compensatio lucri cum damno ogni qual volta il danneggiato abbia in qualche modo ricevuto benefici in occasione (e non a causa) dell’atto illecito, ora percependo indennizzi da assicuratori privati/sociali o da enti previdenziali, ovvero anche da terzi, in ragione di atti indipendenti dalla volontà del danneggiante. In altri termini la questione oggetto di esame era
10 Per quanto attiene alle altre sentenze gemelle, uno dei quesiti sottoposti alle Sezioni Unite e deciso dalla sentenza 22.5.2018, n. 12565, in Mass. Giust. civ., 2018, concerne il caso della tragedia aerea di Ustica che aveva ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali avanzata dalla società proprietaria del velivolo nei confronti del Ministero della difesa e del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti, quello deciso dalla sentenza 22.5.2018, n. 12566, ibidem, riguardava una domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali proposta dal conducente di un ciclomotore in conseguenza di un sinistro stradale, qualificato come infortunio in itinere, mentre quello di cui alla sentenza 22.5.2018, n. 12567, ibidem, alla eventuale cumulabilità di assegno di accompagnamento erogato dall’INPS in favore di un minore e risarcimento del danno da errate cure.
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se defalcare o meno dal risarcimento l’importo percepito dal danneggiato allorché l’evento causato dall’illecito costituisca il mero presupposto per l’attribuzione alla vittima, da parte di soggetti pubblici o privati, di benefici economici il cui risultato diretto o mediato sia attenuare il pregiudizio causato dall’illecito, seppur avente un titolo autonomo ed una propria causa giustificatrice. Le Sezioni Unite pur accogliendo la tesi negatoria del cumulo nell’ipotesi di indennizzo attinente ad un rischio avente ad oggetto la medesima perdita oggetto di risarcimento, hanno tuttavia salvaguardato il principio della legittima coesistenza di indennizzo e risarcimento al ricorrere di due specifiche condizioni che appaiono assolutamente coerenti con lo spirito del precedente orientamento e con la storia dell’istituto. Esse sono l’identità del rischio da valutare in concreto fra danno oggetto dell’indennizzo e danno oggetto di risarcimento e diritto di rivalsa in capo all’assicuratore. Il ragionamento posto a fondamento della/e pronuncia/e si dipana attraverso una serie di condivisibili argomentazioni. La prima smentisce la tesi della applicabilità del cumulo – elaborata con la pronuncia citata del 2004 della III sezione – per qualsiasi vantaggio derivato al danneggiato a seguito (e non a causa) dell’illecito: tale interpretazione – ricordano le Sezioni Unite – finirebbe per “spingersi fino al punto di attribuire rilevanza a ogni vantaggio indiretto o mediato, perché ciò condurrebbe ad un’eccessiva dilatazione delle poste imputabili al risarcimento, finendo con il considerare il verificarsi stesso del vantaggio un merito da riconoscere al danneggiante”. Pertanto “[…] affidare il criterio di selezione tra i casi in cui ammettere o negare il cumulo all’asettico utilizzo delle medesime regole anche per il vantaggio”, finisce: “per ridurre la quantificazione del danno, e l’accertamento della sua stessa esistenza, ad una mera operazione contabile, trascurando così la doverosa indagine sulla ragione giustificatrice dell’attribuzione pa-
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trimoniale entrata nel patrimonio del danneggiato”11. Occorre, dicono gli Ermellini, porsi in una differente prospettiva, ovvero non “quella della coincidenza formale dei titoli, ma quella del collegamento funzionale tra la causa dell’attribuzione patrimoniale e l’obbligazione risarcitoria” poiché non si può utilizzare “[…] una regola categoriale destinata ad operare in modo ‘bilancistico’”, ma è necessario “un confronto tra il danno e il vantaggio che di volta in volta viene in rilievo, alla ricerca della ragione giustificatrice del beneficio collaterale e, quindi, di una ragionevole applicazione del diffalco”. Se dunque obiettivo della sicurtà garantita dall’assicuratore è quello della medesima perdita subita dal danneggiato in occasione dell’illecito, a risarcimento avvenuto non vi sarebbe di fatto più danno e dunque neppure realizzazione del rischio assicurato in polizza mentre, nel caso in cui sia stato l’assicuratore a versare per primo l’indennizzo, vi sarà il meccanismo della surroga di cui all’art. 1916 c.c. (o norma analoga) a determinare la successione dell’assicuratore stesso nei diritti che il danneggiante avrebbe avuto verso il responsabile civile. Affermano le Sezioni Unite che “[…] quando il danneggiato, prima di percepire l’indennizzo assicurativo, ottiene il risarcimento integrale da parte del responsabile, cessa l’obbligo di indennizzo dell’assicuratore (Cass. civ., sez. II, 25 ottobre 1966, n. 2595); se invece è l’assicuratore a indennizzare per primo l’assicurato, quando il risarcimento da parte del terzo responsabile non ha ancora avuto luogo, allora, ai sensi dell’articolo 1916 c.c., l’assicuratore è surrogato, fino alla concorrenza dell’ammontare dell’indennità corrisposta, nel diritto dell’assicurato verso il terzo medesimo”. La surroga prevista dal codice in favore dell’assicuratore che abbia pagato (senza necessità di previe dichiarazioni in quanto il diritto di rivalersi sorge di diritto per effetto dell’erogazione dell’indennizzo) dunque “funge da mecca-
11 Cass., sez. un., 22.5.2018, n. 12564, in Foro it., 2018, I, 1900, con nota di Pardolesi.
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nismo di raccordo”, sicché “[…] mentre consente all’assicuratore di recuperare aliunde quanto ha pagato all’assicurato-danneggiato, impedisce a costui di cumulare, per lo stesso danno, la somma già riscossa a titolo di indennità assicurativa con quella ancora dovutagli dal terzo responsabile a titolo di risarcimento, e di conseguire così due volte la riparazione del pregiudizio subito”. Opportunamente le Sezioni Unite precisano – nonostante la tesi contraria del PM – che non gioverebbe affermare che in caso di indennizzo richiesto dopo il risarcimento il cumulo sarebbe giustificato dall’avere l’assicurato pagato dei premi, posto che i premi non trovano il loro sinallagma nell’indennizzo, bensì nella sicurezza garantita all’assicurato di manleva da un danno, evidentemente nel caso già alleviato o compensato. Affermano a riguardo le Sezioni Unite che “la prestazione dell’indennità non è in rapporto di sinallagmaticità funzionale con la corresponsione dei premi da parte dell’assicurato, essendo l’obbligo fondamentale dell’assicuratore quello dell’assunzione e della sopportazione del rischio a fronte della obiettiva incertezza circa il verificarsi del sinistro e la solvibilità del terzo responsabile” sicché il pagamento dei premi da parte dell’assicurato “è in sinallagma con il trasferimento del rischio, non con il pagamento dell’indennizzo”. Dunque l’omogeneità o identità di tipologia di perdita tutelata o – in caso di disomogeneità – il diritto di surroga che svolge funzione di raccordo fra classi di rischio disomogenee come quella indennitaria e risarcitoria, sono le due condizioni perché si possa provvedere alla compensatio, non altre. Laddove invece il rischio sia disomogeneo e l’assicuratore indennizzante non abbia previsto un diritto di surroga, mancherebbe il collegamento e dunque il danneggiato/assicurato ben potrà a risarcimento conseguito richiedere anche l’indennizzo, qualora lo stesso sia finalizzato ad una esigenza di tutela differente da quella avente ad oggetto il diritto risarcitorio, posto che altrimenti il danneggiante – neppure soggetto alla surroga dell’assicuratore – si troverebbe irragionevolmente avvantaggiato da un pagamento da lui non favorito né determinato.
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E peraltro su questo specifico punto la stessa sezione III con la sentenza del 2014 citata aveva comunque riconosciuto che “[…] la detrazione dal risarcimento del danno aquiliano dell’indennizzo assicurativo percepito dalla vittima in virtù di una assicurazione contro gli infortuni esige che il danno patito ed il rischio assicurato coincidano: se l’assicurazione copre il danno da perdita della capacità di lavoro (danno patrimoniale), e la vittima del fatto illecito abbia subito soltanto un danno biologico (danno non patrimoniale), nessuna detrazione sarà possibile, a nulla rilevando che l’assicuratore abbia, per effetto di particolari clausole contrattuali che ammettano l’indennizzabilità d’un danno presunto, pagato ugualmente l’indennizzo”12.
4. Quale disciplina per indennizzo e risarcimento del danno alla salute dopo le pronunce delle Sezioni Unite Esistono, dunque, nel nostro ordinamento criteri obiettivi, ma non per questo così privi di elasticità da negare una verifica caso per caso alla luce degli stessi, tali da consentire una valutazione circa la possibilità di applicare o meno un cumulo fra indennizzo assicurativo (sociale, previdenziale o privato) e risarcimento che possa porsi in modo rispettoso dei principi generali dell’ordinamento, senza che vi siano indebite forzature logiche né ingiusti privilegi o – rectius – indebiti arricchimenti. Il tema dell’indebito arricchimento e, quindi, della sussistenza di un titolo che giustifichi la doppia percezione è, a parere di chi scrive, centrale, se non altro perché oggetto di compensazione è proprio il danno subito con quell’arricchimento (lucrum) che risulti privo di una giustificazione giuridica che lo rende lecito. L’analisi, caso per caso, della sussistenza di un titolo idoneo alla percezione dell’indennizzo in concorso con il risarcimento passa proprio dall’analisi del contratto di assicurazione e della sua
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Cass., 13.6.2014, n. 13537, cit.
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causa, ovvero l’assunzione di un’alea da parte dell’assicuratore previo incasso del premio. Il premio dunque, come evidenziato dalle Sezioni Unite, non è sinallagmaticamente connesso all’indennizzo ma alla sicurezza di una manleva al verificarsi di un evento futuro ed incerto (ergo l’assicurato non paga un premio per vedersi riconoscere sempre e comunque un indennizzo, bensì per essere sicuro che in caso di danno potrà contare su di esso nei termini e nella misura previsti dal contratto). Orbene se la perdita che costituisce la realizzazione dell’alea che l’assicurato ha traslato sull’assicuratore trova aliunde la sua compensazione, non vi è danno e dunque non vi è ragione per percepire un indennizzo che – ove erogato – costituirebbe un indebito arricchimento poiché non avrebbe la sua causa nel premio pagato ma in una perdita già sanata. Se, invece, l’assicurato/danneggiato avesse percepito un indennizzo proprio per l’avere subito un danno che sia anche fonte di un diritto al risarcimento vedrebbe – ex lege – surrogato nei suoi diritti l’assicuratore nei termini e nei limiti dell’effettiva erogazione e della sussistenza di una valida pretesa verso il terzo responsabile. Anche in questo caso l’indebito arricchimento viene sanato attraverso l’esercizio di un diritto di surroga che non danneggia in alcun modo l’assicurato né consente al responsabile di andare indenne dai suoi obblighi risarcitori, traendo indebito arricchimento dalla copertura assicurativa sottoscritta dal danneggiato13. Se, al contrario, l’alea assunta dall’assicuratore – previo incasso del premio – non ha ad oggetto il medesimo evento che costituisce la fonte della responsabilità civile del terzo, come ad esempio
13 “Se così non fosse, se cioè il responsabile dell’illecito, attraverso il non-cumulo, potesse vedere alleggerita la propria posizione debitoria per il solo fatto che il danneggiato ha ricevuto, in connessione con l’evento dannoso, una provvidenza indennitaria grazie all’intervento del terzo, e ciò anche quando difetti la previsione di uno strumento di riequilibrio e di riallineamento delle poste, si avrebbe una sofferenza del sistema, finendosi con il premiare, senza merito specifico, chi si è comportato in modo negligente.” Cass., sez. un., 22.5.2018, n. 12564, cit.
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il caso della polizza previdenziale che preveda l’elargizione di un’indennità in caso di morte ma non con la finalità di compensare la stessa, bensì di fornire una sicurezza reddituale e previdenziale, non potrà aversi alcuna compensatio, poiché il fatto che un illecito occasioni situazioni di vantaggio per il danneggiato non significa che tale vantaggio sia privo di causa o determini un ingiusto arricchimento: l’arricchimento non sarebbe tale e non sarebbe infatti ingiusto in quanto fondato su un titolo contrattuale che prevede l’erogazione di un indennizzo per una causale in sé autonoma rispetto all’evento specificamente fonte di responsabilità. In questo caso ben potrà l’assicurato pretendere l’indennizzo (salvo che non sia previsto in polizza un diritto di rivalsa posto che in tal caso il conflitto sarebbe stato risolto a monte dal legislatore codicistico) anche a risarcimento avvenuto trovando detto indennizzo il suo titolo in un contratto avente ad oggetto un’alea autonoma e diversa; diversamente se la finalità della copertura fosse stata proprio quella di coprire il danno subito per l’illecito, una volta risarcito, esso non sarebbe più un danno né per l’assicurato né per l’assicuratore. Così, ricordano le Sezioni Unite, “[…] non possono rientrare nel raggio di operatività della compensatio i casi in cui il vantaggio si presenta come il frutto di scelte autonome e del sacrificio del danneggiato, come avviene nell’ipotesi della nuova prestazione lavorativa da parte del superstite, prima non occupato, in conseguenza della morte del congiunto. Allo stesso modo, nel determinare il risarcimento del danno, non sono computabili gli effetti favorevoli derivanti dall’acquisto dell’eredità da parte degli eredi della vittima: la successione ereditaria, infatti, è legata non già al fatto di quella morte, bensì al fatto della morte in generale, che si sarebbe verificata (anche se in un momento successivo) in ogni caso, a prescindere dall’illecito. Si tratta di un esito interpretativo che discende pianamente dall’insegnamento della dottrina, la quale ha evidenziato che le conseguenze vantaggiose, come quelle dannose, possono computarsi solo finché rientrino nella serie causale dell’illecito, da determinarsi secondo un criterio adeguato di causalità, sicché il beneficio non è computabile in detrazione con l’applicazione della compensaResponsabilità Medica 2018, n. 4
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tio allorché trovi altrove la sua fonte e nell’illecito solo un coefficiente causale”. Dunque, in ipotesi di danno sofferto da un paziente in occasione di cure mediche erroneamente prestate non si opererà alcuna compensatio (e quindi si procederà al cumulo) in tutti i casi in cui la prestazione assicurativa non fosse stata preordinata contrattualmente a coprire proprio quel tipo di danno subito. Non si procederà alla compensatio, dunque, in caso di erogazione di una polizza vita, di una indennità prevista da una polizza infortuni ma avente ad oggetto ad esempio una inabilità generica non oggetto di risarcimento e neppure – in caso di morte del paziente – si potrà compensare il risarcimento spettante agli eredi con la pensione di reversibilità ad essi spettante. L’erogazione, infatti, della pensione di reversibilità non è in alcun modo finalizzata a risarcire le conseguenze prodottesi nel patrimonio del danneggiato a causa dell’illecito del terzo ma assolve ad una funzione di tipo previdenziale, che si connota come adempimento di una promessa rivolta dall’ordinamento al lavoratore-assicurato che, impegnando durante il proprio lavoro una parte del proprio reddito lavorativo, incrementa la propria posizione previdenziale: tale promessa è una promessa di restituzione di proprio denaro affinché, prima o dopo il pensionamento, allorché avrà cessato di vivere, quale che sia la causa o l’origine dell’evento protetto, vi sia la garanzia per i suoi congiunti di un trattamento previdenziale auto creato e diretto a garantire la continuità del sostentamento e a prevenire o ad alleviare lo stato di bisogno. Ecco quindi che la Corte chiarisce che “Sussiste dunque una ragione giustificatrice che non consente il computo della pensione di reversibilità in differenza alle conseguenze negative che derivano dall’illecito, perché quel trattamento previdenziale non è erogato in funzione di risarcimento del pregiudizio subito dal danneggiato, ma risponde ad un diverso disegno attributivo causale. La causa più autentica di tale beneficio – è stato osservato – deve essere individuata nel rapporto di lavoro pregresso, nei contributi versati e nella previsione di legge: tutti fattori che si configurano come serie causale indipendente e assorbente rispetto alla Responsabilità Medica 2018, n. 4
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circostanza (occasionale e giuridicamente irrilevante) che determina la morte”. Qualora, invece la prestazione previdenziale – come nel caso dell’indennità di accompagnamento in favore di un minore leso dalle errate cure – vada a compensare un pregiudizio patrimoniale che è una parte costitutiva del danno meritevole di risarcimento, non potrà esserci cumulo poiché l’indennità soddisfa il medesimo bisogno del risarcimento erogato per il medesimo titolo. Peraltro nella sentenza gemella n. 12567/2018, le Sezioni Unite evidenziano altresì un aspetto cruciale, ovvero che l’importo capitalizzato della prestazione assistenziale debba essere detratto dal risarcimento dovuto al danneggiato già al momento della liquidazione del danno con la conseguenza che risulta sempre escluso il rischio di un doppio aggravio a carico del responsabile civile, ove mai l’INPS intendesse successivamente “recuperare” l’importo erogato al danneggiato sulla base della legislazione assistenziale, fermo che all’INPS non si applica alcun diritto di surroga avente l’azione di cui all’art. 41 della l. n. 183/2010 una sua autonomia14. Al di là, dunque, dei meccanismi riequilibratori previsti dalla surroga disciplinata dall’art. 1916 c.c., permane la libertà di ciascun cittadino – e su questo occorrerà una sempre maggiore chiarezza da parte degli intermediari assicurativi al momento della stipula – di contrattualizzare la cessione di un’alea ad un assicuratore finalizzata o alla copertura del rischio di subire un danno (anche per colpa di un terzo) sapendo che in tal caso non potrà avere indennizzo e risarcimento per le medesime poste, poiché il beneficio aggiuntivo sarebbe privo di causa e fonte di ingiustificato arricchimento, oppure a coprire un evento della vita a prescindere da finalità risarcitorie/compensative sicché, in tal caso, il diritto all’indennizzo maturato contrattualmente non potrà essergli sottratto. Un ordinamento giuridico non può, del resto essere “geloso” dei benefici muniti di giustificazione causale che pervengano a chi abbia subito un atto illecito, né un presunto e deviato egualitarismo
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Cass., sez. un., 22.5.2018, n. 12567, cit.
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Cumulo di indennizzo e risarcimento
può privare il beneficiario di prestazioni contrattuali o pubbliche che trovino un titolo formatosi aliunde e munito di tutela normativa. Né al Giudice è consentito, attraverso interpretazioni vagamente orientate a principi privi di espressa codifica normativa, di sopravanzare l’interpretazione della norma alla volontà negoziale, ove lecita e compatibile con i principi dell’ordinamento medesimo. L’art. 1372 c.c. ricorda a tutti noi che “Il contratto ha forza di legge tra le parti” sicché, pur non essendo fonte del diritto, vincola i contraenti come se una legge avesse disciplinato la medesima fattispecie ed i relativi rapporti, più di quanto può una sentenza: il Legislatore ha creduto nella autonomia contrattuale e nella forza del libero consenso al punto da fondare su di esso e sulla tutela della sua libertà l’intero diritto delle obbligazioni. Il contratto – se lecito – prevale su qualsivoglia interpretazione della norma e l’interpretazione della volontà delle parti prevale su quella oggettiva come ci ricorda l’art. 1362 c.c., così come la causa lecita ma atipica non può e non deve essere stravolta da interferenze seppure ispirate al diffuso tema della “meritevolezza”. Il rispetto della autonomia negoziale ed il principio della giustificazione causale delle attribuzioni patrimoniali deve restare il riferimento per valutare quali “arricchimenti” siano suscettibili di tutela e quali no. Altre considerazioni sul destino dei patrimoni dei danneggiati e sui loro accrescimenti post illecito non paiono giustificate. Sotto un profilo sistematico, invece, della gestione compensativa dell’atto illecito (o dell’inadempimento) la regolamentazione che vieta il cumulo per le prestazioni assicurative aventi ad oggetto la compensazione di un danno ed il diritto di surroga rende ancor più attuale la strada di un superamento dello strumento risarcitorio – da limitare alla colpa grave ed al dolo in attività come quelle sanitarie – lasciando invece all’assicuratore del ramo danni il compito di gestire il rischio collettivo del danno a terzi in attività pericolose. Per il rischio degli eventi avversi non ha più utilità, a parere di chi scrive, costruire sistemi colpevolizzanti che abbandonano l’assicurato di fronte al rischio non gestibile ed alla fuga degli assicuratori di responsabilità civile: è tempo di tornare
all’antico concetto di colpa facendo invece ricorso all’assicurazione danni non di responsabilità civile per coprire i rischi di attività pericolose ma socialmente utili. Il divieto di cumulo fra indennizzo e risarcimento ed il diritto di surroga concesso all’assicuratore rappresentano una importante ed opportuna cornice a nuove prospettive gestionali del tema degli accidents. Le due condizioni poste a base della possibilità di operare il cumulo, ovvero la diversità del rischio assicurato rispetto all’indennità compensativa del danno e l’assenza di un diritto di rivalsa pongono il problema di quale regola applicare nelle ipotesi – assai frequenti nel mercato – delle coperture danni infortuni nelle quali sia prevista la rinuncia al diritto di rivalsa: per queste polizze potrà operare il cumulo? Chi ne sostiene l’applicabilità, anche in ragione della necessità di giustificarne la stessa utilità e dunque esistenza come prodotti assicurativi, afferma che la natura sempre più previdenziale dell’indennità erogata e la rinuncia alla surroga come volontà tacita di elargire un plus all’assicurato rispetto all’eventuale risarcimento, sono gli argomenti che dovrebbero indurre all’applicazione del cumulo. Di fatto la linea argomentativa delle Sezioni Unite non sembra lasciare adito a dubbi: la compresenza di rinuncia alla rivalsa e diversità del rischio appare sempre necessaria sicché se esiste solo l’una (rinuncia alla rivalsa) ma il rischio è identico la compensatio appare l’unica via; se invece la natura dell’erogazione (ipotizziamo caso morte) avesse una palese funzione previdenziale per gli eredi, come pare indubbio15, il ragionamento non potrebbe che essere lo stesso di quello applicabile ad una polizza vita o – come in una
Sulla sofferta evoluzione giurisprudenziale della copertura infortuni fra ramo vita o danni o tertium genus, con definitivo collocamento della copertura caso invalidità/inabilità permanente nel ramo danni e quindi con natura indennitaria e della copertura in caso morte nel ramo vita e conseguente natura previdenziale si veda Locatelli, Assicurazione contro gli infortuni non mortali e cumulo di indennizzo e risarcimento del danno, in Resp. civ. e prev., 2014, 1885, nota a Cass., 11.6.2014, n. 13233. 15
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delle sentenze gemelle – alla reversibilità, ovvero la piena operatività del cumulo, mancando infatti in questo caso quella natura indennitaria che – ove eseguita – andrebbe ad arricchire sine causa il danneggiato ove sommata al risarcimento del terzo. Le Sezioni Unite delineano anche il criterio in virtù del quale individuare tale identità di rischio, ovvero la medesima esigenza indennitario/compensativa volta a premunirsi dalle conseguenze del danno che dovesse eventualmente anche avere natura di atto illecito, sicché qualsiasi erogazione assicurativa percepita per un infortunio con la finalità di compensare la perdita di salute o di reddito conseguente ad un danno che sia fonte anche di responsabilità civile del terzo, non potrà legittimare alcuna doppia compensazione, a prescindere da cosa l’assicuratore abbia deciso di fare del suo diritto a rivalersi. Non così, invece, a parere di chi scrive, per le erogazioni post mortem in forza di un siffatto contratto, prevalendo, in tal caso, la differente natura previdenziale.
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Saggi e pareri
Saggi e pareri Giurisprudenza
La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza
g g sa re e a p
Stefano Corso
Cultore nell’Università di Ferrara Sommario: 1. Premessa. – 2. La responsabilità del chirurgo estetico. L’evoluzione giurisprudenziale e normativa. – 3. Segue: il ruolo peculiare del consenso informato. – 4. Diritto alla salute e bellezza. – 5. Osservazioni conclusive.
Abstract: Il contributo analizza la problematica inerente alla responsabilità del chirurgo estetico, nell’ordinamento italiano. Affronta, in particolare, i contenuti della sua obbligazione e dell’informazione per il preventivo consenso libero e informato del paziente, cercando di evidenziare come l’applicazione di regole diverse, rispetto a quanto vale per la responsabilità del medico in generale, non trova giustificazione alla luce del concetto di diritto alla salute, anche in rapporto all’idea di bellezza. This article offers an analysis of the specific question concerning the cosmetic surgeon’s responsibility, in the Italian system. In particular, it focuses on the contents of his obligation and information for patient’s consent and it aims to show that the application of rules, that are different from the ones for the general medical responsibility, is not justify in light of the concept of right to health, also related to the idea of beauty.
stato da sempre una persona che non conosceva1. Un naso un po’ storto, un addome prominente, una calvizie abbondante, gli zigomi infossati, un seno troppo piccolo, una bocca troppo asciutta. Sono molti i tratti del proprio aspetto che possono non piacerci o che immaginiamo diversi o più belli. Quando avvertiamo il desiderio di migliorarne o di cambiarne qualcuno, possiamo pensare di rivolgerci al chirurgo estetico, affinché questi intervenga direttamente sul nostro corpo2. Il chirurgo estetico fa proprio questo, opera in modo che il nostro aspetto si modifichi, nella direzione indicata dal nostro desiderio e dalla nostra intenzione. È necessario, tuttavia, al fine di evitare confusione e possibili fraintendimenti, premettere che la chi-
Il riferimento è al celebre romanzo del poeta di Girgenti: Pirandello, Uno, nessuno e centomila, 2a ed., Milano, 2008, 17 ss. 1
Sul governo del corpo e i diritti riguardo al corpo, Zatti, Il corpo e la nebulosa dell’appartenenza, in Nuova giur. civ. comm., 2007, II, 17 ss. Sul problema della legittimazione giuridica della chirurgia estetica, Posteraro, Bioetica, bellezza e chirurgia estetica: la illegittima manipolazione del corpo nella quarta generazione dei diritti, in Helzel-Sergio (a cura di), La bioetica come ponte tra società e innovazione, Roma, 2016, 193 ss.; Id., Specificità della responsabilità nella chirurgia estetica, in Cassano (a cura di), Casi di errori in chirurgia estetica e risarcimento del danno, Santarcangelo di Romagna, 2016, 99 ss.; Id., Vanità, moda e diritto alla salute: problemi di legittimazione giuridica della chirurgia estetica, in Medicina e Morale, 2/2014, 275 ss. 2
1. Premessa Vitangelo Moscarda un giorno si guardò allo specchio, notò che il suo naso era leggermente storto e giunse alla conclusione che in realtà egli era
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rurgia estetica è una cosa diversa dalla chirurgia plastica. Nonostante il chirurgo estetico sia, per formazione e talvolta anche di professione, un chirurgo plastico, con la pratica della sua arte egli tende a raggiungere uno scopo che è diverso da quello che si persegue con la chirurgia plastica. La differenza principale, infatti, tra chirurgia estetica e chirurgia plastica sta nella funzione: mentre quest’ultima mira a ricostruire una condizione somatica, deteriorata da infortuni o eventi lesivi di vario carattere, o a riparare parti del corpo interessate da imperfezioni naturali, sensibilmente pregiudizievoli per la vita di relazione, affettiva o professionale, o anche per la salute stessa (chirurgia plastica c.d. ricostruttiva e riparativa), la chirurgia estetica è definita dagli interventi che, ritenuti non necessari fisicamente, hanno come obiettivo quello di correggere imperfezioni fisiche, che causano disagio, o comunque di cambiare l’immagine della persona conformemente alla sua volontà3. Come per lo svolgimento di qualsiasi attività, anche dagli interventi di chirurgia estetica possono derivare danni alla persona ed è in questo senso che si pone il problema della responsabilità del chirurgo estetico. Verrebbe da pensare che, essendo il chirurgo estetico un medico, anche per questo valgano le stesse regole che si applicano alla responsabilità del sanitario in generale. Se così fosse, non avrebbe neppure molto senso parlare in termini problematici della responsabilità del chirurgo estetico. In realtà, come si vedrà, la responsabilità nell’ambito della chirurgia estetica
Posteraro, Danni da chirurgia estetica, in Cassano (a cura di) Il danno alla persona, Milano, 2016, 895; Id., Vanità, moda e diritto alla salute: problemi di legittimazione giuridica della chirurgia estetica, cit., 276 ss. Cfr. Barale, La responsabilità del chirurgo estetico, in Riv. trim. dir. e proc. civ., 2005, 1359 ss. È bene precisare che la distinzione netta e nitida, in astratto, fra interventi di chirurgia plastica e interventi di chirurgia estetica viene ad avere contorni molto più sfumati in concreto, dinanzi alle singole operazioni chirurgiche, le quali possono anche presentare le caratteristiche di ambedue le tipologie di chirurgia, si pensi ad esempio alla rinosettoplastica. Sulla problematica definizione di chirurgia estetica, Pinchi-Focardi-Norelli, Deontologia ed etica in chirurgia plastica: una analisi comparativa, in Riv. it. med. leg., 2010, 936 ss. 3
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ha imboccato, per così dire, una strada a sé stante nel tempo ed è per questo che merita specifico approfondimento4.
2. La responsabilità del chirurgo estetico. L’evoluzione giurisprudenziale e normativa La tradizionale dicotomia che si propone quando ci si accinge ad esaminare la responsabilità di un professionista attiene alla natura del rapporto obbligatorio: obbligazione di mezzi e obbligazione di risultato. È indiscusso che quella relativa alla prestazione sanitaria sia stata per lungo tempo qualificata da dottrina e giurisprudenza come obbligazione di mezzi5, al pari delle prestazioni riconducibili all’e-
Alla “medicina estetica” è espressamente dedicato l’art. 76 bis del Codice di deontologia medica del 2014, inserito il 15 dicembre 2017, che recita: «Il medico, nell’esercizio di attività diagnostico-terapeutiche con finalità estetiche, garantisce il possesso di idonee competenze e, nell’informazione preliminare al consenso scritto, non suscita né alimenta aspettative illusorie, individua le possibili soluzioni alternative di pari efficacia e opera al fine di garantire la massima sicurezza delle prestazioni erogate. Gli interventi diagnostico-terapeutici con finalità estetiche rivolti a minori o a incapaci si attengono all’ordinamento».
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Cfr. Alpa, Dal medico all’équipe, alla struttura, al sistema, in Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, Pisa, 2017, 208. Sulla qualificazione della responsabilità medica, come avente natura contrattuale, giova ricordare che la teoria della responsabilità del medico come responsabilità da “contatto sociale” è stata fatta propria dalla giurisprudenza di legittimità con la sentenza 22 gennaio 1999, n. 589, della Corte di Cassazione. Il passato inquadramento della responsabilità medica come responsabilità extracontrattuale si rivela inadeguato nella misura in cui «riduce al momento terminale, cioè il danno, una vicenda che non incomincia con il danno, ma si struttura prima come “rapporto”, in cui il paziente, quanto meno in punto di fatto, si affida alle cure del medico e il medico accetta di prestargliele». La pronuncia si trova commentata: in Contratti, 1999, 999 ss., con nota di Guerinoni, Obbligazione da “contatto sociale” e responsabilità contrattuale nei confronti del terzo; in Corr. giur., 1999, 441 ss., con nota di Di Majo, L’obbligazione senza prestazione approda in Cassazione; in Danno e resp., 1999, 294 ss., con nota di Carbone, La responsabilità del medico ospedaliero come responsabilità da contatto; in Foro it., 1999, I, 3332 ss., con nota di Lanotte, L’obbligazione del medico dipendente è un’obbligazione senza prestazione o una prestazione senza obbligazione? e con nota di Di Ciom5
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sercizio di professioni intellettuali, come, per antonomasia, quella dell’avvocato. Obbligazioni di risultato, invece, sono state individuate con riferimento a quelle prestazioni che abbiano ad oggetto un facere il cui esito possa essere garantito6. Con riguardo però all’attività del chirurgo estetico, si è aperto un dibattito annoso7. È stato se-
mo, Note critiche sui recenti orientamenti giurisprudenziali in tema di responsabilità del medico ospedaliero; in Danno e resp., 1999, 777 ss., con nota di De Matteis, La responsabilità medica tra scientia iuris e regole di formazione giurisprudenziale; in Nuova giur. civ. comm., 2000, I, 334 ss., con nota di Thiene, La Cassazione ammette la configurabilità di un rapporto obbligatorio senza obbligo primario di prestazione. Sulla medesima sentenza cfr. ancora Forziati, La responsabilità contrattuale del medico dipendente: il “contatto sociale” conquista la Cassazione, in Resp. civ. e prev., 1999, 661 ss.; Fiori-D’Aloja, La responsabilità professionale dei medici dipendenti dal servizio sanitario nazionale dopo la sentenza della Cassazione civile n. 589/1999 detta del «contatto sociale». Trentadue anni dopo il fatto il medico apprende che la sua responsabilità non era extracontrattuale, bensì contrattuale: con le relative conseguenze, in Riv. it. med. leg., 2001, 831 ss. Per l’elaborazione dottrinale circa la responsabilità del medico come responsabilità contrattuale da contatto sociale e la teorizzazione dell’obbligazione senza prestazione, v. Castronovo, Obblighi di protezione e tutela del terzo, in Jus, 1976, 143 ss.; Id., voce Obblighi di protezione, in Enc. giur. Treccani, XXI, Roma, 1990; Id., L’obbligazione senza prestazione ai confini tra contratto e torto, in Scritti in onore di Luigi Mengoni, I, Le ragioni del diritto, Milano, 1995, 151 ss.; Id., La nuova responsabilità civile, Milano, 2006; Id., Danno esistenziale: il lungo addio, in Danno e resp., 2009, 5 ss.; cfr. De Matteis, La responsabilità medica, un sottosistema della responsabilità civile, Padova, 1995, passim; Thiene, Nuovi percorsi della responsabilità civile. Dalla condotta allo status, Padova, 2006, 167 ss.; Ead., Inadempimento alle obbligazioni senza prestazione, in Visintini (a cura di), Trattato della responsabilità contrattuale, Padova, 2009, 317 ss.
Al riguardo v. Mengoni, Obbligazioni di risultato ed obbligazioni di mezzi, in Riv. dir. comm., 1954, I, 189. Per esempio, una prestazione implicante la garanzia del buon esito, quindi riferibile a un’obbligazione di risultato, è stata ravvisata in quella dell’artigiano che esercita l’attività di lavatura a secco: Cass., 29.11.1984, n. 6257, in Giust. civ. 1985, I, 3150 ss.
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Cfr. Fresa, La colpa professionale in ambito sanitario, Torino, 2008, 534, che parla di “vexata quaestio”. Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 898. V. anche Rolli-Posteraro, Brevi osservazioni sulla chirurgia estetica: dal tipo di obbligazione assunta dal sanitario, all’ampiezza dell’informazione da fornire al paziente, in http://www.judicium.it/, 2013, 2, in cui si riprende la considerazione finale, arricchita dalla metafora letteraria, svolta da Bilancetti, La responsabilità
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guito, in buona sostanza, un altro ragionamento8. Si è considerato che in capo a questo professionista, derivasse, più che un obbligo di cura, un vero e proprio obbligo di ottenimento di un risultato, quando questo corrispondesse alla volontà determinata del paziente, esplicata al medico, in un momento ovviamente antecedente a quello esecutivo. Il paziente avrebbe esposto il miglioramento estetico desiderato e si sarebbe accordato così con il sanitario. Da qui la configurazione della responsabilità del chirurgo estetico come attinente all’inadempimento o all’inesatto adempimento di un’obbligazione di risultato9.
del chirurgo estetico, in Riv. it. med. leg., 1997, 529: «Questa configurazione autonoma della responsabilità del chirurgo estetico mi ricorda l’armatura di Agilulfo, “Il Cavaliere inesistente” di Calvino, che sorprese Carlomagno perché non conteneva proprio nulla, era completamente vuota: Agilulfo era quindi un cavaliere inesistente, però, la sua armatura, ciononostante, parlava, per cui in un certo qual modo esisteva. Così questa figura di responsabilità specifica (e più grave rispetto a quella del medico-chirurgo in generale) è sempre più vuota di contenuti e si può dire che esista solo in quanto continua ancora a far parlare di sé». «Se è pacifico, peraltro, che l’obbligazione assunta dal sanitario è, in generale – adottando quella distinzione – “di mezzi”, il problema si pone in forma parzialmente diversa nell’ambito della chirurgia estetica, in cui il chirurgo estetico può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, osservandosi tuttavia che quest’ultimo […] non costituisce, comunque, un dato assoluto, dovendosi viceversa valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie». Cass., 25.11.1994, n. 10014, in Nuova giur. civ. comm., 1995, I, 937 ss., con nota di Ferrando, Chirurgia estetica, “consenso informato” del paziente e responsabilità del medico; in Foro it., 1995, I, 2913 ss., con nota di Scoditti, Chirurgia estetica e responsabilità contrattuale. In dottrina, per una più risalente concezione, Buzzi, Sulla valutazione della responsabilità professionale nell’ambito dell’esercizio della chirurgia estetica, in Riv. it. med. leg., 1981, 960 ss. 8
9 Alpa, Dal medico all’équipe, alla struttura, al sistema, cit., 208 ss.; Sagna, Il patto speciale di garanzia del chirurgo estetico: suddivisione delle obbligazioni tra quelle di mezzi e quelle di risultato quale metodo anacronistico di valutazione della professione medica?, in www.diritto.it, 2005, 1 ss.; Trib. Roma, 5.10.1996, in Arch. civ., 1997, 1122 ss., con nota di Favino, L’obbligazione di risultato del chirurgo estetico, ha individuato nel caso di specie, alla luce della giurisprudenza di legittimità, un’obbligazione di risultato «essendosi la debitrice obbligata ad eseguire l’impianto di capelli artificiali, garantendone perfino la sostituzione, sia pure fino ad un massimo
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Tale inquadramento comunque non è stato univocamente condiviso e così una parte della giurisprudenza ha ritenuto, più o meno implicitamente, che anche quella del chirurgo estetico fosse un’obbligazione di mezzi10. In dottrina si è pure evidenziato come l’esistenza di «oggettive e inconfutabili argomentazioni di carattere tecnico-biologico» osterebbero all’applicazione del regime dell’obbligazione di risultato all’attività della chirurgia estetica11, regime – è bene ricordare – più gravoso per il sanitario, se non addirittura punitivo12, proprio perché non permette al medico di liberarsi provando la diligenza nell’adempimento, ma impone la dimostrazione del soddisfacimento del paziente. Questa distinzione, fra obbligazioni di mezzi e di risultato, è stata, come noto, poi superata. Nel 2005 le Sezioni Unite della Cassazione rilevarono che tale impostazione dicotomica «non è immune da profili problematici, specialmente se applicata proprio alle ipotesi di prestazione d’opera intellettuale, in considerazione della struttura stessa del rapporto obbligatorio e tenendo conto, altresì, che un risultato è dovuto in tutte le obbligazioni. In realtà, in ogni obbligazione si richiede la compresenza sia del comportamento del debitore che del risultato, anche se in proporzione variabile, sicché molti autori criticano la distinzione poiché in ciascuna obbligazione assumono rilievo così il
del 5%». In dottrina, Paradiso, La responsabilità medica: dal torto al contratto, in Riv. dir. civ., 2001, I, 335. Trib. Trieste, 14.4.1994, in Resp. civ. e prev., 1994, 768 ss., con nota di F. e C. Pontonio, La responsabilità del chirurgo estetico: obbligazione di mezzi o di risultato?, che configura, nel caso di una liposuzione, un’obbligazione di mezzi, per il chirurgo. In seguito, Cass., 3.12.1997, n. 12253, in Rass. giur. san., 1998, 275. Questa pronuncia, così come Cass., 25.11.1994, n. 10014, è citata dalla recente giurisprudenza per evidenziare i due diversi orientamenti circa la natura dell’obbligazione del chirurgo estetico. V. Trib. Milano, 24.7.2017, n. 8243 e Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753, entrambe in http://www. rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Corso. 10
11 Ronchi, Né obbligo di risultato né dovere di più ampia informazione al paziente da parte del «chirurgo estetico» (a proposito di Cass. civ. n. 3046/1997 e Cass. civ. n. 9705/1997), in Resp. civ. e prev., 1998, 851. 12 Rolli-Posteraro, op. cit., 7 s.; Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 900.
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risultato pratico da raggiungere attraverso il vincolo, come l’impegno che il debitore deve porre per ottenerlo»13. Le stesse considerazioni, svolte nella sentenza n. 15781 del 2005, furono riprese dalle Sezioni Unite nello specifico, nell’ambito della responsabilità medica, con la storica sentenza n. 577 del 200814. Nonostante il formale superamento della distinzione fra obbligazioni di mezzi e obbligazioni di risultato, a tali concetti si continua in concreto a far riferimento per spiegare la responsabilità del chirurgo estetico. La volontà del paziente viene ricondotta a uno schema negoziale e il miglioramento estetico dell’aspetto rientra nella causa. Questa interpretazione trova giustificazione nella specifica visione, adottata da una parte della giurisprudenza e della dottrina, per cui la chirurgia estetica generalmente non ha alcuna finalità curativa15: «è indubbio che chi si rivolge ad un chirurgo plastico lo fa per finalità spesso esclusivamente estetiche e, dunque, per rimuovere un difetto, e per raggiungere un determinato risulta-
Cass., sez. un., 28.7.2005, n. 15781, in Nuova giur. civ. comm., 2006, I, 828 ss., con nota di Viglione, Prestazione d’opera intellettuale e disciplina applicabile, tra obbligazioni di mezzi e di risultato. 13
Cass., sez. un., 11.1.2008, n. 577, in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 612 ss., con nota di De Matteis, La responsabilità della struttura sanitaria per danno da emotrasfusione; in La resp. civ., 2008, 397 ss., con nota di Calvo, Diritti del paziente, onus probandi e responsabilità della struttura sanitaria; in La resp. civ., 2008, 687 ss., con nota di Dragone, Le S.U., “la vicinanza della prova” e il riparto dell’onere probatorio; in Giur. it., 2008, 1653 ss., con nota di Ciatti, Crepuscolo della distinzione tra le obbligazioni di mezzi e le obbligazioni di risultato; in Giur. it., 2008, 2197 ss., con nota di Cursi, Responsabilità della struttura sanitaria e riparto dell’onere probatorio; in Danno e resp., 2008, 788 ss., con nota di Vinciguerra, Nuovi (ma provvisori?) assetti della responsabilità medica; in Danno e resp., 2008, 871 ss., con nota di Nicolussi, Sezioni sempre più unite contro la distinzione fra obbligazioni di risultato e obbligazioni di mezzi. La responsabilità del medico; in La resp. civ., 2009, 221 ss., con nota di Miriello, Nuove e vecchie certezze sulla responsabilità medica. Sull’importanza innovativa delle Sezioni Unite del gennaio 2008 cfr. Iadecola, La causalità nella responsabilità civile del medico, in Giur. merito, 2010, 2057 ss. 14
Gualdi, «Orientamenti dottrinari e giurisprudenziali in tema di responsabilità del chirurgo plastico», in Aa. Vv., Chirurgia plastica ricostruttiva e chirurgia estetica. Aspetti etici, giuridici e medico-legali, Milano, 1988, 19 e 22 ss.
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to, e non per curare una malattia. Ne consegue che il risultato rappresentato dal miglioramento estetico dell’aspetto del paziente non è solo un motivo, ma entra a far parte del nucleo causale del contratto, e ne determina la natura»16. L’idea che la chirurgia estetica sia una branca della medicina completamente diversa per funzione dalle altre e, in un certo qual modo, meno nobile, proprio perché, secondo questa opinione, essa non salva la vita delle persone né cura malattie17, si riscontra, sul piano sociale, in una mentalità ancorata al passato. È possibile, tra l’altro, imbattersi pure in pronunce che ribadiscono l’impostazione più risalente, per cui gli interventi di chirurgia estetica rispondono alla logica dell’obbligazione di risultato18. Per altra parte della giurisprudenza, che riprende la suddetta dicotomia concettuale, non può in ogni caso concludersi per la sussistenza, a priori, di un’obbligazione di risultato in capo al chirurgo
16 Così le recenti citate pronunce Trib. Milano, 24.7.2017, n. 8243 e Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753, nonché Trib. Milano, 26.2.2015, n. 2612, in DeJure; Trib. Milano, 29.10.2015, n. 12113, in http://pluris-cedam.utetgiuridica.it, Quotidiano giuridico, 2015, con annotazione di Marino; Trib. Bari, 4.9.2018, n. 3690, in http://www.rivistaresponsabilitamedica. it/, con annotazioni di Corso.
Cfr. Lorenzetti, Intelligenza estetica, Roma, 2009, 104 s., secondo cui la distinzione fra chirurghi di serie A e di serie B (estetici) avrebbe origine nel XIX secolo. V. anche Donati, Presentazione, in Aa. Vv., Chirurgia plastica ricostruttiva e chirurgia estetica. Aspetti etici, giuridici e medico-legali, cit., 6, secondo cui «la Chirurgia Estetica nasce molto lontano: nasce dalla Cosmetologia egiziana, nasce dalla Storia del Cardinale Richelieu, che volendo apparire giovane, si faceva fare una specie di lifting con cerotti dietro la parrucca che gli tiravano la faccia, ma in sostanza questo tipo di Chirurgia si sviluppa solo agli inizi del secolo. I primi Chirurghi estetici erano dei personaggi guardati con sospetto e diffidenza dalla società medica». Altresì v. Sagna, op. cit., 4. Per un’analisi della nascita della chirurgia estetica, Ghigi, Per piacere. Storia culturale della chirurgia estetica, Bologna, 2008, 13 ss. 17
A tal proposito v. la sentenza n. 111 del 2009, del Tribunale di Modena, menzionata da Rolli-Posteraro, op. cit., 13, nt. 47 e Posteraro, Specificità della responsabilità nella chirurgia estetica, cit.,116, nt. 75, la quale, occupandosi di un caso relativo a un intervento di mastoplastica additiva, ha affermato che «le prestazioni di chirurgia plastica vincolano il professionista al raggiungimento del risultato, con la conseguenza che la mancata riuscita della prestazione costituisce un momento obiettivo per l’affermazione dell’inadempienza». 18
estetico, essendo necessario accertare in concreto e a posteriori l’assunzione da parte del sanitario di questo specifico tipo di obbligazione e dovendosi invece ritenere, in mancanza di prova, che si tratti di un’obbligazione di mezzi, come per qualunque altra tipologia di prestazione sanitaria, in generale19.
«La natura dell’obbligazione oggetto del rapporto di prestazione professionale non può essere determinata a priori, dandosi la concreta possibilità, come del resto nell’attività sanitaria volontaria in genere, sia dell’assunzione, da parte del chirurgo, di un’obbligazione di mezzi, che dell’assunzione di un’obbligazione di risultato; quest’ultima, però, deve specificamente risultare o dal testo contrattuale o, anche, da altre risultanze istruttorie, ma in assenza di specifica prova la prestazione configura un’obbligazione di mezzi». Così Trib. Modena, 23.5.2012, n. 871, in DeJure. Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 902. Si segnala anche la pronuncia della Corte d’appello di Roma n. 89 del 2012, nella quale, riprendendo l’assunto espresso dalla S.C. nella sentenza n. 10014 del 1994 secondo cui «nel contratto avente ad oggetto una prestazione di chirurgia estetica, il sanitario può assumere una semplice obbligazione di mezzi, ovvero anche una obbligazione di risultato, da intendersi quest’ultimo non come dato assoluto ma da valutare con riferimento alla situazione pregressa ed alle obiettive possibilità consentite dal progresso raggiunto dalle tecniche operatorie», si afferma che, in caso «di un intervento di natura estetica “voluttuaria”, cioè non necessario dal punto di vista della cura medica (come il ctu ha chiaramente evidenziato esponendo come ciò necessitasse dell’accordo tra paziente e medico), non connotato da caratteristiche di incertezza metodologica (“intervento standard” cioè routinario […]), il conseguimento di un risultato positivo per il paziente rappresentava la cartina di tornasole per valutare la correttezza dell’intervento del medico». Si osserva peraltro come la stessa sentenza, facendo riferimento al risultato dell’intervento di chirurgia estetica al naso, precisi che «l’obiettivo principale della rinoplastica è rimodellare il naso per ottenere un risultato il più naturale possibile che si fonda armoniosamente con le caratteristiche del volto. La soddisfazione relativa al risultato ottenuto – oltre ad essere legata all’aspetto del “nuovo” naso – dipende dal fatto che le aspettative siano realistiche; infatti il risultato della rinoplastica è definitivo poiché, raggiunta la completa guarigione, l’aspetto del naso è da ritenersi permanente. E poiché la finalità dell’intervento di rinoplastica è quella di correggere le anomalie e gli inestetismi del naso, pur non esistendo un naso teoricamente ideale, il risultato ottenuto deve essere comunque migliorativo dell’esistente. La programmazione di ciò che si vuole ottenere deve essere eseguita valutando non solo la forma del naso ma il complesso del volto. L’obiettivo finale, deve essere quello di realizzare un naso migliore che soddisfi pienamente le esigenze estetiche del paziente, che si armonizzi in modo ottimale con le caratteristiche del volto, che risulti il più “naturale” possibile e che conservi 19
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Gli esiti, forse già incerti, cui la giurisprudenza è approdata in questi anni e quelli della dottrina oggi si trovano però necessariamente a dover fare i conti con la l. 8 marzo 2017, n. 24 (“Disposizioni in materia di sicurezza delle cure e della persona assistita, nonché in materia di responsabilità professionale degli esercenti le professioni sanitarie”, c.d. legge Gelli), entrata in vigore il 1° aprile 2017. Com’è noto, infatti, l’art. 7 della citata legge, rubricato “Responsabilità civile della struttura e dell’esercente la professione sanitaria”, dispone, al 3° comma, che l’esercente la professione sanitaria «risponde del proprio operato ai sensi dell’articolo 2043 del codice civile, salvo che abbia agito nell’adempimento di obbligazione contrattuale assunta con il paziente». Sembra che il legislatore abbia sancito dunque la fine dell’era della responsabilità contrattuale del medico20.
integralmente le proprie funzioni fisiologiche». App. Roma, 10.1.2012, n. 89, in Riv. it. med. leg., 2013, 470 ss., con nota di Galli. 20 Sull’evoluzione della qualificazione della responsabilità del medico, dall’intervento della l. 8 novembre 2012, n. 189, di conversione del d.l. 13 settembre 2012, n. 158 (c.d. decreto Balduzzi) alla legge Gelli, v. Scognamiglio, Il nuovo volto della responsabilità del medico. Verso il definitivo tramonto della responsabilità da contatto sociale?, in questa Rivista, 2017, 35 ss., il quale fa anche notare come la tecnica usata qui dal legislatore sia anomala, dal momento che non predispone una vera e propria disciplina, ma qualifica direttamente la responsabilità del medico, per così dire sostituendosi all’interprete, in particolar modo al giudice. Su tale evoluzione v. anche Brusco, La responsabilità sanitaria civile e penale. Orientamenti giurisprudenziali e dottrinali dopo la legge Gelli-Bianco, Torino, 2018, passim. Per fare il punto sull’incidenza della legge Gelli in tema di responsabilità medica, in generale, e per ulteriori approfondimenti, in particolare, senza pretesa di esaustività v.: Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, cit.; Ponzanelli, Medical malpractice: la legge Bianco-Gelli, in Contr. e impr., 2017, 356 ss.; Id., Medical malpractice: la legge Bianco Gelli. Una premessa, in Danno e resp., 2017, 268 ss.; Alpa, Ars interpretandi e responsabilità sanitaria a seguito della nuova legge Bianco-Gelli, in Contr e impr., 2017, 728 ss.; Carbone, Legge Gelli: inquadramento normativo e profili generali, in Corr. giur., 2017, 737 ss.; Scognamiglio, Regole di condotta, modelli di responsabilità e risarcimento del danno nella nuova legge sulla responsabilità sanitaria, in Corr. giur., 2017, 740 ss.; Faccioli, La nuova disciplina della responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”): profili civilistici (Prima parte), in Studium iuris, 2017, 659 ss.; Id., La nuova disciplina della
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Saggi e pareri
La struttura sanitaria continua a rispondere ai
responsabilità sanitaria di cui alla legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”): profili civilistici (Seconda parte), in Studium iuris, 2017, 781 ss.; De Santis, La colpa medica alla luce della legge Gelli-Bianco, in Studium iuris, 2017, 790 ss.; Valentini, Il nuovo assetto della responsabilità sanitaria dopo la riforma Gelli-Bianco, in Riv. it. med. leg., 2017, 1395 ss.; F. D’Alessandro-Nocco, Le forme di responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie dopo la legge Gelli-Bianco. Introduzione al focus, in Riv. it. med. leg., 2017, 1475 ss.; Nocco, Le forme di responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie dopo la legge Gelli-Bianco. La responsabilità civile nella “riforma Gelli”, in Riv. it. med. leg., 2017, 1483 ss.; Granelli, La riforma della disciplina della responsabilità sanitaria: chi vince e chi perde?, in Contr., 2017, 377 ss.; Caputo, La responsabilità penale dell’esercente la professione sanitaria dopo la L. n. 24 del 2017... “quo vadit”? Primi dubbi, prime risposte, secondi dubbi, in Danno e resp., 2017, 293 ss.; F. D’Alessandro, La responsabilità penale del sanitario alla luce della riforma “Gelli-Bianco”, in Dir. pen. proc., 2017, 573 ss.; Facci, Gli obblighi assicurativi nella recente riforma Gelli-Bianco, in Nuova giur. civ. comm., 2018, II, 104 ss.; Di Lella, Leges artis e responsabilità civile sanitaria, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 264 ss.; Di Majo, Il giudizio di responsabilità civile del medico dopo la legge Gelli e cioè la perizia “guidata”, in Giur. it., 2018, 841 ss.; Moscati, Responsabilità sanitaria e teoria generale delle obbligazioni (note minime sui commi 1 e 3, prima frase, art. 7, l. 8 marzo 2017, n. 24), in Riv. dir. civ., 2018, 829 ss.; Granelli, Il fenomeno della medicina difensiva e la legge di riforma della responsabilità sanitaria, in Resp. civ. e prev., 2018, 410 ss.; Perfetti, La responsabilità civile del medico tra legge c.d. Gelli e nuova disciplina del Consenso informato, in Giust. civ., 2018, 359 ss. V. anche, in questa Rivista: Busnelli, 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica. Itinerari di confronto tra diritto e medicina per la tutela della salute, 2018, 91 ss.; Simone, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. 24/2017). Il punto di vista, da vicino, del giudice, 2018, 151 ss.; Antenucci, Impatto e prospettive pratiche della l. n. 24/2017 – Il punto di vista dell’assicuratore, 2018, 31 ss.; Montisci-Viero, Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. n. 24/2017). L’apporto Medico-legale, 2018, 223 ss.; Scorretti, Sicurezza delle cure, linee guida e buone pratiche nella riforma Gelli, 2018, 73 ss.; Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, 2017, 5 ss.; M. Gorgoni, La responsabilità in ambito sanitario tra passato e futuro, 2017, 17 ss.; Partenza, L’assicurazione della responsabilità sanitaria post riforma Gelli e le criticità del mercato: una mancata risposta a bisogni reali, 2017, 49 ss.; Caletti, Tra “Gelli-Bianco” e “Balduzzi”: un itinerario tra le riforme in tema di responsabilità penale colposa del sanitario, 2017, 97 ss.; Aleo, Alcune considerazioni sulla responsabilità penale del medico, anche alla luce della recente legge Gelli, 2017, 223 ss.; Montanari Vergallo, Le buone pratiche clinico-assistenziali nella legge 8 marzo 2017, n. 24, 2017, 271 ss.; Cembrani, Profili critici della nuova legge sulla responsabilità professionale del personale sanitario, 2017, 231 ss.; Id.,
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sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c., mentre per il medico vale ora la responsabilità aquiliana, proprio come era prima del revirement della Corte di Cassazione con la celebre sentenza n. 589 del 22 gennaio 1999. Salvo che questi – stabilisce l’art. 7 della l. 24/2017 – abbia assunto con il paziente un’obbligazione contrattuale e che abbia agito nel suo adempimento. Esclusa quindi la fonte non contrattuale dell’obbligazione, quale era il contatto sociale, resta la possibilità che tra medico e paziente venga concluso un contratto: in questo caso la responsabilità del sanitario torna ad avere natura contrattuale. Perciò, alla luce dell’evoluzione giurisprudenziale ed anche dottrinale, non pare inverosimile che la riforma operata con la l. 24/2017 lasci inalterata la natura della responsabilità del chirurgo estetico, nella misura in cui gli interpreti tenderanno a configurare, in questo specifico ambito della medicina, l’accordo tra medico e paziente. Infatti, solo ove questo manchi, può trovare applicazione la disciplina della responsabilità extracontrattuale, con il conseguente appesantimento del carico probatorio in capo al paziente danneggiato e con la riduzione del termine di prescrizione. E il rapporto del medico “privato” con il paziente è generalmente qualificato in termini contrattuali21. Inoltre, nella chirurgia estetica, come evidenziato, assume particolare pregnanza la volontà della persona che si rivolge al sanitario, illustrando il difetto che intende rimuovere o il tratto del suo aspetto che vuole modificare. In altri termini, sarà difficile cercare di non vedere la convenzione con il chirurgo estetico22, la pattuizione tra professionista, da un lato, e, dall’altro, quello che dovrebbe
La legge Gelli-Bianco e la sua «drammatica incompatibilità logica», 2017, 489 ss.; Zorzit, Il diritto alla sicurezza delle cure nella legge “Gelli”: (verso) una nuova responsabilità civile in sanità, 2017, 497 ss. 21 Alpa, Dal medico all’équipe, alla struttura, al sistema, cit., 222 ss. 22 Cfr. Ivone, Informazione, consenso ed errore nella medicina estetica: il labile confine tra apparenza e infelicità, in Riv. it. med. leg., 2016, 615 ss.
essere solamente paziente, ma che di fatto, come si vedrà, è anche e soprattutto cliente23.
3. Segue: il ruolo peculiare del consenso informato All’interno del rapporto fra medico e paziente, un momento cruciale nel processo di maturazione della c.d. alleanza terapeutica viene ad essere quello dell’acquisizione del consenso informato24, il fondamento della cui centralità trova oggi ragion d’essere nel progressivo recupero dei valori attinenti alla persona, quali la dignità, la salute e l’autodeterminazione25. Ed è proprio il concetto di salute ad intrecciarsi intimamente con un altro valore fondamentale: quello dell’integrità psico-fisica, che implica nel rapporto terapeutico la non separabilità della libertà del paziente dalla salute26. Giova ricordare che la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nel Titolo I, “Digni-
23 Lorenzetti, Intelligenza estetica, cit., 105. Per una disamina di profili pratici circa la responsabilità del chirurgo estetico, Ferrario-Mariotti-Serpetti, La responsabilità medica. Questioni processuali, Milano, 2010, 107 ss., in cui anche si prendono in considerazione, con riferimenti giurisprudenziali, gli interventi di chirurgia estetica più comuni e noti, quali, ad esempio, il lifting facciale, la rinoplastica, la mastopessi, la mastoplastica additiva o riduttiva, l’addominoplastica, la liposcultura.
Sull’insediamento della “rivoluzione del consenso libero e informato”, con osservazioni critiche sulle pretese del legislatore, Rodotà, Il diritto di avere diritti, 3a ed., Bari-Roma, 2017, 269. 24
25 Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010, 14. Cfr. Zatti, Consistenza e fragilità dello ius quo utimur in materia di relazione di cura, in Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, cit., 100 ss. Sul consenso informato e la spersonalizzazione del rapporto medico-paziente, Posteraro, Il “problema” del consenso informato: dai diritti del malato alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente, in Medicina e Morale, 3/2017, 371 e ss.; Id., Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita di un nuovo diritto alla bellezza, in Medicina e morale, 5/2014, 847 ss.; Id., Osservazioni sul consenso informato alla luce di giurisprudenza e dottrina recenti: dai profili di responsabilità civile e penale del sanitario alla spersonalizzazione del rapporto medico-paziente, in http://www.amministrazioneincammino.luiss.it, 2014, 1 ss. 26 Zatti, Rapporto medico-paziente e «integrità» della persona, in Nuova giur. civ. comm., 2008, II, 403 ss.
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tà”, all’art. 3, rubricato “Diritto all’integrità della persona”, individua nel consenso informato uno strumento di protezione dell’integrità, in ambito medico e biologico27. Così pure l’art. 5 della Convenzione sui diritti umani e la biomedicina firmata a Oviedo il 4 aprile 1997, c.d. Convenzione di Oviedo, collocato nel Capitolo II, sul consenso, prevede la necessità del consenso libero e informato della persona per procedere all’effettuazione di un intervento “nel campo della salute”28. «In tema di trattamenti sanitari vige il principio di libera determinazione del paziente quale diritto inviolabile della persona, che trova tutela nell’art. 32 Cost., a mente del quale nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizioni di legge, e nell’art. 13 Cost., che, sancendo l’inviolabilità della libertà personale, ben ricomprende nel proprio ambito applicativo anche la libertà di decidere in ordine alla propria salute e al proprio corpo»29. Con questa affermazione, la giurisprudenza di legittimità ribadisce il rango costituzionale del diritto30 alla
Articolo 3. Diritto all’integrità della persona: 1. Ogni persona ha diritto alla propria integrità fisica e psichica. 2. Nell’ambito della medicina e della biologia devono essere in particolare rispettati: a) il consenso libero e informato della persona interessata, secondo le modalità definite dalla legge; b) il divieto delle pratiche eugenetiche, in particolare di quelle aventi come scopo la selezione delle persone; c) il divieto di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di lucro; d) il divieto della clonazione riproduttiva degli esseri umani. 27
Art. 5. Regola generale: un intervento nel campo della salute non può essere effettuato se non dopo che la persona interessata abbia dato consenso libero e informato. Questa persona riceve innanzitutto una informazione adeguata sullo scopo e sulla natura dell’intervento e sulle sue conseguenze e i suoi rischi. La persona interessata può, in qualsiasi momento, liberamente ritirare il proprio consenso. 28
Cass., 28.6.2018, n. 17022, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Corso. Cfr. Cass., 13.2.2015, n. 2854, in Rass. giur. san., 2015, 176. 29
Il giudice delle leggi stesso ha affermato il fondamento costituzionale di questo diritto: «il consenso informato, inteso quale espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico, si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 della Costituzione, che ne tutela e promuove i diritti fondamentali, e negli artt. 13 e 32 della Costituzione, i quali stabiliscono, rispettivamente, che “la 30
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libera autodeterminazione del paziente, il quale non può essere garantito senza un’adeguata informazione e senza il suo consenso. Con la l. 22 dicembre 2017, n. 219 (“Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”, c.d. legge sul biotestamento o sul fine vita31), entrata in vigore il 31.1.2018, il legislatore ha sancito l’obbligatorietà dell’ac-
libertà personale è inviolabile”, e che “nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”». Così Corte cost., 23.12.2008, n. 438, in Giur. cost, 2008, 4945 ss., con nota di Balduzzi-Paris, Corte costituzionale e consenso informato tra diritti fondamentali e ripartizione delle competenze legislative, con nota di Morana, A proposito del fondamento costituzionale per il «consenso informato» ai trattamenti sanitari: considerazioni a margine della sent. n. 438 del 2008 della Corte costituzionale, e con nota di Coraggio, Il Consenso informato: alla ricerca dei principi fondamentali della legislazione statale. Per una riflessione sulla legge c.d. sul biotestamento, in generale, e per ulteriori approfondimenti, in particolare, senza pretesa di esaustività, v.: Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in Nuova giur. civ. comm., 2018, I, 247 ss.; Calvo, La nuova legge sul consenso informato e sul c.d. biotestamento, in Studium iuris, 2018, 689 ss.; Borsellino, “Biotestamento”: i confini della relazione terapeutica e il mandato di cura, in Fam. e dir., 2018, 789 ss.; Carusi, La legge “sul biotestamento”: una luce e molte ombre, in Corr. giur., 2018, 293 ss.; Romano, Legge in materia di disposizioni anticipate di trattamento: l’ultrattività del volere e il ruolo del notaio, in Notariato, 2018, 15 ss.; Torroni, Il consenso informato e le disposizioni anticipate di trattamento: un rapporto essenziale ma difficile. Commento alla legge 22 dicembre 2017, n. 219, in Rivista del notariato, 2018, 433 ss.; Baldini, L. n. 219/2017 e Disposizioni anticipate di trattamento (DAT), in Fam. e dir., 2018, 803 ss.; Canestrari, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: una “buona legge buona”, in Corr. giur., 2018, 301 ss.; Esposito, Non solo “biotestamento”: la prima legge italiana sul fine vita, tra aperture coraggiose e prospettive temerarie in chiave penalistica, in Cass. pen., 2018, 1815 ss.; Foglia, Consenso e cura. La solidarietà nel rapporto terapeutico, Torino, 2018, 161 ss.; Brusco, op. cit., 30 ss. V. anche, in questa Rivista: Cembrani-Trabucchi-Ferrannini-Agostini, Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile, 2018, 235 ss.; Gristina, Alcune considerazioni riguardo al trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017, 2018, 245 ss.; Piccinni, Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017, 2018, 249 ss.; Miotto, Forma e prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017, 2018, 279 ss.; Zambotto, Gli ostacoli della legge n. 219/2017, 2018, 215 ss.; Bertoncello, Luci ed ombre della legge n. 219/2017, 2018, 217 ss.; Pari, Le opportunità (oltre gli ostacoli) della legge n. 219/2017, 2018, 221 ss. 31
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quisizione del consenso libero e informato della persona interessata preventivo all’esecuzione del trattamento sanitario32. Il contenuto dell’obbligo informativo viene specificato al 3° comma dell’art. 1, ove si stabilisce che ogni persona ha diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile con riguardo «alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati, nonché riguardo alle possibili alternative e alle conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento
I primi due commi dell’art. 1, rubricato “Consenso informato”, recitano come segue: «1. La presente legge, nel rispetto dei principi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge. 2. È promossa e valorizzata la relazione di cura e di fiducia tra paziente e medico che si basa sul consenso informato nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del paziente e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del medico. Contribuiscono alla relazione di cura, in base alle rispettive competenze, gli esercenti una professione sanitaria che compongono l’equipe sanitaria. In tale relazione sono coinvolti, se il paziente lo desidera, anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo». Il 4° comma, invece, dispone che «il consenso informato, acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona con disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare. Il consenso informato, in qualunque forma espresso, è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico». A tal proposito, per riflessioni e riferimenti giurisprudenziali relativi alla cartella clinica, v. Bocchini, Le cartelle cliniche. Funzioni, documento, prova, in Riv. it. med. leg., 2018, 35 ss.; sia concesso anche rimandare a Corso, Salute e riserbo del paziente: questioni aperte in tema di cartella clinica, in questa Rivista, 2017, 395 ss. Sul Fascicolo Sanitario Elettronico e Dossier Sanitario v. Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, in Riv. it. med. leg., 2015, 1419 ss.; Guarda, Fascicolo Sanitario Elettronico e protezione dei dati personali, Università degli Studi di Trento, Trento, 2011; Peigné, Il fascicolo sanitario elettronico, verso una «trasparenza sanitaria» della persona, in Riv. it. med. leg., 2011, 1520 ss.; Comandé-Nocco-Peigné, Il fascicolo sanitario elettronico: uno studio multidisciplinare, in Riv. it. med. leg., 2012, 105 ss. 32
sanitario e dell’accertamento diagnostico o della rinuncia ai medesimi»33. Sin da prima dell’entrata in vigore della l. 219/2017, comunque la giurisprudenza ha sostenuto la necessarietà del consenso informato ed è giunta alla conclusione per cui, fuori dai casi nei quali un trattamento sanitario debba essere praticato in via d’urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà, la mancata assunzione del consenso informato da parte del medico può determinare danni di due tipi: a) un danno alla salute, che sussiste quando è da ritenersi che il paziente, sul quale grava il relativo onere della prova, se correttamente informato, avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento e di subirne le conseguenze negative; b) un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in sé, sussistente qualora, per il deficit informativo, il paziente abbia subito un pregiudizio, patrimoniale o non patrimoniale, differente dalla lesione del diritto alla salute34. Sul medico pertanto grava il dovere
Foglia, op. cit., 67 ss., il quale analizza anche la problematica attinente al “quanto” informare. V. anche Perfetti, op. cit., 400 ss. Sull’informazione relativa al contesto organizzativo della struttura sanitaria, Faccioli, La dimensione “organizzativa” del consenso informato, in questa Rivista, 2018, 107 ss. Sul rapporto fra appropriatezza nelle cure e informazione, Forni, Scelte giuste per salute e sanità. L’appropriatezza nelle cure tra doveri di informazione e corretta gestione delle risorse, in questa Rivista, 2017, 473 ss. 33
Cass., 28.6.2018, n. 17022 e Cass., 13.4.2018, n. 9179, entrambe in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Corso; Cass., 16.5.2013, n. 11950, in DeJure; Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Resp. civ. e prev., 2010, 1013 ss., con nota di M. Gorgoni, Ancora dubbi sul danno risarcibile a seguito di violazione dell’obbligo di informazione gravante sul sanitario; in Corr. giur., 2010, 1201 ss., con nota di Di Majo, La responsabilità da violazione del consenso informato; in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 703 ss., con nota di Cacace, I danni da (mancato) consenso informato e con nota di Scacchi, La responsabilità del medico per omessa informazione nel caso di corretta esecuzione dell’intervento “non autorizzato”; in Danno e resp., 2010, 685 ss., con nota di Simone, Consenso informato e onere della prova; in Giur. it., 2011, 816 ss., con nota di Chiarini, Il medico (ir)responsabile e il paziente (dis)informato. Note in tema di danno risarcibile per intervento terapeutico eseguito in difetto di consenso. Cfr. Cass., 23.3.2018, n. 7248, in questa Rivista, 2018, 321 ss., con nota di Cerea, Violazione dell’obbligo informativo e autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione. Nella giurisprudenza di merito, ex multis, Trib. Napoli, 5.4.2017, n. 34
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di informare il paziente di persona in ordine alla natura dell’intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e delle implicazioni verificabili35, non essendo sufficiente, tra l’altro, la semplice sottoposizione alla sottoscrizione di un modulo apposito36. Questo è ciò che vale per il sanitario in generale, ma al chirurgo estetico in particolare si applicano regole molto più stringenti. Nell’ambito della chirurgia estetica, infatti, il contenuto dell’obbligo d’informazione è stato amplia-
Saggi e pareri
to, specialmente dalla giurisprudenza, nel senso che la comunicazione del medico deve scandagliare le possibilità che il paziente consegua un miglioramento fisico effettivo, con ripercussioni favorevoli nella vita professionale e di relazione37. Il motivo del trattamento più rigoroso è da rintracciare nel fatto che gli interventi di chirurgia estetica vengono considerati per lo più non necessari e il paziente, che può scegliere se essere operato o meno, deve conoscere il miglioramento così come il peggioramento estetico possibile, perciò l’informazione dev’essere capillare38 e deve cercare di raggiungere nel paziente stesso la consapevolezza massima dei rischi39.
4103, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Muccioli. Così la citata pronuncia Cass., 13.2.2015, n. 2854. La giurisprudenza di legittimità ha avuto modo di chiarire inoltre che è al paziente, unico titolare del bene che è oggetto di pericolo per effetto del trattamento operatorio, che deve essere riservata «ogni valutazione comparativa del bilancio rischi-vantaggi, specialmente quando il male da estirpare non sia particolarmente grave, l’intervento operatorio non sia particolarmente urgente, ed i rischi connessi ad esso siano presenti anche se statisticamente eccezionali e di scarso rilievo». Cass., 11.12.2013, n. 27751, con nota di Posteraro, È risarcibile la lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente per consenso invalido a prescindere dal danno biologico conseguente alla prestazione: il medico ha l’obbligo di rappresentare tutti i rischi (anche quelli straordinari) con l’unico limite della loro imprevedibilità, in Riv. it. med. leg., 2015, 322 ss. Nella giurisprudenza di merito, ex multis, Trib. Cassino, 28.3.2017, in http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Rossi. 35
36 «Non adempie all’obbligo di fornire un valido ed esaustivo consenso informato il medico il quale ritenga di sottoporre al paziente, perché lo sottoscriva, un modulo del tutto generico, da cui non sia possibile desumere con certezza che il paziente medesimo abbia ottenuto in modo esaustivo le suddette informazioni». Cass., 4.2.2016, n. 2177, in Rass. giur. san., 2016, 141. Così anche Cass., 8.10.2008, n. 24791, in Rass. giur. san., 2009, 203, nonché la citata pronuncia del Tribunale di Cassino, del 28 marzo 2017, secondo cui «il consenso informato deve basarsi su informazioni dettagliate, idonee a fornire la piena conoscenza della natura, portata ed estensione dell’intervento medico-chirurgico, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative, non essendo all’uopo idonea la sottoscrizione, da parte del paziente, di un modulo del tutto generico, né rilevando, ai fini della completezza ed effettività del consenso, la qualità del paziente, che incide unicamente sulle modalità dell’informazione, da adattarsi al suo livello culturale mediante un linguaggio a lui comprensibile, secondo il suo stato soggettivo ed il grado delle conoscenze specifiche di cui dispone». Cfr. Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, cit., 209 ss.; Foglia, op. cit., 34 ss.
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37 Foglia, op. cit., 74; Gualdi, op. cit., 33 ss.; Ivone, op. cit., 614; Ricci-Fedeli, La chirurgia estetica tra percezione sociale e modello etico-deontologico, in Difesa sociale, vol. LXXXIII, n. 2, 2004, 126 ss. Cfr. Cass., 6.6.2014, n. 12830, in Danno e resp., 2015, 246 ss., con nota di Mattina, Chirurgia estetica: la Cassazione tra consenso informato e “dissenso presunto” del paziente; in Giur. it., 2015, 48 ss., con nota di Rispoli, Chirurgia (anti)estetica e consenso informato. La pronuncia è ripresa anche da Trib. Milano, 4.7.2017, n. 7489, in http:// www.rivistaresponsabilitamedica.it/, con annotazioni di Pari. Al riguardo v. anche Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 916.
«In questa materia, infatti, può parlarsi nella maggioranza dei casi, di interventi non necessari, che mirano all’eliminazione di inestetismi e che, come tali, devono essere oggetto di un’informazione puntuale e dettagliata in ordine ai concreti effetti migliorativi del trattamento proposto. Sotto questo profilo, le caratteristiche e le finalità del trattamento medico-estetico, impongono un’informazione completa proprio in ordine all’effettivo conseguimento del miglioramento fisico e – per converso – ai rischi di possibili peggioramenti della condizione estetica. La necessità di una informazione puntuale, completa e capillare è funzionale alla delicata scelta del paziente: se rifiutare l’intervento o accettarlo correndo il rischio del peggioramento delle sue condizioni estetiche. È questa la fondamentale caratteristica dell’intervento estetico non necessario». Così la citata Cass., 6.6.2014, n. 12830. 38
Foglia, op. cit., 74. Cfr. Cass., 6.10.1997, n. 9705, in Resp. civ. e prev., 1998, 667 ss., con nota di Citarella, Obblighi di informazione e responsabilità del chirurgo plastico; in Giur. it., 1998, 1816 ss., con nota di Pizzetti, Chirurgia estetica e responsabilità medica. In quella pronuncia la Supr. Corte affermò che, «trattandosi di trattamento sanitario volontario, per la validità del consenso del paziente è dunque necessario che il professionista richiesto lo informi dei benefici, delle modalità di intervento, dell’eventuale scelta tra tecniche diverse, dei rischi prevedibili […], dovere, questo, particolarmente incombente nella chirurgia estetica, nella quale esso deve comprendere anche la possibilità del paziente di con39
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Si tratta di un’impostazione forse risalente40, che è stata ritenuta superata41, ma che ancora oggi viene adoperata nel ragionamento giudiziale42. È interessante osservare però come questo obbligo informativo più penetrante non sia stato forgiato per essere applicato sempre, a tutti i casi, né individuato una volta per tutte, in assoluto. Si è tentato infatti, in un certo qual modo, di graduarlo e di adattarlo alla realtà concreta. Così si è distinto il caso di chi, attraverso un intervento di chirurgia estetica, voglia migliorare il proprio aspetto, da quello di colui che si rivolga al chirurgo estetico per porre fine a una condizione di vita vissuta con notevole disagio, se non addirittura con ripugnanza, come insopportabile. In quest’ultima ipo-
seguire un effettivo miglioramento dell’aspetto fisico, che si ripercuota favorevolmente nella vita professionale e in quella di relazione». «Occorre ricordare a questo punto che questa Corte nella sentenza n. 4394 del giorno 8.8.1985 ha affermato: “Nel contratto di prestazione di opera contrattuale, il dovere d’informazione gravante sul professionista – la cui violazione è forte di responsabilità contrattuale (...) – investe non solo le potenziali cause d’invalidità o d’inefficacia della prestazione professionale ma anche le ragioni che questa rendano inutile, in rapporto al risultato (...) sperato dal cliente, o addirittura dannosa. In particolare, nel rapporto fra paziente e chirurgo praticante la chirurgia estetica, detto dovere non è limitato – come nel rapporto tra cliente e terapeuta in genere (chirurgo o medico che sia) – alla progettazione dei possibili rischi del trattamento suggerito (in quanto tale da porre in pericolo la vita o l’incolumità fisica del paziente), ma concerne anche la conseguibilità o meno, attraverso un determinato intervento, del miglioramento estetico perseguito dal cliente in relazione alle esigenze della sua vita professionale e di relazione”». Cass., 8.4.1997, n. 3046, in Corr. giur., 1997, 546 ss., con nota di Carbone, Obbligazioni di mezzi e di risultato tra progetti e tatuaggi; in Resp. civ. e prev., 1998, 668 ss., con nota di Citarella, Obblighi di informazione e responsabilità del chirurgo plastico. Cfr. Cass., 12.6.1982, n. 3604, in Giust. civ., 1983, I, 939. 40
Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 914 ss., che evidenzia però come la ripresa di questa ulteriore dicotomia da parte della giurisprudenza «rischia di far diventare il chirurgo estetico un vero e proprio psicologo».
41
42 Trib. Bari, 16.6.2016, n. 3366, in DeJure. «La giurisprudenza ha da tempo distinto tra gli esiti infausti conseguenti ad intervento chirurgico “salva-vita” o a intervento di tipo meramente estetico. […] Nell’intervento di chirurgia estetica, dunque, assume rilevanza centrale il consenso informato». Così pure la menzionata pronuncia del 19 febbraio 2018, n. 753, del Tribunale di Bari.
tesi, a differenza della prima, l’informazione che il medico deve al paziente si riduce, per tornare quasi all’alveo dell’obbligo comune ad ogni tipo di sanitario43. In giurisprudenza44 è stata anche avvalorata la tesi secondo cui, qualora ad un’operazione di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, indipendentemente dalla sua corretta esecuzione, opera la presunzione, relativa al nesso eziologico45, per la quale non occorre che il paziente
43 «È infatti evidente la ben diversa situazione che si presenta nel caso di chi intende, attraverso una operazione chirurgica sul proprio corpo, migliorare le proprie apparenze estetiche, da quella di chi intende porre rimedio ad uno stato, da esso stesso voluto e provocato, ma da esso stesso successivamente ritenuto ripugnante, ponendo quindi rimedio ad una situazione considerata insopportabile. Se nel primo caso l’obbligo d’informazione da parte del medico investe, come statuito da questa suprema corte nelle citate sentenze, non soltanto le cause potenziali di invalidità o di inefficacia delle prestazioni professionali, ma anche le ragioni che queste rendono eventualmente inutili in rapporto al risultato sperato dal cliente, o addirittura dannosi, nel secondo caso, caratterizzato – come si è visto – dall’intento di rimuovere una situazione dallo stesso paziente considerata insopportabile, non vi è dubbio che il predetto obbligo d’informazione circa i possibili esiti dell’operazione venga ad essere affievolito, essendo limitato a quegli eventuali esiti che, contrariamente agli intenti del paziente, potrebbero rendere vana l’operazione non comportando in sostanza un effettivo miglioramento rispetto alla situazione preesistente all’operazione». Così la rammentata Cass., 8.4.1997, n. 3046. 44 «Quando ad un intervento di chirurgia estetica consegua un inestetismo più grave di quello che si mirava ad eliminare o ad attenuare, all’accertamento che di tale possibile esito il paziente non era stato compiutamente e scrupolosamente informato consegue ordinariamente la responsabilità del medico per il danno derivatone, quand’anche l’intervento sia stato correttamente eseguito. La particolarità del risultato perseguito dal paziente e la sua normale non declinabilità in termini di tutela della salute consentono infatti di presumere che il consenso non sarebbe stato prestato se l’informazione fosse stata offerta e rendono pertanto superfluo l’accertamento, invece necessario quando l’intervento sia volto alla tutela della salute e la stessa risulti pregiudicata da un intervento pur necessario e correttamente eseguito, sulle determinazioni cui il paziente sarebbe addivenuto se dei possibili rischi fosse stato informato». Questo il principio di diritto enunciato dalla citata Cass., 6.6.2014, n. 12830 e ripreso anche da Trib. Bari, 19.2.2018, n. 753. Cfr. Ivone, op. cit., 617 ss. V. anche App. Bologna, 24.3.2015, n. 593, in DeJure, relativa a un caso di intervento di dermoabrasione con esiti negativi. 45
Sull’accertamento presuntivo del nesso causale v. Pucella,
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danneggiato provi che, se avesse avuto la corretta informazione, non si sarebbe sottoposto a quell’intervento, elemento che deve invece essere sempre provato quando si invochi la responsabilità del medico negli altri casi. Nel complesso, si può dire che il maggior dovere di informare il paziente, richiesto al chirurgo estetico, si abbini all’orientamento che vede ancora, in capo a quest’ultimo, un’obbligazione di risultato. La giustificazione sta nuovamente nella funzione, che si ritiene “non declinabile in termini di tutela della salute”, e ha come conseguenza l’aggravio della responsabilità, nello specifico, di questo medico.
4. Diritto alla salute e bellezza «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti». Così recita il primo comma dell’art. 32 Cost. e nella cornice della tutela di questo diritto46 dev’essere inquadrata l’ars medica, in tutte le sue diramazioni. Il concetto di salute tuttavia non è sempre stato concepito allo stesso modo, esso ha infatti subito nel tempo un’evoluzione. Se una volta, infatti, la salute era pensata come assenza di malattia, oggi
La causalità «incerta», Torino, 2007, 68 ss.; Cassano-Posteraro, La responsabilità civile del medico, in Cagnazzo (a cura di), Trattato di diritto e bioetica, Napoli, 2017, 699 s. È appena il caso di ricordare che un regime presuntivo in ordine all’accertamento del nesso eziologico si ritrova, nell’ambito della responsabilità medica, nell’eventualità di una difettosa tenuta della cartella clinica. Per questo aspetto, v. M. Gorgoni, Sulla cattiva tenuta della cartella clinica quale presunzione di responsabilità professionale, in Rass. giur. san., 2012, 159 ss. Pure sia concesso rimandare a Corso, op, cit., 398 ss. Al riguardo, v. Alpa, Salute e medicina, in Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, cit., 16 ss.; Morrone-Minni, La salute come valore costituzionale e fonte di diritti soggettivi alla luce della giurisprudenza costituzionale, in Alpa (a cura di), La responsabilità sanitaria. Commento alla L. 8 marzo 2017, n. 24, cit., 30 ss.; Rossetti, Il danno alla salute, II ed., Milano, 2017, 121 ss. V. anche, oltreché per riferimenti bibliografici all’amplissima letteratura giuridica in tema di diritto alla salute, Olivetti, Appunti per una mappa concettuale sul diritto alla salute nel sistema costituzionale italiano, in MEDIC. Metodologia didattica e innovazione clinica, 2004, 60 ss. 46
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il suo significato è stato esteso. Il limite del diritto alla salute era la sua interpretazione in termini di diritto strettamente legato alla corporeità, all’organicità, alla fisicità: ciò che esulava dal piano del corpo umano in senso stretto, non apparteneva alla salute. Questa concezione ha iniziato a cambiare a partire dal recepimento della definizione che di salute ha dato l’Organizzazione Mondiale della Sanità: «health is a state of complete physical, mental and social well-being and not merely the absence of disease or infirmity». La salute, oggi intesa non più come mera conservazione dell’integrità fisica ma come valore che comprende elementi dinamici e relazionali e che si riferisce a uno stato di benessere non solo fisico e mentale, ma anche sociale47, è parte integrante ed essenziale dell’esistenza di ciascuno. Dal corpo, l’attenzione si sposta alla mente48 della persona e alla sua vita nella
47 Sulla definizione dell’OMS, cfr. Thiene, Salute, riserbo e rimedio risarcitorio, cit., 1412, nt. 21. V. Posteraro, Il diritto alla salute e l’autodeterminazione del paziente tra guarigione effettiva e pericoloso sviluppo della tecnologia, in Medicina e morale, 3/2015, 3 ss.; Sagna, op. cit., 4. Mette in luce la completezza e l’attualità dei tre elementi (fisico, psichico e sociale) che compongono la previsione, Durante, Dimensioni della salute: dalla definizione dell’OMS al diritto attuale, in Nuova giur. civ. comm., 2001, II, 132 ss.; Id., Salute e diritti tra fonti giuridiche e fonti deontologiche, in Pol. dir., 2004, IV, 563 ss. Circa l’arricchimento semantico v. Zatti, Rapporto medico-paziente e “integrità” della persona, cit., 403 ss.; Id., Dimensioni ed aspetti dell’identità nel diritto privato attuale, in L’identità nell’orizzonte del diritto privato, supplemento alla Nuova giur. civ. comm., 2007, 1 ss. 48 Il diritto alla salute, garantito dall’art. 32 Cost., «non coincide con il solo diritto alla integrità fisica, tutelando infatti lo stato di benessere non solo fisico ma anche psichico del cittadino». Così Cass., sez. un., 1°.8.2006, n. 17461, in La resp. civ., 2007, 299 ss., con nota di Greco, Il “nocciolo duro” del diritto alla salute. Cfr. la sentenza del noto caso Englaro, Cass., 16.10.2007, n. 21748, in Corr. giur., 2007, 1676 ss., con nota di Calò, La Cassazione “vara” il testamento biologico; in Dir. fam. e pers., 2008, 77 ss., con nota di Gazzoni, Sancho Panza in Cassazione (come si riscrive la norma sull’eutanasia, in spregio al principio della divisione dei poteri), con nota di Galizia Danovi, L’interruzione della vita tra volontà e diritto e con nota di Galuppi, Brevi osservazioni sulla sentenza n. 21748/2007 della Corte di Cassazione; in Dir. fam. e pers., 2008, 592 ss., con nota di Virgadamo, L’eutanasia e la Suprema Corte: dall’omicidio del consenziente al dovere di uccidere; in Riv. it. med. leg., 2008, 583 ss., con nota di Sartea-La Monaca, Lo Stato Vegetativo tra norme costituzio-
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società. «L’uomo è più d’una semplice somma di organi fisici; l’uomo è una persona, adesso, un essere la cui dimensione biologica (fusasi con quella psicologica e sociale) merita di essere valutata appieno, a trecentosessanta gradi»49. Il benessere, che diventa l’obiettivo del diritto alla salute, trova la sua sintesi nell’equilibrio tra soma e psiche50 e abbisogna, per una soluzione ai nuovi vecchi problemi dell’individuo, di un approccio unitario e globale, per non dire olistico51. Quando la salute viene intaccata o viene a mancare ci si rivolge alla scienza medica. Alcuni si rivolgono al chirurgo estetico, per cambiare qual-
nali e deontologia: la Cassazione indica soggetti e oggetti; in Fam., pers. e succ., 2008, 508 ss., con nota di A. Gorgoni, La rilevanza giuridica della volontà sulla fine della vita non formalizzata nel testamento biologico; in Giust. civ., 2008, 1725 ss., con nota di Simeoli, Il rifiuto di cure: la volontà presunta o ipotetica del soggetto incapace; in Resp. civ. e prev., 2008, 1103 ss., con nota di Gennari, La Suprema Corte scopre il substituted judgement; in Riv. it. dir. e proc. pen., 2008, 384 ss., con nota di Barbieri, Stato vegetativo permanente: una sindrome ‘in cerca di un nome’ e un caso giudiziario in cerca di una decisione. I profili penalistici della sentenza Cass. 4 ottobre 2007 sez. I, civile sul caso di Eluana Englaro; in Fam. e dir., 2008, 129 ss., con nota di Campione, Stato vegetativo permanente e diritto all’identità personale in un’importante pronuncia della Suprema Corte; in Danno e resp., 2008, 421 ss., con nota di Bonaccorsi, Rifiuto delle cure mediche e incapacità del paziente: la Cassazione e il caso Englaro e con nota di Guerra, Rifiuto dell’alimentazione artificiale e volontà del paziente in stato vegetativo permanente; in Nuova giur. civ. comm., 2008, I, 83 ss., con nota di Venchiarutti, Stati vegetativi permanenti: scelte di cure e incapacità; in Riv. dir. civ., 2008, II, 363 ss., con nota di Palmerini, Cura degli incapaci e tutela dell’identità nelle decisioni mediche. In questa pronuncia la Supr. Corte ha affermato che il principio personalistico che anima la Costituzione è «coerente con la nuova dimensione che ha assunto la salute, non più intesa come semplice assenza di malattia, ma come stato di completo benessere fisico e psichico, e quindi coinvolgente, in relazione alla percezione che ciascuno ha di sé, anche gli aspetti interiori della vita come avvertiti e vissuti dal soggetto nella sua esperienza». Posteraro, Il diritto alla salute e l’autodeterminazione del paziente tra guarigione effettiva e pericoloso sviluppo della tecnologia, cit., 4.
49
Sul punto, v. Morana, La salute nella Costituzione italiana, profili sistematici, Milano, 2002, 17. Cfr. Posteraro, Il diritto alla salute e l’autodeterminazione del paziente tra guarigione effettiva e pericoloso sviluppo della tecnologia, cit., 5. 50
51
Ibidem.
cosa del proprio corpo, per migliorare l’aspetto. Ma ciò che porta verso la chirurgia estetica spesso è un malessere interiore, un’infelice percezione di sé, un senso di inadeguatezza. Fermandosi alla superficie delle cose, pare che la chirurgia estetica intervenga semplicemente per modificare il corpo, verso un ideale di bellezza, rincorrendo un sogno del paziente e a volte è proprio così. Ma più spesso invece va diversamente e, spingendosi oltre ciò che appare a un primo sguardo, ci si accorge che, operando sul corpo, il chirurgo estetico raggiunge la mente della persona, per donare un senso di soddisfazione di sé, una nuova appropriatezza, agisce quindi sul piano psicologico, inducendo la persona a trovare la sua dimensione o a ritrovare un “benessere sociale” perduto. È in quest’ottica che si comprende l’errore di reputare la chirurgia estetica priva di una qualsivoglia finalità curativa. Essa è in grado invece di influire, seppur indirettamente, sulla psiche, sulla vita, se non addirittura sul destino del paziente52. Il ruolo del chirurgo estetico acquista oggi un peso maggiore, dal momento che il mondo contemporaneo valorizza sempre più la bellezza53. Però, intesa come armonia delle forme, rispondente a un’immagine che tende alla perfezione, la bellezza, con il suo messaggio immediato, di per sé evidente, sembra diventare, purtroppo, il parametro per valutare ogni dote dell’individuo54 e approda anche in ambiti, come quello lavorativo in generale, che dovrebbero esserle estranei55.
L’idea è trasmessa anche da Lorenzetti, Il chirurgo dell’anima, Milano, 2011. 52
Pinchi-Focardi-Norelli, op. cit., 904 ss.; Russo, Dal corpo proprio al corpo estraneo: cultura postmoderna e immagini del corpo, in D’Agostino (a cura di), Corpo esibito, corpo violato, corpo venduto, corpo donato. Nuove forme di rilevanza giuridica del corpo umano, Milano, 2003, 117. 53
Posteraro, Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita di un nuovo diritto alla bellezza, cit., 856 s.; Id., Vanità, moda e diritto alla salute: problemi di legittimazione giuridica della chirurgia estetica, cit., 288 ss. 54
55 Al riguardo v. Hamermesh, Beauty Pays: Why Attractive People Are More Successful, Princeton, 2011, secondo cui la bellezza influisce sul posto di lavoro, determinando tra l’altro maggiori compensi, ma la chirurgia estetica non è in grado di rispondere a una logica di tipo economico. Cfr. Posteraro, Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La na-
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Non è difficile pensare che si possa arrivare ad un uso scorretto della chirurgia estetica, se non ad un abuso, per il tramite del mercato. Anche la medicina infatti rischia di subire un processo di commercializzazione e la chirurgia estetica vi è forse più esposta56. La ricerca della bellezza esteriore viene allora estremizzata, il modello assolutizzato, il corpo reificato57: è il regno plastico del “corpo intercambiabile”58. In questo orizzonte talvolta si concretizzano operazioni spersonalizzanti59. È limitatamente a questo genere di interventi che si può parlare di assenza di scopo curativo. «La chirurgia estetica si paga e, per quanto diffusa, non è alla portata di tutti. Il fatto che venga pagata rende il paziente un vero e proprio cliente»60. Il rapporto medico-paziente viene sempre più ad assomigliare a un rapporto fra professionista e cliente ed è questa l’idea che tende a dare fondamento alla tesi dell’obbligazione di risultato
scita di un nuovo diritto alla bellezza, cit., 857, nt. 49. Cfr. Pinchi-Focardi-Norelli, op. cit., 909 ss.; Ivone, op. cit., 620; Ghigi, op. cit., 149 ss.
56
Sull’adeguamento del reale al virtuale, del vero al falso, del naturale all’artificiale, con riferimento ai modelli corporei, Russo, op. cit., 107 ss. 57
Posteraro, Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita di un nuovo diritto alla bellezza, cit., 855 ss. Sulla pervasività e l’assenza del corpo umano, in relazione a nudità oggettivata, voyeurismo anatomico, visione ravvicinata, telepresenza e obsolescenza, Azzoni, L’arbitrarietà del corpo umano, in D’Agostino (a cura di), op. cit., 59 ss. 58
In certi casi non è impensabile che la liceità stessa di talune pratiche possa essere messa in discussione. Quando, lungi dall’avere finalità terapeutica, un atto cagioni una diminuzione permanente dell’integrità fisica, esso viola il divieto di cui all’art. 5 c.c. Si tratta comunque di ipotesi remote, se non di scuola, poiché ogni volta che un intervento di chirurgia estetica viene posto in essere, esso mira ad ottenere un miglioramento nel paziente, che si traduce nel raggiungimento, conseguito o almeno tentato, di uno stato di benessere. Giova rammentare anche che l’art. 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, menzionato precedentemente, vieta di fare del corpo umano e delle sue parti in quanto tali una fonte di profitto, così come l’art. 21 della Convenzione di Oviedo e l’art. 4 della Dichiarazione universale dell’Unesco sul genoma umano e i diritti dell’uomo. Vi è «incompatibilità tra governo della vita e mercato». Rodotà, op. cit., 270. 59
Lorenzetti, Intelligenza estetica, cit., 105. Cfr. Rizzo, Dal paziente al cliente, in Annali della Facoltà Giuridica dell’Università di Camerino, 2015, 35 ss. 60
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e del più rigoroso regime in tema di obbligo informativo per il chirurgo estetico. In realtà il paziente resta tale anche se domanda di non essere curato per una malattia del corpo, ma di essere un po’ più bello, perché anche questo è un modo di curare. Fatta eccezione per i casi limite, di cui si è detto. A fronte del dato di fatto, per cui la chirurgia estetica viene ad essere riservata a chi abbia un’adeguata disponibilità economica, è stato anche teorizzato un diritto alla bellezza: «Is beauty a right, which, like education or health care, could be realized with the help of public institutions and expertise?»61. Premesso che la bellezza è un valore che vive di soggettività, non pare che sia seriamente sostenibile un vero e proprio diritto in tal senso. Non sembra possibile un sussidio di tal fatta, da un lato perché non si potrebbero individuare i reali soggetti beneficiari – non sarebbe infatti sufficiente un criterio economico, dovendosi invece ricercare un criterio di “oggettiva bruttezza” – e dall’altro perché non è pensabile nell’attuale ordinamento giuridico gravare di un’ulteriore spesa il già provato sistema sanitario pubblico62. Inoltre il diritto alla bellezza, immaginato in relazione alla chirurgia estetica, potrebbe generare parallelamente, nella chirurgia in generale o addirittura per tutta la medicina, un diritto alla guarigione, con conseguenze sul piano della responsabilità del medico63. È stato immaginato un eventuale “diritto al miglioramento”, costruito sulla collaborazione tra chirurgia estetica e psicologia, sul presupposto però che si distinguano gli interventi mirati a correggere effettivamente dei difetti estetici, da quelli meramente voluttuari e privi di una qualche seppur minima utilità64. Tuttavia non si può negare
Edmonds, A “necessary vanity”, in https://www.nytimes. com/, 2011. 61
Posteraro, Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita di un nuovo diritto alla bellezza, cit., 864 ss.
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Ibidem.
Ivi, 866 ss. Sul legame tra chirurgia estetica e psicologia, v. Ghigi, op. cit., 161 ss. 64
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che il confine astrattamente netto fra un tipo di operazione e l’altro sia, in concreto, il più delle volte labile, una sfuggente linea sottile cui potrebbe essere rischioso affidare il compito di fungere da discrimine. Diritto al miglioramento estetico e diritto alla bellezza sono espressioni il cui senso acquisterebbe pregnanza in riferimento a un diritto alla felicità65. Ma davvero la bellezza può fare la felicità?
«We hold these truths to be self-evident, that all men are created equal, that they are endowed by their Creator with certain unalienable Rights, that among these are Life, Liberty and the pursuit of Happiness». Queste le celebri parole del Preambolo della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America del 1776, scolpite nella memoria collettiva e culturale con riferimento al diritto alla felicità. Ma, nonostante alcuni ritengano in qualche modo costituzionalizzato nell’ordinamento italiano appunto un diritto alla felicità, la Costituzione non lo enuncia e ancorare ad esso, relativamente all’art. 3, 2° comma, o all’art. 2 Cost., un ipotetico diritto alla bellezza sarebbe un ragionamento che pecca di eccessiva astrattezza. Cfr. Posteraro, Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita di un nuovo diritto alla bellezza, cit., 862, nt. 57. Se non è pacifica la costituzionalizzazione del diritto alla felicità, altrettanto non si può dire con certezza che esso manchi nel nostro ordinamento, tant’è che la stessa S.C. vi ha fatto riferimento: Cass., sez. un., 22.12.2015, n. 25767, in Nuova giur. civ. comm., 2016, I, 443 ss., con nota di Piraino, I confini della responsabilità civile e la controversia sulle malformazioni genetiche del nascituro: il rifiuto del c.d. danno da vita indesiderata; in Corr. giur., 2016, 41 ss., con nota di Bilò, Nascita e vita indesiderate: i contrasti giurisprudenziali all’esame delle Sezioni Unite; in Danno e resp., 2016, 349 ss., con nota di Cacace, L’insostenibile vantaggio di non esser nato e la contraddizion che nol consente; in Giur. it., 2016, 543 ss., con nota di Carusi, Omessa diagnosi prenatale: un contrordine... e mezzo delle Sezioni unite; in Giur. it., 2016, 1392 ss., con nota di Russo, Omessa informativa sulle condizioni per l’interruzione della gravidanza: spunti in materia di legittimazione e prova; in Resp. civ. e prev., 2016, 152 ss., con nota di M. Gorgoni, Una sobria decisione «di sistema» sul danno da nascita indesiderata; in Giur. cost., 2016, 1568 ss., con nota di Diotallevi, La legittimazione del minore disabile ad agire per il risarcimento del danno c.d. da nascita indesiderata ed il nesso (inscindibile) tra soggettività e capacità giuridica. Cass., 26.2.2014, n. 4570, in DeJure. Sul diritto alla felicità e lavoro, Mattiuzzo, Il diritto alla felicità sul posto di lavoro, in Il lavoro nella giurisprudenza, 2003, 722 ss. 65
5. Osservazioni conclusive Come si è cercato di mettere in luce, per il chirurgo estetico, in tema di responsabilità medica, si ritiene che valgano regole diverse rispetto a quelle che si applicano al sanitario, in generale. Si tratta di regole specifiche, che configurano un regime più gravoso e più impegnativo per il professionista, che, in questo senso, si vede penalizzato. Va detto anche che a sostenere questa impostazione non vi è un orientamento consolidato in giurisprudenza, tuttavia non è raro incontrare interpretazioni che vi aderiscano ancora oggi. Inquadrare l’obbligazione del chirurgo estetico come obbligazione di risultato e non di mezzi comporta che, qualora dall’intervento il paziente non ottenga l’esito voluto, indipendentemente dalla diligenza prestata dal professionista, quest’ultimo venga considerato inadempiente e possa essere condannato al risarcimento del danno66. Esigere poi che egli informi il paziente, per il necessario preventivo consenso libero e informato, in modo così dettagliato e approfondito da deter-
Sul particolare danno derivante dalle cicatrici, AgostiLa cicatrice in chirurgia estetica. Aspetti biologici, clinici e medico-legali, in Riv. it. med. leg., 1990, 7 ss.; Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 909. V. Cass., 24.10.2007, n. 22327, in Foro it., 2007, I, 3383 ss., secondo cui, qualora si accerti che le conseguenze della permanenza di cicatrici siano state indicate, come effetto inevitabile dell’intervento (date le condizioni biologiche del soggetto), non sussiste inadempimento del professionista, chirurgo estetico. Cfr. Cass., 28.8.2009, n. 18805, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 290 ss., con nota di Klesta Dosi, La chirurgia estetica tra consumerismo e valore della persona; in Corr. giur., 2010, 199 ss., con nota di Meani, La clinica privata risponde dei danni derivanti da un intervento chirurgico anche quando l’operazione è stata eseguita dal medico di fiducia del paziente: osservazioni critiche. Sulle conseguenze giuridiche dell’intervento di chirurgia estetica che risulti inutile per il paziente, Cass., 20.9.2004, n. 18853, in La resp. civ., 2005, 690 ss., con nota di L. D’Alessandro, Il risarcimento del danno nel caso d’intervento di chirurgia estetica mal riuscito; in Danno e resp., 2005, 513 ss., con nota di Benedetti, Chi esegue male si tiene il compenso? La retroattività della risoluzione nei contratti professionali e con nota di Tassone, Inadempimento del contratto, restituzione del compenso e risarcimento del danno: variazioni sul tema e note alla luce dell’efficient breach.
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nelli-Riccio-Carli-Bertani,
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minare in questi una consapevolezza massima dei rischi dell’operazione, oltreché dei miglioramenti raggiungibili, significa che nei suoi confronti può essere invocata più facilmente la violazione del diritto al consenso informato stesso e, conseguentemente, può essere domandata la condanna al risarcimento dei danni, nella duplice possibile veste di danni derivanti da lesione della salute o da lesione dell’autodeterminazione. Se da un lato si è cercato di graduare questo obbligo informativo, adattandolo al caso concreto, dall’altro sono stati ideati meccanismi per superare l’accertamento del nesso eziologico, in base a un regime presuntivo ad hoc. L’insieme di queste norme, prevalentemente di matrice giurisprudenziale, le quali giocano a sfavore del professionista e a vantaggio del paziente danneggiato, poggia su una concezione della chirurgia estetica che non tiene adeguatamente conto di quella che è la funzione terapeutica di questo particolare tipo di chirurgia e quindi, indirettamente, nemmeno del concetto attuale di diritto alla salute. Si ritiene che la chirurgia estetica non curi una malattia o un male e che sia una chirurgia dagli interventi non necessari, una chirurgia dei desideri67, una chirurgia che insegue i capricci e le mode del momento – cosa vera in parte – e per questo si pensa che ad essa si confacciano regole diverse. Tutto ciò si traduce in un appesantimento della responsabilità di questo sanitario, che viene ad essere esposto a richieste di risarcimento del danno, in un certo senso, agevolate. Ma la nozione di salute non coincide più con l’assenza di malattia, la salute è uno “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale”. E la chirurgia estetica ha proprio questo intento, cioè quello di determinare nel paziente la conquista di un benessere complessivo, anche relazionale, o la sua riconquista, mediante il superamento del
Posteraro, Danni da chirurgia estetica, cit., 898; Id., Bioetica, bellezza e chirurgia estetica: la illegittima manipolazione del corpo nella quarta generazione dei diritti, cit., 213; Id., Atto medico, spersonalizzazione e chirurgia estetica. La nascita di un nuovo diritto alla bellezza, cit., 850 ss. 67
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disagio o della insicurezza o l’abbandono di un timore, di un’insoddisfazione68. Non bisogna dimenticare che la chirurgia estetica svolge – e talvolta solo essa può svolgere – un ruolo anche in relazione all’identità della persona e alla libertà della sua esistenza69. «La chirurgia estetica è, in fondo, una chirurgia su persone sane che vogliono essere più belle, più attraenti. Certo, ognuno porta la propria storia, il proprio disagio, complessi, sensi di inadeguatezza. Alla fine c’è la trasformazione agognata, il sogno realizzato. Ma ci sono casi in cui è il percorso interiore che porta al benessere, alla realizzazione di sé, alla completa emersione dell’interiore. Ci sono casi in cui
«Ciò che appare è la presenza di una spinta, non più rinunciabile, a sostituire l’idea tradizionale di salute – nel senso, “medicale”, di assenza di patologia nel “corpo-macchina” – con una concezione dai contenuti più ampi, espressiva della “presenza” di benessere e, in ultima analisi, rappresentativa dell’armonia con l’immagine di Sé». Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, cit., 69. Cfr. Ivone, op. cit., 620. All’argomentazione secondo cui non sarebbe possibile riconoscere una finalità terapeutica agli interventi di chirurgia estetica se non mediante una specifica valutazione di tipo psicologico, da condurre caso per caso, si può obiettare che, nel momento stesso in cui una persona, rivoltasi al sapere esperto del medico, decide di procedere con un intervento di chirurgia estetica, non può che ravvisarsi, se non una condizione psicologica di disagio, quantomeno un’intenzione o una volontà di cambiamento, che sottende o implica un bisogno su un piano psicologico. 68
69 «Possiamo davvero ammettere che un potere sociale mi imponga di essere ciò che non riconosco come me, semplicemente che mi imponga di esistere contro la mia identità»? Così Zatti, Il corpo e la nebulosa dell’appartenenza, cit., 12. Su corpo e identità, in relazione ai percorsi tracciati dalla giurisprudenza costituzionale, Veronesi, Il corpo e la Costituzione. Concretezza dei “casi” e astrattezza della norma, Milano, 2007, 53 ss. V. anche Posteraro, Transessualismo, rettificazione anagrafica del sesso e necessità dell’intervento chirurgico sui caratteri sessuali primari: riflessioni sui problemi irrisolti alla luce della recente giurisprudenza nazionale, in Riv. it. med. leg., 2017, 1349 ss.; Angiolini, Transessualismo e identità di genere. La rettificazione del sesso fra diritti della persona e interesse pubblico, in Eur. e dir. priv., 2017, 262 ss.; Aprile-Malgieri-Palazzi, Transessualismo e identità di genere: sviluppi dinamici di una originaria staticità? Considerazioni giuridiche, mediche e filosofiche, in Riv. it. med. leg., 2016, 57 ss.; Astone, Il controverso itinerario dell’identità di genere, in Nuova giur. civ. comm., 2016, II, 305 ss. Sui confini e sui punti di arrivo di diritto e corpo, Pezzini, La condizione intersessuale in Italia: ripensare le frontiere del corpo e del diritto, in questa Rivista, 2017, 443 ss.
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quel corpo che si viene a implorare di modificare più che brutto, antiestetico o sgradevole, è una gabbia, un pozzo scuro in cui affonda l’identità. […] In questo caso l’intervento chirurgico estetico diventa etico perché è in grado di permettere l’emersione dell’interiore, di acquisire la vera identità percepita dall’individuo»70. Se può dirsi che per mezzo della bellezza si può ottenere la salute, non può predicarsi che le due cose coincidano. Non si può concretamente parlare nemmeno di un diritto alla bellezza. La bellezza è sì un valore, ma profondamente soggettivo, e la società contemporanea, con la sua spasmodica ricerca della perfezione, del tutto e subito, del trofeo da esibire, tende ad oggettivizzare, ad assolutizzare, ad estremizzare forme e modelli. È in questa direzione, attraverso una medicina e una chirurgia commercializzate, che della chirurgia estetica si può fare un uso distorto fino ad arrivare a conclusioni spersonalizzanti71. Questa è propriamente la chirurgia senza finalità curativa, per cui il “paziente” non è più tale, ma viene ad essere mero cliente. Tuttavia la ricerca della bellezza in sé non è affatto un disvalore, anzi, quando è d’aiuto alla persona, è una cosa nobile. Se è vero che la bellezza, direi tanto esteriore quanto interiore, è promessa di felicità72, allora possa il diritto permettere questa, con giustizia, per quella. «Questo nostro caduco et fragil bene, ch’è vento et ombra, et à nome beltate»73.
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Lorenzetti, Intelligenza estetica, cit., 59 s.
L’immaginazione corre agli scenari fantasiosi e grotteschi che regala la cinematografia di ieri e di oggi. Si pensi alle pratiche del dottor Jaffe o del dottor Chapman, nel mondo distopico di Terry Gilliam, in Brazil (1985), o alla disperata ricerca dell’eterna bellezza e giovinezza da parte di Helen e Madeline, nella commedia di Robert Zemeckis, La morte ti fa bella (1992), fino alla storia torbida e insana del dottor Ledgard, nel thriller di Pedro Almodóvar, La pelle che abito (2011). 71
72 È l’idea espressa da Stendhal, nella sua opera Dell’amore. Cfr. Biagi, Quante storie, Milano, 1989, 22.
I primi due versi del sonetto di Francesco Petrarca, Questo nostro caduco et fragil bene (CCCL). Petrarca, Canzoniere. Rerum vulgarium fragmenta, Acquaviva delle Fonti, 2006, 452. 73
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s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Cass. civ., III sez., 22.8.2018, n. 20885
Responsabilità medica – Diritto all’autodeterminazione – Consenso informato – Danno alla salute – Prova – Risarcimento (Cost., artt. 2, 13, 32; c.c., artt. 1176, 1218, 2043, 2059)
È ammessa la risarcibilità del danno non patrimoniale derivante dalla sola lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente, anche in assenza di pregiudizi alla sua salute, purché l’offesa superi la soglia minima di gravità e l’intervento non consentito si colleghi eziologicamente con le sofferenze patite. Le condizioni di tale ristoro sono due: in primo luogo, l’intervento medico deve rappresentare un atto terapeutico necessario per la sopravvivenza o la guarigione del paziente, e non un mero intervento migliorativo; in secondo luogo, se il paziente fa valere la sola lesione del proprio diritto all’autodeterminazione in sé e per sé considerato, non è necessario fornire la prova che, ove fosse stato compiutamente informato, egli avrebbe rifiutato il trattamento. Tale prova va, invece, fornita solo nel caso in cui si sia verificato un danno alla salute, derivante dal trattamento effettuato senza consenso informato, di cui si chieda il risarcimento. Il testo integrale dell’ordinanza è leggibile sul sito della Rivista
La tutela del diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute. Le condizioni poste dalla Cassazione Luca Russo
Avvocato in Roma Sommario: 1. Nozione di autodeterminazione. – 2. Fondamento normativo. – 3. Evoluzione della dottrina italiana in tema di lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente. – 4. Il punto di approdo della giurisprudenza. – 5. La Suprema Corte ribadisce l’autonoma risarcibilità della lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente e ne precisa i presupposti.
Abstract: Il presente contributo analizza il concetto di libertà di autodeterminazione del paziente nella relazione con il medico, partendo dal fondamento normativo e ripercorrendo le principali tappe degli sviluppi dottrinali e degli orientamenti giurisprudenziali in materia, sof-
fermandosi infine sulla riconosciuta autonomia della risarcibilità del pregiudizio al diritto all’autodeterminazione terapeutica e sulle condizioni di ammissibilità di tale ristoro riguardanti la tipologia dell’intervento medico e la prova della lesione fatta valere dal paziente.
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This paper analyzes the patient’s right of self-determination in the relationship with the doctor, starting from the normative basis and retracing the main stages of the doctrinal developments and the jurisprudential orientations about this subject, finally focusing on the recognized autonomy of the redress of damage to the right of therapeutic self-determination and on the conditions of admissibility of such compensation regarding the type of medical intervention and the evidence of the injury claimed by the patient.
1. Nozione di autodeterminazione La natura del consenso ad un trattamento medico manifestato dal paziente – ormai scevra della caratteristica di causa di giustificazione di cui all’art. 50 c.p.1 – è imperniata sul principio personalistico che trova fondamento negli artt. 2, 13 e 32, comma 2°, Cost2. Rientra oramai tra i diritti della personalità formalmente riconosciuti il «consenso consapevolmente informato»3 del paziente quale espressione del proprio diritto di autodeterminazione che si estrinseca nella libertà di scelta terapeutica. Tale concetto di autodeterminazione – che può essere considerato in diverse accezioni – nella sede che qui interessa viene inteso come «capacità di riflettere criticamente sulla struttura motivazionale del proprio modo di agire in modo da essere e
Il superamento definitivo dell’accezione del consenso del paziente quale scriminante è rappresentato da Cass., sez. un., 18.12.2008, n. 2437, in Dir. pen. proc., 2009, 447; si veda altresì Palermo Fabris, Riondato, Sull’atipicità penale dell’atto medico-chirurgico non consentito ma fausto nell’esito (Sezioni Unite Penali, 21 gennaio 2009, n. 2437), in Nuova giur. civ. comm., 2009, II, 395. 1
Per il fondamento normativo del consenso informato e del diritto ad autodeterminarsi si rinvia al par. 2.
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La locuzione «consenso consapevolmente prestato» è stata utilizzata dalla giurisprudenza più recente ed è un’espressione più puntuale rispetto al mero «consenso informato». La stessa Suprema Corte ha precisato che «ad essere “informato” non è il consenso, ma dev’esserlo il paziente che lo presta». V. Cass., 9.2.2010, n. 2847, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 794 ss.; cfr. altresì il commento di Riccio, La violazione dell’autodeterminazione è, dunque, autonomamente risarcibile, in Contr. e impr., 2010, 313. 3
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Giurisprudenza
continuare ad essere un soggetto in grado di scegliere e di assumere le responsabilità delle proprie scelte»4. In tal modo, il principio di autodeterminazione ha rappresentato una delle più importanti modalità attraverso le quali può manifestarsi la dignità umana ed ha permesso l’affermazione di un diritto all’autorealizzazione della persona, inteso come capacità di compiere azioni e scelte in funzione del perseguimento di un piano di vita che ciascun soggetto è chiamato a definire per sé. Sia la dottrina che la giurisprudenza già da alcuni anni pacificamente riconoscono al consenso libero e informato un ruolo basilare nella relazione terapeutica che si instaura tra medico e paziente, relazione ormai improntata non più su un legame di tipo “paternalistico” bensì su un rapporto di tipo paritario e informato alla collaborazione tra i due soggetti5. La questione che ha da sempre interessato il diritto all’autodeterminazione ha come fulcro la problematica di determinare se tale diritto debba considerarsi assoluto tout court oppure se il suo esercizio possa incontrare dei limiti (rappresentati, soprattutto, dal fatto che l’art. 32 Cost. tutela la salute non solo in quanto diritto fondamentale della persona ma anche come interesse della collettività, e che l’art. 5 c.c. stabilisce delle limitazioni agli atti di disposizione del proprio corpo). Occorre indagare pertanto se un soggetto, nell’esercizio del proprio diritto all’autodeterminazione, possa liberamente decidere anche negativamente riguardo agli atti che riguardino il proprio corpo, cioè esercitando il suo diritto a non ricevere, senza il proprio consenso, alcun intervento da parte di terzi (a meno che tale intervento non sia da considerarsi come obbligatorio in termini di legge).
Questa puntuale nozione del principio di autodeterminazione è fornita da Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, Padova, 2009, 52. 4
Per una limitata indicazione dei contributi dottrinali in tema di ricostruzione del concetto di autodeterminazione, cfr. Facci, Il rifiuto del trattamento sanitario: validità e limiti, in Contr. e impr., 2006, 1671 ss.; Cacace, Il consenso informato del paziente al trattamento sanitario, in Danno e resp., 2007, 283 ss.; Pasquino, Consenso e rifiuto nei trattamenti sanitari: profili risarcitori, in La resp. civ., 2011, 165 ss.; Pucella, nel Commentario del codice civile. Delle persone, Torino, 2013, sub art. 32 Cost., 97 ss. 5
Diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute
Il nodo centrale, nonché punto di approdo degli arresti giurisprudenziali di merito e di legittimità, non concerne più l’individuazione di quale sia il bene giuridico tutelato dall’obbligo di informazione, quanto piuttosto se siano ristorabili le conseguenze pregiudizievoli derivanti dalla sola violazione di quest’obbligo6. Pertanto, dopo aver brevemente esposto il fondamento normativo del diritto in esame e gli sviluppi della dottrina e della giurisprudenza che hanno interessato il concetto di autodeterminazione in campo medico, si comprenderà come la Corte di Cassazione, nell’ordinanza in commento, abbia riaffermato quale sia l’an e il quomodo della risarcibilità del danno arrecato alla mera violazione del diritto all’autodeterminazione connesso all’informazione medica, tracciandone requisiti e condizioni.
2. Fondamento normativo Nel nostro ordinamento giuridico il principio del consenso informato affonda le sue radici nel dettato costituzionale, e segnatamente nell’art. 32 Cost. che, al comma 2°, sancisce: «nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». Questa norma – che riguarda la tutela del diritto alla salute inteso come diritto fondamentale dell’individuo – va letta in combinato disposto con l’art. 13 Cost., che garantisce e difende l’inviolabilità della persona considerata quale libertà di scelta in ordine alla propria salute e al proprio corpo, e con l’art. 2 Cost., baluardo a difesa di tutti i diritti fondamentali dell’uomo, sia uti singulus, sia nelle formazioni sociali in cui si esplica la sua personalità7.
Si tratta dell’ipotesi di intervento medico eseguito correttamente, con riferimento al quale, però, il paziente non sia stato previamente e sufficientemente informato riguardo ai possibili rischi, che di fatto, poi, si sono verificati.
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Due sono le deroghe che incontra il principio generale secondo cui il medico è tenuto ad acquisire il consenso informato del paziente prima di procedere a qualsiasi tipo di trattamento terapeutico o di intervento: la prima, di natura costituzionale (art. 32, comma 2°, Cost.), è rappresentata dall’ipotesi in cui vi sia una espressa previsione legislativa alla sottoposizione di una persona ad un trattamento sani-
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La formalizzazione del diritto al consenso informato8 ha avuto piena cittadinanza in Italia con la legge istitutiva del Servizio Sanitario Nazionale (l. 23 dicembre 1978, n. 833), il cui art. 33 ha sancito la regola generale secondo la quale il medico non può eseguire interventi o trattamenti sanitari sul paziente contro (rectius: senza) la sua volontà, a meno che egli sia nelle condizioni di non poter prestare in modo consapevole il proprio consenso e ricorrano gli estremi dello stato di necessità. In un secondo momento, la Convenzione sui diritti dell’uomo e sulla biomedicina, sottoscritta ad Oviedo il 4 aprile 1997 e ratificata in Italia con la l. 28 marzo 2001, n. 145, all’art. 5 ha stabilito che «un trattamento sanitario può essere praticato solo se la persona interessata abbia prestato il proprio consenso libero ed informato». A livello comunitario, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, prevede che ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica, che si esplica, in ambito medico, attraverso «il consenso libero e informato della persona interessata» (art. 5) a sottoporsi ad un dato trattamento sanitario. Infine, anche il Codice di deontologia medica del 2014 regola le modalità di prestazione del consenso informato, e l’art. 35 segnatamente sancisce l’obbligo per il medico di acquisire tale consenso, vietandogli di «intraprendere o proseguire procedure diagnostiche e/o interventi terapeutici senza la preliminare acquisizione del consenso informato o in presenza di dissenso informato». Dunque, il diritto di autodeterminazione del paziente rappresentato dalla sua manifestazione del consenso informato ad un determinato trattamento sanitario costituisce il fulcro del rapporto tra il
tario, che in questo caso viene definito come “obbligatorio”, come accade, per esempio, per alcune vaccinazioni obbligatorie introdotte con il d.l. 7 giugno 2017, n. 73, convertito in l. 31 luglio 2017, n. 119; la seconda deroga si ha quando il paziente non è in grado di prestare il proprio consenso e l’intervento medico risulta indifferibile ed urgente al fine di salvarlo dalla morte o da un pregiudizio grave alla salute. A livello internazionale, tale diritto ha avuto un primo riconoscimento con il Codice di Norimberga del 1947 e, dopo, con la Dichiarazione di Helsinki della World Medical Association del 1964.
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medico e il paziente stesso, che assurge ad una vera e propria «alleanza terapeutica»9 in ossequio alla quale tutte le tappe di un percorso terapeutico devono essere concordate tra il professionista e colui il quale deve subire la cura. In questi termini, il consenso – pieno e consapevole – del paziente rappresenta l’esplicazione dei diritti inviolabili della persona alla salute e all’autodeterminazione, i quali trovano un punto di convergenza nel più ampio diritto alla libertà personale10.
3. L’evoluzione della dottrina italiana in tema di lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente Per meglio comprendere come il diritto alla piena e consapevole manifestazione del consenso informato da parte del paziente rivesta ormai una natura di diritto “autodeterminato” – e quindi tutelabile e risarcibile di per sé – e non più un mero diritto “eterodeterminato”11 dalla conseguenza di un pregiudizio alla salute o all’integrità psico-fisica nel suo complesso, è bene tracciare, seppur sinteticamente, le posizioni più rilevanti che la dottrina italiana ha assunto a riguardo12. Una prima tesi, invero più risalente, nega che la violazione del diritto all’autodeterminazione terapeutica possa legittimare, di per sé, un’autonoma pretesa risarcitoria. Infatti, secondo i sostenitori di questo orientamento, la violazione del diritto in esame potrebbe essere risarcita solamente se si accerti un danno alla salute causalmente collegato all’intervento medico effettuato senza previa informazione13. All’interno di questo filone inter-
Cfr. Veronesi, Il diritto di non soffrire. Cure palliative, testamento biologico, eutanasia, Milano, 2011, 89 ss. 9
V. Corte cost., 15.12.2008, n. 438, in Giur. cost., 2008, 4945 ss.
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Mutuando una dicotomia peculiare del diritto processuale civile. 11
Come spunto di approfondimento per le tematiche in esame, v. Pucella, Autoderminazione e responsabilità nella relazione di cura, Milano, 2010. 12
Tra i primi contributi a sostegno di tale tesi, v. Gambaro, La responsabilità medica nella prospettiva comparatistica, in Aa. Vv., La responsabilità medica, Milano, 1982, 41 ss. 13
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Giurisprudenza
pretativo, altre posizioni più moderate – seppur comunque escludano che la lesione all’autodeterminazione del paziente possa assurgere ad oggetto di autonoma pretesa risarcitoria – sostengono che la subordinazione del ristoro della violazione dell’autonomia decisionale del paziente al solo verificarsi di un pregiudizio dell’integrità psico-fisica finirebbe per annacquare la distinzione tra danno all’autodeterminazione e danno alla salute14. Un altro orientamento, invece, attribuisce autonomia alla lesione del diritto all’autodeterminazione15: il danno che deriva da tale violazione costituisce un autonomo fondamento di responsabilità, distinto dalla lesione dell’interesse protetto (salute o integrità psico-fisica). Secondo tale tesi, però, il nocumento alla libertà di autodeterminazione non può da solo integrare un pieno presupposto per la responsabilità del medico, bensì è necessario un quid pluris, rappresentato dalla conseguente lesione alla salute, rispetto alla quale l’obbligo informativo nei confronti del paziente è strumentale alla sua salvaguardia16.
Così Campione, Trattamento medico eseguito leges artis in difetto di consenso: la svolta delle S.U. penali nella prospettiva civilistica, in La resp. civ., 2009, 881.
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Tra i tanti, cfr. Castronovo, Profili della responsabilità medica, in Studi in onore di Pietro Rescigno, 5, Responsabilità civile e tutela dei diritti, Milano, 1998, 129 ss. L’A. distingue due ipotesi profilabili: nella prima non viene fornita un’adeguata informazione e il «paziente subisce un’alterazione negativa del suo stato di salute senza che al medico sia imputabile un inadempimento della prestazione»; nella seconda ipotesi, «pur fornita adeguatamente l’informazione, l’intervento medico sortisce risultato infausto imputabile al medico». Le due ipotesi prospettate sono diverse: mentre la seconda rappresenta il modello tradizionale di responsabilità medica, la prima, invece, «sembra trovare autonoma configurazione proprio per il rilevare della violazione dell’obbligo di informazione nel momento in cui l’esito negativo dell’intervento medico non sia frutto di maldestrezza». È proprio in questa ipotesi che si distinguono nettamente i due beni giuridici cui perseguono l’obbligo di informazione, da un lato, e la prestazione sanitaria, dall’altro, pertanto sono diverse le lesioni che ne derivano.
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16 Cfr. Castronovo, La nuova responsabilità civile, Milano, 2006, 218, il quale, con una colorita similitudine, sottolinea come il danno al diritto all’autodeterminazione debba essere necessariamente collegato ad un danno alla salute: «come l’aggettivo ha bisogno del sostantivo, l’ingiustizia senza danno non costituisce ancora quello che il nostro codice civile chiama fatto illecito».
Diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute
Infine, un terzo filone interpretativo – ante litteram degli approdi giurisprudenziali attuali – incentrato sull’autonoma risarcibilità della lesione del diritto all’autodeterminazione rispetto al danno alla salute (da considerarsi, quest’ultima, quale bene diverso e separato), ritiene legittimo il ristoro della libertà al pieno e libero convincimento del paziente verso un determinato trattamento terapeutico anche in assenza di una successiva e conseguente lesione all’integrità psico-fisica17. Di conseguenza, in questa accezione, il danno – eslege da una successiva lesione aliunde – coincide con l’interesse tutelato (appunto, l’autodeterminazione del paziente)18.
4. Il punto di approdo della giurisprudenza Originariamente, in ordine all’obbligo informativo, la giurisprudenza più risalente ne disconosceva la natura contrattuale ed autonoma e non ammetteva alcun tipo di risarcimento del danno nel caso in cui, anche in assenza di adeguata informazione, l’intervento fosse stato correttamente eseguito19.
Ex pluribus, Busnelli, A dieci anni dalla sentenza 184/1986 della Corte costituzionale sul danno alla salute. Conferme, correzioni di rotta, prospettive, in Resp. civ. e prev., 1997, 917 ss., il quale, già in quegli anni, sosteneva che l’omogeneizzazione del danno diverso da quello puramente patrimoniale in un’unica categoria, «all’insegna di una piena risarcibilità di tutti i danni non patrimoniali in un art. 2059 ipoteticamente amputato delle sue limitazioni risarcitorie, favorirebbe inevitabilmente il processo di dilatazione dei danni alla persona, che non avrebbe più bisogno di un’interpretazione ipertrofica dell’art. 32 Cost. per accogliere tutte le voci di danno coinvolgenti la sfera esistenziale della persona». Cfr., altresì, Riccio, Consenso informato e dissenso fra diritto penale e diritto civile, in La resp. civ., 2009, 563 ss. 17
18 È quanto affermato da Pucella, Autodeterminazione e responsabilità nella relazione di cura, cit., 38 ss., il quale critica l’assunto secondo cui occorra risarcire «la violazione dei diritti della persona alla sola condizione che si dimostri che essa ha prodotto un danno», poiché considera errato ritenere che la violazione di tali diritti non abbia rilevanza se non a causa di un diverso ed ulteriore danno; pertanto l’a. riconosce piena legittimazione al nocumento della libertà di autodeterminazione quale danno ristorabile ex se, poiché coincidente con la lesione dell’interesse protetto. 19 Ex multis, cfr. Cass., 15.1.1997, n. 364, in Foro it., 1997, I, 771, con nota di Palmieri; Trib. Genova, 3.1.1996, in Danno e resp., 1997, 94, con nota di Benedetti.
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L’evoluzione giurisprudenziale che ha rappresentato un cambiamento di rotta riguardo alla tematica in esame, fino ad allinearsi alla più recente dottrina illustrata poc’anzi, abbraccia principalmente l’arco di un ventennio e prende le mosse da una pronuncia del Tribunale di Milano20 del 1998. Si trattava del caso di una paziente affetta da una grave forma tumorale cerebrale, che veniva sottoposta a fini diagnostici, ma senza il suo consenso, a sei prelievi bioptici che le avevano causato numerose emorragie interne accelerandone il decesso21. In questa pronuncia si evince come «la distinzione netta e precisa tra le due diverse situazioni giuridiche soggettive del diritto all’autodeterminazione e del diritto alla giusta informazione sul proprio stato di salute è stata ribadita anche in ordine alla natura ed all’entità dei danni risarcibili»22. Sempre il Tribunale di Milano23, a distanza di alcuni anni da questa prima pronuncia, torna a rimar-
Trib. Milano, 14.5.1998, con nota di Magliona, Libertà di autodeterminazione e consenso informato all’atto medico: un’importante sentenza del tribunale di Milano, in Resp. civ. e prev., 1998, 1623 ss. 20
21 Nella sentenza si legge: «non può ritenersi valido il consenso espresso da uno dei parenti, giacché quando il paziente è capace di intendere e di volere egli è l’unico soggetto legittimato a consentire trattamenti che incidano sul proprio corpo e sulla qualità della propria vita […] un familiare del paziente, per quanto abbia una prossimità maggiore rispetto al medico con la persona del paziente, non può assurgere alla figura di nuncius della sua volontà, se questi è capace di intendere e volere, non potendo prendere decisioni in sostituzione del diretto interessato. Egli infatti […] non potrà mai garantire di ben rappresentare la volontà del paziente, alla quale deve ispirarsi il comportamento del medico». Cfr. Trib. Milano, 14.5.1998, cit., 1663 ss.
Così Pasquino, Autodeterminazione e dignità della morte, cit., 150.
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Trib. Milano, 20.3.2005, in Rass. dir. fam., 2006, 34 ss., ove il Giudice testualmente afferma: «il principio consolidato in giurisprudenza secondo cui il medico non può più intervenire sul paziente senza averne ricevuto prima il consenso non ha per oggetto un atto puramente formale e burocratico, ma è la condizione imprescindibile per trasformare un atto illecito (la violazione dell’integrità psico-fisica) in un atto lecito; da ciò consegue che la mancata richiesta del consenso effettivo e informato deve valutarsi quale autonoma fonte di responsabilità in capo ai medici per lesione del diritto costituzionalmente protetto di autodeterminazione, la cui lesione dà luogo ad un danno non patrimoniale; tuttavia nelle ipotesi in cui all’esito dell’intervento cui non sia stato dato il consenso informato da parte del pazien23
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care la rilevanza del diritto all’autodeterminazione – che assurge a diritto di rango costituzionale – e della mancanza di consenso pieno e libero quale fonte autonoma di responsabilità del medico. Pertanto, la giurisprudenza di merito, in più occasioni, ha affermato che alla lesione del diritto di autodeterminazione consegue ipso iure un danno risarcibile: la mancata richiesta del previo consenso rappresenta autonoma fonte di responsabilità del medico, dimodoché nessuna rilevanza ha la circostanza secondo la quale l’intervento sia stato eseguito seguendo le leges artis. Sulla scia di queste pronunce di merito, anche la Suprema Corte è giunta ad attestare che il consenso pieno, libero ed informato ai trattamenti medici è «di norma, legittimazione e fondamento del trattamento sanitario», oltre che «forma di rispetto per la libertà dell’individuo e un mezzo per il perseguimento dei suoi migliori interessi». Tale diritto ha come «contenuto concreto la facoltà non solo di scegliere tra le diverse possibilità di trattamento medico, ma anche di eventualmente rifiutare la terapia e di decidere consapevolmente di interromperla, in tutte le fasi della vita, anche in quella terminale»24. Il pieno riconoscimento del rilievo ai fini risarcitori dell’inadempimento dell’obbligo di informazione, anche in assenza di danno alla salute o in presenza di un danno alla salute non ricollegabile alla violazione del diritto all’informazione, viene cristallizzato dalla nota pronuncia delle sezioni unite della Corte di Cassazione del 9 febbraio 2010, n. 284725:
te (o in cui tale consenso sia stato prestato per un intervento eseguito con modalità diverse da quelle previste), in assenza di colpa medica, non consegua alcun pregiudizio alla salute del paziente, ma anzi un miglioramento delle sue condizioni psico-fisiche, la lesione del diritto all’autodeterminazione produce sì un danno non patrimoniale seppure ontologicamente trascurabile o comunque di entità economica non apprezzabile». In questo modo si esprimono i giudici di legittimità nella ben nota pronuncia sul caso Englaro. Cfr. Simeoli, Il rifiuto di cure: la volontà presunta o ipotetica del soggetto incapace, nota a Cass., 16.10.2007, n. 21748, in Giust. civ., 2007, 2366 ss.
Giurisprudenza
il diritto al risarcimento susseguente a tale lesione è configurabile tutte le volte in cui si riscontrino, a carico del paziente, conseguenze pregiudizievoli di natura non patrimoniale di apprezzabile gravità, che derivino dalla violazione del fondamentale diritto all’autodeterminazione ex se considerato. Ma i giudici di legittimità compiono un ulteriore passo, individuando i parametri all’interno dei quali la lesione alla libertà di autodeterminarsi merita un ristoro: il danno deve superare la soglia minima di tollerabilità imposta dai doveri di solidarietà sociale e non deve essere un danno futile, cioè rappresentato da meri disagi o fastidi. Quindi, la violazione da parte del medico del suo dovere di informazione nei confronti del paziente può provocare due tipologie di danni: un danno alla salute stricto sensu inteso, che si verifica tutte le volte in cui il paziente – in capo al quale incombe il relativo onere della prova – avrebbe evitato di sottoporsi all’intervento o al trattamento e di subirne le conseguenze negative, nel caso in cui fosse stato correttamente informato; un danno da lesione del diritto all’autodeterminazione in se stesso considerato, che sussiste in tutte le ipotesi nelle quali, mancando la corretta informazione, il paziente abbia subito un nocumento – sia di carattere patrimoniale sia di natura non patrimoniale (ma, in quest’ultimo caso, deve comunque essere di apprezzabile gravità) – diverso dalla lesione del diritto alla salute.
5. La Suprema Corte ribadisce l’autonoma risarcibilità della lesione del diritto all’autodeterminazione del paziente e ne precisa i presupposti Ad ulteriore conferma dell’orientamento ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, è intervenuta di recente l’ordinanza della III sezione
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V. Cass., sez. un., 9.2.2010, n. 2847, in Nuova giur. civ. comm., 2010, I, 783, che espressamente afferma: «il diritto all’autodeterminazione è […] diverso dal diritto alla salute», «pur sussistendo il consenso consapevole, ben può configurarsi responsabilità da lesione della salute se la prestazione terapeutica sia tuttavia inadeguatamente eseguita; […] la le25
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sione del diritto all’autodeterminazione non necessariamente comporta la lesione alla salute, come accade quando manchi il consenso ma l’intervento sortisca un esito assolutamente positivo». Tra i contributi dottrinali, cfr. Cacace, I danni da (mancato) consenso informato, ibidem; Sacchi, La responsabilità del medico per omessa informazione nel caso di corretta esecuzione dell’intervento “non autorizzato”, ivi, 794 ss.
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civile della Corte di Cassazione n. 20885 del 22 agosto 2018, la quale si segnala all’attenzione degli interpreti poiché se, da un lato, ribadisce l’autonoma risarcibilità della lesione al diritto (personale ed inviolabile) dell’autodeterminazione – anche in assenza di una lesione al diritto alla salute e purché il paziente soffra conseguenze pregiudizievoli di apprezzabile gravità derivanti dalla violazione del diritto fondamentale in esame in sé considerato –, dall’altro lato, detta le condizioni in relazione alle caratteristiche che deve avere l’atto terapeutico ed alla prova del rifiuto del trattamento nel caso in cui il paziente fosse stato correttamente informato. La pronuncia è stata emessa all’esito di un giudizio introdotto da una domanda di accertamento di responsabilità del sanitario e di risarcimento proposta da un uomo, il quale, al fine di ridurre la propria ipermetropia, si è sottoposto ad un intervento di chirurgia laser eseguito in un camper all’esterno della struttura ospedaliera, lamentando quindi condizioni di precarietà. All’esito di tale intervento, poiché non aveva notato alcun miglioramento della vista, il paziente si è sottoposto ad un secondo intervento, effettuato dallo stesso medico e con la medesima tecnica laser, ma senza riscontrare nessun effetto migliorativo. Poiché i due interventi – che hanno avuto un esito infausto – hanno comportato il rischio di subire un trapianto di cornea, il paziente si è sottoposto ad un terzo intervento, eseguito da un medico diverso da colui il quale ha effettuato i primi due, al fine di rimediare alle lesioni alla vista causate dalle prime due operazioni, asseritamente svolte con imperizia secondo il ricorrente. Il medico si è costituito in giudizio, avanzando altresì una domanda riconvenzionale per risarcimento dei danni morali e materiali e chiamando in causa la compagnia con la quale era assicurato per responsabilità professionale. Il Giudice di prime cure ha respinto sia la domanda dell’attore che la domanda riconvenzionale del convenuto. Il paziente, pertanto, ha impugnato la sentenza di primo grado, indicando tra i motivi d’appello, l’assenza di consenso informato in relazione soprattutto al secondo intervento. La Corte d’Appello, rigettando l’impugnazione, con riferimento alla domanda di risarcimento del danno in ordine alla mancata acquisizione del consenso informato ha confermato la statuizione del Tribunale, sulla base del principio di diritto enunciato dalle sezioni unite del 2010: «in tema
di responsabilità professionale del medico, in presenza di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito in base alle regole dell’arte, dal quale siano tuttavia derivate conseguenze dannose per la salute, ove tale intervento non sia stato preceduto da un’adeguata informazione del paziente circa i possibili effetti pregiudizievoli non imprevedibili, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l’intervento, non potendo altrimenti ricondursi all’inadempimento dell’obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute»26. Pertanto, il Giudice dell’appello non ha ritenuto sufficientemente provato il profilo della eventuale manifestazione del rifiuto in caso di piena e corretta informazione. La Suprema Corte, confermando la pronuncia del Giudice d’Appello, ha rigettato il ricorso del paziente per motivi strettamente procedurali – in dettaglio, l’erronea formulazione del motivo di ricorso fatto valere, nella specie, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. – ma, ciononostante, ha voluto comunque procedere alla correzione della motivazione della sentenza di gravame, al fine di meglio inquadrare la fattispecie affrontata nell’alveo dei principi dettati dalla stessa Corte in tema di risarcibilità della lesione alla libertà di autodeterminazione terapeutica, precisandone le condizioni. In primo luogo, il fondamento sul quale si basa il principio di diritto enunciato dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza n. 2847/2010 – e richiamato dalla Corte d’Appello nella vicenda in esame – è rappresentato dal compimento di un atto terapeutico necessario e correttamente eseguito sulla base delle leges artis, dal quale però siano derivate conseguenze dannose per la salute. Nel caso di specie preso in considerazione, invece, per il supremo collegio «si discute di un intervento chirurgico non necessitato ai fini della sopravvivenza o della guarigione del paziente, ma migliorativo della sua condizione, in quanto volto a rimuovere o ridurre un difetto visivo esistente (ipermetropia)», in definitiva «una operazione potenzialmente migliorativa delle
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Cfr. Cass., sez. un., 9.2.2010, n. 2847, cit.
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sue condizioni di vita in quanto se riuscita gli avrebbe consentito di migliorare la vista giungendo nel migliore degli esiti ad eliminare l’uso degli occhiali»27. In secondo luogo, affrontando la tematica delle allegazioni e delle prove che deve fornire il soggetto danneggiato a dimostrazione della lesione che ha subito a seguito dell’operazione o del trattamento sanitario cui è stato sottoposto in assenza di un suo consenso previamente espresso, nell’ordinanza in commento la Suprema Corte ha proceduto a sottolineare la differenza fra due ipotesi ben distinte: la prima, nella quale la lesione al diritto al consenso pieno ed informato abbia determinato, anche in maniera incolpevole, delle conseguenze lesive per la salute del paziente, per le quali quest’ultimo chieda il risarcimento del danno28; la seconda ipotesi, in cui il paziente, a seguito dell’omesso consenso, faccia valere solo la lesione al suo diritto all’autodeterminazione, che comunque discende dalla violazione del relativo obbligo da parte del medico e della struttura sanitaria29. Nella prima delle due ipotesi, il paziente può essere risarcito solamente dimostrando che, se fosse stato informato, avrebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia30.
Giurisprudenza
Nel secondo caso, invece, se il paziente lamenta la lesione del proprio diritto ad una consapevole autodeterminazione, non è necessaria la prova del rifiuto del trattamento in caso di informazione adeguata31. Infine, i Giudici si spingono ad aggiungere un elemento in più: in quest’ultima ipotesi non vuol dire che il danno sia necessariamente risarcibile; per esserlo, secondo la Corte, sono indispensabili due requisiti: a) che si varchi la soglia della gravità dell’offesa32, ovvero il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità33; b) che si alleghi e si dimostri l’esistenza di pregiudizi e sofferenze eziologicamente riconducibili al trattamento, non essendo predicabile un danno in re ipsa consistente nella sola lesione del diritto all’autodeterminazione (tali sofferenze possono essere rappresentate anche dai disagi e dai patemi cagionati dalle stesse modalità e tempi di esecuzione, salvi i limiti di rilevanza sopra indicati). Nel corso dell’istruttoria, il ricorrente non aveva dimostrato l’esistenza di sofferenze di apprezzabile gravità, eziologicamente riconducibili al trattamento: è pertanto la carenza di prova su questo specifico aspetto che ha determinato il rigetto del ricorso, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese di giudizio.
Così si legge in Cass., 22.8.2018, n. 20885, in Mass. Giust. civ., 2018. 27
Con riferimento alle caratteristiche che deve possedere l’informativa del medico rivolta al paziente, questa deve essere particolareggiata e specifica e tale da rappresentare al paziente «la piena conoscenza della natura dell’intervento medico e/o chirurgico, della sua portata ed estensione, dei suoi rischi, dei risultati conseguibili e delle possibili conseguenze negative». Così afferma Cass., 23.5.2001, n. 7027, in Riv. it. med. leg., 2009, 337 ss. Cfr. altresì Cass., 31.7.2013, n. 18334, in Resp. civ. e prev., 2013, 269 ss. 28
29 Spiega la Cassazione nell’ordinanza in esame: «Vanno tenuti distinti i casi in cui dalla lesione del diritto al consenso informato si siano verificate delle, pur incolpevoli, conseguenze lesive per la salute del paziente asseritamente discendenti dal trattamento sanitario e di esse chieda il risarcimento l’attore (danno alla salute), dai casi in cui il paziente faccia valere esclusivamente la diversa lesione del proprio diritto all’autodeterminazione in sé e per sé considerato, comunque discendente dalla violazione del relativo obbligo da parte del medico e della struttura sanitaria». 30 Precisa la Corte, con la presente ordinanza, che «Solo nella prima delle ipotesi citate, (risarcibilità del consenso informato in quanto ne è derivato danno alla salute) il danno sarà risarcibile nella misura in cui il danneggiato alleghi e provi, anche presuntivamente, che se compiutamente informato avrebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia, perché in
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questo modo viene fornita la prova del nesso causale tra la mancanza di un consapevole consenso e il danno alla salute verificatosi a seguito della sottoposizione all’operazione». 31 È possibile, secondo la Suprema Corte, «che il danneggiato chieda di essere risarcito del danno derivante puramente e semplicemente dalla violazione del proprio diritto ad una consapevole autodeterminazione. In questo caso, la prova del rifiuto del trattamento, ove la persona fosse stata compiutamente informata, non è necessaria, perché non si assume il verificarsi di un danno diverso dalla stessa mancanza del proprio diritto alla autodeterminazione».
Secondo i Giudici di legittimità, «tale danno non è incondizionatamente risarcibile». La condizione di risarcibilità «in via strettamente equitativa» di questo tipo di danno non patrimoniale, spiega la Cassazione, «è che esso varchi la soglia della gravità dell’offesa secondo i canoni delineati dalle sentenze delle Sezioni unite 26972-26975 del 2008, con le quali è stato condivisibilmente affermato che il diritto deve essere inciso oltre un certo livello minimo di tollerabilità, da determinarsi dal giudice nel bilanciamento tra principio di solidarietà e di tolleranza secondo il parametro costituito dalla coscienza sociale in un determinato momento storico». Cfr., altresì, Cass., sez. un., 11.11.2008, n. 26972, in Guida al dir., 2008, 18 ss., con nota di Dalia, Comandè. 32
33 Ex multis, cfr. Cass., 31.1.2018, n. 2369, in Mass. Giust. civ., 2018.
s i r Giurisprudenza iu g de u r p Giurisprudenza
Uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità penale del sanitario a quasi un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite Rebecca Girani
Dottoranda di ricerca nell’Università di Bologna Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. La pronuncia a Sezioni Unite. – 3. Un’interpretazione ampiamente condivisa. – 3.1. L’ambito di applicazione. – 3.2. Profili di diritto intertemporale. – 3.3. Il discusso requisito dell’imperizia. – 4. Conclusioni.
Abstract: Il contributo si propone di far emergere la sostanziale uniformità delle pronunce della Corte di Cassazione sul tema della responsabilità penale del medico in seguito alla fondamentale sentenza a Sezioni Unite depositata quasi un anno fa. Almost a year after the ruling of the Joint Chambers of the Italian Supreme Court on the criminal liability of the physician, the paper analyses the substantial uniformity of the case law of the Italian Supreme Court.
1. Considerazioni introduttive Dopo quasi un anno dal deposito delle motivazioni della pronuncia delle Sezioni Unite penali1
Cass., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
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ci si propone di formulare alcune considerazioni sugli orientamenti dei giudici di legittimità riguardo all’ambito di applicazione dell’art. 590-sexies c.p.2, nonché alle relative conseguenze sul piano intertemporale. Fin da subito, appare utile segnalare che nella prima parte dell’articolo verrà analizzato il contenuto della sentenza a Sezioni Unite. Successivamente, ci si concentrerà sull’analisi di tre distinti profili: il perimetro di applicazione dell’art. 590-sexies c.p., il diritto intertemporale e il requisito dell’imperizia. Per ognuno di essi, saranno brevemente com-
Art. 590-sexies c.p.: «(Responsabilità colposa per morte o lesioni personali in ambito sanitario). 1. Se i fatti di cui agli articoli 589 e 590 sono commessi nell’esercizio della professione sanitaria, si applicano le pene ivi previste salvo quanto disposto dal secondo comma. 2°. Qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
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mentate alcune sentenze della Corte di legittimità che si soffermano in modo specifico sul rispettivo tema.
2. La pronuncia a Sezioni Unite Preliminarmente, è necessario ricordare che l’art. 590-sexies c.p. è stato introdotto dall’art. 6, l. 8.3.2017, n. 24. Come si dirà, esso presenta una formulazione infelice3 – soprattutto con riferimento al capoverso – che ha immediatamente fatto registrare un contrasto interpretativo4 così significativo da rendere opportuno l’intervento delle Sezioni Unite.
3 Borsari, La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite. Considerazioni rapsodiche, in questa Rivista, 2018, 190.
Sono state sufficienti due sole sentenze della Quarta sezione della Suprema Corte per evidenziare linee interpretative radicalmente differenti: Cass. pen., 20.4.2017, n. 28187 (sentenza «Tarabori») consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it, 26 aprile 2017, con nota di Cupelli, La legge Gelli-Bianco approda in Cassazione: prove di diritto intertemporale, e Cass. pen., 19.10.2017, n. 50078 (sentenza «Cavazza»), consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it, 7 novembre 2017, con nota di Cupelli, Quale (non) punibilità per l’imperizia? La Cassazione torna sull’ambito applicativo della legge Gelli-Bianco ed emerge il contrasto: si avvicinano le Sezioni Unite. Sui termini del contrasto si vedano Brusco, Cassazione e responsabilità penale del medico. Tipicità e determinatezza nel nuovo art. 590-sexies c.p., in Dir. pen. cont., 2017, 11, 205 ss.; Caletti, Mattheudakis, Le prime «linee guida» interpretative della Cassazione penale sulla riforma «Gelli-Bianco», in questa Rivista, 2017, 379 ss.; Cupelli, Cronaca di un contrasto annunciato: la legge Gelli-Bianco alle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., 2017, 11, 244 ss.; Foderà, Cenni sulla responsabilità per colpa medica tra passato e presente: dal codice civile, alla legge Balduzzi alla legge Gelli-Bianco, in www.archiviopenale.it, 6 febbraio 2018; Massaro, La legge Balduzzi e la legge Gelli-Bianco sul banco di prova delle questioni di diritto intertemporale: alle Sezioni Unite l’ardua sentenza, in www.giurisprudenzapenale.com, 4 dicembre 2017; Palermo Fabris, La responsabilità penale del professionista sanitario tra etica del diritto ed etica della medicina, in questa Rivista, 2017, 212 ss.; Risicato, Colpa dello psichiatra e legge Gelli-Bianco: la prima stroncatura della Cassazione, in Giur. it, 2017, 2199 ss. Infine, con riferimento alle problematiche sollevate dalla legge Gelli-Bianco nell’orizzonte del diritto civile, si vedano: Franzoni, La nuova responsabilità in ambito sanitario, in questa Rivista, 2017, 5 ss.; Pucella, È tempo per un ripensamento del rapporto medico-paziente?, in questa Rivista, 2017, 3 ss. 4
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Giurisprudenza
La speciale composizione della Cassazione ha proposto una sintesi interpretativa complessiva dell’art. 590-sexies c.p. in tema di responsabilità colposa dell’esercente la professione sanitaria per morte o lesioni personali5. In particolare, la Corte ha ritenuto possibile definire un’interpretazione costituzionalmente conforme della norma in considerazione statuendo più principi di diritto così sintetizzati: «L’esercente la professione sanitaria risponde, a titolo di colpa, per morte o lesioni personali derivanti dall’esercizio di attività medico-chirurgica: a) se l’evento si è verificato per colpa (anche «lieve») da negligenza o imprudenza; b) se l’evento si è verificato per colpa (anche «lieve») da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida o dalle buone pratiche clinico-assistenziali; c) se l’evento si è verificato per colpa (anche «lieve») da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o di buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto; d) se l’evento si è verificato per colpa «grave» da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio
Per una completa disamina sul tema, Borsari, La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 200 ss.; Caletti, Le Sezioni Unite penali e l’interpretazione costituzionalmente conforme dell’art. 590-sexies c.p., consultabile all’indirizzo www.ridare.it, 7 marzo 2018; Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite tra «nuovi» spazi di graduazione dell’imperizia e «antiche incertezze» in Dir. pen. cont., 2018, 4, 28 ss.; Caputo, Le Sezioni Unite alle prese con la colpa medica: nomofilachia e nomopoiesi per il gran ritorno dell’imperizia lieve, in Riv. it. med leg., 2018, 327 ss.; Cupelli, La legge Gelli-Bianco nell’interpretazione delle Sezioni Unite: torna la graduazione della colpa e si riaffaccia l’art. 2236 c.c., in Dir. pen. cont., 2017, 12, 135 ss.; Cupelli, L’art. 590-sexies c.p. nelle motivazioni delle Sezioni Unite: un’interpretazione «costituzionalmente conforme» dell’imperizia medica (ancora punibile), in Dir. pen. cont., 2018, 3, 246 ss.; Piras, Un distillato di nomofilachia: l’imperizia lieve intrinseca quale causa di non punibilità per il medico, in www.penalecontemporaneo. it, 20 aprile 2018; Risicato, Colpa medica «lieve» – Le Sezioni Unite salvano la rilevanza in bonam partem dell’imperizia «lieve» del medico, in Giur. it., 2018, 944 ss. 5
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da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico»6. La sentenza ha identificato nell’art. 590-sexies c.p. la previsione di un’inedita causa di non punibilità in senso stretto7, che opera nel caso in cui il sanitario cagioni per imperizia l’evento lesivo o mortale pur essendosi attenuto alle linee guida adeguate al caso concreto. Inoltre, secondo le Sezioni Unite, la disposizione in questione si riferisce solo alla nozione di imperizia lieve attraverso una ricostruzione della norma che tenga conto della compatibilità tra la sua ratio e l’esegesi letterale e sistematica del comando. La Corte ha recuperato la graduazione della colpa per via interpretativa8 sostenendo che «la colpa lieve è rimasta intrinseca alla formulazione del nuovo precetto, posto che la costruzione della esenzione da pena per il sanitario complessivamente rispettoso delle raccomandazioni accreditate in tanto si comprende in quanto tale rispetto non sia riuscito ad eliminare la commissione di errore colpevole non grave, eppure causativo dell’evento»9. In linea con un orientamento più volte espresso dal giudice di legittimità10, le Sezioni Unite hanno
anche ribadito che nelle ipotesi in cui non opera l’art. 590-sexies c.p. per i suoi limiti strutturali, potrebbe comunque trovare applicazione l’art. 2236 c.c., che limita la responsabilità civile del prestatore d’opera che si sia trovato ad affrontare problemi tecnici di speciale difficoltà alle sole ipotesi di dolo o colpa grave. In tal modo, si è promossa un’applicazione indiretta della disciplina civilistica in sede penale quale «regola di esperienza» a cui il giudice si attiene nel valutare la condotta imperita. L’art. 2236 viene quindi identificato dalla Corte come «principio di razionalità» in virtù del quale situazioni tecnico scientifiche connotate da elevata difficoltà per una serie di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare vengono valutate attraverso un diverso e più favorevole metro di valutazione11. Infine, è stata risolta la questione relativa al diritto intertemporale statuendo che la abrogata disciplina ex art. 3 del d.l. 13.09.2012, n. 158 (cosiddetto «decreto legge Balduzzi») risulta più favorevole rispetto al nuovo articolo 590-sexies c.p.12
Cass., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, cit. (punto 11 del «considerato in diritto»).
6
Per completezza espositiva si ricorda che con riferimento, invece, al d.l. Balduzzi, la Corte di Cassazione con la sentenza «Cantore» (Cass. pen., 29.1.2013, n. 16237, consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it, 4 febbraio 2013, con nota di Gatta, Colpa medica e art. 3, co. 1, d.l. n. 158/2012: affermata dalla Cassazione l’abolitio criminis parziale per i reati commessi con colpa lieve) si era pronunciata nel senso che l’art. 3 del d.l. n. 158 del 2012 determinasse una parziale abolitio criminis dei fatti di cui agli artt. 589 e 590 c.p. compatibile con una ricostruzione della non punibilità in termini di causa di esclusione del tipo.
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Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni, cit., 42 ss.
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Cass., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, cit. (punto 10.3 del «considerato in diritto»).
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Tra le numerose pronunce, si segnala la sentenza «Tarabori», Cass. pen., 20.4.2017, n. 28187, cit., (punto 11.1 del «considerato in diritto»): «Per completezza, nel tentativo di ricomporre i frammenti della disciplina, conviene infine rammentare ancora che nel recente passato questa Corte si è nuovamente confrontata con il risalente tema dell’applicabilità, in ambito penale, della disciplina dell’art. 2236 cod. civ. 10
pervenendo alla conclusione che tale norma, sebbene non direttamente esportabile nel diritto penale, sia comunque espressione di un principio di razionalità: situazioni tecnico scientifiche nuove, complesse o influenzate e rese più difficoltose dall’urgenza implicano un diverso e più favorevole metro di valutazione. In tale ambito ricostruttivo, si è infatti considerato che il principio civilistico di cui all’art. 2236 cod. civ., che assegna rilevanza soltanto alla colpa grave, può trovare applicazione in ambito penalistico come regola di esperienza cui attenersi nel valutare l’addebito di imperizia, qualora il caso concreto imponga la soluzione di problemi di speciale difficoltà Tale giurisprudenza ha ancora attualità e, si confida, potrà orientare il giudizio in una guisa che tenga conto delle riconosciute peculiarità delle professioni sanitarie». Si segnala che la sentenza Cass., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, cit. (punto 10.1 del «considerato in diritto») riprende in termini adesivi il passaggio della sentenza «Tarabori», Cass. pen., 20.4.2017, n. 28187, cit., (punto 11.1 del «considerato in diritto»). 11
Borsari, La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 203.
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3. Un’interpretazione ampiamente condivisa 3.1. L’ambito di applicazione Analizzando le motivazioni delle sentenze emesse dopo la pronuncia a Sezioni Unite è emersa una sostanziale uniformità delle decisioni. Infatti, è ampiamente condivisa l’interpretazione dell’art. 590-sexies c.p. secondo la quale si prevede una causa di non punibilità applicabile ai fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 c.p., operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse. La causa di non punibilità non sarebbe invece applicabile nei casi di imprudenza e negligenza né in ipotesi di grave imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni oppure ancora quando i profili di colpa si associno alla messa in pratica di linee guida non adeguate alle specificità del caso concreto. Ad esempio, proprio alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite «Mariotti», la Quarta sezione nella sentenza n. 38365/201813 ha affermato che ai fini dell’operatività dell’art. 590-sexies c.p., oltre al rispetto delle linee guida e alla necessaria presenza di una condotta imperita, è essenziale che tale imperizia non sia grave. Il caso di specie riguardava un medico considerato responsabile in primo e secondo grado per il reato di cui all’art. 590 commi 1 e 2 c.p. I giudici di merito hanno accertato che l’imputato aveva sottoposto il paziente ad un intervento neurochirurgico sulla colonna vertebrale per ernia discale lombare non acquisendo in maniera completa ed esaustiva tutti i dati relativi alle condizioni del paziente, non effettuando correttamente la preparazione all’intervento, non somministrando un adeguato dosaggio di antibiotico prima dell’inizio dell’intervento o comunque entro un’ora dall’inci-
Giurisprudenza
sione. Si cagionava quindi al paziente una grave infezione della ferita chirurgica, violento e persistente dolore al rachide, claudicatio e sindrome algico-disfunzionale all’arto inferiore sinistro con necessità di un secondo intervento a distanza di un mese dal precedente per rimuovere le protesi e conseguente malattia per un periodo superiore ai 40 giorni. Il chirurgo ha proposto ricorso per Cassazione lamentando – tra gli altri motivi – la mancata applicazione della causa di non punibilità prevista dall’art. 590-sexies c.p. La Quarta sezione ha dichiarato manifestamente infondata tale doglianza richiamando espressamente la pronuncia a Sezioni Unite «che è intervenuta per sanare i contrasti interpretativi sorti in seno alla giurisprudenza di legittimità in riferimento all’art. 590-sexies c.p.»14. Si è affermato quindi che ai fini dell’applicabilità della legge Gelli-Bianco è richiesto il necessario rispetto delle linee guida, la essenziale presenza della sola imperizia e il grado non grave di quest’ultima. Il nuovo regime non trova invece applicazione in caso di negligenza e di imprudenza. Allora, i giudici di legittimità hanno potuto escludere nettamente l’applicabilità dell’art. 590-sexies c.p. in quanto i giudici di merito hanno correttamente accertato che la colpa del medico non era lieve e che, soprattutto, egli non aveva agito nel rispetto delle linee guida. Anche la sentenza n. 39733/201815 si pone perfettamente in linea con l’interpretazione delle Sezioni Unite. La pronuncia origina dalla condanna in primo e secondo grado di un chirurgo per il delitto di lesioni colpose. In particolare, il medico, in qualità di secondo operatore, era definito responsabile di lesioni gravissime causate a un paziente monorene nel corso di un intervento laparoscopico di rimozione di una cisti splenica durante il quale veniva erroneamente realizzata una nefrectomia con asportazione dell’unico rene. Il chirurgo ha pro-
Cass. pen., 23.5.2018, n. 38365, cit. (punto 5.2 del «considerato in diritto»). 14
13 Cass. pen., 23.5.2018, n. 38365, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
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15 Cass. pen., 19.7.2018, n. 39733, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
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posto ricorso per Cassazione avverso la sentenza della Corte d’Appello di Genova che confermava la pronuncia di condanna resa dal Tribunale di Savona. Nel ricorso viene denunciata – tra gli altri motivi – l’inosservanza dell’art. 590-sexies c.p. La Quarta sezione in modo molto lineare ha richiamato espressamente la pronuncia a Sezioni Unite16. Infatti, poiché i giudici di merito hanno accertato la ricorrenza di un comportamento negligente a carico dell’imputato, ne è derivata l’inapplicabilità della causa di non punibilità introdotta dalla novella legislativa. Inoltre, al fine di fugare ogni dubbio, si è evidenziato come la Corte d’Appello avesse accertato un elevato grado della colpa escludendo in ogni caso l’operatività dell’art. 590-sexies c.p.17 Il tema è affrontato anche nella sentenza 40923/201818. Nel caso di specie, la Quarta sezione della Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso proposto dal medico in servizio presso il reparto di chirurgia generale dell’Ospedale Maggiore di Modica, condannato in primo e secondo grado per omicidio colposo perché, in cooperazione con altri, era ritenuto responsabile per colpa della morte di un paziente, deceduto per embolia polmonare massiva conseguente a trombosi venosa profonda dell’arto inferiore destro, causata dall’omessa pro-
Cass. pen., 19.7.2018, n. 39733, cit., (punto 3 del «considerato in diritto»): «Del resto, le Sezioni Unite hanno chiarito che l’art. 590-sexies cod. pen., prevede una causa di non punibilità applicabile ai fatti inquadrabili nel paradigma dell’art. 589 o di quello dell’art. 590 cod. pen., operante nei soli casi in cui l’esercente la professione sanitaria abbia individuato e adottato linee guida adeguate al caso concreto e versi in colpa lieve da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse. Ai fini di interesse, si osserva in particolare che secondo diritto vivente la suddetta causa di non punibilità non è applicabile ai casi di colpa da imprudenza e da negligenza, né in ipotesi di colpa grave da imperizia nella fase attuativa delle raccomandazioni previste dalle stesse». 16
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filassi antitrombica, nonostante il rischio di sviluppare trombosi da parte del malato fosse alto/ altissimo. Nel ricorso si lamentava – tra gli altri motivi – la non applicazione dell’art. 590-sexies c.p. I giudici di legittimità hanno ricordato che ai fini dell’applicazione della novella legislativa si richiede che il medico abbia individuato e adottato le linee guida adeguate al caso concreto e, tuttavia, versi in imperizia lieve. La Quarta sezione nuovamente ha confermato di aderire all’interpretazione della legge Gelli-Bianco elaborata di recente dalle Sezioni Unite secondo cui la causa di non punibilità non sarebbe applicabile né ai casi di imprudenza né a quelli di negligenza e neppure a quelli di imperizia grave nella fase attuativa delle linee guida. In particolare, nel caso di specie non opera la legge Gelli-Bianco perché emerge non solo l’evidente mancato rispetto delle adeguate linee guida da parte dell’imputato, ma anche la gravità rilevante delle omissioni del medico. Anche la sentenza 41898/201819 conferma l’orientamento definito dalle Sezioni Unite. Nel caso di specie, un medico odontoiatra era ritenuto responsabile per aver cagionato a un paziente gravi conseguenze lesive con indebolimento permanente dell’organo della masticazione. In particolare, al medico erano mossi gli addebiti di aver eseguito interventi terapeutici di impianto in modo anomalo non rispettando le linee guida e le altre indicazioni comportamentali in materia (tra l’altro consentendo a un soggetto non abilitato alla professione sanitaria di applicare al paziente una protesi mobile), di aver omesso di seguire il paziente nel decorso post-operatorio e di gestire, quindi, le complicanze conseguenti all’intervento. La Corte d’Appello di Brescia ha confermato la sentenza del Tribunale di Bergamo del 6 maggio 2015 con cui il medico odontoiatra è stato condannato per il delitto di lesioni personali colpose. Avverso la decisione della Corte di merito è stato proposto ricorso per Cassazione.
Per un completo commento della sentenza sia consentito il rinvio a Girani, Alcune precisazioni della Corte di Cassazione sull’art. 590-sexies c.p. e sull’attività d’equipe, Nota di aggiornamento, 14 settembre 2018, in www.rivistaresponsabilitàmedica.it. 17
18 Cass. pen., 30.5.2018, n. 40923, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
19 Cass. pen., 27.6.2018, n. 41898, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
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La Quarta sezione nella sentenza ha affermato chiaramente la impossibilità di applicare alla condotta dell’imputato l’art. 590-sexies c.p. Infatti, il comportamento del sanitario si è posto in contrasto con le linee guida in materia e i giudici di merito hanno ascritto all’imputato nel post-intervento una colpa grave qualificabile come negligenza e non come imperizia. Anche in questo caso, si può notare come i giudici di legittimità abbiano aderito all’insegnamento delle Sezioni Unite. Infatti, non risulta applicabile la causa di non punibilità introdotta dall’art. 590-sexies c.p. perché il medico si è discostato dalle linee guida in materia e sono stati accertati a carico dell’imputato profili di grave negligenza. 3.2. Profili di diritto intertemporale La pronuncia a Sezioni Unite ha anche raffrontato l’abrogato art. 3 d.l. 13.9.2012, n. 158 e il nuovo articolo 590-sexies c.p., introdotto dall’art. 6, l. 8.3.2017, n. 24, in modo da identificare la norma da applicare ai fatti di responsabilità medica commessi tra l’entrata in vigore del decreto legge Balduzzi e l’entrata in vigore della legge Gelli-Bianco. Come anticipato nel primo paragrafo, la disciplina previgente risulta più favorevole con riferimento, in primo luogo, ai comportamenti del sanitario connotati da negligenza o imprudenza e integranti colpa lieve e, in secondo luogo, in relazione all’ambito dell’imperizia nel caso di errore determinato da colpa lieve nel momento selettivo delle linee guida ossia su quello della valutazione della appropriatezza della linea guida stessa. Infine, si riscontra un trattamento analogo per l’errore, sempre nell’alveo dell’imperizia, determinato da colpa lieve nella sola fase attuativa20. Nelle sentenze depositate negli ultimi mesi, il tema legato ai profili di diritto intertemporale è affrontato in modo conforme alla ricostruzione resa dalle Sezioni Unite. Nella pronuncia n. 36723/201821, ai fini di una generale ricostruzione del regime di applicabilità del
Borsari, La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 203.
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Cass. pen., 19.4.2018, n. 36723, consultabile all’indirizzo
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decreto legge Balduzzi o della legge Gelli-Bianco, la Quarta sezione ha ritenuto opportuno valutare preliminarmente quale sia la norma più favorevole nel caso de quo alla luce dell’arresto del Supremo Collegio. Nel caso di specie, in entrambi i gradi di giudizio, due chirurghi erano ritenuti responsabili per colpa, in cooperazione tra loro, nelle rispettive qualità di primo e secondo operatore, di un decesso intervenuto per insufficienza multiorgano22.
www.italgiure.giustizia.it. 22 La complessa vicenda fattuale può essere così riassunta: al paziente recatosi in Pronto soccorso per dolori addominali e nausea viene riscontrata un’infiammazione acuta della colecisti. È quindi trasferito nel reparto di chirurgia e sottoposto a intervento chirurgico di colecistectomia video-laparoscopica. Durante l’intervento, nella fase di «clippaggio», in cui si legano mediante clips metalliche l’arteria e il dotto cistico prima dell’asportazione della colecisti, i medici posizionano per errore una clip metallica sul dotto epatico comune, al di sotto della confluenza dei dotti epatici di destra e di sinistra, ostruendo completamente il deflusso del liquido biliare nel canale intestinale con conseguente versamento nella cavità peritoneale. Nei giorni successivi subentra ittero e subito dopo viene tentata una ERCP (colangiopancreatografia retrogada endoscopica) sulla base di una diagnosi di colecistite acuta. Lo stesso giorno il paziente è sottoposto a ecografia per sospetto clinico di calcolosi coledocica, ma l’esame «veniva marcatamente inficiato» dal discreto meteorismo intestinale. Si tenta quindi un’ulteriore ERCP e viene eseguita anche una TAC addominale senza mezzo di contrasto e ColangioRm, le quali permettono di concludere per ostruzione della via biliare extraepatica con associata raccolta complicata nel letto della colecisti a quest’ultimo livello di maggiore estensione e in sede lateroconale più esteso a destra, nello spazio pararenale destro. Viene poi eseguita una nuova TAC con mezzo di contrasto e il paziente veniva ricoverato presso un’altra clinica ospedaliera con diagnosi di stenosi iatrogena della VBP. Di lì a poco il paziente veniva operato in urgenza per intervento chirurgico di caledoco-coledocoanastomosi su tubo di Kher vs epaticodigiunoanastomosi per ittero ingravescente. Nel corso dell’intervento viene individuata e rimossa la clip presente sul dotto epatico comune, al di sotto della confluenza dei dotti epatici di destra e di sinistra, a ostruzione completa del lume. Viene quindi confezionata doppia anastomosi termino-laterale tra dotto epatico destro e dotto epatico sinistro e ansa digiunale antecolica alla Roux, con confezionamento del piede dell’ansa circa 50 cm a valle delle anastomosi bilieenteriche. Dopo qualche giorno compariva temperatura cutanea di 38,2 °C e leucocitosi e il giorno successivo si potenziava la terapia antibiotica e si medicava la ferita infetta con bilicoltura positiva per Enterococcus faecium e Escherichia coli. Successivamente il paziente è sottoposto a intervento chirurgico di laparotomia destra allargata
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Entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per Cassazione. I giudici di legittimità, nell’affrontare la questione dell’applicabilità o meno al caso in esame della previsione dell’art. 3 d.l. 13.9.2012, n. 158 ovvero dell’art. 590-sexies c.p. prima di tutto hanno identificato il regime normativo astrattamente più favorevole. Nel far ciò espressamente hanno richiamato la pronuncia a Sezioni Unite «Mariotti» in tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria secondo la quale l’abrogato art. 3 comma 1° del d.l. Balduzzi si configura come norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies c.p. Viene quindi affermato il principio di diritto secondo cui in tema di responsabilità del professionista sanitario, qualora il fatto sia stato commesso sotto la vigenza dell’art. 3 comma 1° d.l. n. 158/2012, in presenza di errore dovuto ad imperizia non grave ed intervenuto nella fase esecutiva delle raccomandazioni previste dalle linee guida adeguate al caso specifico, la suddetta previsione deve essere considerata più favorevole di quella dell’art. 590-sexies c.p. introdotto dalla legge n. 24/2017, dal momento che integra una causa di esclusione del fatto tipico23 e non una mera causa di non punibilità, dovendo essere dunque applicata a norma dell’art. 2 c.p. Solo una volta chiarito che l’orizzonte normativo entro cui ricondurre il caso di specie dovesse essere quello del d.l. Balduzzi, la Corte è passata a considerare se nel caso de quo ricorressero i
lungo la linea mediana allo xifoide sulla precedente laparotomia, il quale rivelava diastasi completa della precedente sintesi della parte addominale, lisi di aderenze peritoneali viscero-viscerali e visceroparietali e deiscenza delle anastomosi bilioenteriche confezionate nel precedente intervento e della parete anteriore dell’anastomosi digiuno digiunale al piede dell’ansa alla Roux. Il paziente veniva trasferito in rianimazione, sedato e intubato. Subito dopo le condizioni sono peggiorate rapidamente con crisi epilettiche e segni di insufficienza multiorganica e il giorno dopo le condizioni diventavano gravissime e si effettuava una revisione chirurgica. Il giorno ancora successivo le condizioni si aggravavano essendo il paziente in stato epilettico con crisi convulsive generalizzate e di lì a due giorni se ne constatava il decesso, dopo 25 giorni di accertamenti, interventi e peggioramenti. 23
Sul punto si rimanda alla nt. 7 del presente articolo.
requisiti necessari ai fini dell’applicazione della norma più favorevole. Ancora, nella pronuncia 39733/291824 (la cui vicenda fattuale è richiamata al paragrafo 3.1 del presente articolo) la Quarta sezione ha ricalcato le indicazioni delle Sezioni Unite sul profilo del diritto intertemporale. In particolare, si è specificato per completezza argomentativa che il decreto Balduzzi si configura come norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies c.p. sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia nel caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee guida adeguate al caso concreto25. Nel caso di specie, risulta in concreto non applicabile la disciplina più favorevole in quanto i giudici di merito hanno accertato l’elevato grado di colpa per negligenza rinvenibile nella condotta posta in essere dal medico. 3.3. Il discusso requisito dell’imperizia Una volta chiarita la sostanziale uniformità delle pronunce della Corte di Cassazione con riferimento all’astratto perimetro di applicazione dell’art. 590-sexies c.p. e al diritto intertemporale, è opportuno analizzare in che modo il discusso requisito dell’imperizia viene declinato dalla giurisprudenza di legittimità. Come già anticipato, la pronuncia a Sezioni Unite ha distinto concettualmente tra imperizia, negligenza e imprudenza, escludendo le ultime due dall’ambito di applicazione dell’art. 590-sexies
24
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Cass. pen., 19.7.2018, n. 39733, cit., (punto 3.1 del «considerato in diritto»): «Per completezza argomentativa, è appena il caso di rilevare che le Sezioni Unite, con la sentenza sopra citata, hanno pure precisato che, in tema di responsabilità dell’esercente la professione sanitaria, l’abrogato art. 3 comma 1°, del d.l. n. 158 del 2012, convertito dalla legge 8 novembre 2012, n. 189, si configura come norma più favorevole rispetto all’art. 590-sexies cod. pen., introdotto dalla legge n. 24 del 2017, sia in relazione alle condotte connotate da colpa lieve da negligenza o imprudenza, sia in caso di errore determinato da colpa lieve da imperizia intervenuto nella fase della scelta delle linee-guida adeguate al caso concreto». 25
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c.p.26 ritenendo così di rispettare il dettato letterale della norma. In realtà, già prima della riforma Gelli-Bianco, una nutrita corrente giurisprudenziale riteneva applicabile il decreto legge Balduzzi solo nelle ipotesi di imperizia intendendola come una tipologia di colpa a sé stante. In tal modo, da un lato, l’introduzione della graduazione della colpa faceva riemergere il dibattito sull’applicabilità diretta o meno dell’art. 2236 c.c. in sede penale facendo assumere un ruolo centrale all’imperizia, mutuando così l’assetto già giudicato razionale dalla Corte costituzionale nel 197327. Dall’altro lato, si riteneva che le linee guida, fulcro del decreto legge Balduzzi, disciplinassero quasi esclusivamente profili di perizia. Tuttavia, questo orientamento non aveva mai definito fino in fondo il perimetro della nozione di perizia. Tra l’altro, spesso il decreto legge Balduzzi rimaneva inapplicato perché il caso concreto oggetto di giudizio era qualificato in termini di negligenza o imprudenza. Successivamente, con la sentenza «Denegri»28 la giurisprudenza di legittimità ha chiarito che era arbitraria qualunque argomentazione che stabilisse una corrispondenza necessaria tra linee guida e perizia, intesa come nozione di colpa differente da negligenza e imprudenza. Inoltre, ha affermato che la scienza penalistica non definisce in modo tassativo criteri di distinzione tra le diverse ipotesi di colpa generica contenute nell’art. 43 c.p., comma 3°. Il legislatore della riforma Gelli-Bianco non ha tenuto in considerazione il ragionamento della Corte di legittimità ed ha introdotto espressamente nel testo della novella normativa il riferimento alla sola imperizia. Le Sezioni Unite hanno ritenuto che questa scelta del legislatore così netta e consapevole abbia una
Giurisprudenza
necessaria conseguenza: il riferimento testuale all’imperizia deve essere rispettato in sede ermeneutica. Quindi, l’imperizia sarebbe l’unica forma di colpa generica idonea a fondare l’esclusione del rimprovero in caso di errore nell’applicazione della linea guida29. Nonostante la presa di posizione della Corte di Cassazione, sulla questione relativa al criterio di distinzione tra imperizia, negligenza e imprudenza, anche la dottrina obietta da tempo che a causa dell’estrema fluidità dei confini tra le nozioni di colpa nasce la difficoltà pratica di distinguere aspetti che possono compenetrarsi nel caso concreto determinando così una possibile disparità di trattamento per il fatto che la discrezionalità giudiziale poggia su un’incerta piattaforma concettuale30. Diviene quindi attuale il rischio di rimettere la punibilità all’arbitrio del giudice in mancanza di definizioni condivise31. Ben presto la difficoltà relativa alla identificazione di un preciso criterio di distinzione tra imperizia, negligenza e imprudenza si è riproposta nelle pronunce successive al deposito delle motivazioni rese a Sezioni Unite. Il tema viene in rilievo nella sentenza n. 15178/201832. Il caso riguardava una giovane paziente colta da tre episodi sincopali avvenuti a breve distanza di tempo. Su indicazione del proprio curan-
Caputo, Le Sezioni Unite alle prese con la colpa medica, cit., 353.
29
Sul punto si vedano: Massaro, L’art. 590-sexies c.p., la colpa per imperizia del medico e la camicia di Nesso dell’art. 2236 c.c., in Arch. pen., 2017, 3, 13 ss.; Alagna, La controriforma della colpa penale nell’attività medica, in Resp. civ. e prev., 2017, 1481 ss. 30
In accordo con questa tesi: Borsari, La responsabilità penale del sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite, cit., 204; Caputo, Le Sezioni Unite alle prese con la colpa medica, cit., 353; Di Giovine, Colpa penale, «Legge Balduzzi» e «Disegno di Legge Gelli-Bianco»: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in Cass. pen., 2017, 388; Manna, Medicina difensiva e diritto penale. Tra legalità e tutela della salute, Pisa, 2014, 178; Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni Unite, cit., 35. 31
26 Cass., sez. un., 21.12.2017, n. 8770, cit., (punto 6.2. del «considerato in diritto»). 27 Corte cost., 28.11.1973, n. 166, consultabile all’indirizzo www.cortecostituzionale.it.
Cass. pen., 11.5.2016, n. 23283, consultabile all’indirizzo www.penalecontemporaneo.it, 27 giugno 2016, con nota di Cupelli, La colpa lieve del medico tra imperizia, imprudenza e negligenza. 28
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32 Cass. pen., 12.01.2018, n. 15178, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
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te, si recava da un noto specialista in neurologia. Quest’ultimo, dopo aver effettuato l’osservazione encefalografica, escludeva il sospetto diagnostico dell’epilessia inizialmente ipotizzato e suggeriva di effettuare accertamenti soltanto a livello neurologico al fine di confermare l’origine vagale delle manifestazioni di perdita di coscienza, rassicurandola sul fatto che, ove questi non evidenzino anomalie, dovesse ritenersi «sana come un pesce». Il medico, invece, tralasciava ogni accertamento di tipo cardiologico. Dopo la visita specialistica, la giovane paziente veniva colpita da altri due episodi sincopali, l’ultimo dei quali si rivelava fatale. Dopo il decesso, si scopriva che le perdite di coscienza avevano in realtà natura cardiaca e la loro causa sarebbe stata individuabile attraverso un routinario elettrocardiogramma e l’evento morte scongiurabile attraverso le opportune cure. Nella sentenza, la Quarta sezione della Cassazione ha ritenuto corretto il ragionamento della Corte territoriale che ha qualificato in termini di negligenza, che solitamente si sostanzia in una condotta omissiva, la mancata prescrizione di un altro esame diagnostico33. Ciò desta notevoli perplessità se si pensa che le Sezioni Unite, invece, avevano ricondotto nell’alveo della negligenza il comportamento del medico improntato ad indifferenza, scelleratezza, assoluta superficialità e lassismo (nel caso di specie il medico che non si era neppure presentato alla visita concordata con il paziente)34.
33 Caletti, La responsabilità penale da consulto specialistico: la Cassazione torna (in modo incerto) sui requisiti applicativi delle riforme «Balduzzi» e «Gelli-Bianco», Nota di aggiornamento, 16 aprile 2018, in www.rivistaresponsabilitàmedica. it.
Ai fini di una più chiara comprensione si ricorda che la vicenda da cui trae origine la pronuncia a Sezioni Unite riguarda un caso di lesioni personali colpose. Un medico specialista in neurochirurgia viene ritenuto responsabile per non aver diagnosticato in modo tempestivo al paziente la sindrome da compressione della «cauda equina», con conseguente considerevole differimento nella esecuzione dell’intervento chirurgico per il quale, invece, è necessario secondo le regole cautelari di settore un intervento d’urgenza finalizzato alla decompressione della causa. La prolungata compressione in atto procura al paziente un rilevante deficit sensitivo-motorio con implicazioni dirette sul controllo delle funzioni neurolo34
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La questione relativa all’inquadramento della condotta del sanitario in termini di imperizia, negligenza o imprudenza viene affrontata anche nella sentenza n. 24384/201835. Nel caso di specie, veniva mosso l’addebito di omicidio colposo in relazione al comportamento di un chirurgo addominale nel decorso post operatorio a causa delle complicazioni seguite ad un intervento chirurgico. L’accusa era quella di aver sottovalutato la situazione clinica della paziente e di aver omesso la prescrizione di approfondimenti necessari. La Quarta sezione della Cassazione ha annullato la sentenza impugnata con rinvio in quanto i giudici di merito hanno qualificato in modo erroneo il comportamento dell’imputato come imprudente. Dopo una ricostruzione dell’evoluzione normativa e giurisprudenziale, i giudici di legittimità hanno statuito che l’imprudenza consiste nella realizzazione di un’attività positiva che non si accompagni nelle speciali circostanze del caso a quelle cautele che l’ordinaria esperienza suggerisce di impiegare a tutela dell’incolumità e degli interessi propri e altrui. Invece, nel caso di specie, la condotta del sanitario non era caratterizzata da un’attività positiva ma da un’omessa o incompleta diagnosi, accompagnata da una sottovalutazione della sintomatologia che la paziente presentava, dall’omessa prescrizione di accertamenti strumentali a fini diagnostici e dalla prescrizione di un presidio terapeutico generico. Si trattava, quindi, di profili ascrivibili in parte alla negligenza e in parte all’imperizia. Al giurista appare chiaro il pericolo che emerge dalle numerose incertezze proposte dalle pronunce richiamate. Infatti, ai fini dell’applicazione dell’art. 590-sexies c.p., è richiesta – tra gli altri elementi – la qualificazione della condotta come imperita. Ma, di fronte a una mancanza di precisi punti di riferimento e alla fluidità delle definizioni delle tre forme di colpa, non si comprende in
giche concernenti l’apparato uro-genitale e di quelle motorie del piede destro. 35 Cass. pen., 26.4.2018, n. 24384, consultabile all’indirizzo www.italgiure.giustizia.it.
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modo chiaro quali comportamenti possano essere qualificati in concreto come imperiti. Allora, il requisito dell’imperizia definito espressamente dal legislatore rischia di costituire un «cavallo di Troia»36 in grado di rendere sostanzialmente inapplicabile la recente disciplina boicottando, tra l’altro, gli intenti deflativi della riforma37.
4. Conclusioni Giunti al termine di questa panoramica giurisprudenziale, è possibile formulare alcune riflessioni. Sin dall’approvazione della legge Gelli-Bianco sono state sollevate in dottrina perplessità soprattutto in merito all’esatto perimetro applicativo della nuova disciplina. Questi interrogativi sono emersi immediatamente anche in giurisprudenza sollecitando l’intervento delle Sezioni Unite. Nella sentenza sul tema della responsabilità penale del medico, la speciale composizione della Cassazione ha tentato di identificare il significato dell’enigmatica disposizione introdotta dalla legge Gelli-Bianco. Non si può sottacere che è stato realizzato un apprezzabile sforzo ermeneutico tentando di comporre il contrasto insorto riguardo all’art. 590-sexies c.p. La Cassazione ha infatti sancito il ritorno sulla scena per via implicita della graduazione della colpa nei casi di imperizia maturati negli errori esecutivi, enucleando principi di diritto fondamentali coi quali l’interprete non potrà fare a meno di confrontarsi. L’analisi delle ultime pronunce della Quarta sezione consente di affermare che le soluzioni individuate dalle Sezioni Unite riguardo all’astratto ambito applicativo della inedita causa di non punibilità introdotta dall’art. 590-sexies c.p. sono state ampiamente condivise. Anche l’individuazione da parte delle Sezioni Unite del d.l. Balduzzi come norma più favorevole in base ai principi sulla successione delle leggi
Così si esprime Di Giovine, Mondi veri e mondi immaginari di sanità. Modelli epistemologici di medici e sistemi penali in Cass. pen., 2017, 2163, nt. 28.
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Caletti, Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni, cit., 34.
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penali nel tempo non ha determinato particolari incertezze applicative. Permangono, invece, irrisolte alcune questioni pratiche già individuate dalla dottrina tra cui, in particolare, il significato da attribuire al requisito dell’imperizia. La ricostruzione sostenuta dalle Sezioni Unite secondo la quale è fondamentale rispettare il dato letterale della norma e distinguere nettamente tra negligenza, imprudenza e imperizia non convince. Se già in astratto a livello concettuale i confini tra le tre specie di colpa generica sono estremamente fluidi, a livello pratico emerge la difficoltà di inquadrare una data condotta concreta come imperita ai fini dell’applicazione della causa di non punibilità introdotta dall’art. 590-sexies c.p. (ove ne ricorrano anche tutti gli altri requisiti).
o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Interruzione di trattamenti di m giu sostegno vitale e sedazione palliativa profonda prima e dopo la legge n. 219/2017. L’esperienza della Sardegna Alessandra Pisu
Ricercatrice nell’Università di Cagliari Presidente Associazione Walter Piludu APS Il testo integrale delle prime linee di indirizzo per l’ATS della Regione Sardegna menzionate nel dialogo è leggibile sul sito della Rivista
William Frankena, quasi un cinquantennio fa, nella seconda edizione della sua opera Ethics, scriveva che “molto spesso, quando si è perplessi in merito a ciò che noi stessi dobbiamo o qualcun altro deve fare in una certa situazione, non si ha affatto bisogno di un qualche insegnamento etico, ma semplicemente di maggiore conoscenza fattuale o di maggior chiarezza concettuale”. Il filosofo sottolineava l’importanza di questi aspetti per la soluzione dei problemi morali e sociali che la vita ci sottopone, ricordando che, tra gli errori ricorrenti nelle prevalenti abitudini di pensiero etico ricorrono, da sempre, la pronta acquiescenza alla mancanza di chiarezza e il compiacimento dell’ignoranza. Inizio da qui le mie riflessioni perché ritengo che i dilemmi morali, etici, giuridici e medici, che talvolta le vicende collocate alla fine dell’esistenza umana sollevano, debbano essere affrontati – gestendo i sentimenti di smarrimento, paura e angoscia che umanamente vi si accompagnano, anche nell’animo del professionista – proprio partendo da queste basi: la conoscenza fattuale, qui riferita alle storie umane che, nella loro singolarità, hanno sempre qualcosa da insegnare e la chiarezza
concettuale che deve accompagnare l’osservazione di questi particolari vissuti. Una chiarezza che, chi possiede le competenze mediche e giuridiche che costituiscono il bagaglio minimo per approcciarsi alle problematiche di cui ora ci occupiamo, deve prima di tutto a sé stesso e, in seconda battuta, non meno importante, a chi necessita dell’intervento altrui per ottenere risposta ai propri bisogni di cura. In fin dei conti, nel campo della tutela della salute, l’arte medica e giuridica condividono l’obiettivo di definire, individuare e applicare delle regole di condotta che soddisfino bisogni umani individuali, bisogni ai quali nessuno sfugge quando si parla di morte, destino ineluttabile per tutti gli esseri viventi. Questi bisogni, evidentemente, anche quando la fine dell’esistenza è segnata dalla malattia, non si individuano solo mediante criteri scientifici, ma risentono delle aspettative, del complesso dei valori, dei convincimenti etici, religiosi, culturali e filosofici che orientano le determinazioni della persona interessata. Risentono, insomma, della concezione unica e irripetibile che ciascuno ha di sé e della propria dignità, del senso che ognuno dà al suo stare al mondo. Responsabilità Medica 2018, n. 4
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La nostra Costituzione insegna e prescrive (artt. 2, 13, 32) che il rapporto di cura sia incentrato sulla persona del malato, costituendo il suo benessere psico-fisico il principale obiettivo dell’attività sanitaria. La libertà di decisione, circa le terapie cui sottoporsi, costituisce un limite invalicabile per il medico, al quale spetta il compito di tracciare i binari entro i quali le scelte del paziente possono orientarsi. Questa centralità della persona si esprime, in concreto, tramite il diritto di autodeterminazione terapeutica che deve essere preservato in ogni circostanza, potendosi interferire nell’attuazione di trattamenti sanitari, a prescindere dal consenso dell’interessato, solo in ristretti casi in cui sia direttamente coinvolta la salute pubblica (comma 2°, art. 32 Cost.) o si versi in uno stato di necessità nel quale non sia possibile conoscere, o conoscere tempestivamente, le volontà del paziente. Ora, poiché i bisogni sottesi alle questioni di salute cambiano con il mutare della società, delle condizioni di vita e con il progredire della scienza biomedica, è evidente che il diritto non può sottrarsi al compito di elaborare norme che consentano a medici e malati di impostare e condurre la relazione di cura in un quadro nel quale diritti e doveri reciproci siano definiti con certezza. Ed è comprensibile che, nel tempo, l’esigenza di regole giuridiche puntuali, seppur già desumibili dai principi generali dell’ordinamento, si sia fatta pressante. A fronte delle difficoltà di regolare una materia tanto delicata qual è la condizione umana al termine della vita, la tentazione di esonerare il diritto dal suo compito primario ha prevalso a lungo e ha trovato sostegno nelle obiezioni, talvolta pretestuose, che vengono sistematicamente riproposte quando nella società civile e nel consesso parlamentare prende avvio il dibattito sul se e come legiferare su temi profondamente divisivi. A mio avviso, si incorre così in un grave errore: negare al diritto la sua essenza funzionale che consiste nel fornire soluzioni meditate ed equilibrate ai possibili conflitti, anche tra valori, che connotano l’esistenza umana. Superate le aspre contrapposizioni ideologiche che, per il vero, si sono manifestate più nelle aule del Parlamento che nell’opinione pubblica, il noResponsabilità Medica 2018, n. 4
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stro paese, tra gli ultimi in Europa, alla fine dello scorso anno, si è finalmente dotato di una legge che regola il consenso informato nella relazione di cura e la possibilità di redigere disposizioni anticipate di trattamento. Al di là di tutti i rilievi critici che possono essere mossi, sul piano tecnico, sviscerando le norme di recente introduzione e al di là delle questioni di fine vita che restano ancora aperte, mi pare che alla legge n. 219/2017 debba essere riconosciuto un fondamentale merito: aver ridefinito la relazione di cura, nel rispetto della professionalità del medico e dell’autodeterminazione del paziente, cercando di ovviare alle asimmetrie che la connotano; aver regolato, in tutti i suoi risvolti, anche quelli fino ad allora più discussi, il consenso informato quale presupposto dell’intervento sanitario. Un consenso di cui la giurisprudenza aveva già da tempo definito i caratteri essenziali, un consenso ormai entrato prepotentemente nella deontologia e nella prassi medica che, tuttavia, guardando alle più diffuse modalità della sua acquisizione, vedeva, e ancora vede, sovente tradito nei fatti il vero significato e scopo dell’atto. L’acquisizione del consenso informato non può difatti ridursi alla sottoscrizione di moduli recanti una notevole mole di informazioni che, così “trasmesse” e non spiegate, non giovano alla trasparenza e all’esigenza del malato di ottenere dal medico gli elementi necessari per maturare scelte consapevoli. Per queste ragioni, la nuova disciplina legislativa è importante. Certamente la sua piena attuazione richiederà tempo, risorse economiche e un notevole sforzo da parte della classe medica e delle strutture sanitarie che dovranno adeguare i percorsi formativi e i modelli organizzativi ad una differente impostazione culturale, capace di superare definitivamente la visione paternalistica del ruolo del medico alla quale molti dimostrano d’essere tuttora legati. Ancora, a questa legge si deve il merito di aver finalmente tradotto in diritto positivo ciò che la comunità scientifica internazionale ormai da tempo affermava, ossia che nutrizione e idratazione artificiali, somministrate mediante dispositivi medici, sono trattamenti sanitari e come tali vanno considerati sotto il profilo dell’essenzialità del con-
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senso dell’interessato e del suo possibile rifiuto e/o revoca. Analoga conclusione deve assumersi in ordine ad un altro diffusissimo trattamento di sostegno vitale, qual è la respirazione assicurata con sistemi meccanici particolarmente invasivi per il paziente che vi si sottopone. Per apprezzare la portata dirompente delle nuove disposizioni, è sufficiente ricordare che – nonostante il quadro costituzionale e delle fonti sovranazionali avesse già consentito ai giuristi di individuare le regole e i principi recentemente trasfusi nel testo di legge – non per tutto il ceto medico, né presso la cittadinanza, questi principi potevano considerarsi altrettanto noti, correttamente acquisiti e rispettati. La riprova ci è data dall’esperienza. Penso a vicende umane tanto simili nella loro connotazione giuridica quanto distanti nel loro svolgimento fattuale e nel loro esito giudiziario. Non bisogna dimenticare che l’assenza della legge ha in passato implicato che giudici diversi (anche per funzione) assumessero decisioni nella sostanza diametralmente opposte a fronte di richieste analoghe. E veniamo al tema specifico: la richiesta del malato di sottrarsi ad un trattamento sanitario di supporto vitale, come la respirazione artificiale, al quale aveva prima acconsentito. La possibilità di revocare il consenso, quale espressione del diritto di autodeterminazione terapeutica, e di vedere pertanto soddisfatta la legittima pretesa di un intervento medico idoneo a dar seguito alla volontà di interrompere un sistema di ventilazione assistita permanente di tipo meccanico, prima dell’entrata in vigore della legge n.219/2017, è stata negata nel 2007 da un giudice e riconosciuta nel 2016 da un altro in due casi piuttosto noti che si sono verificati in Sardegna. Mi riferisco, nell’ordine, alle decisioni della Procura di Sassari, che ritenne inammissibile la richiesta avanzata da Giovanni Nuvoli, e del Giudice Tutelare del Tribunale di Cagliari al quale si è rivolto, quasi un decennio dopo, Walter Piludu ottenendo l’accoglimento del ricorso. Entrambi malati di SLA, dopo aver per anni convissuto con la malattia ed essersi sottoposti dapprima alle cure disponibili e successivamente agli interventi necessari a scongiurare la morte per crisi respiratoria, erano giunti a vivere in una condizione di estrema
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sofferenza. I trattamenti medici in atto, sovrastati dal progredire della malattia, non riuscivano più ad assolvere alla loro primaria funzione di rallentarne il decorso e garantire uno standard di vita per loro accettabile. Come molti individui affetti dalla medesima malattia, si avviavano ad una condizione terribile di sopravvivenza, molto vicina al “locked in”, a quello stato di “chiuso dentro” che sa davvero di tortura in quanto riguarda persone che – a differenza di quanti si trovano in uno stato vegetativo permanente – mantengono una piena coscienza, lucidità e consapevolezza. Dunque soffrono con il corpo e con la mente. Durante l’iter parlamentare della legge n. 219/2017, ATS Sardegna ha preso in carico e gestito analoghe richieste di interruzione della ventilazione meccanica avanzate da altri malati di SLA. Mi sembra doveroso ricordare, anche perché hanno voluto rendere pubblica la loro condizione, Giancarlo Mura e Patrizia Cocco. Il primo, verosimilmente grazie al precedente di Walter Piludu, ha ottenuto l’attuazione delle sue volontà con minori resistenze da parte dell’amministrazione sanitaria e in tempi decisamente più rapidi nonostante la legge, all’epoca, non fosse stata ancora approvata; per Patrizia Cocco si è proceduto alla sedazione profonda e al distacco della respirazione artificiale subito dopo l’entrata in vigore della legge. Da medico anestesista che ha accompagnato Walter Piludu al termine della sua vita credo che lei, meglio di chiunque altro, possa confermare o smentire le mie impressioni e arricchire le considerazioni svolte con le conoscenze medico-scientifiche e le particolari suggestioni che, immagino, abbiano segnato questa sua esperienza professionale. Non mi riferisco certo al privato del vissuto, ma all’importanza per il medico di sapere di agire non solo nel rispetto della volontà del malato, ma anche nel rispetto dei suoi diritti, in quel caso riconosciuti per via giudiziale, a costo di una lunga ed estenuante battaglia, ed oggi garantiti da espresse disposizioni di legge. Walter Piludu è morto, come aveva chiesto, nella sua casa. Si tratta di un’aspirazione umana molto diffusa alla quale nel suo caso si è dato compimento e che, tuttavia, risulta sovente frustrata dall’ospedalizzazione dei malati. Costoro, quando Responsabilità Medica 2018, n. 4
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ricevono una prognosi infausta a breve termine, a quanto mi consta, tendenzialmente rifiutano l’idea di un ricovero, perfino in hospice, ossia nelle strutture nelle quali si somministrano cure palliative e si fornisce un’assistenza specializzata per la fine della vita. Mi domando, e le domando, quanto spazio possa esservi perché un servizio domiciliare di questo tipo possa essere offerto anche ad altri malati terminali che si trovino in quella condizione e lo richiedano; quali difficoltà possano impedire di procedere alla sedazione profonda nell’imminenza di morte in una residenza privata, anziché in un luogo deputato alla cura. L’interruzione di trattamenti di sostegno vitale, prescrisse il Tribunale di Cagliari, deve essere effettuata con modalità tali da garantire un adeguato e dignitoso accudimento accompagnatorio della persona prima, durante e dopo la sospensione del trattamento. Il che può implicare, anzi credo implichi necessariamente, la somministrazione di farmaci atti a prevenire ansia e dolori e la sedazione del paziente. Della sedazione palliativa profonda si parla da tempo in ambito scientifico, decisamente meno nel dibattito pubblico, la si utilizza nella pratica clinica per l’accompagnamento alla morte dei pazienti terminali. A questo proposito, la legge n. 219/2017 – nel riferirsi al caso di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte – dispone che, in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico, con il consenso del paziente, possa ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore (art. 2, comma 2°, secondo cpv.). Il Comitato Nazionale per la Bioetica, nel parere reso il 29 gennaio 2016, aveva già chiarito che la somministrazione di farmaci sedativi fino alla perdita dello stato di coscienza, per dare sollievo a sofferenze altrimenti insopportabili nelle ultime ore o giorni di vita, non può essere considerata un atto eutanasico. La sedazione profonda non è un trattamento che abbrevia la vita. Ed infatti di eutanasia, intesa come atto finalizzato a procurare (o aiutare a procurarsi) la morte di persone che lo richiedano, questa legge non si occupa. Le relative fattispecie risultano tutt’oggi regolate dagli Responsabilità Medica 2018, n. 4
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artt. 579 e 580 c.p., sebbene con riguardo alla norma che incrimina l’aiuto al suicidio penda una questione di legittimità costituzionale della quale si attende l’esito, insieme ad un intervento legislativo sollecitato, da ultimo, dalla Consulta. Alla nostra regione, dunque, è spettato un triste primato, ma quali ulteriori iniziative sono state assunte da ATS Sardegna dopo l’adozione della legge e a seguito delle esperienze ricordate? Sono a conoscenza della stesura di linee di indirizzo specifiche destinate a tutti gli operatori della sanità sarda. In ogni caso, mi auguro che l’approvazione della legge n. 219/2017 contribuisca a far maturare la consapevolezza che, in caso di pazienti con prognosi infausta, è doveroso sottoporre loro l’intero ventaglio delle possibilità di cui la scienza medica dispone per garantire la fruizione della salute residua fino all’esito letale. Il paziente ha diritto a che il medico lo informi sui possibili percorsi terapeutici, incluse le cure palliative, incluso il ricorso alla sedazione profonda pocanzi richiamata, e lo metta nelle condizioni di esprimere liberamente le proprie volontà nella fase finale della vita. La violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali in una condizione di vita affetta da patologie ad esito certamente infausto, difatti, determina di per sé la lesione di un bene che è appunto quello di poter esercitare la libertà di scelta delle cure. E questa violazione può determinare una responsabilità del medico. Nel novero delle alternative esistenziali che devono essere garantite a ciascuno, soprattutto in presenza di prognosi ad esito certamente infausto, rientra anche la possibilità di astenersi da, di limitare o di interrompere cure e trattamenti di sostegno vitale, tanto più laddove essi siano unicamente finalizzati alla mera sopravvivenza e/o a prolungare il processo di morte avviato dalla malattia. A seconda dei casi, se il praticarli o il mantenerli configura un trattamento futile e determina una violazione del principio di proporzionalità degli interventi sanitari integrando, dunque, una forma di accanimento terapeutico, quelle condotte (attive o omissive che siano) potrebbero costituire un vero e proprio dovere per il medico.
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Il paziente, insomma, come ha recentemente affermato la Cassazione, deve essere considerato e trattato nella relazione di cura non quale soggetto passivo, ma quale soggetto responsabile della propria esperienza esistenziale. Tanto più nel momento della più intensa, ed emotivamente pregnante, prova della vita, qual è il confronto con la realtà della fine. Al medico, alla sua professionalità e alla sua sensibilità, è affidato il delicato compito di trovare le modalità individualizzate di comunicazione con il paziente, salvo che costui rifiuti di ricevere le informazioni sul suo stato di salute. Ma, i problemi non finiscono qui. La condizione dei malati coscienti e consapevoli della propria situazione, pienamente capaci di assumere le decisioni rispondenti al proprio ideale di vita e ai propri valori ed in grado – sebbene, in alcuni casi, con l’ausilio di strumentazione tecnica o il supporto di un amministratore di sostegno – di comunicare le proprie volontà è completamente differente da quella nella quale versano i soggetti incapaci e, tra loro, di quelli che hanno perso il contatto con la realtà come, ad esempio, coloro che si trovano in uno stato vegetativo permanente. In caso di paziente cosciente e capace la relazione di cura trova le condizioni ideali perché, secondo lo spirito della legge, si crei e consolidi un rapporto diretto, non intermediato, di fiducia e accoglienza tra medico e paziente, nel quale le decisioni terapeutiche, e sanitarie in senso lato, possono costituire l’esito di un percorso condiviso. Si può auspicare che, anche per tal via, si avvii un processo in controtendenza rispetto al fenomeno della medicina difensiva e al dilagare del contenzioso giudiziario in materia di responsabilità medica che si registra da anni. Qualora, invece, il rapporto medico-paziente coinvolga soggetti divenuti incapaci a causa di malattie o di traumi improvvisi è la presenza di eventuali disposizioni anticipate di trattamento a consentire l’instaurarsi di una seppur ridotta forma di conoscenza della persona da parte del medico e un diacronico e unilaterale canale di comunicazione tra i due. Sotto questo profilo, la previsione e la regolamentazione legislativa dello
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strumento, sebbene apra numerose questioni, è da salutare con favore. Altro discorso, e ulteriore approfondimento, meriterebbe poi il trattamento normativo riferito all’ampia e variegata gamma di pazienti incapaci di autodeterminarsi in ragione della (tenera) età, della patologia/infermità di cui sono affetti, o di entrambe le condizioni insieme, nulla potendo in questi casi la previsione di strumenti negoziali quali le DAT e la pianificazione condivisa delle cure. Ma di tutto qui non ci possiamo occupare. Le storie ricordate, anche grazie alla loro risonanza mediatica, hanno contribuito al superamento di atteggiamenti retrivi che si registravano in giurisprudenza, nella classe medica, nell’amministrazione sanitaria e nella società civile, ma tale progresso culturale si è realizzato a costo di incertezze, attese, sofferenze dei soggetti direttamente coinvolti e dei loro familiari. L’auspicio, a questo punto, è che la piena ed effettiva attuazione di tutte le regole sancite dalla legge n. 219/2017 non sconti altrettante difficoltà, anche se ne possiamo già individuare alcune (in primis l’assenza di risorse destinate allo scopo) e sarebbe ingenuo pensare che altre non si presentino. Insomma, abbiamo da affrontare insieme delle sfide, vecchie e nuove, e dobbiamo farlo con mente attiva, formandoci un’idea adeguata delle cose. Le idee e la loro adeguatezza credo scaturiscano dalla conoscenza, conoscenza di fatti e di concetti che fanno capo a differenti ambiti del sapere e che, tuttavia, devono diventare patrimonio culturale comune. Comune non solo alle categorie professionali maggiormente interessate, medici e giuristi, ma a tutti, con una contaminazione che – coinvolgendo tutte le componenti della società civile – deve divenire generale.
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o g Dialogo Dialogo medici-giuristi medici-giuristi ialo ci d di st i e r Il diritto di lasciarsi morire: l’ultima m giu frontiera del consenso informato, nella malattia e oltre Mario Cardia
Medico anestesista – Azienda per la Tutela della Salute della regione Sardegna
La disciplina sul Consenso informato e le DAT (Disposizioni Anticipate di Trattamento) contenuta nella legge n. 219/2017 rappresenta un passaggio epocale, almeno nel nostro Paese, dal paternalismo medico (concepito come unico capace di determinare il corso degli eventi derivante dal potere incondizionato circa la scelta terapeutica e le sue modalità di attuazione) al nuovo modello di medicina fondato sulla “relazione di cura e di fiducia tra paziente medico” che ha come cardini fondamentali il consenso informato e la pianificazione condivisa delle cure. La nascita di questa legge ha avuto un travaglio lungo e complicato, sull’onda emotiva lasciata dalla voce trascritta di Piergiorgio Welby (2006) ai desideri raccontati di Eluana Englaro (2009), ma è con il decreto del Tribunale di Cagliari sul caso Walter Piludu (2016) che si raggiunge una sintesi. Nel provvedimento del 16 luglio 2016 il Giudice tutelare, ispirandosi ai principi della Costituzione italiana (artt. 2, 13, 32), alla Convenzione di Oviedo e alla Carta dei Diritti fondamentali dell’Unione Europea, che sanciscono con il principio dell’autodeterminazione individuale che “nessun intervento nel campo della salute può essere effettuato senza che la persona interessata ne abbia dato consenso libero ed informato”, ha stabilito che anche i supporti vitali (ventilazione meccanica, nutrizione artificiale, dialisi, etc.), essendo dei trattamenti sanitari, possono essere rifiutati o interrotti “anche se il dissenso determini un pericolo potenziale o reale per la propria vita”. Era la prima volta in Italia che un Tribunale, riconosciutane la fondatezza, accoglieva il ricorso del paziente e autorizzava il distacco del respiratore
automatico, rammentando che la mancata esecuzione della prestazione sanitaria da parte della ASL avrebbe determinato una responsabilità civile in capo all’ente. Il periodo che seguì prima che Walter Piludu ottenesse realizzata la sua volontà non fu breve e né tantomeno sereno. Il percorso intrapreso dai vertici della ASL fu gestito su più fronti. Vennero contattati l’ufficio legale dell’Azienda, l’Assessorato alla Sanità della Regione, l’Ordine dei Medici, le varie Direzioni Sanitarie dei presidi Ospedalieri cittadini ed infine i vari responsabili di Unità Operative Complesse di Anestesia e Rianimazione per identificare un medico specialista disposto a staccare il dispositivo di supporto vitale. In questa fase si voleva approfondire quali potessero essere le implicazioni legali a carico dello specialista e di chi ne autorizzava la procedura. Due mesi dopo, fatti diversi tentativi (fu contattato lo stesso medico del caso Welby) con il rischio di dover intraprendere procedimenti disciplinari a carico dei professionisti che si fossero rifiutati, si riesce a costituire l’équipe sanitaria e avviare l’iter di visite programmate a domicilio del paziente. Superate le problematiche, non semplici, sulla idoneità del domicilio del paziente, sulla procedura sanitaria da adottare, sull’uso di farmaci ad esclusivo uso ospedaliero, e delle diverse visite mediche atte a verificare lo stato di piena consapevolezza del paziente e di quelle effettuate dal rianimatore per ottenere un consenso informato a mezzo del dispositivo a puntamento oculare, il 3 novembre 2016, durante la sedazione, veniva staccato il respiratore automatico che teneva in vita il Sig. Piludu.
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Alla luce dell’esperienza maturata nel nostro territorio e di quanto stabilito dalla legge, la Regione Sardegna è stata la prima ad aver adottato delle linee guida ATS per darvi piena e corretta attuazione, e non è un caso che le figure che hanno collaborato alla loro stesura siano state le stesse coinvolte nel caso Piludu. Oltre ai principi generali che sono alla base della legge 219/17, le linee guida aziendali si presentano come “prime linee di indirizzo dell’ATS” ad indicare come le stesse e le procedure allegate possono essere suscettibili di modificazioni in senso migliorativo. La novità assoluta è l’istituzione di unità operative e/o percorsi assistenziali specifici per la presa in carico delle persone che hanno manifestato espressa rinuncia a trattamenti sanitari. La presa in carico ha la funzione di valutare clinicamente il paziente e la sua patologia per stilare un piano condiviso delle cure in modo tale che il paziente sia consapevole dell’evoluzione della sua malattia e sia in grado di stabilire anticipatamente quali trattamenti rifiutare soprattutto se dovesse trovarsi nella condizione di sopravvenuta incapacità. Nel concetto di “presa in carico” e “piano condiviso delle cure” si vuole coltivare l’ambizione di creare un rapporto di fiducia paziente/curante, laddove le DAT, precedentemente consegnate, hanno solo il compito di avviare un processo di modifica delle stesse (vuoi perché il paziente non conosce realmente l’entità dei trattamenti sanitari che rifiuta), mentre con il piano delle cure condivise stabilisce in condizioni di “piena e consapevole” volontà esattamente quale sarà il trattamento che rifiuterà anche se si troverà in stato di incoscienza, e si può anche prevedere che un trattamento rifiutato nelle DAT possa essere accettato durante la presa in carico. Il piano condiviso delle cure non è un semplice contratto tra paziente e un curante, è l’atto sanitario condiviso insieme a tutte le figure professionali (medico di medicina generale, neurologo, rianimatore, fisiatra etc.) che partecipano all’assistenza in équipe del paziente insieme ai familiari o al fiduciario del paziente. L’obiettivo di una linea di indirizzo ATS a livello regionale è uniformare il comportamento delle unità operative che la compongono e agevolare la comprensione delle procedure in tutto il territorio regionale. È già stato avviato un corso Responsabilità Medica 2018, n. 4
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di formazione che ha l’ambizione di coinvolgere il numero maggiore di operatori con l’intento di divulgare l’importanza della legge e delle linee di indirizzo aziendali e la conoscenza delle procedure. Al momento è stata pubblicata solo la procedura per l’interruzione di trattamenti di sostegno alle funzioni vitali perché, visto il numero dei pazienti che ne hanno fatto richiesta e la diversa appartenenza ad aree sanitarie, si voleva disciplinare il modus operandi per uniformare in dettaglio la sua attuazione. La procedura è strutturata con l’identificazione di una équipe incaricata di occuparsi del paziente, con una serie di visite programmate finalizzate all’ottenimento di una informazione dettagliata sul significato di sedazione, sui farmaci utilizzati e sulla modalità di distacco dal sostegno vitale, con l’intento di ottenere un consenso informato. La scelta di specificare nelle linee di indirizzo che l’interruzione ai trattamenti di sostegno alle funzioni vitali deve essere comunicata agli organismi competenti (Giudice Tutelare) prima di essere avviata, nasce solo a scopo precauzionale come esigenza di ufficialità della procedura. Ci sarà bisogno di tempo perché la legge venga operativamente interpretata ed applicata, ma sono convinto che comincerà a produrre i suoi effetti sulla vita dei cittadini solo se ci sarà allo stesso tempo una riorganizzazione del sistema sanitario per evitare derive che una scorretta applicazione della legge potrebbe comportare. La possibilità di inserire nel fascicolo personale di ogni individuo o nella cartella elettronica dei pazienti le disposizioni anticipate di trattamento potrebbe semplificare le scelte degli operatori sanitari che lavorano nell’emergenza/urgenza e avviare dei percorsi alternativi una volta che questi pazienti giungono in pronto soccorso. La possibilità che questi percorsi si attivino in automatico alla presentazione delle DAT, per esempio con la rete delle cure palliative nei casi di pazienti oncologici o con patologie neuromuscolari degenerative o con patologie croniche in fase avanzata (respiratorie, cardiologiche, etc.) probabilmente non intaserebbe la rete delle emergenze. Sono convinto che la normativa da una parte e l’applicazione di strumenti come la creazione di una banca dati sanitari del cittadino dove inserire anche le DAT,
Il diritto di lasciarsi morire
disponibile agli operatori sanitari coinvolti, aiuteranno la classe medica, soprattutto quella che si sta attualmente formando, a confrontarsi su un nuovo approccio alla sofferenza del paziente e a considerare procedure alternative in caso di rifiuto ai trattamenti sanitari. La legge n. 219/2017 attribuisce una enorme importanza all’autodeterminazione della persona malata. La sua approvazione appare quasi un atto dovuto in funzione del crescente consenso, nazionale ed internazionale, sulla opportunità di regolare la materia attraverso leggi specifiche. Il Comitato di Bioetica Nazionale lo auspicava. Ma è lo stesso Codice deontologico dei medici che aggiornandosi con l’ultima edizione della Dichiarazione di Ginevra, elaborata ed approvata nell’ottobre del 2017 dal World Medical Association (WMA) che sottolinea come il medico si deve impegnare a “rispettare l’autonomia e la dignità del paziente”, prendendo in considerazione le preferenze che il paziente esprime (anche anticipatamente) riguardo ai trattamenti sanitari futuri, (artt. 38 e 39), ma sempre escludendo atti finalizzati a provocare la morte (eutanasia, art. 16) o atti inappropriati o non proporzionati (art. 16). Il rispettare l’autodeterminazione del paziente in ambito medico porta a fare qualche considerazione sull’interpretazione relazionale che si instaura tra medico ed assistito considerata l’asimmetria del rapporto, infatti il curante è colui il quale per competenza, per conoscenza degli standard scientifici e professionali vigenti individua un determinato trattamento sanitario come più appropriato. E il malato “non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali” (art. 1, comma 6°). Si potrebbe presentare quindi il caso di un paziente che rifiuti un trattamento ritenuto appropriato dal medico che lo cura o viceversa si potrebbe presentare il caso del curante che si ostina irragionevolmente a somministrare trattamenti sproporzionati. L’appropriatezza di una terapia medica o chirurgica, intesa come “adatta, conveniente, giusta”, spesso non ha la pretesa di guarire una data patologia, ma magari di migliorare la qualità della vita del paziente o di procrastinare l’evento fatale a distanza di qualche tempo (mesi
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o giorni talvolta). Ma il concetto di qualità della vita è troppo personale per poter affermare che il trattamento individuato la possa migliorare. Il prof. Ciaran O’Boyle di Dublino afferma che “la qualità della vita è qualsiasi cosa il paziente definisce come tale” (fonte AISLA). L’asimmetria di questo rapporto è ancor più marcata nel momento in cui il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, ipotizzo una situazione difficile di assistere con supporti vitali un anziano portatore di diverse patologie croniche che si trova in stato di incoscienza. Il medico deve astenersi da ogni ostinazione irragionevole nella somministrazione di cure e dal ricorso a trattamenti inutili o sproporzionati, nei casi di paziente con prognosi infausta a breve termine o di imminenza di morte, come cita l’articolo 2 al comma 2°. Sarebbe interessante capire se la decisione di non astenersi dalla somministrazione di cure sproporzionate al caso specifico sia dettata da un tentativo di riparo da responsabilità professionale (medicina difensiva) o da pressioni esercitate dai familiari per non generare “sospetti” di abbandono del malato e sarebbe interessante capire se, alla luce della nuova legge, queste raccomandazioni, già espresse nel codice deontologico, troveranno modo di essere rispettate. Un concetto che continua ad avere aspetti di criticità, nonostante la previsione normativa, è il tempo di comunicazione tra medico e paziente. La legge nell’art. 1, comma 8°, ribadisce che “il tempo di comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura”, ma lo dice anche il nostro codice deontologico del 2014 all’art. 20. Formalizzare economicamente questo tempo di lavoro è praticamente impossibile e in contrasto con gli obiettivi di risultato che vengono chiesti in maniera incessante dagli obiettivi di budget ospedalieri e con le esigue risorse a disposizione nel territorio. Immagino laddove si parla di “breve termine” o “imminenza di morte” come il concetto di tempo sia aleatorio e quanto sia difficile dare una assistenza completa a questi malati. La stessa stesura ed il valore delle DAT rischiano di essere confinate al solo atto formale riguardo l’uso di dispositivi tecnici (ventilazione artificiale, nutrizione artificiale, etc.) se non si garantiscono le adeguate tempistiche di comunicazione con il Responsabilità Medica 2018, n. 4
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medico di fiducia. Ipotizzo che nel credo collettivo l’idea di essere mantenuto in vita artificialmente senza che vi sia un cosciente contatto con la realtà, come avviene nei casi di Stato Vegetativo Persistente (SVP) per eventi traumatici o patologie vascolari cerebrali, venga facilmente demonizzato. La legge attribuisce a “ogni persona maggiorenne in grado di intendere e volere, in previsione di un’eventuale incapacità di autodeterminarsi e dopo aver acquisito adeguate informazioni mediche sulle conseguenze delle sue scelte […]” (art. 4, comma 1°). La popolazione di maggiorenni sta andando a costituirsi da persone sempre più anziane, con patologie croniche sempre più importanti, con diverso grado di scolarizzazione, di credo religioso, etc. Di contro, assistiamo all’evoluzione costante delle conoscenze biomediche e delle ricerche in campo farmacologico. Solo una efficace comunicazione può permettere ad ognuno di noi di comprendere esattamente cosa implica una particolare situazione clinica. Ma come riesce a concretizzarsi la volontà dell’individuo nella “relazione di cura” tra medico e paziente finalizzata alla stesura di eventuali DAT se nel nostro Sistema Sanitario Nazionale questo tempo di comunicazione è carente? Nell’attuazione delle linee guida aziendali invece la mancanza di una rete palliativa organizzata a livello regionale rappresenta un punto di notevole criticità. Una rete di cure palliative efficiente garantisce l’assistenza ai malati con prognosi infausta e non più suscettibili di terapia medica specifica se non quella del dolore. Ad esse potrebbero afferire anche coloro i quali rifiutano un trattamento sanitario proposto dallo specialista, pianificando un’assistenza domiciliare e garantendo, in caso di “imminenza di morte”, un dignitoso accompagnamento. Al momento attuale in regione Sardegna esistono delle strutture ricettive (Hospice) con organizzazioni a macchia di leopardo di cure palliative ma non in rete tra loro e gran parte del carico di lavoro ricade sulla figura del Medico di Medicina Generale che da solo non è in grado di gestirlo. Dall’entrata in vigore delle linee guida aziendali sono stati presi in carico due pazienti che hanno depositato le DAT, sia all’anagrafe del Comune di residenza e sia presso l’ufficio Cure Domiciliari, Responsabilità Medica 2018, n. 4
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entrambi affetti da Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA), come Welby e Piludu. Questa patologia a carico dei neuroni deputati al controllo dei muscoli, conduce il paziente, senza perdita delle funzioni cerebrali superiori (coscienza), in uno stato di immobilità totale (tetraparesi), verso un quadro di insufficienza respiratoria tale da richiedere una assistenza ventilatoria artificiale (dapprima non invasiva e poi a mezzo di intubazione orotracheale o tracheostomia), con sensibilità dolorosa conservata, ed incapacità a comunicare con l’esterno. Quando anche i muscoli dell’occhio (bulbari) non permetteranno al paziente di utilizzare sistemi di comunicazione, come il puntatore oculare, allora si arriverà al drammatico quadro della sindrome “chiuso dentro” (Locked-In Syndrom). La volontà che viene espressa da questi pazienti è di non essere sottoposti a trattamenti invasivi (intubazione o tracheostomia o posizionamento di sondini atti a veicolare sostanze nutritive e idratanti) e che, in prossimità della necessità, si ricorra ad una sedazione palliativa profonda. La sedazione palliativa profonda, che riconosce una modalità continua o intermittente o temporanea, consiste nella “somministrazione intenzionale di farmaci, alla dose necessaria richiesta, per ridurre fino ad annullare la coscienza del paziente, allo scopo di alleviare il dolore e il sintomo refrattario fisico e/o psichico, intollerabile per il paziente, in condizione di imminenza di morte” (Comitato Nazionale per la Bioetica, 2016). La differenza sottile con l’eutanasia consiste nel diverso obiettivo: nella sedazione profonda si combatte la sofferenza ed il sintomo refrattario di una patologia che sta provocando la morte; nell’eutanasia l’obiettivo è indurre la morte con la somministrazione di farmaci. Diverse criticità di natura organizzativa si presentano all’orizzonte ma il lavoro che si sta facendo è quello di trovare le soluzioni, per ora individuali, con l’intento di costruire un modello funzionale per i casi futuri.
r o t Osservatorio medico-legale a Osservatorio medico-legale er v ico s d s e e o l Segnalazione all’autorità m ga giudiziaria per sospetto le maltrattamento in famiglia su minore e richiesta di risarcimento dei genitori al medico refertante Anna Aprile*, Marianna Russo** Sommario: 1. Riferimenti normativi. – 2. Segnalazione ritenuta errata e richiesta di risarcimento: un caso significativo. – 3. Casi clinici di difficile interpretazione e conseguenti criticità in ordine all’obbligo di segnalazione. – 4. Possibili ricadute sull’operato dei professionisti sanitari: uno sguardo al panorama internazionale. – 5. Quando riconoscere la responsabilità del professionista per errata segnalazione. – 6. Verso una conclusione.
Abstract: Il professionista sanitario ha il dovere di informare l’autorità giudiziaria nei casi in cui si trovi ad assistere bambini vittima di maltrattamenti o che vivono situazioni di pericolo per la loro salute a causa di gravi carenze nell’accudimento familiare. L’obiettività che può derivare da tali condizioni non è sempre di facile interpretazione per la molteplicità delle manifestazioni cliniche con le quali questi casi possono presentarsi all’attenzione dei medici curanti. Gli autori espongono le criticità che il professionista incontra quando, a fronte di quadri clinici di incerta definizione sotto il profilo causale, debba decidere se inoltrare o meno la comunicazione all’autorità giudiziaria. Health care practitioners, when assisting children who are victims of abuse or need protection as their family is unable or unwilling to provide adequate care, have the duty to make a report to the judicial authority. However, as a consequence of the vast diversity of the clinical picture in these cases, the evaluation of the medical examination may result somewhat cryptic. The authors focus on the critical aspects that the health care practitioner might face when reflecting on the opportunity to report a case whose etiology is still undetermined.
1. Riferimenti normativi Questa riflessione scaturisce da alcune vicende giunte alla nostra attenzione nell’ambito dell’attività medico-legale di valutazione di richieste di risarcimento pervenute ad aziende sanitarie da parte di genitori che lamentano danni a seguito di segnalazioni per sospetto maltrattamento dei figli, segnalazioni da loro ritenute infondate. Si tratta di circostanza insolita e l’esame di questi casi – il cui numero, allo stato, è molto contenuto – offre lo spunto per affrontare taluni aspetti problematici che i professionisti sanitari possono trovarsi a fronteggiare nell’adempiere all’obbligo d’informare l’autorità giudiziaria nel momento in cui, nell’esercizio della loro attività, si trovino ad assistere bambini sospettati di essere vittime di abusi e/o
Professore Associato di Medicina Legale - Università degli Studi di Padova. ** Professoressa nell’Università di Padova; Specialista in medicina legale, Dottoranda di Ricerca in Scienze della programmazione sanitaria – Università degli Studi di Padova *
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di vivere in contesti familiari francamente non tutelanti e tali da costituire un rischio per la salute e per la vita stessa del minore. I riferimenti normativi dai quali deriva il dovere di segnalazione all’autorità giudiziaria delineano uno schema operativo di agevole lettura, secondo cui talune figure qualificate sono tenute ad informare l’autorità giudiziaria ogni qualvolta vengano a conoscenza di reati perseguibili d’ufficio, in accordo a quanto disposto dal Codice Penale agli artt. 361 (Omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale), 362 (Omessa denuncia di reato da parte di un incaricato di pubblico servizio) e 365 (Omissione di referto)1, oppure di situazioni di abbandono di soggetti minorenni, in accordo a quanto disciplinato dalle leggi sull’adozione e sull’affidamento dei minori (Legge 4 maggio 1983, n.184 Disciplina dell’adozione e dell’affidamento dei minori, modificata dalla Legge 28 marzo 2001, n. 149)2.
Dalla segnalazione all’autorità giudiziaria potranno prendere quindi avvio le forme di tutela del minore previste dal nostro ordinamento: una tutela diretta fornita dal sistema civile e amministrativo e realizzabile attraverso i provvedimenti del Tribunale per i Minorenni e gli interventi dei servizi sociali; una tutela indiretta fornita dal sistema penale e realizzabile attraverso l’individuazione dell’autore della condotta illecita e la sua sanzione. Sussiste anche un dovere deontologico che obbliga il medico a tutelare il minore, in particolare quando ritiene che l’ambiente in cui quest’ultimo vive non sia idoneo a proteggere la sua salute, la dignità e la qualità di vita, e a segnalare “all’Autorità competente le condizioni di discriminazione, maltrattamento fisico o psichico, violenza o abuso sessuale” (art. 32 del Codice di Deontologia Medica 2014). Nonostante la linearità dei presupposti indicati, la realtà dei casi clinici si presenta ben più complessa e non sempre agevolmente interpretabile alla luce dei disposti di legge.
Referto e denuncia sono relazioni informative da inviarsi alla Procura della Repubblica, che devono indicare il giorno e l’ora in cui è avvenuta la prestazione ed esporre gli elementi essenziali del fatto di cui si è venuti a conoscenza, indicando le generalità, il domicilio e quanto altro valga alla identificazione della persona alla quale è stata prestata l’assistenza. La segnalazione va fatta tempestivamente. Se vi è urgenza, può essere anticipata telefonicamente alla stessa Procura della Repubblica e/o alla Polizia giudiziaria (Polizia di Stato e Carabinieri, come riferimenti prioritari). La distinzione tra Referto e denuncia che, in quanto a forma e contenuto sono pressocché sovrapponibili, consiste nel fatto che il primo compete al professionista sanitario che operi in veste libero professionale mentre la seconda a chi operi in qualità di pubblico ufficiale o di persona incaricata di pubblico servizio. Altra distinzione è rappresentata dal fatto che il referto, a differenza della denuncia, può essere omesso quando la segnalazione possa esporre a procedimento penale la persona assistita. Nel caso in cui persona assistita è il minore – per lo più solo vittima, e non anche possibile autore di reato – tale distinzione è, sostanzialmente, priva di rilievo.
2. Segnalazione ritenuta errata e richiesta di risarcimento: un caso significativo
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La segnalazione dello stato di abbandono del minore può essere avanzata da chiunque e indirizzata genericamente a qualunque “autorità pubblica”; tuttavia per chi ricopra una veste pubblica – come si verifica per tutti i medici operanti nell’ambito del Servizio Sanitario Nazionale – la segnalazione è obbligatoria. La condizione di abbandono si realizza quando i minori siano privi di assistenza morale e materiale da parte dei genitori. Essa va interpretata in senso lato, potendo attenere a tutte quelle fattispecie nelle quali il bambino versi in situazioni familiari che, non necessariamente determinate da fatti per i quali sia ipotizzabile un reato, ne comprometta-
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Preliminarmente alle considerazioni di carattere generale sul tema, riteniamo utile, a scopo esemplificativo, illustrare sinteticamente una tra le vicende giunte alla nostra attenzione di richiesta risarcimento danno relativa alla problematica qui in esame. Maria, bambina di 3 mesi, era condotta in ospedale dai genitori che riferivano di aver rinvenuto la piccola in stato di incoscienza e bradipnoica dopo averla coricata per la notte; dal racconto emerge che la mamma si sarebbe accorta della situazione per caso, insospettita dal fatto che la bambina non si fosse risvegliata per richiedere la poppata notturna. La bambina le appariva altresì molto pallida e “molle” e solo dopo stimolazione vigorosa avrebbe ripreso a piangere. La bambina veniva quindi ricoverata e gli accertamenti clinico-strumentali posti
no in modo grave ed irreversibile un armonico sviluppo psico-fisico, senza che i genitori siano in grado di porvi rimedio.
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in essere durante la degenza consentivano di rilevare un quadro lesivo cranio-encefalico, caratterizzato da raccolte emorragiche subdurali e lesioni ischemico-emorragiche del parenchima cerebrale, in associazione ad emorragie retiniche. Stante la peculiarità delle lesioni, veniva esplicitamente richiesto ai genitori se la bambina potesse aver subito traumi, evenienza che veniva tassativamente esclusa. Dalla ulteriore e più approfondita raccolta anamnestica risultava che Maria era figlia primogenita, nata a termine da taglio cesareo per presentazione podalica, con sviluppo psico-fisico descritto nella norma, allattamento materno con pasti molto frequenti, ritmo-sonno veglia irregolare per numerosi risvegli e pianti notturni. Nel corso del ricovero, la bambina veniva sottoposta ad intervento neurochirurgico evacuativo della raccolta emorragica subdurale che esitava in un miglioramento clinico, benché i controlli neuroradiologici successivi dimostrassero un’evoluzione atrofica delle aree cerebrali interessate, indicativa di una prognosi non ottimale quoad valetudinem. Dai colloqui parentali condotti durante la lunga degenza ospedaliera, protrattasi oltre due mesi, non emergevano ulteriori elementi esplicativi delle gravi lesioni osservate. La complessità dei reperti, non giustificati da patologie organiche o da traumi accidentali, tenuto conto che la tenerissima età della bambina non consentiva ancora un grado di attività motoria autonoma tale da ipotizzare che un evento traumatico potesse essere occorso in circostanza non testimoniata dal caregiver, orientava i curanti a individuare come momento eziologico un trauma cranico abusivo, denominato abusive head trauma dagli autori anglosassoni e più noto come shaken baby syndrome. È questa una forma peculiare di maltrattamento fisico, dove l’abusante, generalmente in risposta a fattori stressanti (ad esempio, il pianto del bambino), agisce mediante azioni violente – da identificare principalmente nello scuotimento del soma del bimbo – che generano forze complesse, con dissipazione dell’energia lesiva principalmente nella regione del capo. Pertanto, nell’ipotesi che il quadro lesivo riscontrato potesse corrispondere ad un reato perpetrato all’interno del nucleo familiare, che peraltro sembrava accogliere mal volentieri gli sforzi volti a comprendere la causa del quadro clinico, i curanti si attivavano per informare l’autorità giudiziaria
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penale e minorile; quest’ultima disponeva un affidamento etero-familiare della piccola paziente al momento della dimissione e monitoraggio ad opera dei servizi sociali. Sul piano penale, a seguito di una consulenza medico-legale che riteneva non univocamente interpretabile come traumatica la genesi delle lesioni endocraniche, la vicenda giudiziaria si concludeva con una richiesta di archiviazione da parte del Pubblico Ministero in quanto gli elementi raccolti non sarebbero stati idonei a sostenere l’accusa in giudizio. Il Tribunale per i Minorenni dapprima provvedeva ad emettere un decreto di sospensione della responsabilità genitoriale e collocamento in comunità della minore con la madre e, successivamente, dopo protratto periodo di monitoraggio, avvalendosi dei dati raccolti a mezzo dell’indagine sociale, e anche all’esito del parallelo procedimento penale, revocava il provvedimento a carico dei genitori e decretava il reintegro della minore nella famiglia di origine. A distanza di tre anni dalla dimissione ospedaliera, i genitori avanzavano una richiesta di risarcimento nei confronti dei professionisti che avevano inoltrato la segnalazione lamentando di aver subito un danno ingiusto. Nell’atto di ricorso ex art. 696 bis c.p.c., l’avvocato nominato dai genitori articolava l’istanza risarcitoria nei confronti dell’ente ospedaliero in cui Maria era stata ricoverata indicando che i professionisti sanitari, a vario titolo intervenuti nella cura della bambina, sarebbero passibili di evidenti profili di responsabilità nei confronti dei ricorrenti sia in proprio sia in nome e per conto della figlia minore, avendo “colposamente omesso di effettuare un’attenta valutazione ed una corretta diagnosi determinando un danno psicofisico di natura permanente sia in capo alla minore sia in capo ai genitori”. Ciò premesso, nello stesso atto di ricorso, si chiede al Giudice di disporre una consulenza tecnica d’ufficio di natura medico-legale al fine di accertare se, alla luce della sintomatologia presentata dalla minore, “le prestazioni professionali del personale della Struttura convenuta siano state poste in essere con la perizia, diligenza e prudenza adeguate al caso di specie” e se “le prestazioni professionali dei soggetti coinvolti nella vicenda clinica abbiano determinato, o concorso a determinare, un danno psico-fisico in capo alla minore specificando se una corretta valutazione medico-diagnostica ed un’attenta gestione mediResponsabilità Medica 2018, n. 4
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co-legale avrebbero, più probabile che non, potuto evitare lo stesso”. È evidente che, fermo restando che Maria non ebbe a subire alcuna menomazione iatrogena conseguente al trattamento del quadro lesivo endocranico e che gli stessi ricorrenti non lamentavano alcunché in ordine agli esiti dell’intervento neurochirurgico e all’assistenza medica in senso stretto, la critica avanzata è tutta diretta contro la scorretta (ritenuta tale) “gestione medico-legale”, ossia nel fatto che fu fatta la segnalazione all’autorità giudiziaria in assenza, a parere dei ricorrenti, dei presupposti che la avrebbero potuta giustificare. Il danno psicofisico a carico della bambina e dei genitori che ne sarebbe derivato è individuato nella sofferenza legata all’allontanamento, successivo alla dimissione ospedaliera, della piccola Maria dall’ambiente domestico, allo stravolgimento delle abitudini di vita, all’ingerenza di figure estranee chiamate a verificare l’adeguatezza genitoriale, alle ripercussioni negative sul rapporto di coppia. Non è nostra intenzione, in questa sede, sottoporre ad un’analisi valutativa il razionale che ha guidato da una parte i soggetti “segnalatori” e, dall’altra, le decisioni assunte dalle autorità giudicanti, né porre al vaglio natura ed entità del danno lamentato, quanto piuttosto, attraverso il caso riportato, esemplificare una realtà clinica che nel futuro sarà prevedibilmente più consistente, in linea con la maggiore sensibilizzazione in materia di abuso sui minori, mediata dall’incentivazione delle campagne informative e della formazione del personale ospedaliero, e, conseguentemente, con le più precoci formulazioni diagnostiche attestanti la perpetrazione di un abuso. È altresì prospettabile che in questa materia il contenzioso legale possa gravare principalmente sui poli ospedalieri di grandi dimensioni, dove afferisce la maggior parte dei sospetti abusi, per la necessità sia di interventi terapeutico-riabilitativi complessi nei casi caratterizzati da grave lesività sia di una definizione diagnostica da parte di personale altamente specializzato nei casi clinicamente più sfumati.
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3. Casi clinici di difficile interpretazione e criticità conseguenti in ordine all’obbligo di segnalazione Qualora si dovesse diffondere una pratica volta ad avanzare richieste di risarcimento del danno ogniqualvolta le indagini dell’autorità giudiziaria dovessero condurre a negare l’ipotesi di abuso avanzata nella segnalazione, i professionisti sanitari potrebbero trovarsi a dover rispondere a richieste risarcitorie consimili a quella su esposta alle quali potrà far fronte, se disponibile, la loro copertura assicurativa. Per dirimere le problematiche di competenza tecnica medico-legale di questa tipologia di sinistri, è necessario domandarsi se sussistano, e quali siano, i criteri per valutare colpevole la condotta contestata al professionista che inoltri denuncia/ referto all’autorità giudiziaria penale, e/o una comunicazione al Tribunale per i Minorenni per l’attivazione di un provvedimento di tutela, quando al termine delle indagini esperite dalle citate Autorità non si confermi l’ipotesi avanzata nella segnalazione. Pur consapevoli che i presupposti e le finalità del dovere di informativa penale o civile non sono sovrapponibili, tratteremo congiuntamente le due tipologie perché riteniamo sovrapponibili, invece, le problematiche che il professionista deve affrontare nel decidere se segnalare e da qui in poi utilizzeremo quindi il termine “segnalazione” per riferirci ad entrambe le forme di informativa. Un aspetto preliminare, ribadito dalla dottrina medico-legale3 e sul quale è necessario convenire, è che il dovere di segnalazione all’autorità giudiziaria da parte del professionista sussiste quando questi abbia anche solo il sospetto che il bambino affidato alla sua cura possa essere vittima di situazioni delittuose, o comunque pregiudizievoli alla sua salute, e non è subordinato all’acquisizione di elementi di certezza. Analoghe indicazioni si
Ricordiamo per tutti quanto indicato da Franchini nel suo trattato di Medicina Legale che consiglia il medico “di essere estensivo nella presentazione del referto” anche quando “dubita che un delitto possa sussistere ed essere compreso tra quelli per i quali si procede d’ufficio”. Cfr. Franchini, Medicina legale, Padova, 1979, 168. 3
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rinvengono in giurisprudenza, seppur in vicende in cui si contestava al professionista di non aver trasmesso il referto in circostanze di dubbio e non già, come nei casi in cui qui discutiamo, per averlo trasmesso in casi non successivamente confermati4. Ritenere che l’esito “negativo” delle indagini attivate dalla segnalazione possa rappresentare un criterio dimostrativo della inadeguatezza professionale del medico che l’ha inoltrata è, pertanto, da proscrivere. È comunque necessario chiedersi quale grado di plausibilità debba avere il dubbio sul maltrattamento a supporto della segnalazione per non incorrere in contestazioni che potrebbero risultare giustificate a fronte di segnalazioni, oggettivamente, prive di fondamento. È un interrogativo, sul quale ritorneremo infra, la cui risposta richiede una valutazione complessa. Deve essere considerato, infatti, che le difficoltà che possono rendere particolarmente incerto l’iter accertativo e valutativo nei casi di sospetto abuso sul minore derivano da più fronti. La prima, sostanziale, discende dal fatto che i casi di abuso su minore, raramente si presentano con caratteristiche tali da renderli facilmente riconoscibili. Ricordiamo che, secondo la definizione della World Health Organization, il concetto di abuso nella minore età si intende esteso a tutte le forme di maltrattamento fisico e/o emozionale, abuso sessuale, trascuratezza, nonché sfruttamento commerciale o di altro genere, le quali comportino un pregiudizio reale o potenziale per la salute, per la sopravvivenza, per lo sviluppo o per la dignità del bambino, nell’ambito di una relazione caratterizzata da responsabilità, fiducia o potere5.
Riportiamo un esplicativo passaggio della Cassazione (Cass. pen., 27.2.2015, n. 8937). Secondo la Suprema Corte, “è necessario e sufficiente che l’esercente un pubblico servizio ometta di denunciare un fatto di cui sia venuto a conoscenza che presenti le linee essenziali di un reato, mentre non è indispensabile che la notizia si riveli anche fondata. Il che si correla strettamente alla natura di reato di pericolo della incriminazione, dovendosi garantire che la notitia criminis pervenga comunque all’autorità giudiziaria, unica competente ad operare le valutazioni e ad assumere le decisioni in ordine all’ulteriore corso del procedimento penale”.
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Il maltrattamento può, quindi, essere perpetrato attraverso svariate modalità, attive o passive, producendo diversi effetti sulla vittima, fisici o psichici, ed è evidente che soltanto nei casi eclatanti, nei quali siano chiaramente identificabili le “stigmate” dell’abuso (ad esempio, le ecchimosi “a pattern” riconducibili ad una specifica azione lesiva), il giudizio diagnostico potrà basarsi su una forte evidenza clinica. Di contro, i casi nei quali l’esame obiettivo è completamente negativo, o quasi, per riscontro di reperti obiettivi anomali, sono molto frequenti6; in queste evenienze l’accertamento dell’abuso è operazione estremamente articolata che richiede un approccio professionale multidisciplinare, peraltro non sempre risolutivo. Un altro elemento che nei casi di sospetto può ostacolare in misura rilevante il percorso diagnostico, rendendo quindi critica la decisione se trasmettere o meno la segnalazione alle autorità competenti, può essere individuato sul piano comunicativo tra professionista e vittima; se la barriera comunicativa, infatti, può risultare invalicabile in età preverbale, annullando all’origine la possibilità di ottenere dal minore elementi utili ai fini diagnostici, nelle fasi successive dello sviluppo il professionista sanitario, nel raccogliere i dati anamnestici dal minore, non può esimersi, rispetto a tali dati, dal rapportarli alle capacità espressive del minore medesimo, dal coniugarli con i messaggi non verbali e in ultima analisi dal tradurli rispetto alle proprie conoscenze ed esperienze. Si tratta quindi di uno sforzo interpretativo che può inevitabilmente minare l’oggettività con cui deve essere formulata una diagnosi. Anche la raccolta delle informazioni rese dai genitori, per
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World Health Organization, Report of the Consultation on Child Abuse Prevention, Geneva, 1999.
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Può essere significativo a questo proposito ricordare un contributo di Adams, relativo all’abuso sessuale verso i minori, efficacemente intitolato “It’s normal to be normal” che nel descrivere le caratteristiche dell’anatomia ano-genitale dei bambini prepuberi vittime accertate di abusi sessuali, descrisse come l’esame obiettivo, in particolare se effettuato a distanza di tempo dall’episodio di violenza, possa risultare del tutto priva di esiti di lesioni e, per lo più, sostanzialmente sovrapponibile all’obiettività di bambini non abusati. Cfr. Adams, Harper, Knudson, Revilla, Examination Findings in Legally Confirmed Child Sexual Abuse: It’s Normal to be Normal (1994) 94 Pediatrics 310 ss. 6
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evidenti motivi di interesse a voler negare un loro coinvolgimento, non solo non aiuta ma, talora, risulta francamente confondente. Infine, anche nei casi nei quali la condizione rilevata sul bambino porti ad uno specifico inquadramento clinico, non sempre questo consente di trovare immediata corrispondenza tra la definizione diagnostica e le ricadute sotto il profilo della rilevanza giuridica. Infatti, se una diagnosi di maltrattamento fisico occorso, ad esempio, mediante abusive head trauma, per richiamare quanto narrato nel case report, può agevolmente integrare l’ipotesi di reato ai sensi dell’art. 582 c.p. (Lesione personale) oppure, qualora la condotta sia temporalmente protratta, la fattispecie prevista dall’art. 572 c.p. (Maltrattamenti contro familiari o conviventi), lasciando quindi pochi dubbi sul dovere di segnalazione, non è così per altre forme di vittimizzazione dei minori. Si considerino, ad esempio, quelle espressioni del maltrattamento sul bambino ascrivibili a trascuratezza (Child Neglect) o a discuria (emblematici, in tal senso, i quadri clinici di abuso psicoemozionale riconducibili alla Sindrome di Munchausen per procura7)
La “sindrome di Munchausen per procura” fu definita per la prima volta nel 1977 dal pediatra inglese Meadow (cfr. Meadow, Munchausen Syndrome By Proxy: the hinterland of child abuse (1977) 2 Lancet 343 ss.), il quale, traendo ispirazione dalla terminologia coniata vent’anni prima da Asher – “sindrome di Munchausen” – per introdurre una patologia nella quale il soggetto affetto lamenta disturbi e/o patologie che poi si rivelano fittizi, riferì la nuova entità nosologica a quelle situazioni nelle quali i genitori, più spesso la madre, inventano storie di malattie nel figlio, supportate talora mediante la “fabbricazione” di segni o sintomi, esponendo il minore ad una serie di accertamenti, esami invasivi ed interventi che nel tempo possono essere estremamente pericolosi per la sua incolumità fisica e psicologica, fino a causarne la morte. In genere, il soggetto “Munchausen” agisce nei confronti del bambino con tre modalità: 1) simulando segni e sintomi di malattie di varia natura, anche mediante sostituzione/alterazione dei campioni o falsificazione di analisi di laboratorio; 2) amplificando i sintomi di una malattia fisica vera; 3) inducendo segni e sintomi di malattia, anche ricorrendo alla somministrazione di farmaci oppure ricorrendo a mezzi rivelativi di un franco maltrattamento fisico. Si tratta in sostanza di una condizione psichiatrica che va riferita all’adulto, il quale agirebbe intenzionalmente in risposta al proprio bisogno psicologico di “assumere, per interposta persona, il ruolo di malato” e, quindi, attirare attenzione ed empatia nei propri 7
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giunti all’osservazione clinica in fase precoce con sintomatologia sfumata; in queste situazioni, la variabilità delle manifestazioni cliniche è davvero poliedrica, non sempre traducibile nella nozione di malattia penalmente rilevante, ed altrettanto variegata e proteiforme la condotta dell’adulto implicato il quale potrebbe aver messo in atto comportamenti oggettivamente lesivi, o pericolosi, del tutto inconsapevolmente, per una propria inadeguatezza nell’interpretare e cogliere i reali bisogni di cura del bambino o le sue esigenze affettive, rendendo oltremodo dubbia la riconducibilità del tutto a fattispecie di reato. Si considerino, ancora, talune situazioni nelle quali giovanissimi “pazienti” si rivolgono ai professionisti sanitari per la prescrizione di contraccezione, o per il timore di avere contratto malattie sessualmente trasmissibili, o per altri svariati disturbi somatici, e rivelino di avere avuto rapporti sessuali con narrazioni talora esuberanti e fantasiose, talora criptiche, che possano far sorgere il dubbio in ordine sia alla realtà dei fatti narrati sia all’eventualità che tali fatti configurino o meno ipotesi di reato. In questi casi non risulta affatto immediato riconoscere il confine tra l’esercizio di una sessualità libera, e quindi avulsa da contesti di rilevanza penale, o coartata, con conseguente integrazione di ipotesi delittuose, anche procedibili d’ufficio. Tutto questo deve essere tenuto in conto e fa comprendere come siano davvero ampi i margini di incertezza che
confronti. Rispetto al bambino, il quale subisce passivamente le conseguenze di questo disturbo, dannose sul piano psico-fisico, si dovrebbe, invece, riconoscere una condizione di “abuso”. La diagnosi di questa sindrome, attualmente inclusa nel DSM V con il nome “Disturbo fittizio provocato su altri”, o meglio della condizione di child abuse ad essa conseguente, è particolarmente lunga e laboriosa, tanto da costituire una delle sfide diagnostiche in ambito pediatrico: da una parte la costellazione di segni e/o sintomi riportati dai genitori o con i quali il bambino può presentarsi al professionista sanitario è oltremodo estesa e variabile, dall’altra il continuo ricambio di medici a cui il piccolo paziente è sottoposto dagli adulti “Munchausen” nella ricerca esasperata di attenzioni sanitarie (fenomeno noto come “doctor shopping”), disperde le informazioni di volta in volta raccolte e frammenta l’iter accertativo-valutativo; infine, lo stesso professionista coinvolto può risultare vittima dell’inganno, qualora intenda fregiarsi di avere identificato, come origine dei disturbi lamentati, una patologia fino a quel momento a tutti misconosciuta.
Segnalazione all’A.G. per sospetto maltrattamento su minore
incombono sul professionista sanitario chiamato a decidere se segnalare o meno un caso di sospetto abuso/maltrattamento. Nell’incertezza, un professionista potrebbe essere indotto a segnalare a fronte di un altro che, invece, potrebbe ritenere non avere ravvisato gli elementi essenziali che dovrebbero supportare la trasmissione della notizia all’autorità giudiziaria.
4. Possibili ricadute sull’operato dei professionisti sanitari: uno sguardo al panorama internazionale In un percorso clinico-accertativo irto di ostacoli, dove non esiste il gold standard diagnostico, risultando la diagnosi l’esito di una complessa opera di decodificazione di elementi anamnestici o semeiologici – basata non solo su una rigorosa metodologia scientifica, ma anche (talora in misura preponderante!) sull’esperienza e sensibilità del singolo professionista sanitario – la prospettiva che per quest’ultimo possa profilarsi l’ipotesi di responsabilità professionale da errata segnalazione potrebbe tradursi nella diffusione di atteggiamenti difensivisti, verosimilmente concretizzabili in uno vasto spettro di azioni: da comportamenti evitanti nei confronti dei pazienti con i quadri clinici di più complessa valutazione (ad esempio, disponendo trasferimenti del paziente in altri reparti o ospedali, adducendo come giustificazione la necessità di ulteriori approfondimenti diagnostici non eseguibili nella struttura che ha in carico il minore); a comportamenti procrastinatori (ad esempio, anteponendo alla segnalazione svariati tentativi per ottenere una rivelazione dirimente da parte dei caregivers del minore oppure l’esecuzione, laddove non necessaria, di visite, esami o procedure per l’inquadramento diagnostico), fino alla totale astensione rispetto al dovere d’informativa nei confronti dell’autorità giudiziaria. Tutte queste condotte, che di certo non obbediscono al criterio essenziale del bene dei piccoli pazienti, deriverebbero da una ponderazione utilitaristica dei rischi: da una parte il rischio d’incorrere nelle sanzioni previste dagli artt. 361, 362 e 365 c.p., che prevedono solo una pena pecuniaria e alquanto contenuta; dall’altra la pos-
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sibile esposizione ad un contenzioso giudiziario nello svolgimento dell’attività professionale, con il rischio, pur in presenza di copertura assicurativa, o di altre analoghe misure attive nella struttura sanitaria in cui si opera, di ricevere richieste di risarcimento molto più esose rispetto all’entità della sanzione stabilita dal codice penale in caso di violazione degli articoli sopra menzionati e con l’incognita della possibile azione di rivalsa. Sulla base di queste considerazioni, è lecito interrogarsi se possano essere individuate delle modalità per dirimere questi aspetti contrastanti (realtà clinica VS realtà giuridica) che potrebbero presagire una “crisi” del sistema della segnalazione previsto dal nostro ordinamento giuridico. Alcune indicazioni provengono dal contesto legislativo internazionale, con particolare riferimento alle nazioni (Stati Uniti d’America, Canada e Australia) che hanno prestato una tale attenzione al fenomeno dell’abuso sul minore da emanare specifiche leggi sul dovere di segnalazione, più note agli anglosassoni come “Mandatory Reporting Law”. Negli Stati Uniti d’America è in vigore una legge federale – The Victim Child Abuse Act – che disciplina il coordinamento dei programmi di prevenzione e intervento sull’abuso su minore. Tale legge, promulgata nel 1990 e aggiornata nel 2013, prevede l’immunità dalla responsabilità civile o penale per tutti i soggetti obbligati a segnalare fatti per i quali sia ragionevole sospettare che sia stato perpetrato un abuso su minore; per tali soggetti, che comprendono i professionisti sanitari, sussiste infatti la presunzione che abbiano agito in buona fede, indipendentemente dall’esito giudiziario della segnalazione8. In Canada il dovere di segnalazione nei casi di sospetto abuso sul minore è regolamentato su scala provinciale/territoriale. Nonostante alcune differenze siano riscon-
“All persons who, acting in good faith, make a report ... or otherwise provide information or assistance in connection with a report, investigation, or legal intervention pursuant to a report, shall be immune from civil and criminal liability arising out of such actions. There shall be a presumption that any such persons acted in good faith”. Cfr. Victims of Child Abuse Act. (1990). Public Law 101-647, Title II, 104 Stat. 4806, Sec. 226.
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trabili tra i vari statuti, uno dei più articolati dei quali è il Child and Family Service Act attivo in Ontario, tutti prevedono un’apposita sezione diversamente titolata – ad esempio, “Duty to report need for protection” (“Dovere di segnalare lo stato di bisogno”, t.d.r.) in British Columbia, “Duty to report” (“Dovere di segnalare”, t.d.r) in Ontario e Sakatchewan o “Reporting child in need” (“Segnalazione dello stato di bisogno di un minore”, t.d.r.) in Alberta – la quale sancisce il dovere da parte di ogni persona di informare le forze dell’ordine delle situazioni nelle quali un minore sia ritenuto in stato di bisogno e stabilisce che nessuna azione o procedimento venga intrapreso contro tali soggetti, fatti salvi i casi nei quali questi ultimi abbiano agito con malizia oppure, per alcuni degli statuti, senza motivi ragionevoli a fondamento del sospetto9. Quindi i prerequisiti per l’immunità legale nei confronti dei soggetti “segnalatori”, inclusi coloro che svolgono mansioni professionali o ufficiali nei confronti dei bambini, consistono nella presenza della buona fede e di fondati motivi a supporto del sospetto. Analogamente al Canada, anche in Australia, in mancanza di un approccio coordinato a livello nazionale, ciascuno stato e territorio ha legiferato in materia di protezione dei minori e di benessere della famiglia, con il risultato di una diversificazione normativa sul territorio australiano riguardo vari aspetti, come la definizione dei soggetti obbligati a inoltrare l’informativa alle autorità governative oppure dei tipi di maltrattamento da segnalare. Tuttavia, un aspetto comune a tutte le giurisdizioni riguarda le forme di protezione offerte nei confronti di coloro che segnalano, come il diritto all’anonimato e, qualora la segnalazione sia stata fatta in buona fede, l’immunità dalla responsabilità in ogni procedimento penale, civile o amministrativo. Pertanto, in accordo ai dettami normativi di tutti gli stati federali menzionati, il richiamo alla buo-
“This section applies although the information reported may be confidential or privileged, and no action for making the report shall be instituted against a person who acts in accordance with this section unless the person acts maliciously or without reasonable grounds for the suspicion”. Cfr. R.S.O. 1990, c. C.11, s. 72 (7); 1999, c. 2, s. 22 (4).
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na fede è il comune denominatore per accedere all’immunità10. Sul suolo nazionale, come nella maggior parte dei paesi di lingua non anglosassone, le leggi non prevedono esplicitamente forme di protezione nei confronti dei soggetti obbligati alla segnalazione. La giurisprudenza italiana, esprimendosi in materia di danni da accusa ingiusta, ha comunque ravvisato nella buona fede di colui che inoltra la denuncia il discrimine per riconoscere la risarcibilità del danno attribuito alle conseguenze di un’accusa rivelatasi poi infondata. Infatti, si è consolidato il principio secondo cui la denuncia di un reato perseguibile d’ufficio non è fonte di responsabilità per danni a carico del denunciante, ai sensi dell’art. 2043 c.c., anche in caso di proscioglimento o di assoluzione, se non quando essa possa considerarsi calunniosa, poiché, al di fuori di tale ipotesi, l’attività pubblicistica dell’organo titolare dell’azione penale si sovrappone all’iniziativa del denunciante, interrompendo così ogni nesso causale tra tale iniziativa ed il danno eventualmente subito dal denunciato. In altri termini, la conditio sine qua non affinché possa sussistere il diritto al risarcimento consiste nel dimostrare non solo che l’accusa è ingiusta ma anche che l’accusatore fosse convinto dell’innocenza dell’accusato. In caso contrario, il denunciante risponderebbe del delitto di calunnia. Sul punto si è espressa in modo conforme anche la Cassazione civile11 .
Con tale nozione si può fare riferimento, per analogia con le accezioni dei disposti degli artt. 1147 (“Possesso in buona fede”) e 1175 (“Comportamento secondo correttezza”) del Codice Civile che regolano la materia contrattuale, ad uno stato mentale del soggetto che “ignora” di ledere un altrui diritto e che modella il proprio comportamento alle regole di lealtà, onesta e correttezza. 10
Nel ricorso per Cassazione da parte un uomo, la cui richiesta di risarcimento dei danni cagionati da una denuncia ricevuta per molestie sessuali, poi rivelatasi infondata, era stata rigettata nei precedenti gradi di giudizio, la Cassazione – Cass., 11.12.2014 – 20.3.2015, n. 5597 – rigettava il ricorso, confermando, in linea con le sentenze già proclamate, la mancanza del nesso causale tra la segnalazione, ritenuta legittima, e le conseguenze sulla vita del ricorrente. Chiarisce ancora la Cassazione (Cass., 12.1.2012, n. 26) che “il mero fatto di avere sollecitato l’iniziativa del pubblico ministero denunziandogli gravi irregolarità rivelatesi poi insussistenti non costituisce, di per sé, fonte di responsabilità per danni, 11
Segnalazione all’A.G. per sospetto maltrattamento su minore
5. Quando riconoscere la responsabilità del professionista per errata segnalazione La giurisprudenza sopra richiamata, in quanto riferita ad un ambito estraneo a quello medico, non ci esime dall’interrogarci se possa profilarsi un’ipotesi di responsabilità professionale e, conseguentemente, se sussistano gli estremi per riconoscere la risarcibilità del danno ad essa correlato, qualora il professionista sanitario decidesse di inoltrare la segnalazione e, all’esito delle indagini esperite dall’autorità giudiziaria, le ipotesi da lui formulate venissero meno. A nostro avviso la risposta a tale interrogativo deve essere negativa, proprio per le difficoltà che la diagnostica in questa delicata materia prospetta. Non solo quando si giunga a porre diagnosi, ma anche quando solo si ponga il sospetto di un maltrattamento o di una situazione di grave trascuratezza, questo non può che condurre alla decisione di inoltrare la segnalazione all’autorità giudiziaria penale, civile o, a seconda dei casi, ad entrambe. Oltre alle argomentazioni già esposte non va trascurato, inoltre, il fatto che taluni dei motivi di incertezza relativi all’interpretazione dei quadri clinici e delle loro cause possono trovare risposta solo grazie ad indagini non esperibili dai professionisti sanitari, trattandosi di attività (ad esempio intercettazioni ambientali, sopralluoghi giudiziari, indagini di polizia) che possono essere disposte e coordinate solo dall’autorità giudiziaria. Fermo restando quanto sopra, una contestazione non infondata sull’erroneità della segnalazione potrebbe essere talora ravvisata solo quando il dubbio relativo alla natura del quadro clinico da valutare, se da condotte maltrattanti o meno,
ove non ricorrano gli estremi dell’addebito calunnioso, estremi che presuppongono il dolo, non essendo sufficiente la colpa”. Infatti, la minaccia di una responsabilità fondata sulla colpa, avrebbe l’effetto – secondo quanto sostenuto dalla Suprema Corte (Cass., 20.10.2003, n. 15646) – di scoraggiare le denunce, privando l’istituto stesso di significato sul piano pratico, essendo normalmente prevedibile una disparità di valutazioni giuridiche tra il denunciante, anche il più esperto, e gli organi istituzionalmente deputati al vaglio della fondatezza o meno della notitia criminis.
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sia agevolmente superabile attraverso un idoneo approfondimento diagnostico percorribile sulla scorta di un’esigibile competenza professionale. Più chiaramente se dinanzi ad una qualche manifestazione di deviazione della norma dell’esame obiettivo/strumentale possa apparire controverso se quanto riscontrato sul bambino sia riferibile ad una causa traumatica da lesioni etero-inferte, ovvero ad una patologia naturale, è doveroso che il professionista provveda autonomamente a dirimere il quesito diagnostico, senza coinvolgere l’autorità giudiziaria. Qualora, ad esempio, dinanzi al riscontro di un quadro plurifratturativo sul neonato possa porsi il dubbio circa la natura delle fratture, se causate da terzi ovvero se legate a patologia intrinseca del tessuto osseo (tipo da osteogenesi imperfetta), la metodologia di approccio non può che essere quella tutta interna alla clinica, risultando non condivisibile l’inoltro della segnalazione all’autorità giudiziaria prima di aver chiarito la diagnosi (salvo che i genitori non oppongano resistenza al completamento dell’iter diagnostico). Analogamente, in caso di grave defedamento del bambino, è pacifico che l’attenzione del professionista dovrà essere rivolta prioritariamente a ricercare le possibili cause organiche naturali, potendosi profilare l’ipotesi che lo scadimento delle condizioni cliniche del piccolo paziente sia l’espressione di un inadeguato accudimento parentale solo a conclusione del percorso di valutazione clinica. Un grave inadeguato accudimento può essere riconosciuto, ad esempio, in caso di regimi alimentari drasticamente restrittivi imposti al bambino dalla famiglia sull’onda di scorrette convinzioni dietetiche, oppure, sempre per citare situazioni di non rara osservazione e di cui abbiamo avuto diretta esperienza, per incongruo ricorso a pratiche non convenzionali adottate per patologie necessitanti di un approccio terapeutico validato ed efficace, ma rifiutato dai genitori anche a seguito di un’esaustiva informazione sulla gravità delle conseguenze che potrebbero derivare al bambino. In queste evenienze, dove l’incertezza incombe sulla vicenda clinica e il ventaglio di ipotesi diagnostiche comprende anche l’ipotesi del maltrattamento al bambino o dell’incuria grave determinata da genitori non tutelanti, la priorità del professionista deve essere quella di Responsabilità Medica 2018, n. 4
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dirimere il dubbio sulle cause che determinano la sofferenza del bambino, essendo questa un’attività doverosamente preliminare alla eventuale segnalazione. Nelle altre situazioni problematiche alle quali abbiamo fatto cenno, quando al compimento di un percorso clinico ragionato permangano dubbi, la ragione dell’agire del medico dovrà trovare fondamento sul ponderato bilanciamento dei rischi e benefici, come in ogni altra situazione professionale. I rischi di una mancata segnalazione “in difetto”, sono rappresentati dal fatto che il bambino potrebbe andare incontro a conseguenze morbigene o, addirittura, letali, per non essere stato sottratto alla convivenza con adulti maltrattanti; di contro, la segnalazione “in eccesso”, pur non scevra di conseguenze penose per quel contesto familiare che si trovi immotivatamente coinvolto in un percorso di valutazione generato dall’ipotesi di maltrattamento, è comunque giustificata a tutela del bambino.
6. Verso una conclusione Uno strumento per consentire di valutare a posteriori, in caso di richiesta di risarcimento, la condotta del professionista, è rappresentato dalla documentazione sanitaria. È pertanto auspicabile, anche nella prospettiva di dover far fronte a possibili contestazioni, non solo un’accurata tenuta della stessa, che potrà dare testimonianza della effettiva correttezza del percorso diagnostico posto in essere, ma anche redigere accurate segnalazioni. L’utilizzo di modulistica prestampata ed uniforme a supporto della segnalazione, mal si presta a corrispondere a questa esigenza di accuratezza. Il suggerimento che ci sentiamo di avanzare, in base all’esperienza maturata nella gestione di questa complessa casistica, è quella di redigere segnalazioni supportate da un’esposizione motivata ed argomentata, sia nel referto/denuncia sia nella informazione alla Procura presso il Tribunale per i Minorenni, anche relativamente agli elementi di dubbio e alle ragioni che non hanno permesso di pervenire ad una chiarificazione e ad una definizione diagnostica. Un ulteriore suggerimento consiste nell’adottare, come momento preliminare alla trasmissione dell’informativa all’autorità giuResponsabilità Medica 2018, n. 4
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diziaria, una modalità di approccio che preveda la condivisione del dubbio e il confronto con altri possibili osservatori che possano contribuire alla diagnosi e orientare sulla scelta della segnalazione. In questa materia, che richiede un’approfondita conoscenza del problema e l’acquisizione di una professionalità sempre più attenta e capace di discriminare tra quadri che devono suscitare allarme, la lettura del caso in équipe potrà auspicabilmente portare ad agire con modalità tali che riescano a soddisfare le esigenze di addivenire ad un sospetto sufficientemente fondato e, nel contempo, a non spostare sul piano della valutazione degli organi giudiziari situazioni di esclusiva competenza clinica. Pur avvalendosi della propria sensibilità individuale si deve senz’altro evitare di affidarsi troppo – o, peggio, solo – ad incerte sensazioni, per decidere se è il caso di segnalare o meno. In questa materia, dove sono fondamentali dapprima una disponibilità una disponibilità interiore a vedere e capire e, poi, sollecitudine, capacità professionale e prudenza, non è possibile pensare di poter risolvere l’incertezza decisionale con la formula delle “linee guida” poiché, in questo peculiare contesto, non esistono flow-charts di semplice applicazione, chiari percorsi predefiniti né ottimali soluzioni preconfezionate. Esistono però buone pratiche clinico-assistenziali, riconoscibili in una condotta professionale sollecita nel farsi carico dell’approfondimento diagnostico con attenzione e costante disponibilità a cercare, di volta in volta, la soluzione più congrua confrontando le proprie osservazioni in un contesto pluridisciplinare e, qualora si pervenga alla decisione di segnalare il caso all’autorità giudiziaria, nell’adottare modalità di segnalazione che rendano espliciti i motivi che l’hanno supportata.
r o t Osservatorio medico-legale a Osservatorio medico-legale er v ico s d le s e o Qualità documentale, m ga le peculiarità del metodo ed unitarietà delle scienze medicolegali Fabio Cembrani
Direttore U.O. di Medicina Legale, Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento Sommario: 1. Le scienze medico-legali e l’unitarietà del metodo. – 2. Materiali e metodi. – 3. Risultati. – 4. Conclusioni.
Abstract: Anche le scienze medico-legali hanno risentito della frammentazione del sapere scientifico nonostante la peculiarità del metodo: metodo sul quale riflette l’Autore a partire dalla qualità documentale di un Servizio di medicina legale pubblico. Qualità su cui bisogna interrogarsi perché l’oggettività e la riproducibilità sono le coordinate irrinunciabili delle scienze medico-legali. Even the Medico-legal sciences have resented the fragmentation of scientific knowledge despite the peculiarity of the Method: method on which it reflects the author from the documentary quality of a public legal medicine service. Quality on which it is necessary to question why objectivity and reproducibility are the indispensable coordinates of the Medical-legal sciences.
1. Le scienze medico-legali e l’unitarietà del metodo La complessità delle scienze medico-legali, amplificata dallo sviluppo delle conoscenze, dai progressi della tecnica diagnostica e dalle grandi opzioni della genetica come ben sanno i cultori del diritto che di queste nuove opportunità si av-
valgono quali mezzi di prova, rende oggi difficile offrirne una configurazione unitaria. Molteplici sono, infatti, gli spazi applicativi del nostro sapere scientifico che ha gradualmente interessato, a partire dall’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale (legge n. 833/1978), anche i diritti umani e la protezione sociale delle persone più fragili che merita una più attenta considerazione in un tempo di profonda crisi sociale. Ciò nonostante, come ha ben osservato il Gerin1 oltre mezzo secolo fa, è “la peculiarità del metodo che imprime alla medicina legale una organica unità di scienza autonoma e che fa della stessa pratica medico-forense una materia armonica ed unitaria”, pur ammettendo che gli interessi degli studiosi si siano prevalentemente focalizzati, in questi ultimi anni, sulla fenomenologia del nesso causale nel tentativo di dare una soluzione alle questioni attinenti alla causalità differenziata, note ai molti di noi che si occupano di attività medico-forense e di responsabilità professionale. Rivoluzionandone il metodo, come ripetutamente auspicato dai penalisti italiani2, anche se il dibat-
Gerin, La medicina legale nei suoi momenti storici e nel suo sistema, in Zacchia, 1949, 1. 1
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Per tutti Stella, Giustizia e modernità. La protezione
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tito scientifico si è gradualmente allontanato dalla ricerca del dato clinico e dalla sua rigorosa interpretazione finalizzata alla sua riproducibilità ed inconfutabilità3. Caratteristiche, queste, cui non possono certo sottrarsi i nostri saperi disciplinari, ferma restando salda l’esigenza di rinsaldare l’unitarietà del metodo scientifico per rilanciare l’esigenza di una scienza medico legale basata sull’evidenza, ovverosia “su scale e valori oggettivi e confrontabili di cui la nostra Disciplina è da secoli depositaria”4 e sulla misura dei suoi indicatori di qualità. Non solo nell’ambito forense ma anche riguardo alle attività medico-legali proprie del Servizio Sanitario Nazionale: un campo da sempre poco considerato negli interressi accademici, agitato da violentissime tempeste di sabbia su cui si è poco riflettuto (ad es. il passaggio di molte competenze valutative dalle Aziende Sanitarie Locali all’Istituto previdenziale che ha creato un solco profondissimo nella presa in carico globale della persona) e che non ha mai trovato una sua condivisa struttura identitaria per cause diverse, di cui ci dobbiamo comunque assumere una buona parte di responsabilità. Tra questi indicatori di qualità un posto di prim’ordine è quello assunto dalla qualità documentale perché se è pur vero che spesso, nelle aule di giustizia, siamo noi a censurare i difetti, le omissioni e le incoerenze delle Cartelle cliniche esaminate nella ricostruzione della qualità dei comportamenti professionali tenuti dai Colleghi sottoposti ad indagine, vero è, altrettanto, che la nostra capacità di autoanalisi interna non ha sicuramente brillato nel riconoscerne pregi e difetti da presidiare anche nella formazione accademica. Nonostante la qualità documentale sia un’esigenza prioritaria di ogni struttura clinica, anche di quelle che non si occupano direttamente della cura delle persone; il che è anche per il nostro ambito disciplinare che, occupandosi della stima del danno alla persona nei diversi ambiti previsti dall’attuale sistema
Osservatorio medico-legale
di protezione sociale, pretende la redazione accorta e completa dei supporti usati a corredo della valutazione e dalla cui lettura sia ricostruibile, anche ex post, il percorso seguito per addivenire alla sua quantificazione. Non solo per tracciare quanto avviene nei nostri ambulatori sempre più radi registrando i dati anamnestici e clinici di ogni persona ma per dare ad ogni decisione assunta quel carattere di riproducibilità necessario ad evitare i contenziosi e le criticità che possono verificarsi anche nel nostro settore disciplinare: un ambito dove le responsabilità non si esauriscono certo nel pur sempre possibile danno all’erario dello Stato prodotto da decisioni non in linea con i vincoli normativi. Come conferma, peraltro, la legge Gelli-Bianco nella parte in cui viene definito l’ambito delle prestazioni sanitarie ricomprendendo in esso tutte le prestazioni “con finalità preventive, diagnostiche, terapeutiche, palliative, riabilitative e di medicina legale” (art. 5, comma 1°). Perché sui diritti negati5 qualche riflessione la si dovrà pur finalmente fare, sia pur tenendo conto della grave crisi economica che sta attraversando il nostro Paese e la cui soluzione sembra essere ancora lontana a causa di variabili esterne (interessi degli investitori e della Banca Centrale europea), difficilmente comprensibili nelle loro reali intenzioni.
2. Materiali e metodi Per verificare lo stato della nostra qualità documentale interna sono state selezionate, in maniera randomizzata, 150 Cartelle cliniche6 relative ad accertamenti medico-legali dell’invalidità civile effettuati, nel corso del 2018, dai Dirigenti medici dell’U.O. di Medicina Legale dell’Azienda provin-
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dell’innocente e la tutela delle vittime, Milano, 2003. Barni, Evidence-Based Medicine e Medicina legale, in Riv. it. med. leg., 1998, 3 ss. 3
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Cfr. Barni, ibidem.
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Si veda Rodotà, Il diritto di avere diritti, Roma-Bari, 2003.
La nostra Cartella clinica, non ancora informatizzata, è stata predisposta su un format in cui, oltre ai dati identificativi della persona ed all’esplicitazione del motivo della visita medica, sono presenti in successione questi campi: dopo la raccolta anamnestica, la soggettività clinica riferita dall’interessato, l’obiettività semeiologica distinta per organi ed apparati, le scale di valutazione multiassiale usate, la diagnosi (epicrisi) clinica e la valutazione medico legale espressa in forma percentuale per le sole persone in età lavorativa.
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Scienze medico-legali e unitarietà del metodo
ciale per i Servizi sanitari di Trento verificando, per ciascuna di esse, 6 indicatori: (1) la leggibilità della scrittura; (2) la completezza della raccolta anamnestica e dell’esame clinico; (3) la compilazione delle scale multi-assiali usate in età evolutiva e negli anziani over 65enni; (4) la coerenza tra l’esame clinico ed i valori numerici riportati in queste scale; (5) la qualità della diagnosi (epicrisi) medico-legale; (6) la conformità del giudizio valutativo, tenuto naturalmente conto, per le persone in età lavorativa, dei riferimenti tabellari contenuti nel decreto ministeriale approvato nel 1992. L’esplorazione dei primi 5 indicatori è avvenuta esprimendo un sintetico giudizio qualitativo a tre graduazioni (insufficiente, sufficiente e buono); per l’ultimo indicatore, invece, un giudizio di compatibilità o di non compatibilità formulato, naturalmente, sulla scorta dei precedenti perché una buona valutazione medico-legale deve essere sempre supportata dall’insieme (strutturato ed omogeneo) dei dati necessari a poterla non solo oggettivare ma anche riprodurre. I giudizi qualitativi sono stati espressi dopo aver esaminato, oltre alla Cartella clinica, tutta la documentazione sanitaria contenuta nel fascicolo cartaceo reperito nell’archivio corrente, sia quella allegata alla domanda presentata dal singolo assistito sia quella raccolta dal sanitario incaricato della visita medica. I risultati delle verifiche sono stati così annotati su un foglio Excel per essere elaborati in forma grafica e poi trasmessi, in forma riservata, ad ogni Dirigente medico con un commento complessivo organizzando successivamente un incontro per condividere i risultati del lavoro realizzato nell’ottica del miglioramento continuo della qualità documentale interna.
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Tabella 1: Qualità documentale: leggibilità della Cartella clinica
La sua analisi dimostra che esiste ancora un problema di leggibilità delle grafie dei professionisti che potrà essere definitivamente risolto con l’informatizzazione della Cartella clinica. Sono, soprattutto, i medici con più anzianità di servizio e con incarichi di lavoro extra moenia che hanno grafie di difficile ma non impossibile lettura per cause probabilmente diverse tra le quali i tempi ristretti assegnati alla visita medica (appuntamenti scansionati ogni 30 minuti). L’alternanza in Cartella clinica di grafie diverse è un’altra criticità riscontrata nell’ipotesi in cui la visita medica è stata effettuata da un organo tecnico a composizione pluridisciplinare alla quale occorre ovviare presidiando la tracciabilità dei professionisti che si alternano nella fase della sua compilazione. Nella tabella 2 sono, invece, riportati gli esiti dei controlli effettuati riguardo alla completezza dell’esame anamnestico e di quello clinico. Tabella 2: Qualità documentale: completezza dell’esame anamnestico e di quello clinico
3. Risultati Nella tabella 1 sono visualizzati i risultati dei controlli di qualità effettuati riguardo la leggibilità della Cartella clinica, differenziando quelle di agevole lettura da quelle di difficile ma non impossibile lettura e da quelle non pienamente decifrabili. La sua analisi dimostra che la raccolta di questi dati è avvenuta nella quasi totalità dei casi (91%) in maniera attenta e completa anche se margini Responsabilità Medica 2018, n. 4
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di miglioramento ci sono nella raccolta anamnestica indicando sempre la fonte dell’anamnesi e non esaurendola in un elenco di fatti e di eventi spesso tra loro non in successione cronologica. Un’altra criticità da presidiare è quella dell’incompletezza dell’esame obiettivo annotato in Cartella clinica dagli specialisti nell’ipotesi in cui l’accertamento dell’invalidità civile è avvenuto contestualmente a quello di altri ambiti di tutela assistenziale. In una sola Cartella clinica l’esame obiettivo è stato completamente omesso dopo la raccolta anamnestica per motivi non ricostruibili a posteriori, a conferma che la documentazione clinica deve sempre essere rivista accuratamente prima dell’epicrisi medico-legale e della valutazione finale prevedendo anche dei blocchi informatici nell’ipotesi della loro incompletezza. Nella tabella 3 sono riassunti i risultati dei controlli effettuati riguardo alla compilazione delle scale di valutazione multi-assiale usate in ambito pediatrico-evolutivo (orientate lungo la direzione proposta dalla classificazione internazionale ICF-CY dell’Organizzazione Mondiale della Sanità) e di quelle previste dalla Giunta provinciale di Trento per la valutazione dell’invalidità civile nelle persone anziane over 65enni (ADL7, ADL-Barthel8, MMSE9 e CDR10): scale che consentono di meglio e più opportunamente graduare l’impairment funzionale non solo sul piano descrittivo nell’età evolutiva ma anche su quello della graduazione numerica della non autosufficienza nel caso di persone over 65enni.
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Tabella 3: Qualità documentale: compilazione delle scale multi-assiali
L’esame della tabella dimostra che nelle Cartelle cliniche controllate queste scale valutative sono compilate con precisione e regolarità a completamento di ogni esame obiettivo, sia pur con qualche criticità che deve essere meglio presidiata. Tra esse: la correzione manuale degli indici (descrittivi o di gravità) della scala fatta estemporaneamente e senza dar conto dei motivi che hanno suggerito la modifica; e, in qualche caso però isolato, la mancata compilazione dei multi-asse utilizzati per la valutazione funzionale della disabilità in età evolutiva. Nella tabella 4 sono riassunti i dati dei controlli effettuati riguardo alla coerenza tra l’esame clinico e le scale di valutazione multi-assiale usate per la graduazione funzionale della disabilità. Tabella 4: Qualità documentale: coerenza tra esame clinico e multi-asse
Questa scala, usata da molto tempo in ambito geriatrico e riabilitativo, indaga alcune dimensioni dell’autonomia personale (alimentazione, igiene personale, vestizione, uso del WC, la continenza urinaria e quella fecale).
7
Questa scala indaga la possibilità di movimento negli ambienti di vita esplorando l’autonomia della deambulazione, nel cambiamento delle posture e nella salita/discesa di scale.
8
Test usato, nel setting neurologico e psico-geriatrico, per lo screening dei disturbi neurocognitivi maggiori.
9
Scala usata, in ambito psico-geriatrico, esplora alcuni domini funzionali cognitivi e, più in particolare, la memoria, l’orientamento temporo-spaziale, il problem solving, l’ambito delle attività sociali, la cura personale, le attività della vita domestica e quelle relazionali. 10
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La sua analisi dimostra che c’è una buna coerenza interna (93%) tra l’esame clinico e gli indicatori descrittivi e numerici di queste scale sia pur con qualche criticità che occorre correggere evitando, sempre, la loro compilazione antecedente alla
Scienze medico-legali e unitarietà del metodo
raccolta dell’esame clinico-obiettivo che potrebbe essere negativamente condizionata dal riferito, non sempre attendibile, fornito dai familiari della persona che, spesso, ipertrofizzano per evidenti ragioni le ricadute della disabilità sui bisogni assistenziali della medesima. La tabella 5 riassume la qualità dell’epicrisi medico-legale verificata sul piano dell’espressione funzionale, rinunciando a formule cliniche astratte e poco adatte ad esprimere il reale disfunzionamento della persona nei diversi contesti di vita, compresi quelli scolastici e di lavoro. Tabella 5: Qualità documentale: epicrisi medico-legale
La sua analisi dimostra la discreta tenuta qualitativa dell’epicrisi diagnostica con qualche criticità evidenziata rispetto all’utilizzo di acronimi non sempre facilmente decodificabili (IPB, PM, BPCO, ecc.) e all’espressione funzionale dei quadri invalidanti, soprattutto di quelli visivi e dell’apparato respiratorio che devono essere meglio e più opportunamente descritti sul piano della disfunzione funzionale. Nella tabella 6 si riassume, infine, l’indice di conformità delle Cartelle cliniche esaminate, ovverosia la tenuta complessiva del giudizio medico-legale espresso a conclusione della visita medica.
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Tabella 6: Qualità documentale: conformità e non conformità della valutazione medico-legale dell’impairment
La sua analisi dimostra la buona qualità documentale interna con alcuni margini di miglioramento e con due sole situazioni di non conformità della valutazione medico-legale: la prima relativa al caso in cui è stato completamente eluso, dopo la raccolta anamnestica, l’esame clinico-obiettivo e la compilazione delle scale di valutazione multiassiale con conseguente impossibilità di capire sulla base di quali obiettivi elementi fattuali è stato espresso il giudizio finale; il secondo, meno grave, è quello di una sottovalutazione del giudizio valutativo (invalidità inferiore ad un terzo) formulato riguardo ad un’assistita affetta da una neoplasia della tiroide trattata con intervento chirurgico e cicli ripetuti di terapia con radioiodio. Nella tabella 7 sono riportati i risultati complessivi delle verifiche effettuate sulle 150 Cartelle cliniche selezionate in modalità randomizzata. Tabella 7: Qualità documentale: risultati complessivi Verifica documentale UOM 2018 – Analisi 150 casi
La sua analisi conferma la sostanziale buona qualità documentale interna anche se i margini di miglioramento esistono come in tutti i processi di Responsabilità Medica 2018, n. 4
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qualità in cui il teorico atteso (100%) è una linea che esprime un traguardo a tendere, mai raggiungibile per tutta una serie di fattori (intrinseci ed estrinseci) che condizionano ogni processo di lavoro.
4. Conclusioni La buona qualità documentale è un’esigenza prioritaria di ogni struttura che si approccia alla salute delle persone, anche di quelle – come la nostra – che non si occupano direttamente della diagnosi e cura ma della valutazione del danno alla persona e della sua tutela sociale. Esplorarla sistematicamente è un’esigenza prioritaria per una Medicina Legale basata sull’evidenza di scale e valori la cui oggettività e riproducibilità sono le condizioni che conferiscono al metodo quell’unitarietà oggi messa in tensione dal frazionamento disciplinare. Riconoscendo i nostri pregi e presidiando i nostri difetti perché la qualità è una faccenda molto seria che non può essere affrontata con quell’auto-referenzialità che spesso si annida anche nel nostro variegato mondo. Non farlo servirebbe solo a indebolire la peculiarità del metodo con le sue regole cautelari di buona condotta che conferiscono alla Medicina Legale lo statuto di una scienza ancora autonoma.
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r o t Osservatorio normativo e internazionale a Osservatorio normativo e internazionale er v ivo t s a s o rm zio Intelligenza artificiale e o a n n responsabilità in ambito medico: r e t n i la prospettiva statunitense Nicola Brutti
Professore nell’Università di Padova
Abstract: Il contributo si sofferma sull’influenza dell’intelligenza artificiale in ambito medico, con specifico riferimento al tema della responsabilità civile. Negli Stati Uniti, in particolare, sta crescendo il dibattito sui migliori modelli di responsabilità. Un’alternativa tra colpa medica e responsabilità da prodotti difettosi è all’ordine del giorno. Quest’ultima sembra essere preferibile, ma, a seconda di come la intendiamo, potrebbe presentare rilevanti costi per le imprese produttrici, ponendo a rischio i benefici derivanti dall’innovazione tecnologica. In tal senso, un approccio di law and economics può contribuire a valutare i costi da incidente e le differenti modalità di allocazione-internalizzazione. The article focuses on the influence of the artificial intelligence on the healthcare field with specific reference to the issue of civil liability. A debate about the best models of liability is growing especially in the United States. An alternative between medical malpractice and product liability seems to be at stake therein. The latter appears to be the most suitable one, but, depending on how we intend it, could present significant costs for the manufacturers, threatening the benefits flowing from technological innovation. A law and economics approach can help either way to evaluate accident costs and different options of allocation-internalization.
Tra i temi di notevole impatto nel dibattito giuridico interdisciplinare e comparatistico, spicca il problema del crescente impiego dell’Intelligenza Artificiale (Artificial Intelligence, o, per comodità,
AI) in attività tradizionalmente riservate all’uomo, tra cui spicca la professione medica1. Immaginiamo un dispositivo digitale dotato di sensori e di una potentissima memoria basata sul Cloud computing, posto in condizioni di esaminare e qualificare oggetti, interagire e comunicare con esseri umani, elaborare informazioni e fornire responsi sulla base dell’analisi dei dati acquisiti, e, nei casi più avanzati, dotato di una capacità di autoapprendimento-miglioramento. Come in altri ambiti, nei quali l’algoritmo va sostituendosi all’attività analitico-decisionale umana, uno su tutti l’automobile senza guidatore (driverless car), l’attore umano tende apparentemente, se non ad uscire di scena, a veder ridotta notevolmente l’incidenza del proprio operato2. Forse potremmo già obiettare che non è esattamente così: in questi casi l’intervento umano (la sua impronta), lungi dal passare in secondo piano, sarebbe solo più difficile da rintracciare. Una cosa è certa: tutto ciò non può non avere riflessi molteplici, di carattere etico, sociale, giuridico. Quanto ai profili etici, che lascerò per il momento da parte e che
L’argomento è stato oggetto di alcuni recenti articoli sul quotidiano Il Sole 24 ore, tra cui si segnalano: Gianguagliano, Sanità, l’intelligenza artificiale per le cure del futuro; Corbellini, Se il robot è meglio del medico, entrambi consultabili all’indirizzo: www.Ilsole24ore.com. 1
In tema vedi: Rapaczynski, Driverless Cars and the Much Delayed Tort Law Revolution (2016) 540 Columbia Law and Economics Working Paper 36; Davola, Pardolesi, In viaggio col robot: verso nuovi orizzonti della r.c. auto (“driverless”), in Danno e resp., 2017, 616 ss. 2
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formeranno oggetto di riflessione in altra sede, uno dei dilemmi su cui si dibatte è se, e fino a che punto, valga la pena sacrificare la riservatezza dei dati medici, sul piatto del contributo all’evoluzione dei sistemi di AI. Ancora, in base a quali parametri etici la macchina effettuerà la propria scelta in situazioni critiche che impongono di sacrificare uno o più interessi in conflitto, ugualmente sensibili? Le macchine non sono in grado di introdurre, da sé, meccanismi perequativi tra situazioni di diseguaglianza, ma spesso – se la valutazione umana non provvede in tal senso – possono giungere a penalizzare soggetti già svantaggiati, ritenendoli meno affidabili, portatori di rischio etc. Come decidere in presenza di simili dilemmi? Nel contesto statunitense – di cui mi occuperò – si nota come possano già da tempo riconoscersi alcune aree di incidenza particolarmente significative. Basti pensare alla chirurgia cardiovascolare dove alcuni dispositivi sono in grado di sostituire l’uomo per effettuare operazioni sulla superficie del cuore e all’interno delle arterie con straordinaria precisione3. Altro esempio è quello delle ostetriche virtuali che interagiscono con la partoriente, monitorandone e guidandone alcune fasi del travaglio. Il raggio d’azione, per ridimensionare quanti lamentano la gravità della carenza di empatia delle macchine, giunge persino alla psichiatria ed alla diagnosi e al trattamento dei disturbi mentali4. Inoltre, se si guarda anche più in piccolo, gli smartphone sono in grado di effettuare diagnosi in base a foto ad alta risoluzione scattate dallo stesso paziente, oppure possono applicare protocolli per la cura di dipendenze attraverso l’utilizzo di software e di applicazioni dedicate. In ambito anestesiologico emerge persino una questione inerente la possibile perdita di posti di lavoro a causa della notevole riduzione dei costi che l’avvento di una anestesiologia robotizzata sembra prospettare. Uno degli aspetti più delicati, su cui vorrei soffermarmi, è dato proprio
Bresnick, Top 12 Ways Artificial Intelligence Will Impact Healthcare (2018) HealthIT Analytics consultabile all’indirizzo: www.wiredfocus.com. 3
4
Ibidem.
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dall’impatto dell’AI sulle decisioni mediche. La questione principale è costituita dal graduale passaggio ad attività di carattere tipicamente umano come quella diagnostica e terapeutica. Lo scenario prospettabile è, infatti, quello di uno spazio crescente riservato all’AI nel momento della diagnosi e della terapia, rispetto all’attività discrezionale del medico. Quest’ultima si potrebbe sempre più affidare in futuro alla combinazione ed analisi statistica di più banche dati da parte di sofisticati algoritmi predittivi, muniti di funzioni di autoapprendimento. In particolare, risalta il tema della responsabilità civile (medical malpractice) per i possibili danni recati proprio nell’esercizio di tecnologie che fanno ricorso ad AI. Nel nostro caso si tratta di tentare di coglierne le interferenze con la tipica attività medica. Il problema attualmente si pone solo in modo abbastanza circoscritto ma, con l’accrescersi dell’impiego di tali dispositivi nella pratica clinica quotidiana, diverrà cruciale interrogarsi su eventuali rimedi o forme di responsabilità adeguati all’evoluzione prospettata. A meno di inattesi cambiamenti, non sembra che la responsabilità professionale possa inglobare allo stato attuale anche la prevenzione di eventuali difetti o malfunzionamenti dei dispositivi utilizzati. Per esempio, se le decisioni basate sugli algoritmi medici, ed il loro concreto funzionamento, sono in grado di sostituire la valutazione professionale umana, è lecito dubitare che i medici o le strutture ospedaliere che utilizzino tali dispositivi possano essere ritenuti responsabili in ultima istanza. Forse potrebbe residuare una responsabilità in vigilando, ma ciò implica una capacità di controllo e di sindacato dell’attività decisionale della macchina da parte del professionista che, seppur parzialmente possibile in prospettiva, sembra contraddire la stessa ratio dell’impiego dell’AI in campo medico, ovvero quella di una maggiore capacità tecnico-operativa della macchina rispetto all’uomo. Tali osservazioni farebbero spontaneamente ipotizzare una responsabilità in capo ai soggetti che abbiano prodotto l’algoritmo (non solo il produttore della macchina che eventualmente lo ingloba), dal momento che un ruolo decisivo nella causazione del danno è stato ricoperto proprio dalla loro opera. Malgrado questa prima impressione possa appa-
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rire corretta, è da verificare più attentamente se il modello di responsabilità oggettiva (strict liability) del fabbricante, tradizionalmente concepito per i prodotti difettosi, sia automaticamente applicabile anche al più complesso tema dell’utilizzo di algoritmi medici. Sembra opportuno, a tal fine, ricordare come il leading case, che rivoluzionò la responsabilità d’impresa, ossia Donoghue v. Stevenson5, impose al produttore di una bevanda di rispondere dei danni causati dall’esplosione di una bottiglietta difettosa. La responsabilità del fabbricante fu allora affermata, indipendentemente da qualsiasi negligenza accertata nella fase della produzione o della distribuzione. Fu un passaggio quasi rivoluzionario nel Tort Law, che aveva tradizionalmente preferito non imputare i costi del danno, senza dover dimostrare alcuna negligenza o colpa. L’impostazione del dibattito d’oltreoceano appare fortemente influenzata da considerazioni di Law and Economics e dal calcolo efficientistico costi-benefici cui, pertanto, si farà spesso riferimento. L’impresa, nell’ipotesi del modello di responsabilità no-fault, sarebbe indotta ad aumentare gli investimenti in precauzioni, spalmandone i costi sui consumatori. E sono tradizionalmente le imprese più virtuose a diventare i massimi custodi e supporter di quella regola, per ragioni di convenienza e non certo di astratta lealtà concorrenziale. Tuttavia, si osserva come il problema degli algoritmi medici risieda proprio, da un lato, in una loro “semi-perfezione”, rispetto all’uomo, che è difficilmente correggibile da quest’ultimo: quasi un paradosso trattandosi di automazione e calcolo. Nonostante gli investimenti nella sua realizzazione siano veramente ingenti, anche l’algoritmo più accuratamente realizzato può mantenere un margine di errore, ancorché, sempre più spesso, in misura inferiore rispetto ad uno specialista6. Ciò non toglie che, ragionando secondo i parametri indicati sopra, ed in base al rischio di impresa, l’opzione della responsabilità oggettiva per danno da prodotto
rimanga la più plausibile. Ma ciò non deve farcene trascurare i possibili costi e neppure le eventuali criticità. Per esempio, una ricerca dell’Università di Stanford ha dimostrato che un algoritmo può diagnosticare melanomi con risultati pari, e addirittura superiori, rispetto ad un esperto dermatologo7. La percentuale si aggira intorno al 75%, ma potrebbe migliorare sensibilmente con la capacità di autoapprendimento artificiale della macchina. Questi risultati sarebbero migliori rispetto a quelli osservabili nella prestazione umana. Malgrado la percentuale di successi dell’AI appaia in prospettiva migliore rispetto alla prestazione umana, in un caso su quattro (cioè 25%) vi può essere un errore nella diagnosi8. Ed è un errore i cui costi, in base al modello di responsabilità oggettiva del produttore dell’algoritmo, ricadrebbero inevitabilmente su quest’ultimo. Ciò esporrebbe l’impresa a condanne risarcitorie proprio nella percentuale del 25% delle diagnosi effettuate. Stando così le cose, i numeri indurrebbero le imprese ad abbandonare un business così rischioso, con riflessi negativi sia sui pazienti, privati dei miglioramenti potenziali nelle percentuali diagnostiche, sia sul sistema sanitario complessivo, destinato a mantenere standard inferiori a costi più elevati. Per inciso, è bene sottolineare che un’altra caratteristica dell’introduzione di algoritmi medicali sarebbe quella di introdurre significativi risparmi nella sanità in termini di tempi delle prestazioni, razionalizzazione delle diagnosi e delle terapie, e, non ultimo, graduale superamento del fenomeno della medicina difensiva. Il premier britannico Theresa May (ma anche Emmanuel Macron in Francia non è da meno) ha già annunciato un piano di massicci investimenti per introdurre queste tecnologie in maniera capillare nel sistema sanitario9.
Aa. Vv., Dermatologist-level classification of skin cancer with deep neural networks (2017) 542 Nature, 115 ss. 7
Donoghue v Stevenson [1932] UKHL 100 (26 May 1932).
Thomas, Artificial Intelligence, Medical Malpractice, and the End of Defensive Medicine (2017) Harvard Law, consultabile all’indirizzo: blogs.harvard.edu; Id., Artificial Intelligence and Medical Liability (Part II), ibidem.
Nicholson Price II, Medical Malpractice and Black-Box Medicine, in Glenn Cohen et al., Big Data, Health Law, and Bioethics, Cambridge, 2018, 295 ss.
9 Cfr. Perkins, May to pledge millions to AI research assisting early cancer diagnosis, consultabile all’indirizzo: www.theguardian.com; Pignatelli, Macron punta sull’intelligenza ar-
8
5 6
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Il problema che pare destinato a rimanere ancora insoluto è, comunque, un loro intrinseco, e perciò inevitabile, margine di insicurezza. Tuttavia, ciò non ne pone in dubbio la relativa convenienza rispetto all’attività umana, contraddistinta da una capacità operativa ed analitico-mnemonica tendenzialmente più limitata e spesso condizionata da emotività o fattori ambientali del tutto casuali, per tacere dei costi vivi che comporta. Occorrerebbe, dunque, ricercare una soluzione diversa da quella appena prospettata (responsabilità da prodotto difettoso). Se si considera che le esternalità positive connesse alla commercializzazione del prodotto intrinsecamente insicuro superano quelle negative, si dovrebbe prendere in seria considerazione l’idea di adottare criteri meno penalizzanti rispetto alla strict liability. Ma rimarrebbe il problema dei soggetti cui accollare i costi derivanti da una full compensation della vittima, ammesso che si voglia escludere di farli ricadere, alla stregua di un caso fortuito, proprio su quest’ultima. Una possibile indicazione è stata rinvenuta nel criterio che, reintroducendo un fattore orientato alla colpa, temperando così il modello no-fault puro, considera, quale standard di condotta diligente da osservare, quello di una completa informazione/disclosure dei rischi da parte dell’impresa. In caso di “unavoidable unsafe” products, cioè di prodotti caratterizzati da insicurezza inevitabile, ci si potrebbe insomma cautelare dall’eventuale responsabilità semplicemente verificando i rischi e segnalandoli all’utente10. Un parametro particolarmente autorevole è, in tal senso, il Restatement Second of Torts § 402A, comment k (1965), fonte che non equivale a diritto positivo, ma che distilla i principi ricavabili dai precedenti giurisprudenziali in ottica di applicazione uniforme a livello federale11. La responsabilità, invece di essere oggettiva, andrebbe riconnessa
tificiale, un miliardo e mezzo di investimenti, consultabile all’indirizzo: www.ilsole24ore.com.
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alla violazione di questi particolari obblighi: duty to test, duty to warn. Un temperamento che è già recepito nella prassi della responsabilità da prodotti difettosi, seppur in maniera più circoscritta. Si pensi all’ambito dei prodotti farmaceutici, caratterizzati normalmente da effetti collaterali, pericoli di reazioni allergiche o rischi per determinati pazienti o situazioni etc. L’impresa, in questo caso, può essere ritenuta responsabile solamente se non abbia correttamente effettuato adeguate sperimentazioni per stabilire la sicurezza e l’efficacia dei medicinali, oppure se abbia trascurato di apporre avvisi sui rischi connessi all’utilizzo del prodotto. Tuttavia, nel paradigma appena esaminato si riscontrano significative peculiarità, che rendono difficilmente estensibile il modello indicato. Si osserva, infatti, come sia estremamente arduo riscontrare omissione di test o di informazioni sui rischi con riferimento ai danni da algoritmi12. Questi ultimi vengono continuamente testati e i dati sono estremamente puntuali ed accurati. Vi sarebbero, quindi, scarse probabilità che le informazioni sulla percentuale di errori e complicazioni siano omesse od imprecise. Conseguentemente, diverrebbe alquanto improbabile per i pazienti riuscire a ottenere il risarcimento del danno, dato che gli standard comportamentali prescritti sono stati rispettati. L’impresa produttrice quindi sarebbe pressoché immune dai costi di eventuali errori, perché è in grado di preventivarli, con esattezza, in anticipo. In caso di algoritmi medici, insomma, anche questa soluzione, al pari delle ipotesi di responsabilità medica per colpa o di responsabilità oggettiva del produttore, sembra rivelarsi carente, seppur per altre cause. Ma se l’entità dei danni, per quanto delineabile in astratto, non è concretamente prevedibile, sarebbe giusto pretendere ugualmente che l’impresa, che ha già investito in sviluppo e controlli, si accolli anche il risarcimento dei danni inevitabili? Una soluzione positiva non passerebbe, ad ogni evidenza, il basilare test del giudice Learned Hand, secondo cui la linea di discrimine va posta laddove l’impresa abbia investito in prevenzione in misura almeno pari
Thomas, Artificial Intelligence and Medical Liability (Part II), ibidem. 10
11
Ibidem.
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12
Ibidem.
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all’entità del danno potenziale moltiplicato per la probabilità del suo verificarsi13. Ciò vorrebbe dire bloccare l’impiego di queste tecnologie per i prossimi anni sino a quando non avranno raggiunto livelli di sicurezza ad oggi inimmaginabili. Visto che la funzione deterrente della responsabilità civile sarebbe, allora, priva di spazio e che la funzione compensativa si rivelerebbe particolarmente onerosa per il produttore, avrebbe ancora senso limitarsi ad un rapporto a due (trade-off) tra quest’ultimo e il paziente? Guardando all’esperienza delle automobili senza guidatore (driverless car), si fa strada l’idea che, come la classica responsabilità civile automobilistica (in assenza di guidatore), così neppure quella da prodotto possa funzionare, quando l’ipotesi degli incidenti non possa essere ascritta indifferentemente ad un difetto del prodotto driverless car. In entrambi i casi, se si accollasse il costo dei danni automaticamente all’impresa, si rischierebbe di disincentivare la produzione, mentre, se il danno si lasciasse là dove è caduto, cioè indifferentemente sulla vittima, privandola di tutela, ciò aprirebbe una lacerante questione etica. In caso dei danni da algoritmi medici basati su AI, esistono modelli di tutela alternativi cui guardare, rispetto alla responsabilità per colpa e alla responsabilità oggettiva da assunzione del rischio. Proprio in riferimento a danni inevitabili od anonimi, si rinvengono ipotesi dove la società in senso ampio si fa carico della compensazione della vittima, come testimoniato dai classici studi di Guido Calabresi a proposito del costo dei danni da incidente automobilistico. Si tratta della possibilità di istituire fondi per le vittime di determinati eventi, ovvero di imporre l’obbligo di assicurazioni in capo alle potenziali vittime di eventi avversi, oppure ai soggetti che – a vario titolo – esercitino l’attività da cui ha tratto origine il danno. Uno degli esempi maggiormente sovrapponibili al caso di specie sembra essere quello della legislazione statunitense sui danni da vaccini14.
In effetti, sono molte le similitudini che legano la somministrazione di questi ultimi e l’impiego dell’AI. Seppure il rapporto costi-benefici giochi a favore della più ampia profilassi la cui funzione è di assoluta preminenza sociale, i vaccini riservano effetti collaterali e sono caratterizzati da un’inerente imperfezione. Altro aspetto rilevante è che gli introiti delle imprese produttrici non sarebbero sufficienti a coprire gli oneri derivanti da un’eventuale loro responsabilità per danni da prodotto, che scoraggerebbe la fabbricazione di simili farmaci, con ricadute negative di non poco momento sulla salute pubblica15. Dunque, appare utile rivolgersi alle soluzioni già adottate per la materia dei rischi da vaccinazione, al fine di sondarne l’eventuale estensibilità al settore dell’AI. Il Congresso statunitense ha istituito un fondo nazionale di compensazione per danni da vaccino (National Vaccine Injury Compensation Program, 2012)16, optando così per un’alternativa all’ipotesi della responsabilità civile da prodotto difettoso. Qui si innesta anche il dibattito su quali fonti debbano occuparsi di disciplinare questioni così delicate e caratterizzate da incertezze del rischio. In questi casi spesso rileviamo una legislazione federale che si impone sulla fonte statuale (federal preemption), prevedendo una tipologia di compensazione delle vittime che esonera al contempo da responsabilità le case produttrici. Nel leading case Bruesewitz v. Wyeth, Inc. si è stabilito, ad esempio, che le cause basate sulla responsabilità per errori di progettazione (design defects) dei vaccini sono espressamente precluse dal Vaccine Act17. Certo, sembra sempre lecito chiedersi se, e in base a quali motivi, tale accentramento decisionale federale sia preferibile ad una valutazione giuridico-assiologica di livello più decentrato, sta-
15
Ibidem.
13
16
Ibidem.
14 Thomas, Artificial Intelligence and Medical Liability (Part II), ibidem.
Bruesewitz v. Wyeth, Inc, 561 F.3d 233 (3d Cir. 2009), aff’d, 131 S. Ct. 1068 (2011) su cui vedi Davis, The Case Against Preemption: Vaccines & Uncertainty (2011) 8 Indiana Health Law Review, 295 ss.
Cfr. per una rivisitazione in chiave critica della regola: Calabresi, Hirschoff, Toward a Test for Strict Liability in Torts (1972) 81 Yale Law Journal, 1056 ss.
17
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tuale e giurisdizionale, che attinga alla common law18. In base alla norma indicata, comunque, i pazienti che alleghino al governo conseguenze pregiudizievoli risentite dopo la vaccinazione con apposita istanza, hanno diritto ad un risarcimento in via amministrativa. La somma è prelevata da un fondo alimentato con tasse di basso importo versate dagli utenti stessi al momento della somministrazione di ogni vaccino. In questo modo, medici e imprese sono esonerati dalla responsabilità per i rischi inevitabili, seppur infrequenti, rappresentati dalla vaccinazione. L’ipotesi dimostra che, invece di forzare la medicina algoritmica nel letto di Procuste di preesistenti modelli di responsabilità, si potrebbe pensare di ricorrere ad un tertium genus, imitandone le dinamiche applicative. In particolare, qualora un algoritmo fosse utilizzato nel corso di un trattamento, si propone di applicare una piccola tassa sulla prestazione medica che andrebbe ad alimentare un fondo appositamente dedicato alla compensazione dei danni19. In questo modo, si predisporrebbe una soluzione terza al problema delle responsabilità (tendenzialmente colpose) dei medici e (tendenzialmente oggettive) delle imprese produttrici. Uno dei punti sensibili per il buon funzionamento del fondo, tuttavia, è che le complicazioni collaterali e le correlative tipologie di danno siano conosciute e documentate in maniera completa in ogni loro risvolto in apposite tabelle che stabiliscano per ciascuna di esse il corrispettivo da riconoscere di volta in volta. Sicuramente, le due prospettive non combaciano perfettamente ed alcune criticità potrebbero residuare nell’adeguamento del sistema vaccinale all’AI. Le maggiori problematiche attengono all’ambito amministrativo. Il sistema del danno tabellare previsto dal fondo per i danni da vacci-
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no, ad esempio, sembrerebbe incompatibile con l’osservazione secondo la quale gli eventi avversi in caso di algoritmi medici cambiano con la costante evoluzione di questi ultimi e, dunque, non sono così facilmente catalogabili. Una possibile risposta all’obiezione sarebbe quella di costruire le tabelle in modo più elastico ed adattabile rispetto a quanto previsto in ambito vaccinale, prevedendo voci dedicate ad eventi non ancora tipizzati. Un’altra ipotesi simile, ma di più ampio respiro e che aprirebbe al libero mercato, seppur soggetto a regolazione, è quella di prevedere un’assicurazione obbligatoria per incidenti. Quest’ultimo strumento garantisce un risarcimento alle vittime di una serie di danni che rispondano a certi requisiti strutturali, tra cui quelli per incidenti automobilistici. Si tratta del sistema c.d. first party insurance, presente, ad esempio, in Nuova Zelanda e la cui efficacia, di recente anche nel caso delle Driverless Cars, è stata sostenuta da autorevoli studiosi come Guido Calabresi. Interrogarsi sull’opportunità di prevedere sistemi ad hoc per queste nuove tipologie di danni è comunque opportuno, al fine di evitare che, una volta implementate le nuove tecnologie, le prevedibili problematiche risarcitorie trovino impreparate le istituzioni ed i relativi costi siano allocati in base a strumenti e criteri inadeguati. Vi è, infine, da segnalare un ulteriore profilo che non vi è modo di approfondire in questa sede, quello delle possibili discriminazioni, in base al sesso, all’etnia, all’età etc., derivanti dal ricorso all’AI20, soprattutto per quanto attiene all’ambito medico ed assicurativo21.
Di recente, si veda, a proposito della questione degli effetti potenzialmente distorsivi che l’intelligenza artificiale potrebbe produrre sull’esercizio della libertà d’informazione, Collins, Skover, Robotica. Speech Rights and Artificial Intelligence, Cambridge, 2018, passim. 20
Calabresi, Keynote Address at the New York Univ. Annual Survey of American Law: Tort Law in the Shadow of Agency Preemption (2009) 65 N.Y.U. Annual Survey of American Law 435.
18
Thomas, Artificial Intelligence and Medical Liability, ibidem. 19
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21 Cfr. Lannquist, Ethical & Policy Risks of Artificial Intelligence in Healthcare (2018) The Future Society, consultabile all’indirizzo: www.thefuturesociety.org.
I ndice
analitico
2018
Assicurazione Impatto e prospettive pratiche della l. n. 24/2017 – Il punto di vista dell’assicuratore (di Flaviano Antenucci)....................................................................................................................pag. 31 Responsabilità medica e assicurazioni nell’esperienza comparatistica (di Francesca Benatti)........................................................................................................................ » 23 La copertura dei rischi della attività sanitaria nella legge Gelli-Bianco (di Paoloefisio Corrias)..................................................................................................................... » 119 L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria (di Mauro Paladini)........................................................................................................................... » 139 La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria, ovvero la necessità di un nuovo modello riparatorio (di Italo Partenza)..............................................................................................................................» 129 Il cumulo di indennizzo e risarcimento e la compensatio lucri cum damno (di Italo Partenza)..............................................................................................................................» 401 ***
Capacità Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile (di Fabio Cembrani, Marco Trabucchi, Luigi Ferrannini, Claudio Agostini).........................................» 235 Alcune considerazioni riguardo al trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017 (di Giuseppe Renato Gristina)...................................................................................................................» 245 Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017 (di Mariassunta Piccinni).....................................................................................................................» 249 ***
Consenso informato, autodeterminazione e DAT Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza: no ad una cura contro la persona (di Marco Azzalini).............................................................................................................................» 343 Decisione e coscienza nella relazione di cura. Quali regole a tutela delle persone? (di Camillo Barbisan)..........................................................................................................................» 341 Luci ed ombre della legge n. 219/2017 (di Chiara Bertoncello)......................................................................................................................»
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Il diritto di lasciarsi morire: l’ultima frontiera del consenso informato, nella malattia e oltre (di Mario Cardia)................................................................................................................................» 453
II
Indice analitico 2018
Violazione dell’obbligo informativo e autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione, nota a Cass. civ., III sez., 23 marzo 2018, n. 7248 (di Francesca Cerea)...........................................................................................................................» 321 La dimensione “organizzativa” del consenso informato (di Mirko Faccioli)..............................................................................................................................» 107 Alcune considerazioni in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento (di Daniela Infantino).........................................................................................................................» 381 Forma e prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017 (di Giampaolo Miotto)........................................................................................................................» 279 Le opportunità (oltre gli ostacoli) della legge n. 219/2017 (di Silvia Pari) ....................................................................................................................................» 221 Interruzione di trattamenti di sostegno vitale e sedazione palliativa profonda prima e dopo la legge n. 219/2017. L’esperienza della Sardegna (di Alessandra Pisu)............................................................................................................................» 447 La tutela del diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute. Le condizioni poste dalla Cassazione, nota a Cass., III sez., (ord.) 22 agosto 2018, n. 20885 (di Luca Russo)...................................................................................................................................» 429 Gli ostacoli della legge n. 219/2017 (di Franco Maria Zambotto)...............................................................................................................» 215 (v. anche Capacità) ***
Danni in materia civile La responsabilità per danno da farmaco a trent’anni dall’attuazione della direttiva sulla responsabilità del produttore (di Valentina Di Gregorio).................................................................................................................» 295 Decesso a causa di omessa diagnosi e danni risarcibili, un caso al vaglio del Tribunale di Milano, nota a Trib. Milano, 7 marzo 2018 (di Maria Grazia Peluso)....................................................................................................................» 331 Responsabilità sanitaria e quantificazione del danno non patrimoniale (di Anna Chiara Zanuzzi)....................................................................................................................» 171 (v. anche Emotrasfusioni ed emoderivati, Responsabilità medica) ***
Diritto comparato e legislazione straniera Intelligenza artificiale e responsabilità in ambito medico: la prospettiva statunitense (di Nicola Brutti)...............................................................................................................................» 473 Il Voluntary Assisted Dying Act 2017 dello Stato di Victoria, Australia (di Luigi Gaudino)..............................................................................................................................» 81 (v. anche Assicurazione) ***
III
Indice analitico 2018
Emotrasfusioni ed emoderivati La responsabilità del Ministero della salute per danni da emotrasfusione: i principi delle Sezioni Unite nn. 576-585/2008, a dieci anni dalle pronunce (di Matteo Turci)................................................................................................................................» 55 ***
Linee guida e buone pratiche Sicurezza delle cure, linee guida e buone pratiche nella riforma Gelli (di Carlo Scorretti)............................................................................................................................» 73 ***
Medicina legale Segnalazione all’autorità giudiziaria per sospetto maltrattamento su minore e richiesta di risarcimento dei genitori al medico refertante (di Anna Aprile e Marianna Russo).....................................................................................................» 457 Qualità documentale, peculiarità del metodo ed unitarietà delle scienze medico-legali (di Fabio Cembrani).............................................................................................................................» 467 Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale (di Massimo Montisci e Alessia Viero).................................................................................................» 223 Accertamento e valutazione medico legale della sofferenza morale (di Arianna Giorgetti, Maria De Matteis, Massimo Montisci, Alessia Viero).......................................» 349 ***
Nascita indesiderata (v. Perdita di chance) ***
Nesso di causalità Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. 24/2017). Il punto di vista, da vicino, del giudice (di Roberto Simone)............................................................................................................................» 151 ***
IV
Indice analitico 2018
Perdita di chance Omissione informativa e la chance perduta di abortire, nota a Cass. civ., III sez., 31 ottobre 2017, n. 25849 (di Maria Fontana Vita Della Corte)…..............................................................................................» 43 Errore o ritardo nella diagnosi: quanto devono essere concrete le chances perdute? (di Daniela M. Frenda).......................................................................................................................» 269 ***
Procedimento civile (v. Assicurazione, Responsabilità medica) ***
Prova civile in generale Consulenza tecnica preventiva tra conciliazione e accertamento della responsabilità sanitaria (di Francesca Cuomo Ulloa)...............................................................................................................» 355 L’apporto della regolazione amministrativa nella legge Gelli-Bianco (critiche ed auspici d’un prossimo “aggiustamento”) (di Gianluca Romagnoli).....................................................................................................................» 13 ***
Responsabilità medica 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica. Itinerari di confronto tra diritto e medicina per la tutela della salute (di Francesco Donato Busnelli)…......................................................................................................» 91 La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza (di Stefano Corso)..............................................................................................................................» 411 Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura (di Massimo Foglia)…….................................................................................................................................» 373 Diritto, diritti, vaccini. È giusto vaccinare i minori? (di Lorena Forni)................................................................................................................................» 157 La responsabilità civile del “primario” ospedaliero (di Giampaolo Miotto)........................................................................................................................» 389 Vittime della strada versus pazienti: una difficile equiparazione (di Giulio Ponzanelli).........................................................................................................................»
3
L’apporto della regolazione amministrativa nella legge Gelli-Bianco (critiche ed auspici d’un prossimo “aggiustamento”) (di Gianluca Romagnoli).....................................................................................................................» 13
V
Indice analitico 2018
La sicurezza delle cure e il ruolo dell’ingegneria clinica (di Angelo Venchiarutti e Diego Bravar)...........................................................................................» 67 I margini dell’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica (di Simona Viciani)..............................................................................................................................» 311 (v. anche Assicurazione, Danni in materia civile, Medicina legale, Nesso di causalità, Procedimento civile, Prova civile in generale) ***
Responsabilità penale Responsabilità penale per colpa professionale medica tra Legislatore e Corte di cassazione (di Salvatore Aleo).............................................................................................................................» 7 La responsabilità penale in ambito sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite. Considerazioni rapsodiche, nota a Cass., sez. un. pen., 21 dicembre 2017, n. 8770 (di Riccardo Borsari)..........................................................................................................................» 189 I difficili confini delle competenze in laboratorio: la figura del biologo, nota a Trib. Matera, 19 dicembre 2017 (di Maddalena Fascì)...........................................................................................................................» 205 Uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità penale del sanitario a quasi un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite (di Rebecca Girani).............................................................................................................................» 437
I ndice
per autori
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A Claudio Agostini (Fabio Cembrani, Marco Trabucchi, Luigi Ferrannini) - Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile.......................................................... » 235 Salvatore Aleo - Responsabilità penale per colpa professionale medica tra Legislatore e Corte di cassazione..»
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Flaviano Antenucci - Impatto e prospettive pratiche della l. n. 24/2017 – Il punto di vista dell’assicuratore............» 31 Anna Aprile (e Marianna Russo) - Segnalazione all’autorità giudiziaria per sospetto maltrattamento su minore e richiesta di risarcimento dei genitori al medico refertante............................................................................» 457 Marco Azzalini - Integrità del malato e “giuridicizzazione” della coscienza: no ad una cura contro la persona..............................................................................................................................................» 343
B Camillo Barbisan - Decisione e coscienza nella relazione di cura. Quali regole a tutela delle persone?...............» 341 Francesca Benatti - Responsabilità medica e assicurazioni nell’esperienza comparatistica...................................» 23 Chiara Bertoncello - Luci ed ombre della legge n. 219/2017......................................................................................» 217 Riccardo Borsari - La responsabilità penale in ambito sanitario nelle motivazioni delle Sezioni Unite. Considerazioni rapsodiche..........................................................................................................» 189 Diego Bravar (e Angelo Venchiarutti) - La sicurezza delle cure e il ruolo dell’ingegneria clinica..........................................................» 67 Nicola Brutti - Intelligenza artificiale e responsabilità in ambito medico: la prospettiva statunitense...........» 473 Francesco Donato Busnelli - 1958-2018: sessant’anni di responsabilità medica. Itinerari di confronto tra diritto e medicina per la tutela della salute...................................................................................................» 91
C Mario Cardia - Il diritto di lasciarsi morire: l’ultima frontiera del consenso informato, nella malattia e oltre..» 453 Fabio Cembrani - Qualità documentale, peculiarità del metodo ed unitarietà delle scienze medico-legali........» 467
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Fabio Cembrani (Marco Trabucchi, Luigi Ferrannini, Claudio Agostini) - Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile..............................................................» 235 Francesca Cerea - Violazione dell’obbligo informativo e autonoma risarcibilità del danno all’autodeterminazione...............................................................................................................» 321 Paoloefisio Corrias - La copertura dei rischi della attività sanitaria nella legge Gelli-Bianco............................... » 119 Stefano Corso - La responsabilità del chirurgo estetico tra salute e bellezza......................................................» 411 Francesca Cuomo Ulloa - Consulenza tecnica preventiva tra conciliazione e accertamento della responsabilità sanitaria............................................................................................................................................» 355
D Maria Fontana Vita Della Corte - Omissione informativa e la chance perduta di abortire............................................................» 43 Maria De Matteis (Arianna Giorgetti, Massimo Montisci, Alessia Viero) - Accertamento e valutazione medico legale della sofferenza morale........................................» 349 Valentina Di Gregorio - La responsabilità per danno da farmaco a trent’anni dall’attuazione della direttiva sulla responsabilità del produttore...................................................................................................» 295
F Mirko Faccioli - La dimensione “organizzativa” del consenso informato..........................................................» 107 Maddalena Fascì - I difficili confini delle competenze in laboratorio: la figura del biologo..................................» 205 Luigi Ferrannini (Fabio Cembrani, Marco Trabucchi, Claudio Agostini) - Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile..............................................................» 235 Massimo Foglia - Nell’acquario. Contributo della medicina narrativa al discorso giuridico sulla relazione di cura...............................................................................................................................................» 373 Lorena Forni - Diritto, diritti, vaccini. È giusto vaccinare i minori?.................................................................» 157 Daniela M. Frenda - Errore o ritardo nella diagnosi: quanto devono essere concrete le chances perdute?..............» 269
G Luigi Gaudino - Il Voluntary Assisted Dying Act 2017 dello Stato di Victoria, Australia...................................» 81 Arianna Giorgetti (Maria De Matteis, Massimo Montisci, Alessia Viero) - Accertamento e valutazione medico legale della sofferenza morale........................................» 349
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Rebecca Girani - Uno sguardo alla giurisprudenza di legittimità sulla responsabilità penale del sanitario a quasi un anno dalla pronuncia delle Sezioni Unite............................................................... » 437 Giuseppe Renato Gristina - Alcune considerazioni riguardo al trattamento dei minori nell’ambito della legge n. 219/2017............................................................................................................................................» 245
I Daniela Infantino - Alcune considerazioni in tema di dichiarazioni anticipate di trattamento............................» 381
M Giampaolo Miotto - La responsabilità civile del “primario” ospedaliero....................................................................» 389 - Forma e prova del “consenso informato” dopo la legge n. 219/2017.......................................» 279 Massimo Montisci - Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale...................................................................................................» 223 Massimo Montisci (Arianna Giorgetti, Maria De Matteis, Alessia Viero) - Accertamento e valutazione medico legale della sofferenza morale........................................» 349
P Mauro Paladini - L’azione di rivalsa nei confronti dell’esercente la professione sanitaria..................................» 139 Silvia Pari - Le opportunità (oltre gli ostacoli) della legge n. 219/2017........................................................» 221 Italo Partenza - La crisi dell’assicurazione per la responsabilità sanitaria, ovvero la necessità di un nuovo modello riparatorio................................................................................................................» 129 - Il cumulo di indennizzo e risarcimento e la compensatio lucri cum damno..........................» 401 Maria Grazia Peluso - Decesso a causa di omessa diagnosi e danni risarcibili, un caso al vaglio del Tribunale di Milano...........................................................................................................................................» 331 Mariassunta Piccinni - Prendere sul serio il problema della “capacità” del paziente dopo la l. n. 219/2017...............» 249 Alessandra Pisu - Interruzione di trattamenti di sostegno vitale e sedazione palliativa profonda prima e dopo la legge n. 219/2017. L’esperienza della Sardegna.................................................................» 447 Giulio Ponzanelli - Vittime della strada versus pazienti: una difficile equiparazione............................................»
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R Gianluca Romagnoli - L’apporto della regolazione amministrativa nella legge Gelli-Bianco (critiche ed auspici d’un prossimo “aggiustamento”)......................................................................................................» 13 Luca Russo - La tutela del diritto all’autodeterminazione in assenza di danno alla salute. Le condizioni poste dalla Cassazione...................................................................................................» 429 Marianna Russo (e Anna Aprile) - Segnalazione all’autorità giudiziaria per sospetto maltrattamento su minore e richiesta di risarcimento dei genitori al medico refertante............................................................................» 457
S Carlo Scorretti - Sicurezza delle cure, linee guida e buone pratiche nella riforma Gelli...................................» 73 Roberto Simone - Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli-Bianco (l. 24/2017). Il punto di vista, da vicino, del giudice..........................................................................» 151
T Marco Trabucchi (Fabio Cembrani, Luigi Ferrannini, Claudio Agostini) - Capacità ed incapacità al banco di prova della nuova legge sul biotestamento: i tempi della vita nel traffico di un diritto (sempre meno) gentile..............................................................» 235 Matteo Turci - La responsabilità del Ministero della salute per danni da emotrasfusione: i principi delle Sezioni Unite nn. 576-585/2008, a dieci anni dalle pronunce......................................................» 55
V Angelo Venchiarutti (e Diego Bravar) - La sicurezza delle cure e il ruolo dell’ingegneria clinica..........................................................» 67 Simona Viciani - I margini dell’autonomia prescrittiva del medico nella terapia farmacologica......................» 311 Alessia Viero (e Massimo Montisci) - Prospettive della responsabilità sanitaria alla luce della c.d. legge Gelli Bianco (L. 24/2017). L’apporto medico-legale.................................................................................................. » 223 Alessia Viero (Arianna Giorgetti, Maria De Matteis, Massimo Montisci) - Accertamento e valutazione medico legale della sofferenza morale........................................» 349
Z Franco Maria Zambotto - Gli ostacoli della legge n. 219/2017...........................................................................................» 215 Anna Chiara Zanuzzi - Responsabilità sanitaria e quantificazione del danno non patrimoniale...............................» 171