Vol. XXIX- Dicembre
Rivista di
Diritto Tributario
www.rivistadirittotributario.it
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Rivista bimestrale
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Diretta da Mauro Beghin - Pietro Boria - Loredana Carpentieri (coordinamento di direzione) Gaspare Falsitta - Augusto Fantozzi - Andrea Fedele - Guglielmo Fransoni - Salvatore La Rosa - Francesco Moschetti - Pasquale Russo - Roberto Schiavolin - Giuseppe Zizzo
In evidenza: • L’abuso del diritto in materia fiscale come principio generale di derivazione giurisprudenziale
Pietro Boria • La rinnovata configurazione della nozione di “elemento attivo e passivo” e l’IVA.
Suggestioni applicative e rigore interpretativo Marco Di Siena • L’Imposta sul Reddito di Impresa (IRI): vecchie “delusioni” e nuove “aspettative” o vecchie
“aspettative” e nuove “delusioni” Federico Rasi • Riflessioni intorno al concetto di «soggiorno» nello Stato estero nel contesto dell’art. 51
comma 8-bis del Tuir Francesco Pedrotti • Tutela dell’affidamento, consulenza giuridica e interpello
Antonio Viotto
ISSN 1121-4074
Periodico bimestrale - Poste Italiane S.p.A. - Spedizione in a.p. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, Aut. MBPA/CN/PI/0007/2016
Rivista di Diritto Tributario
2017
Vol. XXIX - Dicembre 2017
Pacini
Indici DOTTRINA Pietro Boria
L’abuso del diritto in materia fiscale come principio generale di derivazione giurisprudenziale.............................................................................................................. I, 665 Marco Cerrato
La procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata in materia di stabile organizzazione (c.d. web tax transitoria)................................................................... I, 751 Marco Di Siena
La rinnovata configurazione della nozione di “elemento attivo e passivo” e l’IVA. Suggestioni applicative e rigore interpretativo.......................................................... III, 113 Antonio Guidara
L’intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi e la sua riferibilità alle estinzioni delle società (nota a Cass. sent. n. 9094/2017)................................................................... II, 339 Maurizio Orlandi
Quando l’accettazione di un concordato comportante una transazione fiscale può costituire un aiuto di Stato: l’applicazione del criterio del creditore privato (nota a CGUE, causa C300/16)........................................................................................... IV, 148 Francesco Pedrotti
Riflessioni intorno al concetto di «soggiorno» nello Stato estero nel contesto dell’art. 51 comma 8-bis del Tuir............................................................................... I, 779 Federico Rasi
L’Imposta sul Reddito di Impresa (IRI): vecchie “delusioni” e nuove “aspettative” o vecchie “aspettative” e nuove “delusioni”....................................................... I, 707 Antonio Viotto
Tutela dell’affidamento, consulenza giuridica e interpello....................................... I, 689
Tutti i lavori presenti nel fascicolo sono stati sottoposti a revisione esterna.
INDICE ANALITICO AIUTI DI STATO Nozione di vantaggio economico – Razionalità economica dell’amministrazione fiscale – Criterio del creditore privato – Onere di dimostrare la sussistenza
II
indici
dell’aiuto di Stato (Corte di Giustizia, 20 settembre 2015, causa C300-16 con nota di Maurizio Orlandi)........................................................................................... II, 335 SANZIONI TRIBUTARIE Estinzione delle società – Successione universale – Valore del bilancio finale di liquidazione – Legittimazione dei soci – Intrasmissibilità delle sanzioni tributarie – Responsabilità esclusiva delle persone giuridiche per le sanzioni tributarie (Cass. civ., Sez. V, 14 febbraio 2017 - aprile 2017, n. 9094; con nota di Antonio Guidara)....................................................................................................................... IV, 131
INDICE CRONOLOGICO Corte di Giustizia dell’Unione Europea 20 settembre 2015, C300/16, Frucona Košice, ECLI:EU:C:2017:706................... IV, 131 *** Cassassazione, sez. V civ. 14 febbraio 2017 - aprile 2017, n. 9094..................................................................... II, 335
Elenco dei revisori esterni Alberto Alessandri - Fabrizio Amatucci - Massimo Basilavecchia - Andrea Carinci - Alfonso Celotto - Giuseppe Cipolla - Silvia Cipollina - Andrea Colli Vignarelli - Giandomenico Comporti - Angelo Contrino - Roberto Cordeiro Guerra - Marco De Cristofaro Lorenzo Del Federico - Eugenio Della Valle - Valerio Ficari - Gianfranco Gaffuri - Emilio Giardina - Alessandro Giovannini - Manlio Ingrosso - Alessio Lanzi - Maurizio Logozzo - Massimo Luciani - Francesco Macario - Jacques Malherbe - Enrico Marello - Gianni Marongiu - Valeria Mastroiacovo - Giuseppe Melis - Salvatore Muleo - Mario Nussi Franco Paparella - Andrea Parlato - Leonardo Perrone - Franco Picciaredda - Cesare Pinelli - Francesco Pistolesi - Pasquale Pistone - Franco Randazzo - Claudio Sacchetto - Guido Salanitro - Livia Salvini - Salvatore Sammartino - Dario Stevanato - Maria Teresa Soler Roch - Thomas Tassani - Gianluigi Tosato - Loris Tosi - Antonio Uricchio
Dottrina
L’abuso del diritto in materia fiscale come principio generale di derivazione giurisprudenziale* Sommario: 1. Premessa. – 2. L’abuso del diritto quale principio generale dell’ordinamento
comunitario nella elaborazione della Corte di Giustizia. – 3. I principi nell’ordinamento europeo. – 4. L’abuso del diritto nella materia fiscale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. – 5. L’abuso del diritto nell’ordinamento italiano: il recepimento di un principio generale di origine comunitaria nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – 6. L’introduzione della norma sull’abuso del diritto (art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente). – 7. Il divieto di abuso del diritto si presenta come un principio generale di formazione giurisprudenziale avente una regolazione legale. – 8. La circolarità applicativa del principio generale del divieto di abuso del diritto. – 9. La recente giurisprudenza della Cassazione conferma la rilevanza del divieto di abuso del diritto come principio generale di formazione giurisprudenziale. – 10. Spunti di riflessione indotti dalla vicenda del divieto di abuso del diritto rispetto alla trasformazione dell’ordinamento tributario nazionale. Il divieto dell’abuso del diritto costituisce un principio normativo di formazione giurisprudenziale che viene applicato costantemente in materia tributaria in base ad un percorso evolutivo, articolato attraverso una serie di arresti della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione. Il principio è stato regolato anche da una recente norma di fonte legale – l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente – che si è posto in linea di continuità con l’orientamento giurisprudenziale, fornendo indicazioni di ordine sostanziale e, soprattutto, procedimentale per meglio disciplinarne l’applicazione. L’indeterminatezza delle clausole generali recate dal principio produce una inevitabile circolarità applicativa che richiede la partecipazione necessaria dell’amministrazione finanziaria e/o del giudice tributario per l’integrazione della norma nel caso concreto. The prohibition of the abuse of law is a principle deriving from the experience of the national and European jurisprudence which has been extended to the tax law according to some important decisions of the Court of Justice and of the Italian Supreme Court.
* Viene qui riportata la relazione, con alcune integrazioni, presentata dall’Autore al Convegno “Abuso del diritto. Profili privatistici e profili fiscali”, tenuto a Napoli presso l’Università Parthenope il 15 giugno 2017.
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The principle is currently regulated by a specific rule of law (art. 10 bis of the Statute of Taxpayer) which aligns itself with the mentioned jurisprudence. The undetermined general clause contained in the rule of law requires the necessary integration by the jurisprudence and by the Administration in the phase of the concrete application for the specific case.
1. Premessa. –Una vicenda giuridica che impegna costantemente l’attenzione degli operatori giuridici riguarda la portata e l’applicazione del divieto di abuso del diritto in ambito tributario. Come noto, tale principio è stato originariamente sviluppato dalla Corte di Giustizia e poi recepito dalla Corte di Cassazione, trovando una diffusa attuazione da parte dell’amministrazione finanziaria in sede di accertamento delle condotte fiscalmente rilevanti dei contribuenti. Con un provvedimento legislativo più recente è stato istituito l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente che ha regolato la materia, ponendosi in sostanziale continuità rispetto all’orientamento giurisprudenziale. Peraltro, anche dopo l’entrata in vigore dell’art. 10 bis, la Corte di Cassazione nell’argomentare il proprio ragionamento ripropone tendenzialmente i medesimi schemi concettuali formulati nei principali arresti della giurisprudenza, comunitaria ed italiana, che hanno formato l’orientamento giurisprudenziale sull’abuso del diritto in materia tributaria. Sembra dunque utile soffermarsi sul percorso di formazione del principio dell’abuso del diritto in ambito fiscale (1), anche per verificare possibili spunti
(1) Il divieto di abuso del diritto costituisce un argomento di frequente trattazione nella dottrina recente; solo per citare alcuni contributi si veda Sul concetto di abuso del diritto nell’ordinamento fiscale si veda G. Zizzo, Abuso del diritto, scopo di risparmio d’imposta e collegamento negoziale, in Rass. trib., 2008, 859, ss; L. Carpentieri, L’ordinamento tributario tra abuso ed incertezza del diritto, in Riv. dir. trib., 2008, 1053 ss.; G. Fransoni, Appunti su abuso del diritto e valide ragioni economiche, in Rass. Trib., 2010, I, 932 ss.; A. Giovannini, Il divieto di abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. Trib., 2010, 982 ss.; Piantavigna, L’abuso del diritto nell’ordinamento europeo, Torino 2011; F. Tesauro, Elusione ed abuso nel diritto tributario italiano, in Dir. Prat. Trib. 2012, I, 683 ss.; G. Girelli, Abuso del diritto e imposta di registro, Torino, 2012; M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, Padova, 2013; P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto in materia tributaria: spunti critici e ricostruttivi, in Dir. Prat. Trib., 2016, I, 8 ss.; Aa. Vv. Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Torino, 2016; M. Versiglioni, Abuso del diritto, Ospedaletto (Pisa), 2016; G. Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 707 ss.
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di carattere generale intorno al ruolo dei principi di derivazione giurisprudenziale nell’ordinamento tributario. 2. L’abuso del diritto quale principio generale dell’ordinamento comunitario nella elaborazione della Corte di Giustizia. – Nell’ordinamento comunitario il concetto di “abuso del diritto” trae origine da una consolidata serie di decisioni della Corte di Giustizia Europea nelle quali si è avuto modo di affermare il principio generale (valido per tutti i settori del diritto) secondo cui l’applicazione formale e letterale delle norme comunitarie non può estendersi fino alla tutela di pratiche abusive poste in essere dagli operatori economici (2). In sostanza, si è data attuazione al principio di prevalenza della sostanza sulla forma, ritenendosi che il rispetto formale del dato letterale della legge non autorizza in nessun caso a porre in essere operazioni che producono risultati decisamente contrari alle finalità cui è ispirata la legge medesima e che quindi sono connotati da un intento fraudolento. In particolare la Corte di Giustizia ha precisato ripetutamente che “la constatazione che si tratti di una pratica abusiva richiede, da una parte, un insieme di circostanze oggettive dalle quali risulti che, nonostante il rispetto formale delle condizioni previste dalla normativa comunitaria, l’obiettivo perseguito da detta normativa non è stato raggiunto. Essa richiede, d’altra parte, un elemento soggettivo che consiste nella volontà di ottenere un vantaggio derivante dalla normativa comunitaria mediante la creazione artificiosa delle condizioni necessarie per il suo ottenimento”. L’abuso del diritto si qualifica pertanto per il ricorrere di due elementi caratterizzanti: - le circostanze oggettive che indicano la mancanza di una concreta motivazione economica per l’attività concretamente svolta, se non quella di ottenere un vantaggio indebito rispetto al fine legislativo; - lo scopo abusivo che consiste nella finalità di ottenere un vantaggio non pre-
(2) Sul tema si veda Corte di Giustizia, sentenza del 11.12.1977, causa C-125/76, Cremer; sentenza del 3.3.1993, causa C-8/92, Milk Products; sentenza del 2.5.1996, causa C-206/94, Paletta; sentenza del 12.5.1998, causa C-367/96, Kefalas; sentenza del 9.2.1999, causa C-212/97, Centros; sentenza del 30.9.2003, causa C-167/01, Diamantis; sentenza del 3.3.2005, causa C-32/03, Fini H.; sentenza del 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax; sentenza del 6.4.2006, causa C-456/04, Agip Petroli; sentenza del 12.9.2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes; sentenza del 28.6.2007, causa C-79/06, Planzer; sentenza del 5.7.2007, causa C-321/05, Kofoed; sentenza del 20.6.2013, causa C-653/11, Newey.
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visto dalla normativa comunitaria. Elaborato in origine in settori del diritto comunitario oggetto di una accurata regolamentazione normativa (ed in specie nel diritto marittimo, nella politica agricola comune, nel diritto societario), il divieto di comportamenti abusivi approda solo recentemente nel settore fiscale in base ad una rilevante giurisprudenza della Corte di Giustizia (3). 3. I principi nell’ordinamento europeo. – Per meglio intendere la portata del principio generale del divieto di abuso del diritto appare opportuno verificare la natura giuridica di tale regola normativa con particolare riguardo all’ordinamento comunitario (nel cui ambito, come ricordato, il principio è stato originariamente enucleato dalla giurisprudenza). È noto, infatti, che accanto alle regole ed ai principi esplicitamente enunciati nelle norme del Trattato si pone una serie di principi a carattere implicito – e dunque non formalizzati in specifiche ed espresse disposizioni legislative – che assumono comunque una rilevanza primaria nella trama assiologica dell’ordinamento comunitario (4). Si tratta perlopiù di valori che vengono desunti dalla Corte di Giustizia sulla base di un esame induttivo e teleologico dell’ordinamento comunitario (con riferimento pertanto sia alle norme del Trattato sia alle norme del diritto comunitario derivato) (5), oppure in ragione del riconoscimento di principi comuni degli ordinamenti interni degli Stati membri da elevare “a sistema” in quanto idonei ad esprimere un sostrato giuridico omogeneo dell’Unione eu-
(3) Vedi sentenza del 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax, da considerarsi vero e proprio leading case in tema di abuso del diritto nel campo fiscale. (4) Sul rilievo e sulla classificazione dei principi generali, ed in specie dei principi non scritti, nell’ordinamento comunitario vedi A. Adinolfi, I principi generali nella giurisprudenza comunitaria e la loro influenza sugli ordinamenti degli stati membri, in Riv. It. Dir. Publ. Com., 1994, 521 ss.; F. Toriello, I principi generali del diritto comunitario: il ruolo della comparazione, Milano, 2000; G. Strozzi, Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, Torino, 2001, 221 ss. Nella letteratura internazionale vedi T. Tridimas, The general principles of the EU law, New York, 2006. (5) Per alcuni spunti sul ruolo dei principi non scritti desunti dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia nell’ambito del processo di sviluppo e integrazione dell’Unione europea in materia fiscale vedi A. E. La Scala, I principi fondamentali in materia tributaria in seno alla Costituzione dell’Unione europea, Milano, 2005, 69 ss.; G. Melis, Coordinamento fiscale nell’Unione europea, in Enc. Dir. Annali I, Milano, 2008, 406 s. Con particolare riguardo alle norme di carattere procedimentale ed alla tutela dei diritti vedi C. Califano, Principi comuni e procedimento tributario: dalle tradizioni giuridiche nazionali alle garanzie del contribuente, in Riv. Dir. Trib., 2004, I, 993 ss.
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ropea (6), oppure ancora in virtù di una estensione alle relazioni giuridiche in ambito comunitario di principi stabiliti in altri documenti normativi di carattere internazionale (ad es. con riguardo alla carta europea dei diritti dell’uomo – la CEDU – proclamata a Nizza) (7). In particolare, possono distinguersi due tipologie di principi dell’ordinamento europeo (8): a. i principi ordinamentali, che definiscono l’architettura stessa dell’ordinamento comunitario, fungendo da garanzia e qualificazione dello spazio giuridico europeo; tali principi concorrono a definire le competenze ed i rapporti tra Unione Europea e Stati membri e, pertanto, contribuiscono direttamente al processo di integrazione comunitaria; vi rientrano in specie il principio di sussidiarietà, di effettività, di proporzionalità, di leale collaborazione tra Stati; b. i principi generali (talora definiti nella giurisprudenza comunitaria anche come principi fondamentali), che garantiscono invece la tutela delle posizioni giuridiche soggettive (e dunque promuovono e proteggono i diritti dei cittadini europei) e che pertanto si rivolgono ai valori di libertà, sicurezza e giustizia; a tale categoria possono ascriversi i principi di certezza giuridica, di tutela dell’affidamento e della buona fede, il principio del giusto procedimento e del giusto processo ed il divieto di abuso del diritto. Quale che sia la logica di identificazione, tali principi assumono in ogni caso il carattere di norme generali dell’ordinamento comunitario, connotandosi come vere e proprie regole di orientamento e limitazione del potere normativo (9). Ne consegue in particolare una duplice funzione giuridica: in primo luogo essi costituiscono un parametro di valutazione di legittimità dell’esercizio del potere normativo in ambito comunitario, e dunque un limite sopra-legislativo (al pari delle altre norme del Trattato) rispetto alla validità ed efficacia delle norme contenute in regolamenti e direttive oltreché, evidentemente, un limite rispetto agli atti legislativi nazionali che riguardano materie comunitarie; in secondo luogo tali principi assolvono una funzione di indiriz-
(6) Corte di Giustizia, sentenza del 6.3.2001, causa C-274/99, Connolly; sentenza del 18.12.2008 causa C-349/07, Sopropè. (7) Sui principi generali desunti invece dalla giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo in materia tributaria vedi L. Perrone, Diritto tributario e convenzione europea dei diritti dell’uomo, in Rass. Trib., 2007, 675 ss.; L. Del Federico, I principi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo in materia tributaria, in Riv. Dir. Fin., 2010, I, 206 ss. (8) Per una accurata distinzione dei principi dell’ordinamento europeo in principi ordinamentali e principi generali vedi A. Di Pietro, Introduzione, in Aa. Vv., I principi europei nel diritto tributario, a cura di A. Di Pietro, Padova 2013, XV ss. (9) Vedi P. Boria, Diritto tributario europeo, Milano, 2016, 275 ss.
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zo in sede interpretativa, particolarmente rispetto all’attività decisoria della Corte di Giustizia, ma anche rispetto ai giudici nazionali che intervengono su materie comunitarie, quali criteri di selezione nell’ambito delle varie possibili interpretazioni normative. Proprio con riguardo al ruolo di orientamento della giurisprudenza comunitaria e, di riflesso, della giurisprudenza nazionale i principi sono serviti a salvaguardare ed a definire la dinamica dei rapporti tra sistemi giuridici dell’Unione europea e degli Stati membri, contribuendo a costituire un ordine giuridico sempre più omogeneo, orientato verso modelli comuni e regole tendenzialmente armonizzate (10). In questa prospettiva si può sostenere che i principi dell’ordinamento europeo hanno sollecitato una interpretazione delle norme interne orientata in senso comunitario ed hanno favorito un giudizio severo dei giudici nazionali sulla compatibilità delle norme interne con l’ordinamento comunitario (11). Quanto alla efficacia normativa dei principi dell’ordinamento comunitario si discute sovente se essi, pur essendo dotati di effetto diretto in quanto vincolanti per gli Stati membri, possano ritenersi anche direttamente applicabili, fondando in tal modo la pretesa individuale da parte dei cittadini europei. Appare preferibile a tal riguardo effettuare una valutazione distinta caso per caso, tenendo comunque presente che in linea di massima l’attuazione del principio richiede una disciplina interna per potere essere effettivamente realizzata nei rapporti giuridici (con la conseguenza che i principi appaiono dotati di effetto diretto, ma non anche di diretta applicabilità) (12). 4. L’abuso del diritto nella materia fiscale nella giurisprudenza della Corte di Giustizia. – Pur se richiami al divieto di porre in essere operazioni abusive in ambito fiscale sono rinvenibili in alcune regole volte a contrastare
(10) Sul ruolo dei principi comuni nel processo di interpretazione delle norme comunitarie vedi F. Amatucci, Il rafforzamento dei principi comuni europei e l’unicità del sistema fiscale nazionale, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2013, 3 ss.; G. D’Angelo, Integrazione europea e interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2013, 37 ss. (11) Con particolare riguardo alla rilevanza dei principi generali di derivazione comunitaria nel diritto tributario vedi L. Del Federico, Tutela del contribuente ed integrazione giuridica europea, Pescara, 2003, 17 ss.; F. Vanistendael, Le nuove fonti del diritto ed il ruolo dei principi comuni nel diritto tributario, in Aa. Vv., Per una costituzione fiscale europea, a cura di A. Di Pietro, Padova 2008, 91 ss.; Aa. Vv., I principi europei nel diritto tributario, a cura di A. Di Pietro, Padova 2013. (12) Sul tema cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 276 s.; R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno, Milano 2009, passim.
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comportamenti fraudolenti dei contribuenti rispetto all’applicazione di norme comunitarie (13), la nozione di abuso del diritto è formulata in maniera completa solo negli ultimi anni dalla giurisprudenza comunitaria (14). La Corte di Giustizia ha elaborato, infatti, una nozione autonoma di abuso del diritto fiscale dapprima con riferimento alla disciplina dell’Iva, precisandosi che il soggetto passivo non ha diritto di detrarre l’Iva assolta a monte se “le operazioni che fondano tale diritto integrano un comportamento abusivo” (15) e successivamente con riguardo alla materia delle imposte dirette, sostenendosi che l’effetto fiscale restrittivo rispetto alla libertà di stabilimento dell’impresa non è ammesso “a meno che non riguardi costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta” (16). In entrambe le decisioni la Corte di Giustizia ha sostenuto che le operazioni poste in essere da soggetti residenti nell’Unione europea, pur realmente volute e immuni da rilievi di validità formale, le quali siano costruite artificiosamente e mostrino “essenzialmente lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale” contrastano con gli obiettivi e con le libertà perseguite dal Trattato e vanno quindi qualificate alla stregua di un abuso del diritto. In specie il comportamento può qualificarsi come espressione di abuso del diritto qualora le operazioni controverse presentino i seguenti elementi qualificanti (17): 1. nonostante l’applicazione formale delle regole e delle condizioni previste dalla disciplina comunitaria e dalla legislazione nazionale di recepimento,
(13) Vedi l’art. 11, n. 1, lett. a), Direttiva n. 90/434/CEE; l’art. 1, par. 2, Direttiva n. 90/435/CEE; l’art. 5, Direttiva n. 2003/49/CE. (14) Per un esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia sul divieto di abuso del diritto in materia fiscale cfr. P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 297 ss. (15) Corte di Giustizia, sentenza del 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax. Per una analisi della fondamentale sentenza Halifax si veda L. Salvini, L’elusione IVA nella giurisprudenza nazionale e comunitaria, in Corr. Trib., 2006, 3097; C. Piccolo, Abuso del diritto ed Iva: tra interpretazione comunitaria ed applicazione nazionale, in Rass. trib. 2006, 1016 ss; M. Basilavecchia, Norma antielusione e “relatività” delle operazioni imponibili Iva, in Corr. trib., 2006, 1466 ss; P. Pistone, L’elusione fiscale come abuso del diritto: certezza giuridica oltre le imprecisioni terminologiche della Corte di Giustizia Europea in tema di Iva, in Riv. dir. trib., 2007, IV, 17 ss; M. Poggioli, La Corte di Giustizia elabora il concetto di “comportamento abusivo” in materia d’Iva e ne tratteggia le conseguenze sul piano impositivo: epifania di una clausola generale antielusiva di matrice comunitaria?, in Riv. dir. trib., 2006, III, 122 ss. (16) Corte di Giustizia, sentenza del 12.9.2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes. (17) Corte di Giustizia, sentenza del 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax; sentenza del 21.2.2008, causa C-425/06, Part Service; sentenza del 15.3.2014, causa C-155/13, Sices.
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tali operazioni hanno quale “scopo essenziale” di procurare un vantaggio fiscale la cui concessione è contraria all’obiettivo perseguito dalle norme comunitarie; 2. lo scopo essenziale di ottenere un vantaggio fiscale deve risultare da un insieme di elementi obiettivi. La Corte di Giustizia ripropone dunque anche in ambito fiscale i medesimi concetti già espressi in generale nella elaborazione del principio generale stabilendo che l’operazione abusiva va riconosciuta in ragione di un elemento soggettivo (lo scopo di ottenere un vantaggio fiscale contrario alle norme comunitarie) da individuarsi peraltro sulla base di una serie di circostanze oggettive. La Corte di Giustizia ha peraltro precisato che l’individuazione del vantaggio fiscale quale “scopo essenziale” delle operazioni non vale a formulare una condizione generale per il riconoscimento della pratica abusiva, bensì serve per individuare una soglia minima di inammissibilità dell’abuso del diritto (18). Quanto poi alla identificazione concreta del comportamento abusivo, fermo rimanendo che il contribuente ha il diritto di scegliere la forma di conduzione dei propri affari che permette di limitare la contribuzione fiscale, va considerata la deviazione artificiale rispetto agli standard del mercato quale indice decisivo per il riconoscimento dell’abuso del diritto (19). A tal proposito, atti formalmente distinti devono essere considerati come segmenti di un’unica operazione, se particolari circostanze rivelano, in modo consequenziale e convergente, che si tratta di atti collegati funzionalmente così da formare una sola prestazione economica indissociabile, la cui scomposizione assumerebbe carattere artificiale; in tal caso il trattamento fiscale da riservare ai vari atti è quello previsto per la prestazione principale (20). In ogni caso la valutazione circa la sussistenza di una costruzione fittizia e artificiale deve essere effettuata caso per caso sulla base delle circostanze dell’attività concretamente posta in essere (21).
(18) Corte di Giustizia, sentenza del 21.2.2008, causa C-425/06, Part Service. Per un commento sulla sentenza “Part Service S.r.l.” vedi V. Liprino, Il difficile equilibrio tra libertà di gestione e abuso di diritto nella giurisprudenza della Corte di Giustizia: il caso Part Service, in Riv. dir. trib., 2008, IV, 103 ss.; M. Poggioli, Il modello comunitario della “pratica abusiva” in ambito fiscale: elementi costitutivi essenziali e forza di condizionamento rispetto alle scelte legislative ed interpretative nazionali, in Riv. dir. trib., 2008, 252 ss. (19) Corte di Giustizia, sentenza del 22.12.2010, causa C-103/09. (20) Corte di Giustizia, sentenza del 21.2.2008, causa C-425/06, Part Service (21) Corte di Giustizia, sentenza del 12.9.2006, causa C-196/04, Cadbury Schweppes; sentenza del 20.6.2013, causa C-653/11, Newey. Sulla giurisprudenza comunitaria in tema di costruzioni artificiose e abuso del diritto vedi
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La stessa Corte di Giustizia puntualizza inoltre l’effetto di riqualificazione normativa dell’operazione abusiva: ed invero, se viene accertato un comportamento abusivo, è stabilito che “le operazioni implicate devono essere ridefinite in maniera da ristabilire la situazione quale sarebbe esistita senza le operazioni che quel comportamento hanno fondato” (22). Ne consegue, pertanto, il disconoscimento ai fini fiscali degli effetti prodotti dall’operazione abusiva con conseguente riqualificazione dell’operazione medesima secondo gli standard di comportamento normalmente applicabili. 5. L’abuso del diritto nell’ordinamento italiano: il recepimento di un principio generale di origine comunitaria nella giurisprudenza della Corte di Cassazione. – È interessante osservare il percorso seguito dalla Suprema Corte italiana nel recepimento del principio dell’abuso del diritto, in quanto indice del grado di interdipendenza tra l’ordinamento interno e l’ordinamento comunitario (23). In una prima fase la Corte di Cassazione considera il principio dell’abuso del diritto emergente dall’ordinamento comunitario “quale canone interpretativo regolatore dell’ordinamento giuridico” (24). Si tratta dunque di un principio normativo applicabile tipicamente ai tributi armonizzati (e quindi ad Iva, accise e dazi doganali). Successivamente, la Suprema Corte afferma la piena operatività del principio dell’abuso del diritto in via generalizzata in tutti i settori dell’imposizione fiscale, osservando che “pur non esistendo nell’ordinamento fiscale italiano una clausola generale antielusiva, non può negarsi l’emergenza di un principio tendenziale, desumibile dalle fonti comunitarie e dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria, secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale” (25). Infine la Corte di Cassazione giunge a sostenere che, pur non essendo formalizzata l’esistenza del principio dell’abuso del diritto nelle fonti normative nazionali, “la sua applicazione (…) s’impone per essere la stessa di formazione comunitaria”. Inoltre l’appartenenza all’ambito dei principi fondamentali
A. Colli Vignarelli, Pratiche abusive e autonomia contrattuale: un ulteriore contributo della Corte di Giustizia, in Rass. Trib. 2011, 1616 ss. (22) Corte di Giustizia, sentenza del 21.2.2006, causa C-255/02, Halifax. (23) Vedi sulla questione F. Gallo, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione, in Rass. Trib. 2016, 837 ss. (24) Cass. sentenze n. 20398 del 21.10.2005, n. 20816 del 26.10. 2005 e n. 22932 del 14.11.2005. (25) Cass. sentenza n. 10353 del 5.5.2006
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dell’ordinamento comunitario comporta che il divieto di abuso del diritto sia da considerare una regola applicabile non soltanto alla disciplina dei tributi armonizzati, ma anche a tutti i settori dell’ordinamento fiscale (26). Quest’ultimo passaggio è stato fortemente contestato dalla dottrina, essendo stata giudicata inammissibile l’estensione di un principio dell’ordinamento comunitario ad un ambito esclusivamente interno (e cioè ai tributi non armonizzati) (27). Successivamente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, dopo aver ribadito “di dover aderire all’indirizzo di recente affermatosi nella giurisprudenza della Sezione tributaria”, hanno individuato la fonte del divieto di abuso del diritto non tanto nei principi del diritto comunitario, quanto piuttosto nel diritto interno, ed in specie nell’art. 53 della Costituzione (28). Così viene espressamente riconosciuto che l’abuso del diritto “consiste in un principio generale valevole per l’intero sistema tributario, avente lo scopo di precludere al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diversi dalla mera aspettativa di quei benefici” (29). La Suprema Corte in tal modo mostra di avere introiettato nel sistema tributario nazionale un principio di chiara derivazione comunitaria, al fine di sancirne l’applicabilità generale ad ogni tributo, indipendentemente dalla rilevanza comunitaria del medesimo (e quindi estendendo con certezza l’applicazione del principio sia ai tributi armonizzati che ai tributi interni non armonizzati). Con riguardo alla nozione di abuso del diritto, la Corte di Cassazione ha ripreso il percorso argomentativo seguito dalla Corte di Giustizia, valorizzando l’essenzialità dello scopo di ottenere un vantaggio fiscale quale indice decisivo per il riconoscimento del comportamento abusivo (30).
(26) Cass. sentenza n. 25374 del 17.10.2008. (27) Vedi G. Falsitta, L’interpretazione antielusiva della norma tributaria come clausola generale immanente al sistema e direttamente ricavabile dai principi costituzionali, in Corr. Trib. 2009, 293 ss.; V. Ficari, Clausola generale antielusiva, art. 53 della Costituzione e regole giurisprudenziali, in Rass. Trib. 2009, 390 ss.; A. Lovisolo, Abuso del diritto e clausola generale antielusiva alla ricerca di un principio, in Riv. Dir. Trib. 2009, I, 49 ss.; A. Marcheselli, Equivoci e prospettive della elusione tributari tra principi comunitari e principi nazionali, in Dir. Prat. Trib. 2010, 801 ss. (28) Cass. SS. UU. sentenze del 23.12.2008 n. 30055, 30056 e 30057. Sulla rilevanza di tali sentenze vedi G. Corasaniti, Sul generale divieto di abuso del diritto nell’ordinamento tributario, in Dir. Prat. Trib. 2009, 213 ss. (29) Cass. SS. UU. sentenze del 23.12.2008 n. 30055, 30056 e 30057. (30) Cass. sentenza n. 21221 del 29.9.2006.
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La Suprema Corte ha pertanto affermato il principio secondo cui, in forza del diritto comunitario, “non hanno efficacia nei confronti della amministrazione finanziaria quegli atti posti in essere dal contribuente che costituiscano ‘abuso di diritto’, cioè che si traducano in operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale; ed incombe sul contribuente fornire la prova della esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico” (31). 6. L’introduzione della norma sull’abuso del diritto (art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente). – Riprendendo lo spunto fornito in una raccomandazione comunitaria (32), è stata recentemente istituita una norma specifica di fonte legale volta a regolamentare le fattispecie di abuso del diritto (33). In tale disposizione sono previste espressamente diverse regole che definiscono la disciplina sostanziale e procedimentale del contrasto all’abuso del diritto in ambito fiscale, le quali si pongono in evidente continuità con l’orientamento giurisprudenziale sopra descritto (34). Ed invero: a. “configurano abuso del diritto una o più operazioni prive di sostanza economica che, pur nel rispetto formale delle norme fiscali, realizzano essenzialmente vantaggi fiscali indebiti” (comma 1); viene così formalizzata la nozione di abuso del diritto mediante il ricorso ad una formula che recupera i tratti qualificanti emersi nel dibattito giurisprudenziale (ed in particolare: la mancanza di sostanza economica; il rispetto formale delle norme fiscali; la finalità essenziale di perseguimento di un vantaggio fiscale indebito) (35);
(31) Cass. sentenza n. 8772 del 4.4.2008. (32) Raccomandazione della Commissione UE del 6.12.2012 sulla pianificazione fiscale aggressiva. Cfr. in argomento G. Zizzo, La nuova nozione di abuso del diritto e le raccomandazioni della Commissione europea, in Corr. Trib. 2015, 4577 ss.; F. Amatucci, La compatibilità dell’art. 10 bis con gli orientamenti europei ed internazionali in tema di abuso del diritto, in Dir. Prat. Trib. Int. 2016, 429 ss.; G. Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, cit., 715 ss. (33) Art. 1 del D. Lgs. n. 128 del 5.8.2015 che ha istituito l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente in attuazione della delega contenuta nella legge 11.3.2014 n. 23. In argomento cfr. A. Giovannini, L’abuso del diritto nella legge delega fiscale, in Riv. Dir. Trib. 2014, I, 231 ss. (34) Per una analisi delle disposizioni legislative contenute nell’art. 10 bis vedi Aa. Vv. Abuso del diritto ed elusione fiscale, a cura di E. Della Valle, V. Ficari, G. Marini, Torino, 2016; M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10 bis dello Statuto del contribuente, in Corr. Trib. 2016, 3281 ss.; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. Trib. 2017, I, 297. (35) In argomento vedi G. Zizzo, La nozione di elusione nella clausola generale, in Corr. Trib. 2006, 3087 ss.; A. Giovannini, Il divieto di abuso del diritto in ambito tributario, cit., 982
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b. “tali operazioni non sono opponibili all’amministrazione finanziaria che ne disconosce i vantaggi determinando i tributi sulla base delle norme e dei principi elusi e tenuto conto di quanto versato dal contribuente per effetto di dette operazioni” (comma 1, secondo periodo); anche in questo caso viene ripreso l’effetto giuridico riconosciuto dall’orientamento giurisprudenziale; l’effetto dell’abuso del diritto consiste infatti nel disconoscimento dell’operazione abusiva ai fini fiscali e nella riqualificazione della stessa sulla base della disciplina elusa (36); c. “si considerano operazioni prive di sostanza economica i fatti, gli atti e i contratti, anche tra loro collegati, inidonei a produrre effetti significativi diversi dai vantaggi fiscali. Sono indici di mancanza di sostanza economica, in particolare, la non coerenza della qualificazione delle singole operazioni con il fondamento giuridico del loro insieme e la non conformità dell’utilizzo degli strumenti giuridici a normali logiche di mercato” (comma 2 lett. a); recependo le indicazioni formulate dalla giurisprudenza della Suprema Corte, tale regola vale a fornire indicazioni concrete circa la riconoscibilità delle operazioni “prive di sostanza economica”; vengono a tal riguardo utilizzati due indici: i) il richiamo alla “non coerenza” delle qualificazioni negoziali rispetto alla sostanza giuridica; ii) la “non conformità” degli strumenti negoziali rispetto alla “logica del mercato” (37); d. [si considerano] “vantaggi fiscali indebiti i benefici, anche non immediati, realizzati in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario” (comma 2 lett. b); la qualificazione di “vantaggio fiscale indebito” presenta indubbiamente più di un problema logico dovendosi chiarire la riconoscibilità del “beneficio indebito”; la norma non fornisce invero nessuna utile indicazione, limitandosi a riproporre
ss.; M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 213 ss.; D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche; anatomia di un equivoco, in Dir. Prat. Trib. 2015, I, 696 ss.; V. Ficari, Virtù e vizi della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10 bis della L. n. 212/2000, in Riv. Trim. Dir. Trib. 2016, 318 ss.; M. Nussi, La normativa antielusiva all’approdo statutario, in Dir. Proc. Trib. 2016, 186 ss. e in specie 194. (36) Sul tema cfr. G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297. (37) Cfr. G. Fransoni, Spunti in tema di abuso del diritto e intenzionalità dell’azione, in Rass. Trib. 2014, 403 ss.; G. Zizzo, La nozione di elusione nella clausola generale, cit., 3089; M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 173 ss. e 352 ss.; V. Ficari, Virtù e vizi della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10 bis della L. n. 212/2000, cit., 319 ss.
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tautologicamente il contrasto con norme e principi ordinamentali quale emerge dalla giurisprudenza sull’abuso del diritto (38); e. “non si considerano abusive, in ogni caso, le operazioni giustificate da valide ragioni economiche, non marginali, anche di ordine organizzativo o gestionale, che rispondono a finalità di miglioramento strutturale o funzionale dell’impresa ovvero dell’attività professionale del contribuente” (comma 3); sempre in linea con l’orientamento della Suprema Corte, tale regola vale a chiarire che le valide ragioni economiche – in presenza delle quali si deve escludere l’abuso del diritto – sono da assumere tenendo conto anche dei profili organizzativi e gestionali delle attività economiche e comunque non devono assumere una dimensione marginale rispetto alle finalità complessive dell’operazione (39); f. “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”; in tal modo viene sancita la facoltà del contribuente di adottare forme legittime di risparmio fiscale in base alla previsione di regimi opzionali o di altre norme di favore (ad es. con riguardo alle operazioni straordinarie di impresa); si tratta di un principio emergente dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia che trova una esplicita consacrazione sul piano normativo (40); g. “il contribuente può proporre interpello preventivo ai sensi dell’art. 11 dello Statuto del contribuente per conoscere se le operazioni che intende realizzare costituiscano fattispecie di abuso del diritto” (comma 5); è una norma – probabilmente ultronea – che vale a ribadire l’utilizzabilità dello strumento dell’interpello preventivo per conoscere la disciplina fiscale applicabile (41);
(38) Cfr. M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 293 ss.; V. Ficari, Virtù e vizi della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10 bis della L. n. 212/2000, cit., 324 ss. (39) Cfr. G. Fransoni, Abuso del diritto e valide ragioni economiche, cit.; M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 216 ss. (40) In argomento vedi M. Beghin, L’elusione fiscale e il principio del divieto di abuso del diritto, cit., 512 ss.; V. Ficari, Virtù e vizi della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10 bis della L. n. 212/2000, cit., 322 ss.; A. Carinci, D. Deotto, Abuso del diritto ed effettività della novella: much ado about nothing?, in Fisco 2015, 3110 ss. Cfr. altresì I. Vacca, Abuso del diritto ed elusione fiscale, in Riv. Dir. Trib. 2011, I, 1069. (41) La ratio del ricorso all’istituto dell’interpello viene rinvenuta nella indeterminatezza del principio generale di formazione giurisprudenziale; cfr. G. Fransoni, Abuso del diritto:
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h. “senza pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice, l’abuso del diritto è accertato con apposito atto preceduto, a pena di nullità, dalla notifica al contribuente di una richiesta di chiarimenti da fornire entro il termine di sessanta giorni, in cui sono indicati i motivi per cui si ritiene configurabile un abuso del diritto” (comma 6); viene così definito il procedimento per l’accertamento di un’operazione connotata da abuso del diritto; si introduce in tale procedimento il contraddittorio difensivo quale strumento di tutela dell’interesse del contribuente (42); i. “l’atto impositivo è specificamente motivato, a pena di nullità, in relazione alla condotta abusiva, alle norme ed ai principi elusi, agli indebiti vantaggi fiscali realizzati, nonché ai chiarimenti forniti dal contribuente” (comma 8); è così prevista una “motivazione rinforzata”, attraverso la quale si ritiene di promuovere la responsabilizzazione degli uffici nella contestazione di operazioni connotate da abuso del diritto (43); j. “l’amministrazione finanziaria ha l’onere di dimostrare la sussistenza della condotta abusiva, non rilevabile d’ufficio, in relazione agli elementi [previsti dalla legge]. Il contribuente ha l’onere di dimostrare l’esistenza delle ragioni extrafiscali” [e dunque delle valide ragioni economiche] (comma 9); viene così escluso che l’abuso del diritto sia rilevabile d’ufficio come una fattispecie di nullità (contraddicendo un orientamento giurisprudenziale che stava emergendo nelle prime posizioni della Corte di Cassazione); la norma ribadisce che l’onere della prova va distribuito in relazione ai fatti che ciascuna parte deve dedurre: pertanto gli uffici fiscali devono dimostrare la condotta abusiva, mentre il contribuente deve provare la sussistenza delle valide ragioni economiche (44);
generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297 ss. (42) Sulla rilevanza concettuale di tale istituto del contraddittorio preventivo in funzione di contro-bilanciamento della indeterminatezza della clausola generale vedi G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297 ss. (43) Anche questa regola della motivazione rinforzata viene ritenuta dalla dottrina un limite al potere di accertamento giustificabile in ragione della vaghezza e della indeterminatezza della clausola generale. Cfr. M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10 bis dello Statuto del contribuente, cit., 3283 s.; A. Contrino, A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione rinforzata e il riassetto degli oneri probatori nel nuovo abuso del diritto, in Corr. Trib., 2016, 12 ss. (44) Invero, anche nella giurisprudenza di Cassazione sono rinvenibili varie sentenze in cui si chiarisce la riferibilità dell’onere della prova in relazione all’operazione abusiva (a carico degli uffici fiscali) e delle esimenti (a carico del contribuente). Su tale vicenda cfr. A. Contrino, A. Marcheselli, L’obbligo di motivazione rinforzata e il riassetto degli oneri probatori nel nuovo abuso del diritto, cit., 15; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297 ss.
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k. “in sede di accertamento l’abuso del diritto può essere configurato solo se i vantaggi fiscali non possono essere disconosciuti contestando la violazione di specifiche disposizioni tributarie” (comma 12); viene così fissato il principio della residualità dell’abuso del diritto come strumento di contrasto all’elusione fiscale rispetto ad altre forme di contestazioni specifiche (riconducibili alla disciplina dei singoli tributi); pertanto l’abuso può essere utilizzato soltanto se non sono individuabili figure specifiche di evasione fiscale (45); l. “le operazioni abusive non danno luogo a fatti punibili ai sensi delle leggi penali tributarie; resta ferma l’applicazione delle sanzioni amministrative tributarie” (comma 13); è questa una norma di particolare rilievo poiché stabilisce l’inapplicabilità di sanzioni penali, valorizzando l’imprevedibilità implicita dell’abuso del diritto quale strumento di contrasto dell’evasione (e quindi facendo applicazione dei principi di tutela del contribuente rispetto a atti amministrativi imprevedibili) (46); tale esigenza di protezione del contribuente non viene invece ravvisata per le sanzioni amministrative, con una differenziazione di trattamento rispetto alle sanzioni penali probabilmente illogica (anche alla luce dell’omogeneità di interesse tutelato dal sistema sanzionatorio) (47). L’articolata disciplina dell’abuso del diritto stabilita dall’art. 10 bis dello Statuto del contribuente mostra, pertanto, una compiuta regolazione del fenomeno dell’elusione tributaria attraverso la definizione di una vera e propria clausola generale anti-elusiva (48). In tal modo si è inteso predisporre una disciplina di contrasto all’elusione fiscale che risponde ai due interessi coinvolti: per un verso, persegue l’inte-
In generale sul divieto di rilevabilità d’ufficio dell’abuso di diritto vedi F. Tesauro, Elusione e abuso nel diritto tributario italiano, in Dir. Prat. Trib., 2012, I, 683 ss.; M. Cantillo, Profili processuali del divieto di abuso del diritto: brevi note sulla rilevabilità d’ufficio, in Rass. Trib., 2009, 475 ss. (45) Cfr. F. Gallo, L’abuso del diritto in materia tributaria tra sanzione amministrativa e repressione penale, in Giur. Comm., 2017, I, 182 ss.; D. Stevanato, Elusione fiscale e abuso delle forme giuridiche; anatomia di un equivoco, cit., 713 ss.; S. Fiorentino, L’art. 10 bis ed il coordinamento delle normative antielusive nazionali, in Aa. Vv., L’evasione e l’elusione fiscale in ambito nazionale e internazionale, a cura di F. Amatucci, R. Cordeiro Guerra, Studi dell’Associazione Italiana dei Professori di diritto tributario, 2016, 41 ss. (46) Sul tema vedi F. Gallo, L’abuso del diritto in materia tributaria tra sanzione amministrativa e repressione penale, cit., 177 ss. (47) Sulla irrazionalità di tale disposizione, anche alla luce dell’orientamento comunitario (espresso ad es. dalla sentenza Halifax), vedi A. Carinci, D. Deotto, Abuso del diritto ed effettività della novella: much ado about nothing?, in Fisco 2015, 3114. (48) Vedi G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. Trib. cit., 297 ss.
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resse fiscale dello Stato comunità a contrastare forme illecite (o comunque indebite) di utilizzo distorto delle norme tributarie al fine di minimizzare la prestazione patrimoniale da pagare all’Erario; per altro verso, garantisce un assetto prevedibile dei rapporti tributari (e dunque coerente col valore della “certezza del diritto”) ed un adeguato procedimento impositivo nell’interesse del contribuente (e della stessa amministrazione finanziaria) (49). Appare peraltro evidente che tale norma di fonte legale, per un verso, ha riproposto le linee guida emergenti dal consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Giustizia e della Corte di Cassazione sul tema dell’abuso del diritto, e, per altro verso, ha formulato limiti e contrappesi di ordine procedimentale per bilanciare la vaghezza e l’indeterminatezza del principio generale (50). In tale prospettiva è agevole sostenere che la disposizione legislativa si pone in continuità con la giurisprudenza, comunitaria e nazionale, operando essenzialmente come una meta-norma interpretativa (51). 7. Il divieto di abuso del diritto si presenta come un principio generale di formazione giurisprudenziale avente una regolazione legale. – Il divieto di abuso del diritto in materia fiscale può dunque essere considerato come un principio generale di formazione giurisprudenziale, elaborato dapprima dalla Corte di Giustizia e poi ripreso dalla Corte di Cassazione, con un progressivo allargamento dell’ambito applicativo (52).
(49) Sulla funzione dell’art. 10 bis come strumento di coerenza e prevedibilità della disciplina anti abuso, pur in continuità con l’orientamento giurisprudenziale, vedi F. Gallo, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione, cit., 843 ss. Sulle ragioni di bilanciamento di interessi sottese alla disposizione legislativa cfr. A. Montanari, Diritto giurisprudenziale, contrasto ai comportamenti abusivi e certezza nei rapporti tributari, in Riv. Dir. Trib. 2016, I, 231 ss. (50) In tal senso chiaramente M. Nussi, La normativa antielusiva all’approdo statutario, in Dir. Proc. Trib. 2016, 181 s.; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit. In senso fortemente critico su tale continuità della disposizione legislativa rispetto all’orientamento giurisprudenziale vedi Falsitta, Note critiche intorno al concetto di abuso del diritto nella recentissima codificazione, cit., 720 ss. (51) E cioè come una norma che incide sull’interpretazione, estensiva o riduttiva, del perimetro applicativo del principio dell’abuso del diritto. Cfr. M. Versiglioni, Abuso del diritto, cit., 57 ss.; M. Nussi, La normativa antielusiva all’approdo statutario, cit., 182 s. Nel senso della continuità dell’art. 10 bis rispetto all’orientamento giurisprudenziale cfr. A. Carinci, D. Deotto, Abuso del diritto ed effettività della novella: much ado about nothing?, cit., 3112 ss. (52) Si tratta di una conclusione pressoché pacifica nella dottrina tributaria. Solo per richiamare alcuni contributi più recenti, cfr. A. Giovannini, Il divieto di abuso del diritto in ambito tributario come principio generale dell’ordinamento, in Rass. Trib. 2010, 991 ss.; G.
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In buona sostanza, la giurisprudenza considera immanente nell’ordinamento giuridico il principio generale del divieto di abuso del diritto, pur eventualmente in assenza di esplicite norme legali, in quanto espressione di valori fondamentali della convivenza civile (53). Tale principio non contiene un enunciato normativo specifico e puntuale, bensì richiama una formula generale (il divieto di abuso del diritto in materia fiscale) da applicare caso per caso. Il divieto di abuso del diritto si presenta pertanto come una clausola generale del diritto, suscettibile di fornire indicazioni di ordine generico ed indeterminato rispetto ad una pluralità elastica di casi (54), la cui applicazione al caso concreto dipende essenzialmente dalla valutazione del soggetto chiamato a fornire una interpretazione qualificata (in primis al giudice) (55). La norma legislativa di recente introduzione – e cioè l’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente – si è limitata a recepire l’esistenza di tale principio generale ed a regolarlo nei suoi profili applicativi (56), chiarendo la portata di alcune formule normative (come i “vantaggi fiscali indebiti” o “le valide ragioni economiche”) e, soprattutto, definendo i meccanismi procedimentali di attuazione (con riguardo in specie all’onere della prova, alla motivazione rafforzata, al contraddittorio preventivo, all’esimente dalle sanzioni
Fransoni, Appunti su abuso del diritto e valide ragioni economiche, in Rass. Trib. 2010, I, 1116 ss.; A. Carinci, D. Deotto, Abuso del diritto ed effettiva utilità della novella: much ado about nothing?, in Fisco 2015, 3107 ss.; M. Nussi, La normativa antielusiva all’approdo statutario, in Dir. Proc. Trib. 2016, 175 ss. (53) In specie, la Corte di Giustizia richiama i valori dell’ordinamento comunitario (in particolare l’esigenza di buona fede e leale cooperazione a tutela delle libertà comunitarie), mentre la Corte di Cassazione riporta il principio all’art. 53 Cost. In argomento vedi F. Gallo, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione, cit., 837 ss. (54) Sulla nozione di clausola generale vedi la classica definizione di K. Engish, Introduzione al pensiero giuridico, trad. ital., Milano 1970; V. Velluzzi, Le clausole generali. Semantica e politica del diritto, Milano, 2010; E. Fabiani, Clausole generali, in Enc. Dir. Annali, V, Milano, 2012, 180 ss. (55) Sulla riconducibilità del divieto di abuso del diritto alle clausole generali del diritto esiste una consolidata dottrina: F. Gallo, La nuova frontiera dell’abuso del diritto in materia fiscale, in Rass. Trib. 2015, 1315; P. Russo, Profili storici e sistematici in tema di elusione e abuso del diritto in materia tributaria; spunti critici e ricostruttivi, in Dir. Prat. Trib., 2016, 8; A. Giovannini, L’abuso del diritto, in Dir. Prat. Trib., 2016, I, 895 ss.; G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. Trib. 2017, I, 297 ss. (56) In tal senso M. Nussi, La normativa antielusiva all’approdo statutario, cit., 182 ove si precisa che “la disciplina antielusiva [dell’art. 10 bis] si pone in continuità con la giurisprudenza della Suprema Corte”.
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penali, all’effetto di disconoscimento rispetto all’amministrazione finanziaria etc.). Anche la collocazione della disposizione nello Statuto dei diritti del contribuente vale ad enfatizzare la portata del principio generale dell’ordinamento tributario (57). La disposizione legislativa non istituisce così la regola precettiva, ma vale piuttosto a definire “le regole del gioco” in base alle quali il principio generale risulta applicabile. Il nucleo assiologico del divieto di abuso del diritto in materia fiscale resta così riconducibile al principio generale – enucleato dalla giurisprudenza – le cui cadenze logiche sono riconosciute e presupposte dalla norma legale; l’enunciazione del principio in un atto normativo vale dunque essenzialmente come ausilio per l’interprete, ma non incide sulla vigenza del principio medesimo (58). È appena il caso di osservare, a tale riguardo, che la rilevanza interpretativa dell’enunciazione del principio nella disposizione legislativa comporta la tendenziale applicabilità retroattiva della norma di fonte legale anche al periodo antecedente all’entrata in vigore (59). 8. La circolarità applicativa del principio generale del divieto di abuso del diritto. – Il principio generale del divieto di abuso del diritto si connota sul piano giuridico di due elementi qualificanti: i. l’elasticità della formula normativa, ulteriormente enfatizzata dalla molteplicità di enunciati indeterminati (come “vantaggi fiscali indebiti”, “valide ragioni economiche”, “ragioni non marginali” etc.), che esprime una evidente “vaghezza combinatoria”, e cioè una idoneità della clausola generale ad assumere una portata prescrittiva che cambia da caso a caso (60);
(57) In tal senso chiaramente V. Ficari, Virtù e vizi della nuova disciplina dell’abuso e dell’elusione tributaria ex art. 10 bis della L. n. 212/2000, cit., 315 s. (58) Per alcuni di spunti di ordine generale sulla rilevanza dei principi di fonte giurisprudenziale nell’ordinamento tributario, cfr. A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, in Riv. Dir. Trib., 2013, 877 ss. (59) A. Fedele, Il valore dei principi nella giurisprudenza tributaria, cit., 877 rileva che “l’affermazione del principio, seppure nuovo, in un atto legislativo implica un tale apprezzamento valoriale da escludere, probabilmente, l’emersione stessa di problemi di diritto intertemporale: l’eccedenza assiologica ne impone l’operatività anche per il passato”. (60) In tal senso, puntualmente, G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, in Rass. Trib., 2017, I, 297 ss.; V. Mastroiacovo, La nuova disciplina dell’abuso del diritto e dell’elusione fiscale nella prospettiva dell’imposta di registro, in Riv. Notariato, 2016, 31 ss.
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ii. la rilevanza dell’indeterminatezza che riguarda tanto la fattispecie (l’elemento condizionale della norma) quanto l’effetto giuridico (l’elemento condizionato), poiché la non opponibilità dell’operazione considerata quale abuso del diritto produce risultati differenziali da caso a caso (61). La “vaghezza combinatoria” e l’indeterminatezza del principio generale comportano la naturale conseguenza che l’applicazione concreta del principio può avvenire solo in base ad una integrazione valutativa da parte dell’autorità fiscale e del giudice tributario. Ed invero, il principio generale implica quale corollario imprescindibile l’attribuzione di un potere all’interprete autorizzato dall’ordinamento (nella dimensione tributaria, all’amministrazione finanziaria prima ed al giudice tributario poi) di ricostruire la sussistenza e la portata della norma da applicare (il principio generale) (62). In buona sostanza, il soggetto chiamato ad applicare il principio normativo è ammesso a definire le condizioni d’uso della clausola generale, riconoscendo la fonte del proprio potere giuridico. Tale tecnica di utilizzo del principio generale produce una inevitabile circolarità applicativa: dapprima il soggetto che applica il principio generale deve ricostruire la portata del principio, attribuendo un senso giuridico alle formule vaghe ed indeterminate che ne qualificano il profilo normativo; poi, il medesimo soggetto deve applicare tali formule al caso concreto per stabilire l’effetto prescrittivo del principio generale (63). Si tratta di un effetto circolare che comporta l’auto-legittimazione del potere interpretativo, poiché il riconoscimento della fonte normativa (e cioè la portata della clausola generale da applicare al caso concreto) dipende dal medesimo soggetto che viene autorizzato ad applicare tale fonte alla specifica fattispecie. In tale contesto, la rilevanza della norma legislativa dell’art. 10 bis dello Statuto dei diritti del contribuente riguarda essenzialmente la definizione di limiti al potere del soggetto chiamato ad applicare la norma mediante un’inte-
(61) G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297 ss., osserva che la non opponibilità dell’operazione abusiva non si risolve in una mera irrilevanza dell’operazione medesima (come avviene nel diritto civile), bensì si traduce nella ricostruzione dell’operazione secondo lo schema tributario ritenuto più adeguato al caso concreto. (62) Cfr. sul punto G. Fransoni Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297 ss., che chiarisce la differenza tra la tecnica dell’integrazione valutativa delle clausole generali rispetto alla interpretazione delle norme ordinarie. (63) Rileva l’esistenza di una “inevitabile circolarità delle formule normative” F. Gallo, L’abuso del diritto in materia fiscale nell’evoluzione della giurisprudenza della Corte di cassazione, cit., 837 ss.
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grazione valutativa (amministrazione finanziaria e giudice tributario) attraverso la fissazione di regole sostanziali e, soprattutto, procedurali per contenere l’esercizio di tale potere di integrazione valutativa (64). La norma legislativa, come detto in precedenza, non vale a sostituire il principio generale di formazione giurisprudenziale, anzi ne mantiene il profilo giuridico e le cadenze logiche (cioè la vaghezza combinatoria e l’indeterminatezza), piuttosto introduce limiti alla relativa applicazione così da costituire una sorta di “contrappeso” alla circolarità applicativa della clausola generale (65). 9. La recente giurisprudenza della Cassazione conferma la rilevanza del divieto di abuso del diritto come principio generale di formazione giurisprudenziale. – La giurisprudenza della Suprema Corte formatasi dopo l’introduzione del nuovo art. 10 bis dello Statuto del contribuente – e quindi in buona sostanza negli anni 2016/2017 – sembra riprendere le cadenze logiche del principio generale del divieto di abuso del diritto così come elaborate nel periodo antecedente l’introduzione della nuova disposizione legislativa. Innanzitutto, è considerato pacifico dalla Corte di Cassazione che la base normativa del divieto di abuso del diritto sia da individuare nel principio di elaborazione giurisprudenziale tanto per il periodo antecedente l’istituzione dell’art. 10 bis quanto per il periodo successivo (66). Ed invero, nell’argomentazione giuridica circa la rilevanza e la portata del principio generale la Suprema Corte ripercorre costantemente le fasi della giurisprudenza, comunitaria e nazionale, circa l’abuso del diritto in materia fiscale (67) a volere indicare per l’appunto come la regola normativa sia stata enucleata dall’ordinamento attraverso i vari arresti giurisprudenziali. In tale prospettiva, la norma di fonte legale (e cioè il menzionato art. 10 bis) viene qualificata come un “termine interpretativo di riferimento, sia pure in chiave evolutiva” da applicare alle fattispecie verificate anteriormente all’entrata in vigore della legge (68), ciò sembra esprimere l’idea che
(64) In tal senso cfr. M. Basilavecchia, Profili procedimentali dell’art. 10 bis dello Statuto del contribuente, in Corr. Trib., 2016, 3281 ss.; G. Corasaniti, Le garanzie procedimentali in tema di abuso del diritto: spunti di riflessione per un’estensione ad altre forme di accertamento, in Dir. Prat. Trib., 2016, 1862 ss. (65) Vedi in proposito G. Fransoni, Abuso del diritto: generalità della clausola e determinatezza del procedimento, cit., 297 ss. (66) Espressamente in tal senso Cass. 28.2.2017 n. 5088 e n. 5089. (67) In tal senso vedi Cass. sentenza del 9.8.2016 n. 16677; sentenza del 27.1.2017 n. 2054; ordinanza del 13.4.2017 n. 9610; ordinanza n. 9771 del 18.4.2017. (68) Cass. sentenza del 9.8.2016 n. 16675 e n. 16677.
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la disposizione legale rappresenta un fattore di regolazione del principio di fonte giurisprudenziale, idoneo a fornire elementi interpretativi quanto alle clausole generali richiamate dal principio (69), ma non certo a disporre l’istituzione del divieto di abuso del diritto (principio preesistente alla disposizione legale). Nella giurisprudenza recente della Suprema Corte appare altresì costante il richiamo alla circolarità del principio generale: viene infatti ripetutamente espresso il convincimento che il comportamento abusivo deve essere oggetto di una accurata valutazione in sede giudiziaria rispetto al caso concreto attraverso una adeguata verifica della condotta tenuta dal contribuente. La Corte di Cassazione ritiene che il giudice tributario debba apprezzare “i tratti caratterizzanti della vicenda concreta” (70), esaminando “la prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato” (71) e verificando altresì il vantaggio fiscale indebito procurato al contribuente dall’operazione abusiva, considerando che “non è configurabile l’abuso del diritto se non sia stato provato dall’ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici” (72). In tal senso si sostiene che l’abuso del diritto “presuppone quantomeno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contribuenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico prescelto e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco” (73). Parimenti, il giudice tributario è tenuto a verificare l’esistenza di valide ragioni economiche dell’operazione, diverse rispetto al risparmio fiscale e di carattere non marginale, la cui prova incombe sul contribuente (74).
(69) Cass. sentenza del 16.3.2016 n. 5155. (70) Cass. sentenza del 3012.2015 n. 26060; sentenza del 9.8.2016 n. 16677; ordinanza n. 9771 del 18.4.2017. (71) Vedi Cass. sentenza del 9.8.2016 n. 16677; sentenza del 16.3.2016 n. 5155. Argomenti analoghi sono richiamati anche da Cass. sentenza del 9.8.2016 n. 16675; sentenza del 27.1.2017, n. 2054. In tal senso cfr. Cass. sentenza n. 1465/2009. (72) Cass. sentenza del 9.8.2016 n. 16677. Tesi ripresa anche da Cass. sentenza del 16.3.2016 n. 5155; sentenza del 20.5.2016 n. 10458; sentenza del 9.8.2016 n. 16675; ordinanza n. 9771 del 18.4.2017. Cfr. Cass. sentenza n.1465/2009, sentenza n. 20029/2010, sentenza n. 4603/2014, sentenza n. 6226/2015. (73) Cass. sentenza del 9.8.2016 n. 16677. Cfr. Cass. sentenza n. 21390/2012, sentenza n. 4604/2014. (74) Vedi Cass. sentenza del 3012.2015 n. 26060; sentenza del 9.8.2016 n. 16677; sentenza del 20.1.2017, n. 1520; sentenza del 27.1.2017, n. 2054.ordinanza del 13.4.2017;
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Così viene coerentemente richiesto all’amministrazione finanziaria prima e al giudice tributario poi di fornire una accurata motivazione della propria decisione sul caso concreto, idonea a fornire una chiara rappresentazione del percorso logico giuridico attraverso il quale il comportamento del contribuente è qualificato alla stregua delle clausole generali richiamate dal principio normativo (75). Emerge, pertanto, la tendenza giurisprudenziale a privilegiare un’indagine della sostanza economica rispetto all’inquadramento giuridico formale operato dal contribuente (76). In buona sostanza, anche nelle sentenze più recenti la Suprema Corte continua ad affermare che il divieto di abuso del diritto è un principio di fonte giurisprudenziale, la cui effettiva applicazione dipende dalle valutazioni del caso concreto effettuate dal giudice di merito, e che quindi viene costantemente implementato dall’opera di integrazione valutativa operata in sede giudiziaria. 10. Spunti di riflessione indotti dalla vicenda del divieto di abuso del diritto rispetto alla trasformazione dell’ordinamento tributario nazionale. – Aldilà delle considerazioni critiche di parte della dottrina sulla giurisprudenza creativa della Corte di Cassazione (77), la vicenda giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto fornisce rimarchevoli spunti di riflessione sulla trasformazione dell’ordinamento tributario. La matrice pretoria del principio normativo sta evidentemente ad indicare il ribaltamento dell’ordine usuale di formazione delle norme negli ordinamenti giuridici di diritto continentale (o civil law): nel caso di specie, non è infatti l’atto legislativo a produrre la norma, bensì è la giurisprudenza a riconoscere l’immanenza (e quindi, come detto, la vigenza) del principio normativo nell’ordinamento. La fonte normativa non è quindi riconducibile al potere legislativo – e quindi ad una decisione di tipo deduttivo, formata “dall’alto” attraverso la volontà del legislatore – quanto piuttosto ad una ricostruzione “dal basso” operata dai giudici in base al proprio potere istituzionale.
ordinanza n. 9771 del 18.4.2017. Cfr. in tal senso Cass. sentenza n. 1372/2011, sentenza n. 21390/2012, sentenza n. 4604/2014. (75) Cass. sentenza del 3012.2015 n. 26060; sentenza del 20.5.2016 n. 10458; sentenza del 20.1.2017 n. 1520; ordinanza n. 9771 del 18.4.2017. (76) Tale conclusione viene evidenziata chiaramente dalla ricostruzione analitica della giurisprudenza della Suprema Corte sul divieto di abuso del diritto in materia fiscale. Vedi sul punto S. Martinengo, Il concetto giurisprudenziale di divieto di abuso del diritto, in Dir. Proc. Trib., 2016, 329 ss. ed in particolare 340. (77) Cfr. M. Nussi La normativa antielusiva all’approdo statutario, cit., 180; M. Versiglioni, Abuso del diritto, Ospedaletto (Pisa), 2016.
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Ne consegue che la prescrittività normativa viene spostata dall’atto legislativo al valore dei principi e degli interessi emergenti dal caso concreto, secondo la valutazione operata dai giudici (78). Il meccanismo di formazione dell’ordinamento (rectius, delle norme che vanno a comporre l’ordinamento) è rimesso in tal caso al potere giudiziario secondo la logica propria degli ordinamenti di common law. Si tratta di una trasformazione che riguarda non soltanto il settore tributario (considerando che il divieto dell’abuso del diritto costituisce soltanto uno dei vari principi di formazione giurisprudenziale attualmente applicabili alla materia fiscale) (79), ma anche numerosi altri settori ordinamentali. Può evocarsi a tal riguardo l’influenza profonda dell’ordinamento comunitario sull’ordinamento nazionale: il rilievo primario che la Corte di Giustizia ha assunto in tale ambito per la definizione della trama assiologica e dei principi emergenti dal Trattato (o dal diritto derivato) implica la necessità di attribuire al potere giudiziario un ruolo decisivo nel processo di formazione dell’ordinamento giuridico, ben superiore a quello usualmente previsto nei sistemi di diritto continentale (80). Così, la rilevanza del diritto europeo determina l’esigenza di un ripensamento del sistema delle fonti normative, a seguito del quale non soltanto ven-
(78) Secondo un processo di risalita “dal diritto ai valori” efficacemente descritto da N. Irti, La crisi della fattispecie, in Riv. Dir. Proc. Civ., 2014, 41 ss. Vedi in argomento anche N. Lipari, Intorno ai principi generali del diritto, in Riv. Dir. Civ., 2016, I, 28 ss. (79) Con particolare riguardo alla materia tributaria si può pensare ai vari principi del giusto procedimento (buona fede, equivalenza, effettività, contraddittorio preventivo etc.) e del giusto processo (terzietà ed indipendenza del giudice, contraddittorio, parità delle parti, tutela cautelare etc.). Vedi in argomento R. Miceli, Indebito comunitario e sistema tributario interno, Milano, 2009, 25 ss. e 35 ss. (80) In particolare, la Corte di Giustizia è chiamata a pronunciarsi sulla quaestio juris, definendo il significato della norma comunitaria rilevante per il giudizio, mentre il giudice nazionale è tenuto a pronunciarsi sulla quaestio facti, così da pervenire alla decisione sulla fattispecie concreta applicando le norme pertinenti (compresa quella comunitaria). In ordine al ruolo ed alla funzione della Corte di Giustizia nel sistema delle fonti comunitarie esiste un’ampia letteratura. In via meramente indicativa, con particolare riferimento alla funzione “creativa” della CGE si indica F. Capotorti, Corte di giustizia della Comunità europea, in Enc. Giur. Treccani, IX, Roma, 1988; F. Pocar, Diritto dell’unione e delle comunità europee, Milano, 1997, 167 s; P. Mengozzi, Il diritto comunitario e dell’Unione europea, in Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia, diretto da F. Galgano, Padova, 1997, XV, 143; T. Ballarino, Lineamenti di diritto comunitario e dell’Unione europea, Padova, 1997, 96 ss.; M. Lupoi, Riflessioni comparatistiche sulla funzione creativa della giurisprudenza, in Studi in onore di V. Uckmar, II, Padova, 1997, 811 ss. Con riguardo alla materia fiscale vedi P. Boria, Diritto tributario europeo, cit., 123 ss.
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gono riviste le categorie degli atti legislativi idonei ad istituire norme (includendo le fonti comunitarie), ma soprattutto sono regolate fonti non legislative (come i principi di formazione giurisprudenziale) per l’introduzione di norme nell’ordinamento (81). In buona sostanza, la vicenda giurisprudenziale del divieto di abuso del diritto costituisce una significativa conferma della centralità del potere giudiziario nella definizione dell’ordinamento giuridico (tributario, nel caso di specie) secondo un processo di trasformazione delle coordinate del ragionamento giuridico che vale ad esprimere la “nuova dimensione del diritto” nell’epoca attuale.
Pietro Boria
(81) Sulla centralità della giurisprudenza della Corte di Giustizia rispetto all’ordinamento comunitario, vedi R. Monaco, Realtà e tendenze della giurisprudenza della Corte di giustizia delle comunità, in Riv. Dir. Eur., 1987, 175; A. Tizzano, Il ruolo della Corte di Giustizia nella prospettiva dell’Unione europea, in Riv. Dir. Int., 1994, 922 ss.; P. Biavati, La funzione unificatrice della Corte di giustizia, in Riv. Trim. Dir. Proc. Civ., 1995, 273.
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Tutela dell’affidamento, consulenza giuridica e interpello* Sommario: 1. Considerazioni preliminari. – 2. I tratti essenziali della consulenza giuridica e dell’interpello. – 3. Sulle ragioni sottese alla previsione della nullità degli atti contrari alle risposte alle istanze di interpello. – 4. Principio di affidamento, non debenza del tributo in caso di revirement interpretativo e vincoli costituzionali. – 5. Sulla possibilità di riconoscere la non debenza del tributo in alcuni casi di revirement interpetativo. – 6. Considerazioni conclusive. L’articolo affronta il principio dell’affidamento del contribuente con riferimento alla consulenza giuridica e all’interpello, fattispecie tipiche per la realizzazione della tax compliance. L’affidamento del contribuente è declinato in diverso modo dal legislatore, con la previsione, da un lato, della nullità degli atti contrari all’interpello e, dall’altro lato, della non debenza delle sanzioni nel caso di affidamento alle consulenze giuridiche. La scelta legislativa impone di riflettere se per le consulenze giuridiche la tutela dell’affidamento goda di una minore copertura. Per evitare disparità di trattamento non ragionevoli, si ipotizza di estendere la previsione della non debenza del tributo anche a quelle situazioni, come le consulenze giuridiche, molto simili alle risposte agli interpelli interpretativi. The article deals with the taxpayer’s reliance principle with reference to questioning and legal consultations released by the Revenue Agency, as typical situation for the tax compliance. The taxpayer’s reliance is declined differently by the legislator, through the disposition, on the one hand, of the nullity of the acts opposed to the questioning and, on the other hand, of the non-discharge of sanctions when the taxpayer relies on legal consultation. Legislative choice requires reflection if for legal consultation the protection of the taxpayer’s reliance has less coverage. In order to avoid unreasonable unequal treatment, it is hypothesized to extend the prediction of the non-payment of the tax also to those situations, such as legal consultations, very similar to interpretative questionings.
* Lavoro destinato agli scritti in onore del Prof. G. Gaffuri.
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1. Considerazioni preliminari. – Parlare di affidamento con riferimento alla consulenza giuridica e all’interpello significa proiettarsi in una dimensione “partecipativa” del rapporto tributario (1), in cui si realizza la “collaborazione” tra le parti in un’ottica non già di soggezione e alterità, bensì di servizio e di tendenziale parità. Una dimensione nella quale il contribuente ha diritto di confidare (riporre fiducia) sulla correttezza delle determinazioni assunte dall’amministrazione, la quale, a sua volta, è tenuta ad agire in modo leale, non capzioso e non contraddittorio. Si tratta di una dimensione sulla quale molta enfasi viene (giustamente) posta dal c.d. Codice europeo del contribuente, elaborato nel 2016 dalla Commissione europea, nel quale vengono messe in risalto le esigenze legate all’informazione tempestiva ed accurata; alla pubblicazione, da parte delle amministrazioni, delle interpretazioni di natura generale e alla loro applicazione; alla formulazione di interpretazioni di natura tecnica; alla certezza sull’applicazione della legge nei casi specifici; ai doveri, anche dei contribuenti, di agire in buona fede e con correttezza nei rapporti con le amministrazioni fiscali. Di particolare interesse nella prospettiva della compliance sono inoltre gli spunti rivolti alle amministrazioni per adottare comportamenti (modalità di comunicazione e formulazione di orientamenti) qualificati come “proattivi”, diretti a stimolare comportamenti virtuosi da parte dei contribuenti. Ebbene, già da queste considerazioni preliminari si intuisce come il tema oggetto del presente lavoro coinvolga diversi principi ed imponga un contemperamento di diverse istanze che innervano l’ordinamento tributario. Solo per citarne alcuni, penso (riservandomi di tornare poi sull’argomento): alla certezza del diritto, alla capacità contributiva, alla legalità e alla riserva di legge, alla vincolatività dell’azione amministrativa, alla disponibilità/indisponibilità dell’obbligazione tributaria. 2. I tratti essenziali della consulenza giuridica e dell’interpello. – Per apprezzare come il legislatore abbia declinato il principio dell’affidamento
(1) In merito alla funzione partecipativa dell’interpello vd. M.T. Moscatelli, L’interpello del contribuente, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, (a cura di A. Fantozzi, A. Fedele), Milano, 2005, 639; P. Selicato, L’attuazione del tributo nel procedimento amministrativo, Milano, 2001, 506 s.; S. La Rosa, Prime considerazioni sul diritto di interpello, in Il fisco, 1992, 7946; P. Russo, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Milano, 2007, 221.
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con riferimento alla consulenza giuridica e all’interpello è opportuno spendere qualche parola su queste due fattispecie. Consulenza giuridica e interpello non sono sinonimi e anzi rappresentano situazioni diverse: l’una (l’interpello), codificata e disciplinata dal legislatore; l’altra, enucleata dall’Agenzia delle entrate come atto “intermedio” tra l’interpello e gli atti di interpretazione e indirizzo che comprendono le circolari, le risoluzioni e le note. In particolare, nella circolare n. 42/E del 2011, l’Agenzia definisce la consulenza giuridica come «l’attività interpretativa finalizzata all’individuazione del corretto trattamento fiscale di fattispecie riferite a problematiche di carattere generale». Prosegue, poi, l’Agenzia specificando che «la consulenza giuridica, come l’interpello, assume rilevanza anche esterna, in quanto costituisce uno strumento di supporto a disposizione del contribuente al fine di agevolare la tax compliance». Le richieste di consulenza giuridica possono esse presentate da: 1) Uffici, periferici o centrali, dell’Amministrazione finanziaria; 2) Associazioni sindacali e di categoria e Ordini professionali che esprimono interessi diffusi nell’ambito della regione o nazionale; 3) organi periferici o centrali delle Amministrazioni statali, enti pubblici territoriali e assimilati, nonché altri enti istituzionali operanti nell’ambito della Regione o a livello nazionale con finalità di interesse pubblico. Le richieste di consulenza giuridica presentate da soggetti diversi dall’amministrazione danno luogo alle consulenze c.d. esterne, le quali, quando sono sollecitate dagli organismi indicati al punto 2), riguardano questioni di interesse di un’intera categoria, che – come riconosce la stessa Agenzia – in alcuni casi potrebbero dar luogo anche alla presentazione di singole istanze di interpello. Dal canto suo, l’istituto dell’interpello si presenta, specie dopo la riforma del D.Lgs. n. 156/2015, come una realtà variegata ed articolata, nella quale convivono situazioni diverse, caratterizzate da oggetti diversi (2).
(2) Per un inquadramento generale in merito alla genesi, all’evoluzione storica e alle finalità dell’istituto dell’interpello vd., tra gli altri, M. Versiglioni, L’interpello nel diritto tributario, Perugia, 2005, part. 109 s.; F. Pistolesi, Gli interpelli tributari, Milano, 2007, part. p. 45 s.; G. Gaffuri, Diritto tributario. Parte generale e parte speciale, 2012, 216 s.; G. Gaffuri, Il ruling internazionale, in Rass. trib., 2004, 489; S. LA Rosa, Prime considerazioni sul diritto di interpello, cit., 7946; G. Zizzo, Diritto d’interpello e ruling, in Riv. dir. trib., 1992, I, 136; M.V. Serranò, Riflessioni in tema di diritto di interpello, in Il fisco, 1993, 4721; M. Nussi, Prime osservazioni sull’interpello del contribuente, in Rass. trib., 2000, 1859; A. Comelli, La disciplina dell’interpello: dall’art. 21 l. n. 413/1991 allo statuto dei diritti del contribuente, in Dir. prat. trib., 2001, 605; G. Marongiu, Riflessioni sul diritto di interpello, in Corr. trib., 2002, 1408; G. Alemanno, Il diritto all’informazione tra consulenza giuridica e interpello, in Corr. trib., 2002, 495; A. Gargea, Spunti ricostruttivi
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Si parla (3), infatti, di: - interpello ordinario puro, per riferirsi all’interpello sull’interpretazione e sull’applicazione ad un caso concreto di una disposizione tributaria; - interpello qualificatorio, per riferirsi all’interpello sulla qualificazione di una fattispecie concreta alla luce di una certa disposizione normativa; - interpello probatorio, per riferirsi all’interpello sulla sussistenza delle condizioni per accedere ad un determinato regime; - interpello antielusivo, per riferirsi all’interpello sulla sussistenza di un abuso di diritto; - interpello disapplicativo, per riferirsi all’interpello sulla inesistenza di effetti elusivi e sulla conseguente disapplicazione di norme antielusive specifiche. Ebbene, mi pare evidente che, pur con le differenze testé indicate, l’oggetto degli interpelli (in modo più sfumato per quello ordinario puro) sia molto focalizzato sulla pre-definizione, da parte dell’Agenzia, di elementi di fatto che connotano il presupposto dell’obbligazione tributaria dello specifico contribuente. A quelli ora elencati si aggiunge poi l’interpello sui nuovi investimenti, disciplinato dall’art. 2 del D.Lgs. 147/2015 (4), nel quale la rilevanza dell’en-
in tema di interpello tributario, in Riv. dir. trib., 2003, I, 483; A. Giorgianni, L’evoluzione dei rapporti di collaborazione tra amministrazione finanziaria e contribuente: l’interpello alla luce dello Statuto del contribuente, in Riv. dir. trib., 2004, I, 217. Con particolare riferimento alla distinzione tra interpelli “necessari” e interpelli “facoltativi” vd. S. La Rosa, L’interpello obbligatorio, in Riv. dir. trib., 2011, I, 711; G. Fransoni, Efficacia e impugnabilità degli interpelli fiscali con particolare riguardo all’interpello disapplicativo, in G. Maisto (a cura di), Elusione ed abuso del diritto tributario, Milano, 2009, 77. (3) Per alcune prime riflessioni sulle modifiche apportate dalla riforma del D.Lgs. n. 156/2015 vd. F. Pistolesi, Dalla delega fiscale più omogeneità ed efficienza per gli interpelli, Corr. trib., 2014, 1836; G. Fransoni - R. Suraci, Facoltatività o obbligatorietà dell’interpello disapplicativo?, in Corr. trib., 2016, 1645; G. Glendi, Nonostante l’intervento del legislatore permangono le divergenze dei giudici di merito sull’autonoma impugnabilità del diniego di interpello, in Dir. prat. trib., I, 2016, 2586; G. Fransoni, Qual vaghezza…? Considerazioni sui presupposti dell’interpello qualificatorio, in Corr. trib., 2016, 570; G.M. Committeri G. Scifoni, Revisione degli interpelli: migliorano dialogo e collaborazione tra Fisco e contribuente?, in Corr. trib., 2015, 4193; R. Fanelli, Nuovo regime dell’interpello basato sulla responsabilizzazione del contribuente, in Corr. trib., 2015, 3797; B. Santacroce - A. Mastromatteo, Interpelli ordinari spuri, antielusivi e disapplicativi, in Il fisco, 2015, 3920; R. Alfano - C. Verrigni, Gli interpelli: evoluzione sistematica e trend legislativo italiano, in Diritto e prat. trib. int., 2016, n. 3, 841; T. Di Tanno, Il nuovo interpello disapplicativo, in Riv. dir. trib., 2017, I, 147. (4) In proposito vd. A. Tommasini, L’interpello sui nuovi investimenti, in Corr.
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tità dell’investimento realizzato dal contribuente e le ricadute sociali dello stesso hanno indotto il legislatore a prevedere, da un lato, una considerevole ampiezza delle questioni sottoponibili all’amministrazione, e, dall’altro lato, un effetto vincolante della decisione amministrativa destinato a perdurare nel tempo, non modificabile in presenza di un mutamento di orientamento dell’Agenzia, a meno che non vi sia un cambiamento nelle circostanze di fatto o di diritto su cui è stata resa la risposta (5). A dispetto delle diversità di oggetto, gli interpelli di cui all’art. 11 dello Statuto presentano dei punti in comune. In primo luogo con riguardo al presupposto, consistente nella situazione di obiettiva incertezza, la quale può riguardare: a) la portata della disposizione e la sua applicabilità ad un caso specifico; b) la qualificazione di una fattispecie concreta e la sua sussumibilità in una certa disposizione (che tuttavia l’Agenzia ritiene non possa riguardare le situazioni con spiccata rilevanza dei profili fattuali che richiedono un apprezzamento di fatto, da riservare all’attività di controllo e accertamento); c) l’idoneità di elementi probatori a consentire l’accesso ad un determinato regime (solo in casi espressamente previsti dalla legge); d) la abusività di una certa operazione; e) l’inesistenza di effetti elusivi. Inoltre, punti di contatto attengono al riferimento a fattispecie concrete e personali (caratteristiche che difettano nella richiesta di consulenza giuridica); all’iniziativa del contribuente; alle caratteristiche delle risposte (scritte e motivate); alla non impugnabilità (eccezion fatta per le risposte agli interpelli disapplicativi); all’effetto vincolante (che è circoscritto alle questioni oggetto dell’istanza, è limitato al contribuente istante, è valido fino a “rettifica” da parte dell’Agenzia e si traduce nella “nullità” di atti impositivi o sanzionatori difformi). In questa sede, ci concentriamo sulla categoria degli interpelli ordinari puri (lett. a dell’art. 11), perché, vertendo sull’interpretazione (e sulla conseguente applicazione) di una disposizione normativa, sono questi che hanno oggetto più simile a quello delle consulenze giuridiche. Anche per questi interpelli il legislatore ha declinato il principio dell’affidamento del contribuente nella sua accezione più pregnante, vale a dire quella della nullità dell’atto impositivo o sanzionatorio contrario alla risposta (6).
trib., 2015, 1673; G. Ascoli - M. Pellecchia, Ruling internazionale e interpello sui nuovi investimenti per una proficua collaborazione Fisco-contribuente, in Il fisco, 2016, 1452. (5) Tenendo presente che, secondo l’Agenzia, il mutamento delle circostanze di diritto può dipendere anche dal consolidarsi di un diverso orientamento della giurisprudenza di legittimità: cfr. circ. 25/E del 2016. (6) Sul punto, seppur con riferimento all’interpello ex art. 11 L. n. 212/2000, ante
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Diversamente, per la consulenza giuridica non v’è alcuna disposizione specifica, ragion per cui, dato che la consulenza rientra certamente tra gli “atti” dell’amministrazione, dovrebbe soccorrere l’art. 10, co. 2, dello Statuto, nel quale l’affidamento viene testualmente garantito attraverso la previsione della non debenza di sanzioni e interessi moratori. Sicché dovremmo chiederci se, per le consulenze giuridiche, la tutela dell’affidamento goda di una copertura minore rispetto a quella delle risposte all’interpello. 3. Sulle ragioni sottese alla previsione della nullità degli atti contrari alle risposte alle istanze di interpello. – La questione – in una prospettiva de jure condito – impone di indagare, da un lato, le ragioni sottostanti alla scelta legislativa circa la nullità degli atti contrari all’interpello (7); dall’altro lato, la portata generale del principio dell’affidamento e dell’art. 10, co. 2, dello Statuto. Quanto al primo profilo, ritengo sia necessario enucleare la natura dell’interpello ed in particolare mi sembra sia utile considerare che tanto più ci si allontana dal modello dell’“attività consultiva” (8) e si accosta l’interpello alla figura dell’accertamento (9) e, ancor più, a quella della “determinazione consensuale” (10) dei caratteri qualitativi e quantitativi del presupposto, tanto
modifiche, vd. E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, Milano, 2001, 116. (7) Sul punto vd., ad esempio, M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, Milano, 2009, 245, secondo cui «la nullità del provvedimento è del tutto coerente con l’esigenza di sanzionare comportamenti contra bonam fidem, sicché da questo punto di vista la soluzione normativa non sorprende ed anzi si armonizza con le potenzialità tipiche della buona fede correttiva». (8) Riconosciuto dalla Corte Costituzionale nella sent. n. 191 del 14 giugno 2007. Nello stesso senso vd. anche Corte di Cassazione, sentenza n. 23031 del 2 novembre 2007. (9) Sul punto vd. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario. Parte generale, Padova, 2012, 340, il quale ritiene «insostenibile» la tesi che vorrebbe far rientrare l’attività di interpello tra quelle di indirizzo in senso stretto e attribuisce all’istituto «natura analoga, se non identica, all’accertamento con adesione»; F. Pistolesi, L’interpello tributario, cit., 72, secondo cui la risposta ad un interpello costituirebbe «un’attività che trascende la funzione di semplice assistenza e consulenza giuridica e che si colloca nella fase realizzativa della funzione di accertamento del corretto adempimento dell’obbligazione tributaria»; G. Zoppini, Lo strano caso delle procedure di interpello in materia di elusione fiscale, in Riv. dir. trib., I, 2002, 10031004, secondo cui «nella fase dell’interpello l’organo interpellato non agisce secondo canoni di discrezionalità ordinaria, ma con gli stessi criteri (rigorosamente legali) che caratterizzano la fase dell’accertamento». (10) Per un inquadramento in termini consensuali dell’istituto dell’interpello vd. M.T.
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maggiore è la distanza che si frappone tra le risposte all’interpello e le consulenze giuridiche, le quali (le consulenze) riguardano pur sempre questioni di carattere generale, ancorché di interesse più spiccato per una categoria di soggetti. Sicché, in queste ultime prospettive, la nullità dell’atto contrario all’interpello deriverebbe come conseguenza del (parziale) esaurimento del potere di accertamento, quanto meno con riferimento all’inquadramento, rispetto alla norma impositiva, della specifica fattispecie realizzata dal contribuente (in sostanza, la risposta all’interpello inibirebbe l’esercizio del potere di autotutela in pejus). A me non sembra, tuttavia, che nell’interpello interpretativo si possa arrivare a configurare un atto di accertamento o, addirittura, una “determinazione consensuale” del presupposto (11), perché, da un lato, non mi pare si possano ravvisare i connotati dell’atto autoritativo con il quale viene avanzata una pretesa impositiva, né dell’atto con cui viene comunicata al contribuente una ben individuata pretesa tributaria ormai definita (12), e, dall’altro lato, non mi sembra ci sia un vero e proprio accordo su come tassare un certo evento/fatto rappresentato nella sua dimensione quantitativa, ma solo un chiarimento, non a caso non vincolante per il contribuente, su come vada interpretata e applicata nel caso concreto una certa disposizione obiettivamente incerta. Non nego che nell’interpello ci troviamo di fronte a qualcosa di più della mera interpretazione (se intesa nel senso più tradizionale), che si spinge sino all’applicazione della norma interpretata alla fattispecie concreta, tuttavia ciò non mi sembra sufficiente per abbandonare la configurazione dell’interpello come “attività consultiva”, né per giustificare la sopra indicata differenza in termini di effetti rispetto alla consulenza giuridica, anche perché ricordo che, secondo le teorizzazioni più recenti, interpretazione e applicazione sono momenti che spesso si sovrappongono e si compenetrano (13).
Moscatelli, L’interpello del contribuente, cit., 640 s., la quale ravvisa nell’istituto i caratteri tipici «delle forme di amministrazione per consenso». (11) La quale invece potrebbe connotare gli accordi di cui all’art. 31-ter del DPR 600 (alla stessa stregua di quanto avveniva per i ruling internazionali di cui all’art. 8 del DL. n. 269/2003, su cui vd. G. Gaffuri, Il ruling internazionale, cit., 493 s.) o anche gli accordi in sede di adesione/conciliazione. (12) Si tratta dei connotati in base ai quali, come noto, la Corte di cassazione ha ritenuto di annoverare tra gli avvisi di accertamento, ai fini della loro impugnabilità, anche atti aventi una denominazione diversa (vd. Corte di Cassazione, sentenza n. 25927 del 28 novembre 2014; sentenza n. 2616 del 11 febbraio 2015; sentenza n. 16952 del 19 agosto 2015; sentenza n. 19704 del 2 ottobre 2015; sentenza n. 8587 del 2 maggio 2016; sentenza n. 1386 del 26 gennaio 2016). (13) Per le diverse posizioni assunte in dottrina in merito alla distinzione tra l’attività
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Peraltro, il fatto che l’interpello debba essere riferito ad un caso personale e concreto (che rappresenta certamente una significativa differenza degli interpelli rispetto alle consulenze giuridiche) potrebbe trovare giustificazione, per gli interpelli interpretativi, alla luce dell’esigenza di evitare che l’Agenzia possa essere sollecitata ad attività interpretative su questioni prive di utilità specifica per l’istante. In tal senso, il riferimento al caso personale e concreto potrebbe rappresentare una declinazione del dovere di buona fede e correttezza che incombe anche sul contribuente. Ed allora, per evitare disparità di trattamento non ragionevoli, valorizzando la natura di attività consultiva dell’interpello interpretativo, si potrebbe ipotizzare di estendere l’effetto della nullità anche agli atti impositivi posti in essere in contrasto – e per il solo fatto di essere in contrasto (14) – con le indicazioni contenute in precedenti consulenze giuridiche rese dall’Agenzia, ed anche, più generale, in presenza di quelle fattispecie che rientrano in atti interpretativi (circolari/risoluzioni) (15) che siano connotati da particolare
di interpretazione e quella di applicazione della norma giuridica mi limito qui a rinviare a G. Tarello, L’interpretazione della legge, in Trattato dir. civ. e comm., Milano, 1980, 42 s. (14) Giacché altra cosa è l’illegittimità dell’atto di accertamento derivante dall’infondatezza o dall’erroneità del revirement. (15) Precisazioni circa l’efficacia dell’attività interpretativa dell’amministrazione – che si traduce soprattutto in circolari, note, risoluzioni ecc. – si trovano in E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 114 s., ove l’autore osserva che – nonostante il prevalente orientamento dottrinale e giurisprudenziale che ritiene le circolari interpretative efficaci soltanto all’interno «dell’ordinamento settoriale dell’Amministrazione finanziaria» – il comportamento dei contribuenti tende generalmente ad uniformarsi alle interpretazioni di leggi e regolamenti forniti dall’amministrazione, non solo per una «naturale esigenza di certezza» rispetto alle scelte da effettuare, ma anche per evitare di esporsi ad una futura azione accertatrice. Sul punto vd. anche A. Di Pietro, I regolamenti, le circolari e le atre norme ammnistrative per l’applicazione della legge tributaria, in Trattato di diritto tributario, diretto da Amatucci A., Padova, 1994, Vol. I, 2°, 650 s.; M. Trivellin, Commento all’art. 10 L. 27 luglio 2000, n. 212, in G. Falsitta, A. Fantozzi, G. Marongiu e F. Moschetti, Commentario breve alle leggi tributarie, Tomo I – Diritto Costituzionale tributario e Statuto del contribuente, Padova, 2011, 546, il quale afferma che sarebbe una particolare situazione, di «stato di necessità», a spingere il contribuente a non discostarsi dagli indirizzi dell’amministrazione; G. Falsitta, Rilevanza delle circolari “interpretative” e tutela giurisdizionale del contribuente, in Rass. trib., 1988, I, 11 s.; E. De Mita, La tutela del contribuente contro la “dottrina” del fisco, in Rass. trib., 1987, II, 537 s.; S. La Rosa, L’Amministrazione finanziaria, Torino, 1995, 59-60; F. Tesauro, Istituzioni di diritto tributario. Parte Generale, Torino, 2006, 57-58; R. Lupi, Diritto tributario. Parte Generale, Milano, 2005, 94 s.; S. Sammartino, Le circolari interpretative delle norme tributarie emesse dall’Amministrazione finanziaria, in Studi in onore di V. Uckmar, Padova, 1997, tomo II, 1077 s.; M.V. Serranò, Il diritto all’informazione e la tutela della buona fede nell’ordinamento tributario italiano, in Riv. dir. trib., 2001, I, 328-329.
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precisione e dettaglio, non solo in punto di inquadramento del significato della disposizione, ma anche di individuazione delle fattispecie cui la stessa si applica (16). In altri termini, si potrebbe ipotizzare di estendere la previsione della nullità a quelle situazioni che, quanto meno nel nucleo essenziale, sono molto vicine alle risposte agli interpelli interpretativi. Segnalo, peraltro, incidentalmente, che tale estensione dovrebbe verificarsi, a maggior ragione, con riferimento a tutte le fattispecie, qualitativamente analoghe a quelle oggetto di un precedente interpello ottenuto da un contribuente, poste in essere da soggetti diversi dall’interpellante. Ciò al fine di evitare la disparità di trattamento che deriverebbe per effetto dell’art. 11, co. 4, dello Statuto, il quale nega l’esistenza di condizioni di obiettiva incertezza (e, quindi, nega la possibilità di presentare istanza di interpello) quando l’amministrazione abbia «compiutamente fornito la soluzione per fattispecie corrispondenti a quella rappresentata dal contribuente mediante atti pubblicati ai sensi dell’articolo 5, comma 2». Sicché, un contribuente, solo per il fatto di trovarsi ad applicare una norma (incerta) dopo che un altro abbia ottenuto un interpello, e questo sia stato pubblicato, non potrebbe ottenere la stessa “protezione” del primo (17). Il tutto aggravato dal fatto che la pubblicazione delle risposte non è obbligatoria per l’Agenzia, bensì prevista nei casi di cui al co. 6 dell’art. 11, tra cui «ogni altro caso in cui ritenga di interesse generale il chiarimento fornito». Senonché, un ostacolo al perseguimento del suddetto risultato potrebbe essere ravvisato nella tassatività delle ipotesi idonee a condurre alla nullità del
(16) Penso, ad esempio, alle circolari in cui l’Agenzia ha chiarito il concetto di “luogo di detenzione” ai fini della c.d. voluntary disclosure o alle circolari sulle operazioni di assegnazione di beni ai soci o, ancora, alle circolari formate dalle risposte fornite a quesiti della stampa specializzata. Si tratta, in sostanza, di quelle che la dottrina definisce circolari «rigide» (vd. S. Sammartino, Le circolari interpretative delle norme tributarie emesse dall’Amministrazione finanziaria, cit., 1088-1089) cioè quelle che «forniscono indicazioni chiare e puntuali, esaustive, anche con riferimenti esemplificativi a possibili fattispecie concrete» e che rendono l’orientamento assunto dall’amministrazione vincolante. Sul punto vd. altresì M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, cit., 203 s., il quale, in ragione del principio di buona fede, fa discendere la non debenza del tributo dal grado di certezza, specificità e precisione dell’informazione resa dall’amministrazione. (17) Vero è che quando il secondo contribuente presenta l’istanza di interpello non esisterebbe più l’obiettiva incertezza, così come delineata dall’art. 11, co. 4, dello Statuto, ma vero è, altresì, che proprio l’esistenza di un successivo mutamente interpretativo dimostra che la disposizione non fosse per nulla “certa” nel suo significato, anche dopo la risposta al primo interpello.
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provvedimento amministrativo di accertamento, giusta quanto dispone l’art. 21-septies della L. 241/90 («altri casi espressamente previsti dalla legge»). Inoltre, si potrebbe ipotizzare che la nullità in caso di interpello possa derivare dal fatto che, solo con riferimento alle risposte fornite, l’amministrazione è in grado di conoscere a priori il soggetto cui la risposta è stata resa, il quale corrisponde al soggetto che ha assunto l’iniziativa rappresentando in anticipo la sua situazione. Tuttavia, queste circostanze, nel giustificare la disposizione che inibisce la produzione di effetti all’atto dell’amministrazione contrario all’interpello (ferme poi le questioni su come il vizio della nullità possa essere fatto valere in giudizio), potrebbero condurre – valorizzando il principio della buona fede – a derivare dalla previsione della nullità un preciso obbligo in capo all’Agenzia di astenersi dall’emettere l’avviso di accertamento nei confronti del contribuente che sia stato destinatario dell’interpello. Dunque, la peculiarità della risposta all’interpello non risiederebbe tanto (o soltanto) nella previsione della nullità dell’atto contrario (almeno fino alla rettifica della risposta), quanto nell’effetto inibitorio che da detta nullità potrebbe derivare sul potere di accertamento dell’Agenzia. Sicché, si potrebbe dire che, al di fuori della scansione tipica dell’interpello, l’atto non sarebbe nullo, l’Agenzia conserverebbe il potere di emettere l’accertamento, ma non per questo il tributo sarebbe dovuto e l’avviso di accertamento sarebbe legittimo, non essendo esclusa la possibilità di configurare l’illegittimità enucleando l’esistenza di una violazione di legge (18). 4. Principio di affidamento, non debenza del tributo in caso di revirement interpretativo e vincoli costituzionali. – Ecco che, allora, per arrivare al risultato della non debenza del tributo potrebbe soccorrere il principio dell’affidamento (nel senso che ora cercherò di chiarire), il quale è stato sì declinato nell’art. 10, c. 2, dello Statuto, con la formula secondo cui non sono dovuti sanzioni nè interessi moratori, ma potrebbe avere una forza espansiva poten-
(18) Ciò tanto più se si considera che la Corte di cassazione ha fatto derivare la nullità degli atti di accertamento anche in assenza di una previsione espressa, laddove la violazione perpetrata dall’amministrazione abbia riguardato disposizioni che incarnano e traducono principi generali dell’ordinamento, dotati di rilevanza costituzionale. In particolare, faccio riferimento alle pronunce di nullità degli avvisi di accertamento emessi ante tempus (vd. SS.UU. sentenza n. 18184 del 29 luglio 2013) oppure a seguito di accessi privi di regolare autorizzazione (vd. Corte di Cassazione, sentenza n. 17957 del 19 ottobre 2012; sentenza n. 11672 del 15 maggio 2013).
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zialmente maggiore, teoricamente idonea a consentire di sancire la non debenza del tributo (19). Ciò in ragione della rilevanza costituzionale dei valori ad esso sottesi. Esso, invero, incarna un’esigenza immanente e connaturata al nostro sistema giuridico, in quanto imposta dai principi di libertà e di dignità della persona (20), sicché il suo fondamento viene (condivisibilmente) ravvisato negli artt. 2, 3, 13 e 41 Cost. (21). Esso, peraltro, va letto in uno con il principio della buona fede (in senso oggettivo e soggettivo), del quale può essere considerato come una sorta di “precipitato”, dal momento che il principio della buona fede si declina proprio nel divieto per l’amministrazione di tradire le aspettative ingenerate con propri precedenti atti (22). Dall’altro canto, però, non si può trascurare che l’affermazione generalizzata della non debenza del tributo in caso di revirement rispetto a una precedente circolare potrebbe interferire con l’art. 53 Cost., laddove il mutamento interpretativo fosse dipeso dal consolidamento di un contrario indirizzo giurisprudenziale di legittimità (“diritto vivente”) (23), giacché, in tal caso, il mancato pagamento del tributo oggettivamente si risolverebbe in una tassazione non conforme alla capacità contributiva del soggetto (così come tale
(19) Come in alcuni casi riconosciuto dalla Corte di cassazione (vd. sentenza n. 17576 del 10 dicembre 2002). (20) Cfr. E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 91 s., il quale afferma che «dalla libertà individuale, intesa soprattutto come libertà “positiva” e cioè come possibilità di autodeterminazione dell’individuo … trae origine il principio dell’affidamento nella sicurezza giuridica o nella certezza del diritto, inteso come principio che postula la tutela di situazioni di aspettativa o di affidamento ingenerate da un determinato assetto legislativo e meritevoli di particolare attenzione». In giurisprudenza, vd. Corte di Cassazione, sentenza n. 2937 del 10 febbraio 2010; sentenza n. 9308 del 17 aprile 2013. (21) Così E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 93; A. Meloncelli, Affidamento e buona fede nel rapporto tributario, in AA.VV., Statuto dei diritti del contribuente, (a cura di Fantozzi A., Fedele A.), Milano, 2005, 543. Valorizza, invece, l’art. 97 quale fondamento del principio dell’affidamento M. Trivellin, Il principio di buona fede nel rapporto tributario, cit., 168. (22) In questi termini vd. M. Trivellin, Commento all’art. 10 L. 27 luglio 2000, n. 212, cit., 545 s., secondo cui il principio di buona fede comporta in capo all’amministrazione il dovere di «mantenere un comportamento coerente» oltre al «divieto di condotte contraddittorie». Nello stesso senso, E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 150. Sul principio di buona fede, vd. anche P. Marongiu, L’amministrazione fiscale tra poteri e responsabilità, Torino, 2016, 131 s.; A. Meloncelli, Affidamento e buona fede nel rapporto tributario, cit., 537 s. (23) Negli altri casi, invece, non mi sembra vi siano elementi per ritenere che la seconda interpretazione conduca ad una tassazione più conforme all’art. 53 della precedente.
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capacità contributiva risulta declinata dal presupposto della norma oggetto di interpretazione). Inoltre, la generalizzata non applicazione del tributo nella fattispecie qui prospettata potrebbe contrastare con il principio della riserva di legge in materia tributaria (art. 23 Cost.), configurandosi peraltro il rischio di attribuire alle circolari interpretative una natura para-normativa, di fonte di diritti e di doveri (24). Ed in effetti non mancano in dottrina posizioni contrarie ad un’estensione generalizzata dell’effetto di non debenza del tributo in tutti i casi di revirement dell’amministrazione, posizioni che fanno leva, da un lato, sulla violazione che si determinerebbe rispetto ai principi di legalità e di capacità contributiva (25), e, dall’altro lato, sull’inconciliabilità della suddetta estensione con le norme civilistiche che prevedono la liberazione del debitore in buona fede, allorquando, però, lo stesso abbia adempiuto all’obbligazione di pagamento (art. 1189 c.c.) ovvero sia stato vittima di un intenzionale esercizio malizioso di un diritto da parte del creditore (nel caso dell’exceptio doli) (26). Ora, a me sembra che, rispetto a tali ultime interessanti considerazioni, si potrebbe obiettare che le stesse finiscono con il provare troppo, giacché la “mutuazione” delle menzionate regole civilistiche dovrebbe condurre a du-
(24) Natura negata costantemente dalla Cassazione: per tutte vd. SS.UU. sentenza n. 23031 del 2 novembre 2007. In tal senso vd. M. Trivellin, Commento all’art. 10 L. 27 luglio 2000, n. 212, cit., 546; E. Della Valle., Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 157; G. Falsitta, Rilevanza delle circolari “interpretative” e tutela giurisdizionale del contribuente, cit., 13, ove si afferma che attribuire un’efficacia vincolante all’attività interpretativa dell’amministrazione significa riconoscere all’amministrazione stessa un potere normativo contrario al principio della riserva di legge relativa di cui all’art. 23 Cost. (25) Cfr. D. Stevanato, Tutela dell’affidamento e limiti all’accertamento del tributo, in Rass. Trib., 2003, 817-818, ad avviso del quale un eventuale esonero dall’adempimento dell’obbligazione tributaria a fronte di un revirement dell’amministrazione finanziaria corrisponderebbe ad una violazione del principio di legalità, dal momento che ciò significherebbe far dipendere un obbligo tributario «da un comportamento amministrativo, ed in specie da un comportamento amministrativo patologico, ovvero da un’affrettata (ed erronea) affermazione di non debenza del tributo»; A. Turchi, La tutela dell’affidamento del contribuente a fronte dei mutamenti interpretativi della finanza, in Riv. dir. trib., 2003, I, 783. Anche A. Di Pietro, I regolamenti, le circolari e le altre norme amministrative per l’applicazione della legge tributaria, in A. Amatucci (diretto da), Trattato di diritto tributario, I, 2, Padova, 1994, 659, prima dell’emanazione dello Statuto del contribuente, valorizzava «l’interesse pubblico al prelievo» per escludere l’esistenza di un diritto alla non debenza del tributo in presenza di una nuova interpretazione da parte dell’amministrazione. (26) Il profilo è trattato in particolare da A. Turchi, La tutela dell’affidamento del contribuente a fronte dei mutamenti interpretativi della finanza, cit., 786 s.
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bitare della coerenza (27) anche delle disposizioni tributarie che sanciscono la nullità degli atti impositivi contrari a precedenti interpelli, situazioni nelle quali il contribuente non ha assolto al proprio obbligo contributivo (diversamente da quanto prevede l’art. 1189 c.c.) e non si può dire abbia subito un malizioso esercizio del diritto di credito da parte dell’Agenzia. Più in generale, poi, tale impostazione mi pare risenta delle ben note difficoltà di conciliare in modo puntuale le disposizioni contenute nei due rami dell’ordinamento (quello tributario e quello civilistico) e finisca per sottovalutare le peculiarità della posizione attribuita dal legislatore all’amministrazione finanziaria, quale soggetto incaricato dell’attuazione dell’obbligazione tributaria, rispetto alla quale il contribuente non può dirsi in condizioni di parità (28). Quanto, invece, al rischio di contrasto con i principi costituzionali, che io stesso ho innanzi segnalato, mi sembra che, in un’ottica sistematica, considerata la rilevanza degli interessi costituzionali sottesi al principio dell’affidamento, si dovrebbe verificare se vi siano le condizioni per un riposizionamento del punto di equilibrio tra le diverse istanze coinvolte, che consenta di riconoscere in certe situazioni la non debenza del tributo. 5. Sulla possibilità di riconoscere la non debenza del tributo in alcuni casi di revirement interpretativo. – Partiamo dal presupposto che il testo dell’art. 10, c. 2, non sembra precludere tale soluzione: come riconosciuto dalla giurisprudenza e dalla dottrina, esso reca una formulazione aperta, nella quale le ipotesi normativamente previste sono meramente esemplificative dei casi maggiormente frequenti (29).
(27) E della legittimità rispetto all’art. 3 Cost. (28) Se non altro perché l’amministrazione finanziaria è dotata di poteri autoritativi tali per cui, nel caso in cui non condivida l’interpretazione data dal contribuente ad una certa disposizione e l’applicazione che questi ne abbia fatto, può emettere un avviso di accertamento (immediatamente esecutivo) ed irrogare delle sanzioni. (29) Come in alcuni casi riconosciuto dalla Corte di cassazione (vd. sentenza n. 17576 del 10 dicembre 2002; sentenza n. 18218 del 29 agosto 2007; sentenza n. 537 del 14 gennaio 2015). Favorevoli ad una portata estensiva del 2° comma dell’art. 10, in ragione dei principi generali di buona fede e collaborazione, G. Marongiu, Lo statuto e la tutela dell’affidamento e della buona fede, in Riv. dir. trib., I, 2008, 164; E. Della Valle E., Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 152 s.; A. Colli Vignarelli, Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto dei diritti del contribuente, in Riv. dir. trib., 2001, I, 669. In senso contrario vd. invece M. Logozzo, L’ignoranza della legge tributaria, Milano, 2002, 249; nonché A. Turchi, La tutela dell’affidamento del contribuente a fronte dei mutamenti interpretativi della finanza, in Riv. dir. trib., 2003, I, 785, i quali ritengono che proprio la non doverosità degli interessi confermerebbe, a contrario, la debenza del tributo, che dei primi
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In particolare, la valenza precettiva della disposizione dovrebbe consistere nel riconoscimento della non sanzionabilità del contribuente per il solo fatto che questi si sia conformato alle indicazioni dell’amministrazione, come se il legislatore avesse voluto predeterminare una causa di non punibilità nell’essersi il contribuente attenuto alle risultanze di un atto dell’amministrazione, a prescindere dal suo stato soggettivo e dalla fonte di provenienza dell’atto (30), sino a comprendere il comportamento indotto da fatti conseguenti a ritardi, omissioni o errori dell’amministrazione. Al di fuori di questo modello legale, invece, il riconoscimento della tutela dell’affidamento – fino a giungere alla non debenza del tributo – a legislazione vigente, sembrerebbe dover passare attraverso la valorizzazione del principio della buona fede (31), inteso, da una parte, quale dovere dell’amministrazione di agire in modo coerente e non contraddittorio (32), senza tradire le aspettative del contribuente, e, dall’altra parte, quale dovere del contribuente di agire in modo corretto (33), tenendo comportamenti che siano fondati sul ra-
costituisce la fonte e la giustificazione. (30) Così anche A. Turchi, La tutela dell’affidamento del contribuente a fronte dei mutamenti interpretativi della finanza, cit., 781. (31) Vd. in tal senso, Corte di cassazione, sentenza n. 17576 del 10 dicembre 2002; sentenza n. 21513 del 6 ottobre 2006; sentenza n. 26505 del 12 dicembre 2006; sentenza n. 10982 del 13 maggio 2009. Tale impostazione è stata tuttavia contraddetta dalla giurisprudenza più recente che si limita a considerare il dato testuale dell’art. 10, co. 2: vd. Corte di cassazione, sentenza n. 3757 del 9 marzo 2012; sentenza n. 16692 del 3 luglio 2013; sentenza n. 5934 del 25 marzo 2015; sentenza n. 10195 del 18 maggio 2016. L’inversione di rotta della Corte di Cassazione in ordine alla tutela del principio del legittimo affidamento in caso di revirement dell’amministrazione è evidenziata da L. Perrone, Certezza del diritto, affidamento e retroattività, in Rass. trib., 2016, 943 s. (32) Come osservato da E. De Mita, La buona fede in diritto tributario (quando l’amministrazione cambia orientamento), in Interesse fiscale e tutela del contribuente, Milano, 2006, 334 s., l’«obbligo di correttezza della P.A. si traduce anche nel dovere di buona fede nel senso che quando l’amministrazione ha assunto un dato orientamento non può pretendere comportamenti dai cittadini diversi da quelli che essa stessa ha determinato». Sul punto vd. anche S. Sammartino, Le circolari interpretative delle norme tributarie emesse dall’Amministrazione finanziaria, cit., 1088-1089; M.C. Fregni, Obbligazione tributaria e codice civile, Torino, 1998, 232-233; F. Benatti, Principio di buona fede e obbligazione tributaria, in Boll. trib., 1986, 949 s.; G. Marongiu, I conti transitori di riassicurazione nella determinazione del reddito imponibile, in Dir. prat. trib., 1991, II, 1391-1392; E. Della Valle, Revirement ministeriale e buona fede nell’esercizio della funzione impositiva, in Riv. dir. trib., 1995, I, 617 s.; E. Della Valle, Affidamento e certezza del diritto tributario, cit., 152-153, il quale afferma che il rispetto del «principio di buona fede oggettiva» impone l’obbligo in capo all’amministrazione di non discostarsi dagli affidamenti del contribuente e di non applicare retroattivamente un eventuale revirement interpretativo sfavorevole. (33) In merito al dovere di correttezza del contribuente si rinvia a M. Trivellin, Il
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gionevole convincimento delle apparenti legittimità e coerenza dell’attività amministrativa. Molto importante, in questa direzione, è l’apporto dato dalla Corte di Giustizia la quale, dopo aver ripetutamente riconosciuto la rilevanza, quali principi fondamentali dell’ordinamento comunitario, dei principi di certezza del diritto e di tutela del legittimo affidamento (34), nella pronuncia 9 luglio 2015, causa C-144/14, ne ha delineato l’ambito di operatività con riferimento a quelle situazioni nelle quali l’autorità amministrativa abbia fatto sorgere fondate speranze a seguito di assicurazioni precise, e ne ha escluso l’operatività nei casi in cui la prassi dell’amministrazione non sia stata atta a creare, in capo ad un operatore economico prudente e accorto, un ragionevole e legittimo affidamento (35). Dunque affinché il principio dell’affidamento possa consentire di non dover corrispondere il tributo (l’IVA nel caso oggetto della pronuncia 9 luglio 2015, causa C-144/14), è necessario: -.che l’amministrazione abbia dato indicazioni precise e dettagliate (36); -.che tali indicazioni siano state valutate con prudenza e accortezza dal contribuente. Ne dovrebbe allora discendere la non recuperabilità del tributo, e dunque l’illegittimità dell’atto impositivo (ancorché non declinabile in termini di nullità), quanto meno nel caso in cui il contribuente prudente e accorto – e, dunque, diligente e senza colpa – sia stato indotto a tenere un certo comportamento sulla scorta di un’indicazione precisa e puntuale contenuta in un atto dell’Amministrazione, sia esso una consulenza giuridica resa su istanza di un’associazione di categoria o, anche, una comune circolare o risoluzione (37).
principio di buona fede nel rapporto tributario, cit., 285 s. (34) A tal proposito, vd. Corte giustizia UE, sentenza del 26 aprile 2005, causa C-376/02; sentenza del 7 giugno 2005, Causa C-17/03; sentenza n. 201 del 10 settembre 2009; sentenza n. 362 del 12 dicembre 2013. Per l’elaborazione dei principi di certezza del diritto e del legittimo affidamento secondo l’impostazione comunitaria, si veda A. Meloncelli, Affidamento e buona fede nel rapporto tributario, cit., 547. (35) Nella precedente pronuncia 5 marzo 2015, causa C-585/13, la Corte aveva precisato che non può invocare il beneficio dell’affidamento «un operatore economico prudente e accorto» che «sia in grado di prevedere l’adozione di un provvedimento … idoneo a ledere i suoi interessi». Nella pronuncia 14 settembre 2006, cause da C-181/04 a C-183/04, la Corte aveva posto l’accento sulla legittimità delle aspettative. (36) Dalla pronuncia della Corte non sembra essere di ostacolo il fatto che tali indicazioni siano dirette ad una categoria o alla generalità dei contribuenti. (37) In questo senso vd. G. Marongiu, Statuto del contribuente, affidamento e buona
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6. Considerazioni conclusive. – È chiaro, allora, che, in questa prospettiva, il ragionamento si colloca su un piano diverso da quello in cui sembra operare l’art. 10, comma 2, dello Statuto, nel quale, come detto, il legislatore si limita a valorizzare il dato oggettivo del revirement interpretativo da parte dell’amministrazione per farne discendere l’effetto della mera non debenza delle sanzioni e degli interessi moratori in capo al contribuente, per il solo fatto, anch’esso oggettivo, che questi si sia attenuto al precedente orientamento interpretativo. Seguendo, invece, il ragionamento della Corte di Giustizia, si può anzitutto ricavare una (autorevole) conferma della potenziale espansività del principio dell’affidamento, letto in uno con quello di buona fede, fino a pervenire al riconoscimento della non debenza del tributo (oltre che delle sanzioni e degli interessi). Nel contempo, la stessa Corte segna il confine di questa potenziale espansione, individuandone i presupposti sia sotto il profilo oggettivo (presenza di indicazioni precise e dettagliate da parte dell’amministrazione), sia sotto il profilo soggettivo (diligenza del contribuente), i quali ne escludono la generalizzata applicazione a tutti i casi in cui l’amministrazione modifichi, in peius per i contribuenti, i propri indirizzi interpretativi. Si tratta, dunque, di prospettive di ragionamento (quella ancorata al dato letterale dell’art. 10, comma 2, e quella ritraibile dagli arresti della Corte di Giustizia) tra loro diverse, che però non sembrano incompatibili, sul piano dei presupposti e dei risultati cui possono condurre, giacché si potrebbe ritenere che, mentre il semplice revirement sia di per sé sufficiente a sancire la non debenza di sanzioni e interessi moratori, l’esistenza dei suddetti presupposti qualificanti (oggettivo e soggettivo) consenta di pervenire ad un effetto più pregnante di quello previsto dall’art. 10, comma 2. In questo senso, si dovrebbe, quindi, privilegiare un’interpretazione sistematica che concepisca l’art. 10, comma 2, non già come una disposizione chiusa in se stessa, tesa ad esaurire l’ambito di operatività dei principi di affidamento e buona fede, bensì come positivizzazione di un determinato effetto di detti principi (la non sanzionabilità del comportamento), che tuttavia non
fede, in Rass. trib., 2001, 1275 s., il quale, ricorrendo ai principi della buona fede e della tutela dell’affidamento, conclude sostenendo la non debenza del tributo, oltre che delle sanzioni e degli interessi, ogniqualvolta il contribuente si sia conformato ad una atto dell’amministrazione caratterizzato da un «contenuto inequivocabile» che non lascia «ombra di dubbi e di prospettazioni alternative»; A. Colli Vignarelli, Considerazioni sulla tutela dell’affidamento e della buona fede nello Statuto dei diritti del contribuente, cit., 700 s. Sul punto vd. anche A. Meloncelli, Affidamento e buona fede nel rapporto tributario, cit., 558; L. Perrone, Certezza del diritto, affidamento e retroattività, cit., 942 s.
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sottenderebbe la volontà legislativa di escludere che – in particolari situazioni ed in presenza di elementi qualificanti il comportamento del contribuente in termini soggettivi – detti principi possano dispiegare il loro potenziale anche su un piano diverso, quale è quello della non debenza del tributo. Ciò sia con riferimento al comparto dell’IVA (38), sia con riguardo agli altri tributi, per irrinunciabili ragioni di coerenza dell’ordinamento, rispetto alle quali forte è il peso esercitato dal principio di buona fede che lo stesso art. 10 dello Statuto concepisce come principio informatore dei rapporti tra contribuenti e amministrazione (comma 1). Si perverrebbe, così, ad una soluzione di compromesso che rappresenterebbe un bilanciamento – a mio modo di vedere, ragionevole – tra i diversi valori ed interessi sottesi alle disposizioni costituzionali che entrano in gioco, nel quale la deviazione che oggettivamente si verificherebbe rispetto ai principi di legalità e di capacità contributiva (quanto meno nelle ipotesi in cui il revirement sia giustificato dal consolidarsi di un “diritto vivente” contrario a quello su cui si era formato il precedente orientamento interpretativo (39)) potrebbe essere tollerata in funzione di un contemperamento con altri valori costituzionalmente rilevanti, sottesi ai principi di affidamento e buona fede, in casi ben circoscritti, in termini di presupposti oggettivi e soggettivi.
Antonio Viotto
(38) Rispetto al quale le sentenze della Corte di giustizia dovrebbero trovare automatica applicazione, in virtù del carattere armonizzato di tale tributo, secondo un paradigma già seguito dalla giurisprudenza di legittimità (vd., ad esempio, la sentenza delle Sezioni Unite n. 24823 del 9 dicembre 2015, in materia di contraddittorio anticipato). (39) Giacché, al di fuori di queste ipotesi, in mancanza di un consolidato orientamento giurisprudenziale di legittimità, sarebbe arbitrario ritenere corretto il secondo orientamento interpretativo, solo perché successivo ad uno più favorevole al contribuente.
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L’Imposta sul Reddito di Impresa (IRI): vecchie “delusioni” e nuove “aspettative” o vecchie “aspettative” e nuove “delusioni” Sommario: 1. Considerazioni introduttive. – 2. Gli istituti antesignani dell’IRI:
differenze ed analogie. – 3. Il campo di applicazione soggettivo dell’IRI. – 4. Le modalità di determinazione del reddito per i soggetti IRI. – 5. La tassazione degli utili prodotti vigente il regime IRI. – 6. L’opzione per il regime IRI da parte delle società a ristretta base proprietaria. – 7. L’accertamento delle società che hanno esercitato l’opzione IRI. – 8. Considerazioni conclusive.
La Legge di Bilancio 2017 ha introdotto il regime c.d. IRI (Imposta sul reddito di impresa) che si sostanzia nella possibilità di tassare in misura proporzionale il reddito di impresa prodotto dagli imprenditori individuali, dalle società di persone e dalle società a responsabilità limitata a ristretta base proprietaria. Solo l’ammontare distribuito (previa deduzione dello stesso da parte della società) sarà integralmente tassato in capo ai soci. Così facendo, per l’ennesima volta, il legislatore cerca di eliminare discriminazioni qualitative nella tassazione del reddito di impresa. Ci si chiede se sia la “volta buona” dato che i precedenti tentativi sono stati fallimentari e anche questo regime presenta non poche criticità operative. The 2017 Budget Law enacted the so-called IRI regime (Flat Tax on Business Income) which provides for the possibility to tax at a proportional rate the income produced by individual entrepreneurs, partnerships and limited liability companies having a limited number of shareholders. Only the amount distributed (and deducted by the company itself) will be fully taxed in the hands of the shareholders. The legislator, once more, tries, through this new regime, to remove qualitative discriminations in the taxation of business income. It is queried whether this attempt, following quite a number of previous unsuccessful approaches to the topic, will be successful at last, despite the many operational issues posed by the newly introduced regime.
1. Considerazioni introduttive. – La legge 11 dicembre 2016, n. 232 (c.d. Legge di Bilancio 2017), dopo numerosi tentativi legislativi non riusciti, ha finalmente portato a compimento (o almeno ha cercato di portare a
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compimento) (1) il progetto di revisione della tassazione del reddito di impresa prodotto da imprenditori individuali e società di persone per escluderne la concorrenza alla formazione del reddito complessivo imponibile ai fini IRPEF dell’imprenditore medesimo e dei singoli soci. Tale risultato è stato ora conseguito con la Legge di bilancio 2017, che ha introdotto nel t.u.i.r. il nuovo art. 55-bis (2). Questa disposizione istituisce la c.d. “Imposta sul reddito di impresa” (IRI), applicabile, su opzione, dalle imprese individuali e dalle società commerciali di persone in contabilità ordinaria e comporta, in via di prima approssimazione, la tassazione separata (sul modello di una “flat tax”) dei redditi di impresa trattenuti in azienda, con la medesima aliquota prevista ai fini IRES, in luogo della tassazione ordinaria con le aliquote progressive previste ai fini IRPEF. Nei suoi tratti essenziali, l’opzione per il regime IRI (che avrà durata pari a cinque periodi di imposta e sarà rinnovabile alla scadenza) implica che la base imponibile del soggetto che ha esercitato l’opzione sia determinata partendo dal risultato economico dell’impresa, deducendo (ed in ciò risiede la principale novità del regime) le somme erogate a favore dell’imprenditore individuale, dei collaboratori familiari o dei soci, mediante la distribuzione di utili o riserve di utili (3). Dal regime opzionale in esame derivano le seguenti conseguenze: - l’avulsione del reddito di impresa o di partecipazione dalla concorrenza al reddito complessivo prodotto dall’imprenditore individuale o dal socio dell’ente (non più) trasparente; - l’assoggettamento di tale reddito a tassazione separata con un’aliquota pari all’aliquota IRES; - il riconoscimento, durante il periodo di vigenza dell’opzione IRI, della deducibilità del reddito prelevato dall’imprenditore individuale o dai soci dal reddito d’impresa prodotto dallo stesso imprenditore o dalla società ed il riconoscimento, a favore dell’imprenditore individuale o dei soci, una volta cessata la validità dell’opzione, di un credito di imposta pari all’IRI pagata in precedenza dall’imprenditore individuale o dalla società sul reddito di impresa prodotto;
(1) Questo vale a condizione che il rinvio della entrata in vigore di tale regime (dal 1° gennaio 2017 al 1° gennaio 2018) disposto dall’art. 1, co. 1063, legge 27 dicembre 2017, n. 205 (c.d. Legge di Bilancio 2018) non sia il preludio della sua abrogazione. (2) Cfr. art. 1, comma 547, lett. b), legge n. 232 del 2016. (3) Per ragioni di coerenza sistematica, come si vedrà, la possibilità di optare per il regime di tassazione separata IRI è stata estesa alle società a responsabilità limitata a ristretta base proprietaria di cui all’art. 116 t.u.i.r..
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- la concorrenza di quanto prelevato dall’imprenditore individuale o dai soci alla determinazione del loro reddito complessivo quale reddito di impresa. I vantaggi garantiti dal regime IRI sono, dunque, essenzialmente condizionati al mantenimento del reddito prodotto all’interno dell’impresa. Ciò rappresenta il principale elemento caratterizzante il regime in esame che risulta finalizzato ad incentivare la patrimonializzazione, realizzata mediante il reinvestimento di utili (4), dei soggetti esercenti attività di impresa (in forma diversa dalle società di capitali) nell’intento di favorirne la crescita e lo sviluppo. In sostanza, ciò che viene accantonato a riserva è premiato dal legislatore con l’assoggettamento ad aliquota proporzionale. L’applicazione dell’ordinaria tassazione IRPEF con aliquota progressiva per scaglioni viene, invece, differita nel tempo e limitata agli importi eventualmente distribuiti. L’IRI comporta, dunque, una “sospensione volontaria” del tradizionale regime di tassazione del reddito di impresa. A prescindere (per ora) da alcuni profili tecnici, il sistema introdotto dal legislatore risulta piuttosto innovativo in quanto: - riconosce per la prima volta la deducibilità dal reddito di impresa di un imprenditore individuale o di una società di quanto appreso a titolo di utile dall’imprenditore medesimo o dai soci. Tale meccanismo è utilizzato quale sistema di eliminazione della doppia imposizione, in luogo di quelli tradizionali (salvo poi, tra questi, “ripescare” il sistema del credito di imposta per eliminare la doppia imposizione sulle somme distribuite una volta cessata l’opzione IRI); - supera la qualificazione delle somme distribuite da una società ai soci quale redditi di capitale in favore di una loro qualificazione quale redditi di impresa. Prima di analizzare la norma in esame, al fine di meglio comprendere le ragioni teoriche e le esigenze pratiche che hanno condotto all’introduzione dell’art. 55-bis t.u.i.r., vale la pena soffermarsi sui numerosi (ma infruttuosi) tentativi fatti dal legislatore in passato per raggiungere risultati non dissimili. 2. Gli istituti antesignani dell’IRI: differenze ed analogie. – Con il neointrodotto art. 55-bis t.u.i.r., il legislatore ha attuato (seppur una volta scaduta la delega) quanto previsto dall’art. 11, legge 11 marzo 2014, n. 23 (5), che
(4) A. Trevisani, La tassazione proporzionale del reddito d’impresa per ditte individuali e società di persone, in Corr. trib., 2007, 3477. Cfr. anche S. Capolupo, La tassazione separata del reddito d’impresa, in Corr. trib., 2007, 3811. (5) Nel dettaglio, la norma in esame stabiliva che “Il Governo è delegato ad introdurre, con i decreti legislativi di cui all’articolo 1, norme per la ridefinizione dell’imposizione sui redditi, secondo i seguenti principi e criteri direttivi:
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delegava il Governo ad inserire nell’ordinamento tributario norme tramite le quali garantire l’indifferenza del regime fiscale di tassazione del reddito di impresa rispetto al modello organizzativo utilizzato. Fine ultimo di tale intervento era quello di procedere all’eliminazione di forme di discriminazione qualitativa nella tassazione del reddito di impresa. Si tratta di un problema da tempo discusso in dottrina (6) che il legislatore, più volte (ma con scarso successo) ha cercato di risolvere. Il primo intervento in materia risale all’art. 9, legge 23 dicembre 2000, n. 388, che introduceva, similmente a quanto fatto dalla Legge di Bilancio 2017, un regime facoltativo di tassazione dei redditi di impresa degli imprenditori individuali e delle società di persone alternativo a quello ordinario. Tale norma, emanata in connessione con la legge di cui all’art. 2, comma 14, lett. b), legge 13 maggio 1999, n. 133 (7), si inseriva in un più ampio contesto normativo in quanto avrebbe dovuto rappresentare un tassello di una generale riforma della disciplina fiscale del reddito di impresa delle imprese individuali e delle società di persone in contabilità ordinaria. Uno degli obiettivi posti al Governo era attribuire alle società di persone la facoltà di richiedere l’assoggettamento ad imposta proporzionale, con applicazione dello stesso regime previsto per le persone giuridiche e l’assoggettamento all’IRPEF dei redditi corrisposti dall’impresa all’imprenditore, ai collaboratori familiari e ai soci, con applicazione del credito di imposta per l’imposta assolta dall’impresa. Benché la relazione di accompagnamento non indichi espressamente le finalità che il summenzionato criterio di delega intendeva perseguire, esse possono, comunque, essere individuate nella volontà del legislatore di perequare il trattamento fiscale dei redditi d’impresa (8). Dall’impianto generale dell’auspicata riforma,
a) assimilazione al regime dell’imposta sul reddito delle società (IRES) dell’imposizione sui redditi di impresa, compresi quelli prodotti in forma associata dai soggetti passivi dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), assoggettandoli a un’imposta sul reddito imprenditoriale, con aliquota proporzionale allineata a quella dell’IRES, e prevedendo che siano deducibili dalla base imponibile della predetta imposta le somme prelevate dall’imprenditore e dai soci e che le predette somme concorrano alla formazione del reddito complessivo imponibile ai fini dell’IRPEF dell’imprenditore e dei soci; … c) previsione di possibili forme di opzionalità”. (6) Così già C. Cosciani, I problemi dell’imposizione delle persone giuridiche in una lettera di Einaudi, in C. Cosciani, Scritti scelti di finanza pubblica, Padova, 1983, 949. (7) Questa disposizione delegava il Governo ad introdurre una disciplina che prevedesse per il contribuente la facoltà di richiedere la tassazione separata del reddito d’impresa dalle altre categorie di reddito e il suo assoggettamento all’aliquota prevista per le persone giuridiche. (8) G. Ferranti, Imprese individuali e società personali: le novità della prossima
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risultava, infatti, l’ambizione del legislatore di eliminare ogni forma di discriminazione nelle modalità di tassazione del reddito di impresa basata sulla forma giuridica del soggetto esercente attività di impresa (9). L’occasione di tale intervento era la contemporanea introduzione nell’ordinamento nazionale dell’istituto della società a responsabilità limitata con unico socio ad opera del d.lgs. 3 marzo 1993, n. 88, che avrebbe potuto consentire alle persone fisiche di effettuare un arbitraggio tra l’applicazione dell’IRPEF e dell’allora vigente IRPEG. Proprio per evitare che i contribuenti potessero perseguire tali risultati, si volevano introdurre istituti che garantissero la tassazione dei risultati dell’esercizio dell’attività di impresa in modo identico a prescindere dalla forma giuridica utilizzata (eccezion fatta per la società di capitali). In concreto, la riforma, indipendentemente dalla forma giuridica dell’impresa, voleva consentire di assoggettare a tassazione ordinaria IRPEF il solo reddito distribuito, mentre quello non distribuito sarebbe stato assoggettato separatamente ad IRPEF con la stessa aliquota prevista ai fini dell’IRPEG (10). Dall’esercizio dell’opzione derivava, inoltre, l’assimilazione dei soggetti indicati nell’art. 5 t.u.i.r. alle società di capitali e, conseguentemente, l’applicazione anche nei loro confronti delle disposizioni dettate dal Testo Unico per tale tipo societario. Ciò comportava non solo che il reddito di impresa da loro prodotto venisse determinato sulla base delle norme previste per le società di capitali, ma anche che gli utili prelevati dai soci dovessero essere ricondotti nel novero dei redditi di capitale (diversamente da quanto accade nel regime IRI). L’art. 9, comma 7, della stessa legge n. 388 del 2000 prevedeva, infatti, che gli utili dei periodi d’imposta nei quali era applicato il regime di tassazione separata con aliquota proporzionale, se prelevati dal patrimonio dell’impresa, costituissero per l’imprenditore redditi di capitale, ai sensi dell’allora vigente art. 41 (ora art. 44), comma 1, lett. e), t.u.i.r.. Venendo riservato agli utili prelevati dall’imprenditore individuale il medesimo trattamento fiscale degli utili distribuiti ai soci delle società soggette ad IRPEG, ne conseguiva che essi erano tassati in capo al percipiente solo in caso di loro distribuzione, con il riconoscimento del credito d’imposta per le imposte pagate dall’impresa individuale. Il complesso di norme appena menzionate non ha però mai trovato concreta applicazione, in quanto pressoché immediatamente abrogate dall’art. 5, legge 18 ottobre 2001, n. 383.
Finanziaria, in Corr. trib., 2000, 3202. (9) S. Capolupo, Tassazione del reddito d’impresa con aliquota proporzionale, in Il Fisco, 2001, 3811; G. Ferranti, Tassazione con aliquota proporzionale: i primi chiarimenti ministeriali, in Corr. trib., 2001, 339. (10) L’esercizio della specifica opzione era consentito a imprenditori individuali, società in nome collettivo, società in accomandita semplice e imprese familiari.
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La volontà di superare ogni discriminazione nella tassazione del reddito di impresa rimaneva una priorità del legislatore che non rinunciava a perseguire tale risultato, anche alla luce dei suggerimenti nel frattempo formulati dalla c.d. Commissione Biasco (11). Questa Commissione era stata incaricata di condurre un lavoro di ricognizione ed approfondimento sull’applicazione della disciplina (nel frattempo introdotta) dell’IRES per verificarne gli effetti e valutare l’eventuale necessità di correttivi (12). A questo fine la Commissione aveva proposto di reintrodurre un modello di tassazione proporzionale del reddito di impresa individuale o del reddito di partecipazione in società di persone commerciali per ovviare agli svantaggi derivanti dall’abolizione del credito di imposta. Mentre, infatti, questo istituto garantiva una perfetta trasparenza di fatto e favoriva la costituzione di società di capitali, l’introduzione del meccanismo di esclusione dalla tassazione dei dividendi distribuiti da società di capitali, rovesciava la precedente impostazione (13) e faceva venir meno la parità di trattamento tra utili distribuiti dalle società di capitali e redditi imputati per trasparenza dalle società di persone. La Commissione osservava che il regime al tempo vigente finiva per tassare in modo più elevato le società di capitali rispetto ad un’impresa soggetta ad IRPEF e pertanto suggeriva un generale ripensamento della struttura dell’IRES e l’introduzione di un’aliquota IRES di tipo progressivo estesa a tutte le tipologie di impresa, indipendentemente dalla struttura utilizzata (14).
(11) Si tratta della Commissione di studio sulla imposizione fiscale sulle società istituita con decreto del Vice Ministro dell’Economia del 27 giugno 2006, c.d. Commissione Biasco dal nome del suo Presidente. (12) Cfr. T. Di Tanno, Prospettive di riforma dell’Ires: spunti di riflessione sulle prime indicazioni ricavabili dalla relazione della “Commissione Biasco”, in Dir. prat. trib., 2007, 877. (13) Cfr., sui profili generali, L. Carpentieri, S. M. Ceccacci, Dall’abrogazione della maggiorazione di conguaglio al nuovo credito d’imposta sugli utili di partecipazione (decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 467), in Riv. dir. trib., 1999, 309. (14) La Commissione Biasco osservava che il sistema tributario risultante dal d.lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, si connotava per la circostanza che, a fronte di modalità di determinazione del reddito di impresa uniformi, vi erano aliquote e sistemi di imposizione molto diversi fra soggetti che esercitano la medesima attività attraverso una ditta individuale e una società di persone, da un lato, o attraverso una società di capitali, dall’altro. Nella prospettiva della Commissione, ciò imponeva un urgente intervento, sicché essa suggeriva di ricomprendere tutte le imprese commerciali, indipendentemente dalla forma giuridica assunta, in un’unica categoria fiscale, assoggettando a tassazione proporzionale il risultato dell’esercizio di impresa in quanto tale. Un regime unico per le imprese, nella prospettiva della Commissione, avrebbe reso più trasparente la distinzione tra fiscalità delle persone e fiscalità delle imprese. Per ottenere questo risultato venivano suggerite due ipotesi:
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Tali suggerimenti venivano prontamente accolti dal legislatore che, ispirandosi alla riforma fiscale varata in Germania nel 2007 (15), riconosceva, all’art. 1,
•
tassare in sede IRPEF con tassazione separata, con la stessa aliquota dell’IRES, il reddito derivante dall’attività imprenditoriale. Tuttavia, precisava la Commissione, questa scelta non avrebbe garantito l’equiparazione della tassazione complessiva (personale e societaria) dei redditi di impresa, indipendentemente dalla natura dell’impresa o della società che li aveva prodotti, sicché sarebbe stata preferibile l’ipotesi di: • tassare le imprese soggette all’IRPEF allo stesso modo delle società di capitali, assoggettando a doppia tassazione gli utili distribuiti e, in caso di cessione delle quote e realizzo di plusvalenze, gli utili non distribuiti che avevano contribuito a generarle. Conseguentemente, la Commissione chiudeva i propri lavori formulando la “proposta di mettere allo studio l’unificazione fiscale della categoria “impresa”, oggi bipartita tra società di capitali e impresa individuale e di persone, al fine di rendere il sistema impositivo più neutrale rispetto alla scelta della forma giuridica attraverso cui è effettuata l’attività di impresa, senza determinare salti d’imposta”. Cfr. Commissione di studio sulla imposizione fiscale sulle società (c.d. Commissione Biasco), Relazione finale, disponibile sul sito internet del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento per le politiche fiscali al seguente indirizzo: http://www.finanze.gov.it/commissioneires/documenti/commissione_biasco_relazione_ finale2.pdf, 2007, 86 punto 6.3. (15) Questa riforma è stata particolarmente ampia e ha cercato di perseguire obiettivi quali la riduzione delle aliquote, il miglioramento della competitività fiscale della Germania nel contesto internazionale, il contrasto allo spostamento all’estero di materia imponibile. Il perseguimento di tali obiettivi è passato attraverso la scelta di abbandonare gli schemi tradizionali fondati sul principio della tassazione personale progressiva del reddito complessivo delle persone fisiche. Da un sistema fondato sul principio secondo cui tutti i redditi delle persone fisiche, a prescindere dalla loro natura e dalla loro fonte, contribuiscono a determinare il reddito complessivo dei contribuenti, si è passati ad un sistema “duale” nel quale il reddito complessivo viene suddiviso nei singoli componenti che vengono assoggettati poi ad aliquote fiscali diverse. Per motivi di gettito, l’uso di tale sistema non viene però generalizzato, ma limitato ad alcuni tipi di reddito più esposti alla competizione fiscale internazionale perché caratterizzati da un elevato grado di mobilità: i redditi d’impresa e i redditi di capitale (amplius, S. Mayr, La riforma fiscale in Germania per le imprese, in Boll. trib., 2007, 1430). Per quanto qui di interesse si deve ricordare che, con l’impianto originario di tale riforma, sono stati introdotti nuovi meccanismi di tassazione del reddito di impresa conseguito da persone fisiche, anche per il tramite di società di persone. Per evitare disparità di trattamento a seguito della riduzione dell’aliquota dell’imposta sul reddito delle società dal 25 al 15 per cento (non essendosi corrispettivamente ridotte le aliquote dell’imposta sul reddito delle persone fisiche), è stato consentito di optare per la c.d. “agevolazione per la tesaurizzazione” alle imprese individuali o ai soggetti che detengono una partecipazione in una società di persone superiore al 10 per cento oppure una quota di utile superiore a € 10.000 (S. Mayr, La riforma fiscale in Germania per le imprese, cit., 1432; W. Kessler, R. Eicke, Germany’s partnership tax regime: a response to U.S. Check-the-box Regs?, in Tax Notes International, 2007, 587; Id., Germany’s Corporate tax reform – The road not taken, in Tax Notes International, 2007, 1135; R. Seer, S. Ahrens, An overview of recent tax reform plans in Germany, in European taxation, 2005, 500). Questa agevolazione consisteva nell’applicazione di un’aliquota proporzionale del 28,25 per cento a titolo di imposta sul
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commi 40, 41 e 42, legge 24 dicembre 2007, n. 244 (16), la facoltà di optare per la tassazione proporzionale con aliquota IRES dei redditi d’impresa prodotti da persone fisiche e soci di società di persone in regime di contabilità ordinaria (17). Nonostante tra i vari interventi sino ad ora esaminati (la legge n. 388 del 2000 e la legge n. 244 del 2007) sussistessero talune significative differenze, si rileva un certo grado di continuità quanto alle modalità di tassazione del reddito di impresa conseguito da imprenditori individuali; entrambe le leggi ne disponevano il separato assoggettamento a tassazione. Tra i due interventi si segnala però una differenza nella terminologia utilizzata: mentre la legge n. 388 del 2000, con più felice formulazione (per le ragioni che si vedranno oltre), prevedeva che “il reddito d’impresa degli imprenditori individuali… può essere… assoggettato separatamente all’imposta sul reddito delle persone fisiche”, la legge n. 244 del 2007 stabiliva che “le persone fisiche titolari di redditi d’impresa… possono optare per l’assoggettamento di tali redditi a tassazione separata”. Dal punto di vista soggettivo, potevano accedere al regime di tassazione separata (rectius sostitutiva) di cui alla legge n. 244 del 2007 i soggetti esercenti attività di impresa in forma diversa dalle società di capitali in contabilità ordinaria. Si trattava degli imprenditori individuali e dei soci di società in nome collettivo e in accomandita semplice residenti nel territorio dello Stato cui sono imputati per trasparenza i relativi redditi. Anche questo nuovo regime si risolveva nel riconoscimento ai soci di società di persone o agli imprenditori individuali di una tassazione con aliquota ridotta del reddito non prelevato o non distribuito e nel rinvio della tassazione
reddito delle persone fisiche applicata al reddito d’impresa conseguito da imprese individuali e da società di persone. Ne deriva che il reddito d’impresa conseguito da persone fisiche (direttamente, come imprenditori individuali o, indirettamente, come soci di società di persone) veniva sottratto all’imposizione progressiva personale avvicinando così il carico fiscale delle società di persone e delle imprese individuali al carico fiscale delle società di capitali. Detta agevolazione si applicava solo all’utile conservato all’interno dell’impresa. Si consideravano prelevate le somme utilizzate dalla società per pagare l’imposta locale sui redditi (c.d. Gewerbesteuer), le somme prelevate dai soci per pagare le proprie imposte personali, nonché, naturalmente, i dividendi distribuiti. In caso di distribuzione, i dividendi scontavano, secondo il nuovo regime, una ritenuta a titolo d’imposta del 25 per cento, nonché un’addizionale di solidarietà del 5,5 per cento. La riforma tedesca merita di essere segnalata in quanto, dal punto di vista qualitativo, il legislatore dimostra di aver virato verso un regime di tassazione nel quale il reddito di impresa conseguito da persone fisiche, anche attraverso la partecipazione in società di persone, non concorre alla formazione del reddito complessivo, ma subisce un’autonoma tassazione. (16) Questa previsione normativa non ha trovato attuazione a causa della mancata emanazione del decreto ministeriale che avrebbe dovuto dettare le relative disposizioni attuative. (17) G. Fransoni, La tassazione separata dei redditi delle imprese individuali e delle società di persone, in Rass. trib., 2008, 326.
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nei modi ordinari al momento dell’effettiva apprensione di tale reddito, fermo restando che, al fine di evitare una sua doppia tassazione, l’imposta inizialmente applicata avrebbe costituito un acconto di quella successivamente dovuta in caso di distribuzione. L’analisi degli antesignani della novella normativa ora in esame dimostra come tra il recente intervento del legislatore e quelli precedenti si possano individuare alcuni elementi comuni: tutti comportano l’avulsione di una quota di reddito conseguito dalle persone fisiche dal reddito complessivo in favore di una sua tassazione separata. In tutti questi interventi, viene superato il criterio della tassazione progressiva del reddito di impresa o di partecipazione conseguito da un imprenditore individuale o da una società di persone e della concorrenza dello stesso alla determinazione del reddito complessivo in favore di un separato assoggettamento a tassazione con aliquota pari a quella, tempo per tempo, prevista per l’imposta sulle società (18). A questo riguardo, si osserva come la formulazione adottata dal legislatore nel 2000 (per cui “il reddito di impresa [è] assoggettato separatamente all’imposta”) si presenti più corretta di quella adottata tanto nel 2007 quanto nel 2016 (ove il reddito di impresa è “assoggettato a tassazione a tassazione separata”). Appare, infatti, sistematicamente più corretto parlare di “separato assoggettamento” a tassazione di tali redditi in quanto la dicitura “tassazione separata” utilizzata dal legislatore tanto nella legge n. 244 del 2007, quanto nel nuovo art. 55-bis t.u.i.r., rinvia a precisi istituti del Testo Unico delle Imposte sui Redditi che consentono di perseguire risultati diversi. Tale espressione richiama, infatti, l’art. 17 t.u.i.r. che individua il novero dei redditi soggetti a tassazione separata, ovverosia rinvia ad un gruppo eterogeneo di fattispecie reddituali (19) accomunate dalla circostanza che, pur venendo conseguite in un solo periodo di imposta, si sono formate nell’arco di un orizzonte temporale più lungo. Questa circostanza accorda a simili ma-
(18) Tale risultato può essere raggiunto indifferentemente sia che a esercitare l’opzione sia una società di persone, sia che a esercitarla siano i soci. (19) Senza pretesa di completezza, si ricorda che un primo gruppo comprende i proventi riconducibili ad attività di lavoro dipendente ed autonomo come i trattamenti di fine rapporto, gli arretrati di lavoro dipendente relativi ad anni precedenti, le indennità per la cessazione di rapporti di agenzia e di collaborazione coordinata e continuativa. Un secondo gruppo assoggetta a tassazione separata i redditi derivanti da attività esercitate per un periodo di tempo minimo come le plusvalenze derivanti dalla cessione di aziende possedute da più di cinque anni o di terreni suscettibili di utilizzazione edificatoria secondo gli strumenti urbanistici vigenti al momento della cessione. Un terzo gruppo è costituito dai redditi conseguiti in occasione del recesso da società di persone o di capitali a condizione che il periodo di maturazione di tali utili in capo alla società ecceda i cinque anni. Esistono poi altre tipologie di proventi non riconducibili sistematicamente all’uno o all’altro gruppo.
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nifestazioni di ricchezza un regime di tassazione di favore che si sostanzia nell’applicazione di un’aliquota ridotta rispetto a quella ordinaria. In concreto si prevede che tali redditi, non concorrendo alla determinazione del reddito complessivo del soggetto che li percepisce, siano separatamente indicati in dichiarazione ed assoggettati ad una aliquota calcolata, di norma, quale media delle aliquote applicate nei periodi di imposta precedenti (20). I redditi assoggettati a tassazione separata ai sensi dell’art. 1, comma 40, legge n. 244 del 2007 o dell’art. 55-bis t.u.i.r. non presentano caratteristiche analoghe. L’unico elemento che accomuna i redditi di cui all’art. 17 t.u.i.r. e i redditi di cui all’art. 1, comma 40, legge n. 244 del 2007 ed ora quelli di cui all’art. 55bis t.u.i.r. è esclusivamente la non concorrenza alla determinazione del reddito complessivo del contribuente e la loro separata indicazione in dichiarazione. Anche con riferimento all’aliquota applicabile vi sono differenze: mentre i redditi di cui all’art. 17 t.u.i.r. scontano un’aliquota variabile in funzione di quelle applicate nei periodi di imposta precedenti, i redditi di cui all’art. 1, comma 40, legge n. 244 del 2007 e oggi quelli di cui all’art. 55-bis t.u.i.r. scontano un’aliquota individuata in misura fissa, insensibile alla situazione dell’imprenditore individuale o del socio. Tanto l’art. 1, comma 40, legge n. 244 del 2007 quanto il nuovo art. 55-bis t.u.i.r., piuttosto che un meccanismo di tassazione separata, individuano un meccanismo di imposizione sostitutiva. È per tali ragioni che risulta infelice la formulazione usata del legislatore nella legge n. 244 del 2007 e nell’art. 55-bis t.u.i.r. ed è preferibile quella più asettica utilizzata nella legge n. 388 del 2000. Tornando alle somiglianze tra i regimi in esame, si osserva come elemento comune a tutti sia il fine di incentivare il mantenimento dell’utile di un’impresa entro la stessa. Sono, invece, differenti i meccanismi per eliminare la doppia imposizione che si crea una volta che il medesimo utile viene distribuito ai soci. Nel sistema delineato dalla legge n. 388 del 2000, le somme corrisposte dalla società si qualificavano quali redditi di capitale e, dunque, erano tassate quali dividendi beneficiando di un credito di imposta pari alle imposte pagate dalla società. Al contrario, la legge n. 244 del 2007 raggiungeva il medesimo risultato in modo “agnostico”, ovverosia non prendendo alcuna posizione sulla qualificazione delle somme percepite dai soci (vuoi come redditi di impresa secondo la normativa più recente, vuoi come redditi di capitale secondo la
(20) Sul tema F. Paparella, L’imposta sul reddito delle persone fisiche, in A. Fantozzi, Il Diritto tributario, Torino, 2003, 801; M. Beghin, Determinazione dell’imponibile e dell’imposta, in Giurisprudenza sistematica di diritto tributario – L’imposta sul reddito delle persone fisiche, diretta da F. Tesauro, I, Torino, 1994, 164.
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normativa più risalente), ma semplicemente disponendone la concorrenza alla formazione del reddito complessivo imponibile (21) e prevedendo (in modo non dissimile dall’attribuzione di un credito di imposta) che quanto già versato venisse scomputato dall’imposta corrispondente ai redditi prelevati o distribuiti. Il legislatore, dunque, pur senza intervenire sul tema della qualificazione del reddito, si assicurava di eliminare ogni forma di doppia tassazione. È del tutto diversa, ed è sicuramente più innovativa, la scelta dell’attuale legislatore di qualificare le somme apprese a titolo di utili quali reddito di impresa e di riconoscere, almeno durante il periodo di vigenza dell’opzione, la loro deducibilità dal reddito di impresa separatamente tassato. Il legislatore, mentre nei precedenti interventi eliminava i fenomeni di doppia imposizione consentendo al socio o all’imprenditore individuale di detrarre dalla propria imposta quanto pagato dalla società, ora interviene dal lato opposto, ovverosia dal punto di vista del reddito separatamente tassato, consentendo la deduzione di quanto prelevato. Agendo su tale reddito, si elimina comunque ogni doppia tassazione, ma si agisce sulla società, piuttosto che sul socio. È la prima volta che viene riconosciuto nell’ordinamento fiscale italiano la deducibilità delle somme pagate a titolo di dividendi. Questo intervento, pur essendo “innovativo”, resta assai “conservatore” per i profili teorici cui si ispira. Esso altro non fa che confermare uno dei principi ispiratori della riforma IRES: quello per cui la tassazione deve muovere “dalle persone alle cose” (22) per attenuare i caratteri di progressività del sistema tributario e, al contrario, accentuare quelli di realità. Tale obiettivo era al centro della riforma IRES che lo perseguiva accentrando la tassazione non più sul socio, ma sul soggetto che svolge l’attività commerciale da cui deriva il reddito, con l’effetto di abbandonare la pregressa struttura dell’imposizione sui redditi fondata sul principio della progressività (23). Ora tale obiettivo viene ulteriormente ribadito.
(21) Fermo restando che, anche in tale ipotesi, l’imposta già versata si scomputava dall’imposta corrispondente ai redditi prelevati o distribuiti. (22) A. Fantozzi, Ipotesi di riforma: se non ora, quando?, Relazione al convegno “Contributi alla riforma dell’IRES”, in Riv. dir. trib., 2007, 348. Cfr. anche A. Fedele, I rapporti fra società e soci, in La riforma del regime fiscale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete, a cura di F. Paparella, Milano, 2006, 44, che ravvisa come l’impostazione dell’IRES si riassuma nella nota metafora del “capannone”; A. Fantozzi, A. Spoto, Prime osservazioni in materia di trasparenza fiscale delle società di capitali, in Riv. dir. trib., 2003, 687; A. Fantozzi, La nuova disciplina IRES: i rapporti di gruppo, in Riv. dir. trib., 2004, 489, nonché in La riforma dell’imposta sulle società, a cura di P. Russo, Torino, 2005, 167; A. Fedele, Imposte reali ed imposte personali nel sistema tributario italiano, in Riv. dir. fin. sc. fin., 2002, 450. (23) A. Fantozzi, Il regime della trasparenza per le società di capitali, in La riforma del regime fiscale delle imprese: lo stato di attuazione e le prime esperienze concrete, a cura di
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L’accentuazione dei caratteri di realità dell’ordinamento è, peraltro, un trend oramai costantemente seguito dal legislatore che, nel corso degli anni, ha significativamente ampliato le ipotesi di redditi soggetti a tassazione sostitutiva (24) facendo sì che, come osservato in dottrina (25), “nella sostanza la progressività [sia] mantenuta solo per i redditi di lavoro”. L’IRI ribadisce ulteriormente questa tendenza evolutiva dell’ordinamento, ma solo in misura parziale. Il reddito di impresa prodotto dal soggetto che ha esercitato l’opzione IRI viene, infatti, escluso dalla progressività non definitivamente (come accade, ad esempio, per i redditi di capitale ed i redditi diversi di natura finanziaria soggetti a tassazione sostitutiva), ma solo se e fino al momento in cui sarà appreso dal titolare dello stesso. Tale possibilità rende la tassazione IRI differente dalle altre forme di tassazione sostitutiva previste dall’ordinamento e attenua le conseguenze dell’ennesima ferita che viene inferta al principio di progressività. Così sistematicamente e storicamente inquadrata l’IRI si possono analizzare i suoi caratteri principali e le tematiche che essa solleva. 3. Il campo di applicazione soggettivo dell’IRI. – Dal punto di vista soggettivo, sono “testualmente” individuati quali soggetti che possono esercitare l’opzione gli imprenditori individuali e le società commerciali di persone (società in nome collettivo o in accomandita semplice) in regime di contabilità ordinaria (26). Si osserva, dunque, in primo luogo, come l’accesso al regime, similmente
F. Paparella, Milano, 2006, 17; A. Righini, Imputazione per trasparenza di redditi di società di capitali, commistione IRES-IRE e alterazione della progressività, in Dialoghi dir. trib., 2005, 1223. (24) Basta pensare alla scelta del legislatore di applicare il meccanismo di tassazione sostitutiva (tradizionalmente riservato ai redditi di capitale ed a quelli diversi di natura finanziaria) anche ai redditi fondiari. Ci si riferisce alla c.d. “cedolare secca sugli affitti” introdotta dal d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, che si sostanzia in un regime sostitutivo opzionale di tassazione per gli immobili a destinazione abitativa consistente nella possibilità di assolvere un’imposta sostitutiva dell’IRPEF, delle relative addizionali e dell’imposta di registro e di bollo dovute sul contratto di locazione, pari al 21% del canone lordo percepito (ovvero del 10% per i contratti di locazione a canone concordato). (25) F. Gallo, Le ragioni del fisco – Etica e giustizia nella tassazione, Bologna, 2007, 119. Cfr. anche G. Tremonti, Strumenti giuridici utilizzati e utilizzabili, in La crisi dell’imposizione progressiva sul reddito, a cura di E. Gerelli e R. Valiani, Milano, 1982, 239; G. Tremonti, G. Vitaletti, La fiera delle tasse: stati nazionali e mercato globale nell’età del consumismo, Bologna, 1991, passim; R. Schiavolin, Il principio «progressività del sistema tributario», in Diritto Tributario e Corte Costituzionale, a cura di L. Perrone e C. Berliri, Napoli, 2006, 151. (26) Sono, dunque, escluse le società di persone in quanto non titolari di reddito di impresa. Sono, invece, ovviamente esclusi gli enti non commerciali in quanto il reddito di impresa da loro eventualmente prodotto già sconta la tassazione proporzionale IRES:
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ai precedenti analizzati, non sia condizionato dal rispetto di specifici parametri dimensionali (27). Non è richiesto il superamento di alcuna soglia in quanto neppure la necessità di adottare la contabilità ordinaria ha tale funzione. Benché questo regime contabile sia obbligatorio per i soggetti esercenti attività di impresa che superano determinati limiti di ricavi (28), ai sensi dell’art. 18, co. 8, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, “il contribuente ha facoltà di optare per il regime ordinario” anche se si colloca al di sotto di tali limiti (29). Essendo la scelta di un regime contabile piuttosto che un altro rimessa al contribuente (il quale potrà esercitarla anche secondo la sua convenienza di accedere o meno al regime IRI), tale requisito non vale in alcun modo a selezionare i soggetti che possono o meno applicare l’IRI.
(27) G. Ferranti, La nuova imposta sul reddito di impresa, in Il Fisco, 2016, 4307. (28) Come noto tali limiti sono € 400.000 per le imprese aventi per oggetto prestazioni di servizi ovvero € 700.000 per quelle aventi per oggetto altre attività. (29) Ai sensi dell’art. 18, comma 8, d.P.R. n. 600 del 1973, come modificato dalla Legge di Bilancio 2017, “l’opzione [per la contabilità ordinaria] ha effetto dall’inizio del periodo d’imposta nel corso del quale è esercitata fino a quando non è revocata e, in ogni caso, per il periodo stesso e per i due successivi”. L’Agenzia delle Entrate (cfr. circolare 27 agosto 1998, n. 209/E, par. 6), in vigenza della precedente normativa (art. 18, comma 6, d.P.R. n. 600 del 1973 il cui testo era, nella parte che qui interessa, assolutamente identico a quello vigente) aveva affermato che, per effetto del d.P.R. 10 novembre 1997, n. 442 in tema di semplificazione delle modalità di esercizio e di comunicazione agli Uffici delle opzioni e delle relative revoche, “devono ritenersi superate le disposizioni relative al vincolo triennale di permanenza nel regime di contabilità ordinaria per le imprese minori e per gli esercenti arti e professioni di cui all’articolo 18, comma 6 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 e all’articolo 3, comma 2 del D.P.R. 9 dicembre 1996, n. 695, in quanto, alla luce della nuova disciplina introdotta dal regolamento in rassegna, le suddette opzioni, riferendosi a regimi meramente contabili, devono ritenersi vincolanti per un anno” (i modelli di dichiarazione sono, peraltro, ancora allineati a tali indicazioni). Tale interpretazione potrebbe ora cambiare in quanto il passaggio dalla contabilità semplificata a quella ordinaria, dal 1° gennaio 2017, non comporta più solo un mutamento del regime contabile applicabile, ma comporta anche un mutamento di quello fiscale. La Legge di Bilancio 2017, come noto, ha, infatti, reso il principio di cassa il regime naturale di tassazione delle imprese minori in contabilità semplificata (art. 66 t.u.i.r.), mentre per quelle cui si applica la contabilità ordinaria, trova applicazione il regime di tassazione per competenza. L’esercizio dell’opzione per la contabilità ordinaria viene così ad avere effetti anche fiscali, sicché l’art. 18, comma 8, d.P.R. n. 600 del 1973 potrebbe essere inteso come idoneo a porre un vincolo triennale all’adozione del regime di contabilità ordinaria. Se così fosse, si potrebbe realizzare uno sfasamento temporale per effetto del quale il contribuente che, al termine del quinquennio revocasse l’opzione IRI, dovrebbe continuare a determinare il reddito secondo il principio di competenza. Sarebbe una situazione quanto mai complessa che è auspicabile sia risolta dall’Agenzia delle Entrate chiarendo la portata del nuovo art. 18, comma 8, d.P.R. n. 600 del 1973. In alternativa e preferibilmente - potrebbe intervenire il legislatore ad uniformare la durata minima dei regimi in discussione viste le loro strette interrelazioni.
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Nonostante l’adozione della contabilità ordinaria non sia un criterio effettivamente selettivo, la scelta di condizionare l’accesso al regime in esame al suo ricorso dipende da molteplici ragioni. In primo luogo, essa svolge una funzione di tutela delle ragioni erariali, attese le maggiori garanzie che implicitamente derivano dall’adozione di questo metodo contabile. La contabilità ordinaria consente, infatti, non solo una più puntuale registrazione delle operazioni che svolge un’impresa, ma anche una più dettagliata descrizione delle scelte inerenti alla distribuzione degli utili. Essa, in estrema sintesi, è il meccanismo contabile che meglio permette di verificare che l’utile tassato in modo proporzionale non venga trasferito dal patrimonio dell’impresa a quello personale del titolare o dei soci (30) e di tenere traccia di tutti gli spostamenti che lo riguardano. In secondo luogo, l’adozione del regime di contabilità ordinaria garantisce il rispetto del principio di uguaglianza. È questo un altro aspetto che il legislatore non può non aver preso in considerazione: il regime IRI vuole, infatti, garantire un’equiparazione fiscale dei soggetti di piccole dimensioni rispetto ai soggetti di grandi dimensioni, sicché, per estendere la stessa tassazione ai primi, non appare irragionevole richiedere loro di sottostare ai medesimi obblighi previsti per i secondi. Si è detto che l’accesso al regime in esame è condizionato all’esercizio di apposita opzione da parte dell’imprenditore individuale o della società. In tale seconda ipotesi, nulla dice il legislatore quanto al soggetto che la deve assumere: se la società per il tramite dei suoi amministratori o se per il tramite dei suoi soci. Nulla esclude, sulla base della legislazione vigente, che sia sufficiente l’assunzione di una specifica delibera dei soli amministratori. Tale assetto non pare penalizzante in modo significativo per i soci (31): essi non sconteranno più alcuna imposizione annuale che sarà differita fino al momento dell’effettiva apprensione delle somme erogate dalla società e, nel momento in cui ciò si verificherà, non subiranno alcuno svantaggio in quanto potranno fare fronte al pagamento delle imposte con quanto incassato. Decorso il quinquennio di validità, l’opzione perderà efficacia e sarà necessario procedere al suo rinnovo esplicito. A tal proposito, non si può non rilevare come, di recente, l’art. 7-quater, commi 27 e seguenti, d.l. 22 otto-
(30) A. Ballancin, La tassazione separata dei redditi delle imprese individuali e delle società di persone, in Finanziaria 2008 - Saggi e commenti, a cura di G. Fransoni, Milano, 2008, 1; A. Trevisani, La tassazione proporzionale del reddito d’impresa per ditte individuali e società di persone, cit., 3476. (31) I soci nelle società di persone, peraltro, ricoprono tendenzialmente anche il ruolo di amministratori.
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bre 2016, n. 193 (32) abbia, invece, previsto che il rinnovo di opzioni quali quelle per i regimi del consolidato fiscale, della trasparenza fiscale e della c.d. tonnage tax, avvenga automaticamente, eliminando la necessità di qualunque comunicazione. Appare, allora, strano che per la prosecuzione del regime IRI occorra un’apposita manifestazione di volontà. Sarebbe stato più coerente con l’evoluzione intrapresa dall’ordinamento prevedere che la medesima regola valesse anche per il regime in esame. Tornando all’analisi dei soggetti ammessi all’opzione IRI si osserva come a quelli menzionati al comma 1 (imprenditori individuali, società in nome collettivo e società in accomandita semplice) debba aggiungersi l’impresa familiare. Al di là di considerazioni di ordine generale (su cui pure si tornerà), depone in tale senso la circostanza che il legislatore, al comma 3, allorquando tratta del regime delle somme prelevate a carico dell’utile dell’esercizio, indichi che esse possono andare a favore “dell’imprenditore, dei collaboratori familiari o dei soci” (33). Fermo restando che il legislatore avrebbe potuto rendere coerenti i due commi, menzionando già l’impresa familiare nel primo e non solo nel terzo, l’unica giustificazione a questa scelta appare essere il fatto che essa sia un particolare modello di svolgimento dell’attività di impresa che presenta elementi di convergenza sia con l’impresa individuale, sia con l’impresa collettiva, tanto da originare vivaci contrasti giurisprudenziali (34) che sono poi stati risolti dalle Sezioni Unite della Suprema Corte (35). Questa, aderendo “alla tesi dell’incompatibilità dell’impresa familiare con la disciplina delle società di qualunque tipo” (36), ha ricondotto il modello dell’impresa familiare al modello dell’imprenditore individuale. Tale assunto potrebbe giustificare al-
(32) Convertito, con modificazioni, dalla legge 1 dicembre 2016, n. 225. (33) G. Ferranti, L’imposta sul reddito di impresa in cerca di chiarimenti, in Corr. trib., 2017, pag. 500, osserva come, in caso di impresa familiare, resterà, comunque, valida la regola per cui ai collaboratori può essere imputato al massimo il 49% del reddito dell’impresa medesima. (34) Le analizza G.M. Cartanese, Il regime tributario dei redditi dell’impresa cogestita dai coniugi in regime di comunione legale, in Rass. trib., 2009, 755. (35) Cass. Sez. Un., sent. 6 novembre 2014, n. 23676. (36) Questa posizione è stata ribadita di recente dalla Cassazione nella sentenza 31 gennaio 2017, n. 2472, ove viene affermato che “la natura individuale dell’impresa familiare e la rilevanza della posizione degli altri familiari – che prestano la loro collaborazione e il loro apporto sul piano lavorativo – esclusivamente nei rapporti interni” escludono che sia mutuabile dalle imprese familiari “la configurazione propria delle società, la cui disciplina – come precisato da Sez. Un., n. 23676 del 2014 non può essere applicata, per incompatibilità, all’esercizio dell’impresa familiare” e nella sentenza 15 marzo 2017, n. 6721, ove si ribadisce che “l’impresa di cui all’art. 230 - bis c.c., appartiene individualmente al titolare”.
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lora la scelta del legislatore di non enunciare al comma 1 l’impresa familiare in quanto già assorbita nell’impresa individuale, invece, specificamente menzionata. Era, al contrario, necessario citare tale istituto al comma 3 per estendere il regime di integrale tassazione delle somme prelevate a tutti i soggetti coinvolti, ivi compresi i collaboratori familiari (37) in quanto soggetti diversi dall’imprenditore individuale. L’estensione del regime IRI all’impresa familiare si giustifica comunque per motivi di ordine sistematico. Essa rappresenta un ulteriore modello di esercizio dell’attività di impresa che, in quanto caratterizzato da una forte sinergia tra i soggetti che vi partecipano, viene tassato secondo lo schema della trasparenza. Dal momento che il regime IRI è destinato proprio a superare questo meccanismo impositivo, sarebbe stato irragionevole escludere l’impresa familiare dal campo di applicazione della nuova modalità di tassazione (38). Dall’accoglimento dell’impostazione qui prospettata, deriva un’ulteriore conseguenza: il comma 1 dell’art. 55-bis t.u.i.r. dovrebbe essere interpretato nel senso di non indicare “per nome” i soggetti cui si applica il regime di impresa, ma di indicarli “per categorie”. L’opzione IRI potrebbe allora essere esercitata da tutti i soggetti cui si applicano le regole di tassazione dell’imprenditore individuale, o da quelli delle società di persone commerciali e non solo da quelli espressamente nominati dall’art. 55-bis, comma 1, t.u.i.r. Ciò consentirebbe di risolvere un’ulteriore questione sollevata in dottrina (39): consentire o meno l’esercizio dell’opzione IRI agli altri soggetti indicati nell’art. 5 t.u.i.r. cui, per assimilazione, è esteso il regime di tassazione per trasparenza, ma che l’art. 55-bis t.u.i.r. non nomina. Si tratta, in particolare, delle società di armamento e delle società di fatto. Ai fini delle imposte sui redditi per espressa previsione normativa, le so-
(37) Milita in favore dell’applicazione del regime in esame alle imprese familiari anche la circostanza che il legislatore avesse, in passato, già esteso proprio alle imprese familiari una normativa analoga alla presente. Ci si riferisce alla legge 23 dicembre 2000, n 388 (Legge Finanziaria per il 2001) il cui art. 9, comma 1, prevedeva un meccanismo di tassazione separata del reddito di impresa che il comma 10 del medesimo articolo estendeva alle imprese familiari. Questo costituisce un ulteriore indizio per poter non dubitare dell’applicazione del regime IRI alle imprese familiari. (38) Osservano, infine, S. Capolupo, Luci e ombre della tassazione separata del reddito d’impresa, in Il Fisco, 2017, 235 e G. Ferranti, L’imposta sul reddito di impresa in cerca di chiarimenti, cit., 498, come il regime IRI possa essere esteso anche all’azienda coniugale, benché essa non sia considerata espressamente dall’art. 5 t.u.i.r. Dovrebbe consentirlo la prassi dell’Amministrazione finanziaria che, nei modelli dichiarativi, assimila le due fattispecie. (39) G. Ferranti, La nuova imposta sul reddito di impresa, cit., 4307; S. Capolupo, Luci e ombre della tassazione separata del reddito di impresa, cit., 231.
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cietà di armamento sono equiparate alle società in nome collettivo ed in accomandita semplice a seconda che siano costituite all’unanimità o a maggioranza. Le società di fatto, invece, sono equiparate alle società in nome collettivo qualora abbiano per oggetto l’esercizio di attività commerciale. Quanto alle società di armamento non si riscontrano limiti giuridici ad applicare loro il regime di tassazione in esame, dal momento che non si ravvisano ragioni per escludere tali enti ed i loro soci dalle agevolazioni previste dal regime IRI. Maggiori problemi si pongono con le società di fatto. Normalmente tale qualifica viene, infatti, applicata dall’Amministrazione Finanziaria in sede di accertamento per recuperare a tassazione somme non dichiarate al Fisco. La nozione di società di fatto, di regola, dunque, viene in rilievo in casi patologici in cui più soggetti esercitano un’attività sottraendosi non solo ai relativi obblighi impositivi, ma anche a quelli dichiarativi, non formalizzando in alcun modo l’esercizio collettivo di un’attività. Se così è, non si comprende allora chi possa esercitare l’opzione in esame. Essa può essere esternata solo da contribuenti che hanno palesato di esercitare in comune un’attività di impresa. In altri termini, si dovrebbero distinguere, da un lato, le società di fatto che si auto-dichiarano come tali e, dall’altro, quelle che non lo fanno. Nulla osterebbe ad applicare alle prime (per vero poche, anzi pochissime) tale regime; lo stesso, invece, non sarebbe applicabile alle seconde (per vero la maggioranza) poiché queste non possono formalizzare l’opzione. Nonostante l’ordinamento, a partire dal d.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, abbia consentito al contribuente di accedere a regimi agevolativi per comportamenti concludenti, ciò si ritiene non possa valere che per soggetti i cui comportamenti siano verificabili dall’esterno. Questo risulta assai difficile per soggetti, quali le società di fatto, che non si sono dichiarati come tali all’Erario. I comportamenti concludenti possono venire in rilievo solo per contribuenti “noti” all’Amministrazione Finanziaria, sicché ove una società non si sia almeno dichiarata come tale, non potranno essere valutati i suoi comportamenti ai fini dell’applicazione del regime IRI. Da ultimo, si deve analizzare il problema se l’Imposta sul Reddito di Impresa possa essere applicata dalle società tra professionisti. Si tratta di questione dibattuta, in quanto è controverso il regime fiscale applicabile a tali enti. Il legislatore ha, inizialmente, disciplinato la società tra avvocati con il d.lgs. 2 febbraio 2001, n. 96, e la società tra professionisti con l’art. 24, legge 7 agosto 1997, n. 266. Queste leggi effettuano un generico rinvio alle norme che disciplinano le società in nome collettivo, senza fornire indicazioni in ordine al trattamento fiscale loro applicabile. L’Agenzia delle Entrate era intervenuta in proposito con la risoluzione 28 maggio 2003, n. 118/E, per chiarire che il rinvio effettuato dalla normativa alle società in nome collettivo non implicava anche di qualificare i relativi redditi quali redditi di impresa in quanto l’utiliz-
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zo del modello societario non fa venire meno il carattere professionale e personale della prestazione. Questa soluzione consentiva di evitare un contrasto tra regime fiscale e oggetto sociale (l’esercizio in comune della professione dei soci). Nell’impostazione dell’Agenzia delle Entrate, il rinvio alle disposizioni che regolano la società in nome collettivo rilevava solo a fini civilistici per determinare le regole di funzionamento del modello organizzativo, mentre, a fini fiscali, per ragioni di coerenza sistematica, occorreva dare risalto al reale contenuto professionale dell’attività svolta con l’effetto di considerare i relativi redditi quali redditi di lavoro autonomo. Si era così riconosciuto che lo strumento impiegato per lo svolgimento di un’attività professionale (associazione professionale o società tra professionisti) dovesse essere un aspetto neutrale e non idoneo ad introdurre discriminazioni quanto al trattamento fiscale applicabile (40). Successivamente il legislatore ha implementato la normativa di riferimento per il tramite dell’art. 10, legge 12 novembre 2011, n. 183, consentendo “la costituzione di società per l’esercizio di attività professionali regolamentate nel sistema ordinistico secondo i modelli societari regolati dai titoli V e VI del libro V del codice civile” (ovverosia società di persone e società di capitali). Tale norma ha indotto un ripensamento dell’Agenzia delle Entrate che, da ultimo, con le risposte ad istanza di consulenza giuridica 9 maggio 2014 n. 954-93 e del 16 ottobre 2014 n. 954-55, valorizzando il dato normativo, ha ritenuto doversi dare rilevanza a fini fiscali non all’esercizio di un’attività professionale, bensì al fatto di operare in una veste giuridica societaria e, dunque, ha ricondotto al reddito di impresa i redditi prodotti da tali enti (41).
(40) Cfr. V. Ficari La società fra avvocati nell’imposizione sul reddito: spunti per una discussione, in Rass. trib., 2002, 891. (41) Cfr. G. MELIS, Lezioni di diritto tributario, Torino, 2016, pag. 558. G. FERRANTI, L’imposta sul reddito di impresa in cerca di chiarimenti, cit., pag. 498, ricorda come l’Agenzia anche nella risoluzione 4 maggio 2006, n. 56/E abbia ritenuto che le “società di ingegneria, costituita sotto forma di srl” producono reddito di impresa, mentre nella risoluzione 28 maggio 2003, n. 118/E aveva ritenuto che le “società costituite in base al D. Lgs. 2 febbraio 2001, n. 96 per l’esercizio in forma associata della professione di avvocato” fossero titolari di reddito di lavoro autonomo (con l’effetto che queste sarebbero escluse dall’IRI). Questa breve analisi evidenzia, dunque, la necessità che provengano dall’Agenzia delle Entrate o dal legislatore chiarimenti definitivi sulla tassazione delle attività professionali rese in forma associata. Tale posizione sembra essere stata anche successivamente confermata dall’Agenzia delle Entrate peraltro in più occasioni. Segnatamente, sarebbe stata confermata, prima, dalla Direzione centrale normativa nella risposta all’interpello n. 954-93/2014, in Il Sole 24 Ore del 24 maggio 2014 e, poi, dalla Direzione regionale Lombardia nella risposta ad istanza di interpello prot. n. 904-1126/2017, in Il Sole 24 Ore del 29 ottobre. Ne riferisce G. GAVELLI, Stp, doppio binario per la tassazione dei compensi ai soci, il quale ricorda come, in tale ultima
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Se questa fosse la definitiva impostazione dell’Amministrazione Finanziaria al tema della tassazione delle società tra professionisti, allora nulla osterebbe per quelle costituite in forma di s.n.c., s.a.s. (purché adottino il regime di contabilità ordinaria) e s.r.l. (purché rispettino i requisiti di cui all’art. 116 t.u.i.r.) (42) dall’optare per il regime IRI. La medesima conclusione deve ora estendersi alle società tra avvocati di cui all’art. 4-bis, legge 31 dicembre 2012, n. 247, di recente introdotto dall’art. 1, comma 141, legge 4 agosto 2017, n. 124 (c.d. Legge annuale per il mercato e la concorrenza). Tale disposizione consente l’esercizio della professione forense “a società di persone, a società di capitali o a società cooperative iscritte in un’apposita sezione speciale dell’albo tenuto dall’ordine territoriale nella cui circoscrizione ha sede la stessa società”. Viene, così, aperta anche agli avvocati la possibilità di esercitare la professione forense non solo in forma di società di persone, ma anche in forma di società di capitali. Ciò apre la possibilità di esercitare l’opzione per l’IRI anche alle s.r.l. partecipate da un numero limitato di avvocati (10 al massimo) costituite per l’esercizio in forma associata della professione forense. Le norme menzionate e l’interpretazione che di loro offre l’Amministrazione Finanziaria, produce, a livello di sistema, una divergenza tra le modalità di determinazione del reddito di impresa rispetto a quello di lavoro autonomo. L’evoluzione legislativa, che aveva, invece, provveduto ad avvicinarle soffre ora una battuta di arresto: i professionisti organizzati in forma societaria possono accedere all’IRI, mentre quelli che esercitano l’attività in forma di associazione professionale o in forma individuale non possono fare altrettanto. Il legislatore potrebbe, dunque, valutare l’opportunità o di allargare il campo di applicazione dell’IRI al lavoro autonomo o di introdurre per questo soluzioni apposite. 4. Le modalità di determinazione del reddito per i soggetti IRI. – Quanto al meccanismo applicativo dell’IRI, esso, come anticipato, prevede l’applica-
risposta, l’Agenzia muova dall’assunto che la società tra professionisti non costituisca un genere societario autonomo con causa propria, ma si riconosca nelle società disciplinate dal codice civile come effetto della scelta operata. Ne consegue che ad essa si applicano le regole fiscali delle tipologie societarie di riferimento, ivi compresi gli artt. 6 e 81 t.u.i.r. per effetto dei quali il reddito complessivo delle società di persone e di capitali, da qualunque fonte provenga, è considerato reddito d’impresa. (42) Si tratta delle “società a responsabilità limitata il cui volume di ricavi non supera le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore e con una compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a 10 o a 20 nel caso di società cooperativa”.
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zione dell’aliquota IRES (ora il 24%) alla quota di redditi prodotta dall’imprenditore individuale o dalla società e non prelevata dallo stesso imprenditore o attribuita ai soci. Il primo problema che si pone concerne le modalità di determinazione della base imponibile IRI. A tal riguardo, il comma 1, secondo periodo, dell’art. 55-bis t.u.i.r. stabilisce che il reddito sia calcolato in base alle ordinarie regole di determinazione del reddito di impresa previste dal Capo VI del Titolo I t.u.i.r. e sia diminuito delle somme prelevate, a carico dell’utile dell’esercizio e delle riserve di utili, “nei limiti del reddito del periodo d’imposta e dei periodi d’imposta precedenti assoggettati a tassazione separata”. È, dunque previsto che i soggetti che esercitano l’opzione IRI, pur divenendo, in sostanza, essi stessi soggetti passivi di imposta, continuino ad applicare le regole di determinazione del reddito di impresa previste in sede IRPEF, che differiscono da quelle previste in sede IRES, per quanto ora di interesse, in merito a due profili (43): il regime di deducibilità degli interessi passivi (44) e la misura della concorrenza al reddito di dividendi e plusvalenze. Il fatto che gli enti che esercitano l’opzione IRI continuino ad applicare le ordinarie regole IRPEF non appare problematico. Alcune criticità sorgono, invece, quando si va ad analizzare l’opzione IRI esercitata dalle società a ristretta base proprietaria di cui all’art. 116 t.u.i.r. (che pure sono ammesse al regime in esame dal comma 2-bis della disposizione da ultimo menzionata come si vedrà nel prosieguo). Per tale ipotesi il legislatore non ha chiarito se
(43) La determinazione del reddito di impresa tra i soggetti IRPEF e quelli IRES differisce poi anche quanto alle possibilità di riporto delle perdite, questione sulla quale si tornerà nel prosieguo. (44) Con riferimento agli interessi passivi il problema nasce dal fatto che, espressamente, l’art. 61 t.u.i.r. condiziona la deducibilità degli stessi alla loro inerenza al reddito di impresa e dispone che siano deducibili per la parte corrispondente al rapporto tra l’ammontare dei ricavi e altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. Il requisito dell’inerenza non è, invece, testualmente richiesto nell’art. 109 t.u.i.r. per gli interessi passivi e tale mancanza è interpretata, almeno dalla giurisprudenza più recente, nel senso di ritenere che essi, “ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5, sono sempre deducibili, anche se nei limiti di cui al detto D.P.R. n. 917 del 1986, art. 63 (ora art. 96), che indica misura e modalità del calcolo degli interessi passivi deducibili in via generale, senza che sia necessario operare alcun giudizio di inerenza” (Cfr. Cass., sent. 10 ottobre 2014, n. 21467; Cass., sent. 4 marzo 2016, n. 4339). In ogni caso, poi, a fini IRES, la deduzione degli interessi passivi è condizionata al rispetto dei precisi limiti quantitativi dell’art. 96 t.u.i.r., che, come noto, consente, in primo luogo, di dedurre gli interessi passivi in misura pari agli interessi attivi e, in secondo luogo, consente di dedurre l’eventuale eccedenza nei limiti del 30% del ROL (Risultato Operativo Lordo) dell’impresa.
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continueranno ad essere applicabili a queste s.r.l. le ordinarie regole IRES o, invece, troveranno applicazione le regole IRPEF. Il problema nasce dal fatto che il nuovo testo dell’art. 116 t.u.i.r. rinvia all’art. 55-bis che, dunque, potrebbe intendersi comprensivo anche delle regole per la determinazione della base imponibile poste da questa norma. Tale conclusione non sarebbe asistematica, atteso che proprio nel sistema (contiguo, in quanto collocato nel medesimo articolo) della trasparenza delle società di capitali a ristretta base proprietaria, il legislatore ha previsto l’applicazione, anche da parte delle s.r.l. trasparenti, delle regole IRPEF in tema di tassazione di dividendi e plusvalenze (45). Essa sarebbe, inoltre, coerente con lo stesso meccanismo di funzionamento dell’IRI per il quale le somme prelevate dai soci costituiscono per loro reddito di impresa e sono presso di loro definitivamente tassate (46). Dunque, tali redditi devono essere tassati in capo alle persone fisiche con le regole loro proprie. Questa conclusione dovrebbe valere però non solo per la tassazione di dividendi e plusvalenze (che sono gli unici componenti reddituali che già l’art. 116 t.u.i.r. contempla), ma anche per gli interessi passivi. Applicando le regole previste per i soggetti IRPEF, la s.r.l. non dovrebbe più determinare il risultato operativo lordo ex art. 96 t.u.i.r., bensì dovrebbe, ex art. 61 t.u.i.r., ammettere la deducibilità degli interessi passivi inerenti l’esercizio d’impresa per la parte corrispondente al rapporto fra l’ammontare dei ricavi ed altri proventi che concorrono a formare il reddito d’impresa o che non vi concorrono in quanto esclusi e l’ammontare complessivo di tutti i ricavi e proventi. Ne risulterebbe così una diversità di trattamento quanto a regole di determinazione del reddito per le società a ristretta base proprietaria a seconda del regime di tassazione che applicano, potendo essere tenute: 1) alle regole IRES in assenza di alcuna opzione; 2) alle regole IRPEF in caso di opzione per l’IRI;
(45) Ai sensi del decreto del Ministero dell’Economia e delle Finanze 26 maggio 2017 (emanato ai sensi del comma 64 dell’art. 1, legge 28 dicembre 2015, n. 208, c.d. Legge di Stabilità 2016, per adeguare le regole di tassazione di dividendi e plusvalenze alla riduzione dell’aliquota IRES dal 27,5% al 24%) in capo ai soggetti IRPEF, i dividendi (a partire dalle distribuzioni successive a quelle aventi ad oggetto l’utile dell’esercizio in corso al 31 dicembre 2016) e le plusvalenze (realizzate a decorrere dal 1 gennaio 2018) concorrono nella misura del 58,14% del dividendo o della plusvalenza in luogo della misura del 5% prevista per i soggetti IRES. (46) Come si vedrà, il novellato art. 116 t.u.i.r. prevede che anche gli utili derivanti dalla partecipazione in società a ristretta base proprietaria che hanno esercitato l’opzione per l’IRI perdano la natura di reddito di capitale per acquisire quella di reddito di impresa e, di conseguenza, concorrano integralmente alla determinazione del reddito imponibile del percettore.
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3) alle regole IRPEF solo per dividendi e plusvalenze in caso di esercizio dell’opzione per la trasparenza fiscale. Mentre appaiono tollerabili le conseguenze della prima ipotesi (in quanto la società non è in nulla equiparata ad un soggetto IRPEF), lo sono assai meno quelle che seguono alle successive. Almeno per queste dovrebbe intervenire il legislatore decidendo definitivamente quale regole di determinazione del reddito siano applicate dalle società a ristretta base proprietaria. La disciplina IRI contiene poi alcune regole specifiche in tema di riporto delle perdite. Il comma 2 dell’art. 55-bis t.u.i.r. prevede che, in deroga all’articolo 8, comma 3 t.u.i.r., i soggetti IRI deducano le perdite maturate nei periodi d’imposta di applicazione dell’IRI senza alcun vincolo temporale e senza alcun limite quantitativo. Ciò attenua uno degli svantaggi dell’IRI: il fatto che tale opzione non consente più all’imprenditore individuale o ai soci di società di ridurre il proprio reddito con le perdite derivanti dall’attività di impresa. Accadrà che, se durante la vigenza del regime IRI si realizzano perdite, il contribuente non ne beneficerà immediatamente, ma solo al termine dell’opzione. I risultati negativi realizzati in vigenza dell’IRI daranno così vantaggi differiti all’imprenditore o ai soci (47). Una volta determinato il reddito della società (dunque, partendo dal risultato economico dell’impresa ed applicando le variazioni fiscali previste dal t.u.i.r. per le imprese personali), al fine di individuare il reddito da assoggettare ad IRI, si deve procedere ad un ulteriore adempimento: occorre dedurre le somme erogate a favore dell’imprenditore individuale, dei collaboratori familiari o dei soci, mediante la distribuzione di utili o riserve di utili (48).
(47) Come precisato nella relazione illustrativa, le perdite possono essere sia dovute “a eccedenze di somme prelevate in altro periodo rispetto agli utili realizzati nello stesso periodo che trovano capienza negli utili conseguiti in esercizi precedenti, sia… conseguite nell’ordinaria attività”. In altri termini, può accadere che siano prelevati utili assoggettati all’IRI per un ammontare superiore al reddito dello stesso anno e, in tal caso, si genera una perdita riportabile, per l’intero importo, in diminuzione dei redditi degli anni successivi, in quanto le somme dedotte dall’impresa sono assoggettate, per lo stesso importo, ad imposizione in capo ai soci (48) La norma precisa che deve trattarsi di utili o riserve di utili, pertanto non dovrebbero essere rilevanti i rimborsi di riserve di capitale. Con riferimento alle regole in tema di distribuzione di utili sono auspicabili chiarimenti da parte dell’Agenzia delle entrate circa l’applicabilità delle presunzioni del t.u.i.r. in tema di distribuzione. Esse, infatti, sono previste con riferimento alle distribuzioni di redditi di capitale, mentre, nel caso di specie, i redditi appresi dai partecipanti non hanno tale qualifica per ricevere quella di redditi di impresa. Tuttavia, se questo è vero dal lato del percettore, non vi sono sostanziali differente dal lato del soggetto che li distribuisce. Un’interpretazione meramente formalistica della norma (benché probabilmente più favorevole per il contribuente) potrebbe
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In dettaglio, gli utili prelevati, durante il periodo di vigenza dell’opzione, sono deducibili nel limite di un plafond determinato dalla sommatoria degli imponibili assoggettati ad IRI negli anni precedenti, rettificato delle perdite residue computabili in diminuzione dei redditi dei periodi d’imposta successivi (49). Trova qui applicazione la disposizione per cui i prelevamenti sono possibili “nei limiti del reddito del periodo d’imposta e dei periodi d’imposta precedenti assoggettati a tassazione separata” (50). A chiarimento di tale norma, la relazione illustrativa (51) precisa che “l’ammontare dell’utile di esercizio e delle riserve di utili costituisce meramente il limite massimo di prelevamenti possibili; prelevamenti che, peraltro, potranno essere effettuati soltanto nei limiti dei redditi già assoggettati a tassazione separata”. In altre parole, i prelievi di utili o di riserve di utili assumeranno rilevanza fiscale ai fini della deducibilità in capo alla società/impresa individuale ovvero di tassazione ai fini IRPEF per soci, titolare e collaboratori nei limiti del reddito d’esercizio o dei redditi di esercizi precedenti che hanno già scontato la tassazione separata (52). Pertanto nel caso in cui il reddito assoggettato ad IRI sia superiore all’utile conseguito, esso sarà assoggettato esclusivamente ad IRI, in quanto non potrà essere oggetto di prelevamento. Dunque, tali redditi sconteranno la tassazione IRI in modo definitivo. La scelta operata dal legislatore consente di svolgere alcune considerazioni di più ampio respiro e di risolvere taluni problemi che si pongono in altri contesti. Si pensi all’ipotesi della c.d. “trasparenza per presunzione”, espressione
non essere del tutto condivisibile. (49) Vale ovviamente la regola per cui le somme prelevate dalle riserve formate con utili dei periodi precedenti a quello di adozione dell’IRI non assumono rilevanza ai fini reddituali, essendo state già assoggettate ad imposizione per trasparenza. È stato inoltre espressamente previsto che le riserve si considerano formate prioritariamente con gli utili dei periodi precedenti a quelli di esercizio dell’opzione IRI. La disciplina delle perdite prodotte dalle società di persone nei periodi precedenti a quello di entrata nel regime in esame non è, invece, regolata espressamente nell’art. 55-bis t.u.i.r., ma si ritiene che tale dimenticanza derivi esclusivamente dall’essere una conseguenza implicita dell’opzione, praticamente “scontata”, tanto da non doverla precisare. (50) Come chiarito dalla relazione illustrativa, in sostanza, “il plafond IRI corrisponde sempre alla differenza tra reddito prodotto complessivo e somme prelevate complessivamente se e solo se ai fini della determinazione del limite del reddito di periodo e dei periodi d’imposta precedenti assoggettati a tassazione separata si tiene conto anche delle perdite di periodo”. (51) Ne riferisce G. Ferranti, La nuova imposta sul reddito di impresa, cit., 4307. (52) Occorre altresì prestare attenzione al fatto che, al termine dell’esercizio, il totale dei redditi tassati cumulativamente nel periodo IRI (al netto dei prelievi riportabili in quel singolo esercizio) non scenda mai sotto lo zero. Così L. Gaiani, Parte la nuova Iri e cambia l’Ace, in Telefisco 2017, Supplemento a Il Sole 24 Ore del 2 febbraio 2017, 134.
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con cui si designa, tradizionalmente, quella forma di trasparenza di origine pretoria che viene applicata alle società di capitali a ristretta base proprietaria (ovverosia composte da un numero ridotto di partecipanti tipicamente, ma non necessariamente, legati tra loro da vincoli di tipo familiare) in caso di accertamento di maggiori redditi non dichiarati (53). In tale ambito si è posto il problema se possano o meno essere imputati ai soci eventuali maggiori redditi accertati in capo alla società derivanti dall’applicazione di meccanismi presuntivi o dalla soluzione di questioni valutative. In dottrina (54) è stata sostenuta la soluzione negativa in quanto, altrimenti, i soci si troverebbero a pagare imposte sulla base di un reddito del tutto inesistente. Non tutti gli accertamenti determinano, infatti, l’emersione di un reddito “distribuibile”; l’accertamento di un reddito effettivo (e non meramente presunto) è, invece, condizione imprescindibile per poterlo poi trasferire ai soci come fa la Cassazione. Ammesso (e non concesso) che sia legittimo
(53) Su tale giurisprudenza, si rinvia a L. Salvini, La tassazione per trasparenza, in Rass. trib., 2003, 1505; G. Tinelli, F. Parisi, (voce) Società nel diritto tributario, in Dig. disc. priv., sez. comm., XIV, Torino, 1997, 323; G. Falsitta, Accertamento di utili extrabilancio a carico di società familiari e loro tassazione in complementare nei confronti dei soci, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1962, 185; P. Adonnino, Sulla tassabilità in complementare in testa all’azionista del maggior reddito di R.M. di società accertato extra-bilancio, in Rass. trib., 1958, 118; V. Ficari, Presunzione di assegnazione di utili extrabilancio ai soci e imputazione di costi fittizi, in Corr. trib., 2008, 1054; S. Muleo, Alcune perplessità in ordine a recenti orientamenti in tema di imputazione ai soci dei maggiori utili accertati in capo a società a ristretta base sociale, in GT-Riv. giur. trib., 2008, 712; A. Cicognani, Reddito di R.M. accertato induttivamente a carico di società di capitali e imposta complementare, in Dir. prat. trib., 1959, 6; V. Uckmar, Il regime impositivo delle società – La società a ristretta base proprietaria, Padova, 1966, 223; E. Marello, Note minime in tema di accertamento effettuato nei confronti di una società di persone in base ad indagini bancarie a carico dei soci (nota a Cass. sez. tribut. 3 ottobre 2000, n. 13090), in Rass. trib., 2001, 884; E. Ceriana, Società a ristretta base azionaria e presunzione di distribuzione degli utili (nota a Cass. sez. tribut. 11 novembre 2003 n. 16885), in Dir. prat. trib., 2004, 1451; G. Boletto, Definizione per condono del maggior reddito sociale e presunzione di distribuzione occulta di utili (nota a Cass. sez. tribut. 30 luglio 2002, n. 11239), in Rass. trib, 2002, 2096. (54) D. Stevanato, La presunzione di distribuzione ai soci del maggior reddito societario (nota a Cass., 29 dicembre 2003, n. 19803), in Corr. trib., 2004, 1009; M. Beghin, L’occulta distribuzione dei dividendi nell’ambito delle società di capitali a “ristretta base” tra automatismi argomentativi e prova per presunzioni (nota a Cass., 29 dicembre 2003, n. 19803), in GT – Riv. giur. trib., 2004, 431). L’accertamento di un maggior reddito in capo alla società può derivare da una eterogenea serie di motivi (M. Romano, Ricavi neri, costi inesistenti e presunzione di distribuzione di utili nelle società di capitali a ristretta base azionaria, in Il Fisco, 1991, 2054; T.M. Marino, Le società di capitali a base azionaria ristretta o familiare e la presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori ricavi accertati (nota a Comm. Prov. Reggio Emilia sez. VII 1 dicembre 1997, n. 284), in Boll. trib., 1998, 625.
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presumere la percezione di utili extrabilancio da parte dei soci di una società di capitali a ristretta base azionaria, deve ritenersi che una simile presunzione sia legittima soltanto in presenza di fatti che abbiano determinato un effettivo maggiore afflusso di ricchezza in capo alla società, ossia, in sostanza, solo in presenza di ricavi occultati o di costi inesistenti (55). Ove non si raggiunga la prova di un reddito con tali caratteristiche, non si può di per sé applicare la presunzione suggerita dalla Cassazione. Soltanto le rettifiche relative ad operazioni che abbiano creato una effettiva disponibilità monetaria possono fondare una legittima presunzione di distribuzione di utili ai soci. Da tale circostanza consegue l’illegittimità della presunzione di distribuzione nei casi in cui i fatti contestati alla società riguardino riprese a tassazione relative a valutazioni di beni che permangono nel patrimonio aziendale, oppure recuperi di costi realmente sostenuti, ma non di competenza, ovvero non inerenti. Tali costi, infatti, non modificano la disponibilità di redditi da distribuire ai singoli soci, anche se aumentano il reddito imponibile della società. Deve pertanto escludersi la possibilità di presumere una distribuzione di utili sulla base di riprese fiscali conseguenti a fatti di carattere valutativo relativamente a beni che permangono nel patrimonio aziendale o a recuperi di materia imponibile che trovino fondamento nell’applicazione di principi di competenza o di inerenza per spese e oneri realmente sostenuti (56).
(55) A. Voglino, La presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati accertati a carico delle società di capitali a ristretta base familiare od azionaria (nota a Cass. sez. I civ. 11 dicembre 1990, n. 11785), in Boll. trib., 1991, 468; Id., Ancora sulla presunzione di distribuzione degli utili non contabilizzati nelle società a ristretta base familiare od azionaria (nota a Comm. Trib. Centr. sez. VII 27 ottobre 1990, n. 7027), in Boll. trib., 1991, 1035; Id., Ancora in tema di società di capitali a ristretta base azionaria o familiare e presunzione di distribuzione ai soci dei maggiori utili accertati a carico della società (nota a Comm. Trib. Centr. sez. VII 19 marzo 1996, n. 1239), in Boll. trib., 1997, 631. (56) Esemplificativamente (e non esaustivamente) non possono determinare un maggior utile da distribuire ai soci eventuali maggiori redditi derivanti: a) da rettifiche risultanti dal riscontro di ricavi non contabilizzati (o contabilizzati in misura inferiore al reale) o di costi fittizi, corrispondenti ad operazioni finalizzate a creare disponibilità monetarie presso la società; b) da rettifiche aventi mera natura fiscale quali il disconoscimento di costi effettivamente sostenuti per difetto di inerenza o per indeducibilità totale o parziale, in base a specifiche norme di legge; c) da rettifiche di componenti negativi di reddito esposti in bilancio in misura superiore al consentito, al fine di ridurre l’imponibile fiscale, ai quali, però, non corrisponda la creazione di disponibilità monetarie (ammortamenti, accantonamenti per rischi o passività future, etc.); d) da rettifiche delle valutazioni di poste dell’attivo patrimoniale, contabilizzate in
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Deve parimenti escludersi la possibilità di un’automatica ripresa a tassazione ove il maggior reddito accertato in capo alla società dipenda dall’applicazione di studi di settore. In caso di loro applicazione a società a ristretta base proprietaria, l’Amministrazione Finanziaria non dovrà limitarsi a dare prova della possibilità di applicare al caso concreto uno specifico studio di settore, ma dovrà anche provare l’idoneità dello studio a far emergere un reddito distribuibile ai soci. Le osservazioni appena svolte non possono non valere anche a fini IRI dove, anzi, il legislatore, in modo estremamente opportuno, ha dettato proprio la regola per cui possono essere appresi dai soci solo redditi potenzialmente distribuibili dalla società. Si può, anzi si deve, allora innestare un circolo virtuoso tra trasparenza per presunzione ed IRI: il riconoscimento del divieto di apprensione di utili non distribuibili effettuato in sede IRI dovrà valere per le società di persone a ristretta base proprietaria per limitare l’attività dell’Amministrazione Finanziaria; allo stesso tempo la casistica individuata in precedenza di redditi non distribuibili dalle società trasparenti per presunzione dovrà valere anche a fini IRI. Si è, invece, già detto che l’utile assoggettato ad IRI deve essere ridotto dei prelevamenti effettuati (57). Ora si può osservare come l’esatta determinazione di tale regola richieda di risolvere una questione preliminare che sorge come conseguenza dell’utilizzo da parte del legislatore di una terminologia ambigua (58): i prelevamenti sono deducibili dal reddito di impresa nel limite dello stesso reddito dell’anno e dei periodi di imposta precedenti, ma gli stessi prelevamenti sono, a loro volta, parametrati all’utile dell’esercizio ed alle riserve di utili. La norma presuppone che per determinare il reddito si debbano conoscere i prelevamenti, ma allo stesso tempo per determinare i prelevamenti si deve conoscere l’utile che è alla base della determinazione del reddito.
bilancio per valori inferiori a quelli minimi previsti dalle norme fiscali (ad esempio la svalutazione delle immobilizzazioni materiali o finanziarie ovvero la svalutazione del magazzino). L’Associazione Italiana Dottori Commercialisti ed Esperti Contabili conferma tale lettura nella Norma di comportamento n. 198 del giugno 2017, per sostenere che “la presunzione secondo la quale nel caso di ristretta compagine sociale i maggiori redditi imponibili definitivamente accertati in capo ad una società di capitali si presumono attribuiti pro quota ai suoi soci può trovare applicazione solo qualora il maggior reddito imponibile accertato in capo alla società implichi una comprovata esistenza di corrispondenti disponibilità finanziarie occulte”. (57) Non costituiranno prelevamenti gli utilizzi degli utili a copertura delle perdite in quanto definitivamente acquisiti al patrimonio dell’impresa. Cfr. G. Ferranti, L’imposta sul reddito di impresa in cerca di chiarimenti, cit., 501. (58) S. Capolupo, Luci e ombre della tassazione separata del reddito di impresa, cit., 231.
Dottrina
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Questa regola, dunque, ove interpretata letteralmente, è, di fatto, inapplicabile (59). È intervenuta a chiarirla l’Agenzia delle Entrate (60). In dettaglio, è stato precisato che la quantificazione della base imponibile IRI deve verificarsi in due passaggi: determinando prima il reddito d’impresa secondo le ordinarie disposizioni previste dal t.u.i.r. e poi portando in deduzione dal reddito così determinato le somme prelevate (61). La misura massima dei prelevamenti si determina in funzione del “reddito lordo” del periodo di imposta (ovverosia dell’utile al lordo dei prelievi medesimi) e del plafond IRI formato nei periodi di imposta precedenti. È stato così chiarito che per calcolare la corretta deduzione dei prelievi, occorre verificare che, al termine dell’esercizio, il totale dei redditi tassati cumulativamente nel periodo IRI (al netto dei prelievi riportabili in quel singolo esercizio) non sia mai inferiore a zero. Viene così anche implicitamente riconosciuta la possibilità di dedurre eventuali prelievi in conto utili effettuati dai soci nel corso del periodo di imposta (62). Il rinvio alla nozione di “reddito lordo” nel senso anzidetto scongiura, dunque, il paventato rischio di una “paralisi” applicativa (63). Se queste sono le norme (e relative problematiche), si deve segnalare come vi sia un aspetto che il legislatore ha omesso di disciplinare: non viene fornita alcuna indicazione legislativa circa eventuali cause di decadenza dal regime IRI, benché possano porsi casi problematici. Si pensi, ad esempio, alla trasformazione di una società in nome collettivo in una società a responsabilità
(59) Ciò sarebbe stato particolarmente problematico in sede di prima applicazione. Cfr. P. Meneghetti, G.P. Ranocchi, Per l’Iri è necessario un debutto soft sui prelievi dei soci e distribuzione riserve, in Il Sole 24 Ore del 24 gennaio 2017. (60) L’Agenzia delle Entrate vi ha provveduto, prima, in occasione dell’edizione 2017 del c.d. Telefisco, poi, nella circolare 7 aprile 2017, n. 8/E. Cfr. anche G. Ferranti, Chiarita la determinazione del plafond e del reddito dei soggetti IRI, in Corr. trib., 2017, 655. (61) Cfr. circolare 7 aprile 2017, n. 8/E, punto 7.2. (62) Anche per le società di persone si ritiene nulla osti all’erogazione di acconti sugli utili. Cfr. G. Ferranti, L’imposta sul reddito di impresa in cerca di chiarimenti, cit., 501. (63) L’Agenzia delle Entrate ha anche chiarito che, ai fini della determinazione del limite di deducibilità delle somme prelevate, il reddito d’esercizio, o di esercizi precedenti, va considerato al netto delle perdite IRI riportabili, purché tali perdite siano utilizzate una volta. Le perdite IRI riportabili possono derivare da somme prelevate in altri periodi di imposta eccedenti rispetto agli utili realizzati nei medesimi periodi o in quelli precedenti o possono derivare dall’ordinaria attività. In altri termini, il plafond IRI va determinato computando in aumento i redditi assoggettati a tassazione separata con l’aliquota del 24% e in diminuzione le perdite residue non ancora utilizzate. Pertanto, laddove tali perdite siano utilizzate, le stesse non dovranno più essere portate in diminuzione del plafond IRI. Cfr. circolare 7 aprile 2017, n. 8/E, punto 7.1.
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limitata che non ha i requisiti di cui all’art. 116 t.u.i.r. (64). In questo caso, l’ipotizzata operazione di trasformazione diverrebbe un utile meccanismo per fuoriuscire dal regime IRI prima del decorso del termine quinquennale di validità dell’opzione. Se, nel caso appena prospettato, l’interruzione del regime IRI pare l’unica via percorribile, benché strumentalizzabile dal contribuente, è più complesso il caso in cui la nuova s.r.l. abbia, invece, i requisiti per applicare l’IRI. La lacuna legislativa rende, in questo caso, difficile comprendere se il regime opzionale prosegua o meno. Si può risolvere la questione traendo alcuni spunti dall’osservazione di una fattispecie non dissimile: la decadenza dal regime di trasparenza delle società di capitali. Essa è disciplinata dall’art. 115, comma 6, t.u.i.r., ove il legislatore prevede che la perdita delle condizioni per l’esercizio dell’opzione, comporti automaticamente la cessazione del regime di trasparenza (65). Fa eccezione l’ipotesi dell’ingresso di nuovi soci nella compagine sociale che è, invece, ritenuta compatibile con la prosecuzione del regime opzionale, a patto che i nuovi soci soddisfino i requisiti richiesti dalla legge. Inoltre, comporta decadenza dal regime, ai sensi del d.m. 23 aprile 2004 di attuazione delle norme di cui agli artt. 115 e 116 t.u.i.r., anche la trasformazione tanto della partecipata, quanto della partecipante in un soggetto non rientrante tra quelli indicati nella lett. a) dell’art. 73 t.u.i.r. Le norme menzionate consentono di inferire l’esistenza di un principio generale per il quale solo un evento che implichi la perdita dei requisiti di accesso comporta decadenza da un regime, anche allorquando tale perdita dipenda da fatti imputabili al contribuente. Accogliendo tale impostazione, sarebbe così confermata la soluzione prospettata per il primo caso ipotizzato (l’interruzione del regime nell’ipotesi di trasformazione di una società in nome collettivo in una società a responsabilità limitata che non ha i requisiti di cui all’art. 116 t.u.i.r.), mentre per il secondo sarebbe necessario escludere la decadenza dal regime IRI (66).
(64) P. Meneghetti, Chance Iri per le “piccole” Srl, in Il Sole 24 Ore del 16 gennaio 2017. (65) La perdita dei requisiti di accesso al regime comporta decadenza dall’esercizio dell’opzione anche nella disciplina del consolidato nazionale per effetto dell’art. 124 t.u.i.r.. (66) Anche se dovesse essere esclusa l’automatica continuazione del regime IRI, nulla, invece, escluderebbe un nuovo esercizio dell’opzione, ricorrendone i presupposti. In tale caso, dovrebbe ritenersi decorrere un nuovo quinquennio ai fini della permanenza del regime. Cfr. G. Ferranti, L’imposta sul reddito di impresa in cerca di chiarimenti, cit., 499. Ove si accogliesse, invece, la ricostruzione in favore della continuazione del regime, tale circostanza (potenzialmente penalizzante per i contribuenti) non si verificherebbe.
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5. La tassazione degli utili prodotti vigente il regime IRI. – L’applicazione dell’IRI, come più volte detto, comporta la tassazione dei soci sugli utili prelevati. Se ne devono comprendere le conseguenze dal punto di vista civilistico e da quello tributario (67). Quanto ai profili civilistici, ove esercitino l’opzione società di persone commerciali, si deve tenere conto della vigenza dell’art. 2262 cod. civ., che riconosce il diritto dei soci alla divisione periodica degli utili a seguito della sola approvazione del rendiconto annuale. Per effetto di tale disposizione, ciascun socio ha diritto di pretendere quanto gli spetta non appena la presenza di un utile risulti accertata attraverso il rendiconto annuale. Il socio può rinunciare alle somme di cui è titolare dopo l’approvazione del rendiconto, poiché solo in tal caso rinunzia ad un suo diritto di credito già esistente e, comunque, tale rinuncia, ai sensi dell’art. 2262 cod. civ., è condizionata alla concorde volontà di tutti i soci. Si pone allora il problema di comprendere se l’esercizio dell’opzione IRI comporti automatica rinuncia ad apprendere gli utili, tanto più che, secondo la dottrina giuscommercialistica (68), è discussa l’ammissibilità di rinunce preliminari del socio a percepire utili, quand’anche per destinarli ad altri scopi previamente individuati. Si ritiene che l’opzione tributaria non possa avere automatici effetti civilistici. Nulla ha espressamente previsto il legislatore sicché, in mancanza di una norma espressa, si ritiene che ogni ramo del diritto debba funzionare secondo regole sue proprie e si esclude, pertanto, che l’opzione tributaria abbia effetti civilistici. Appare, pertanto, opportuno che, ogni anno, i soci facciano seguire all’approvazione del rendiconto anche la rinuncia agli utili di quell’anno. Questa soluzione sarebbe quella più rispettosa delle differenze tra i due rami del diritto (69). Quanto ai profili tributari, l’opzione per il regime IRI comporta il supera-
(67) L’esercizio dell’opzione non comporta, invece, conseguenze dal punto di vista previdenziale. Per espressa disposizione di legge (art. 1, comma 548, Legge di Bilancio 2017) l’opzione per l’IRI non produce, infatti, effetti sul piano della contribuzione dovuta alle Gestioni artigiani e commercianti dell’INPS. Il contributo annuo dovuto ex art. 1, legge n. 233 del 1990, resta determinato come se l’opzione non fosse esercitata. Dal momento che la norma comporta che, anno per anno, sia comunque dovuta la contribuzione previdenziale come in assenza di esercizio dell’opzione per l’IRI, ne deriva che non sarà, invece, dovuto alcunché al momento del prelevamento degli utili, in quanto, altrimenti, si realizzerebbe una doppia contribuzione sulle stesse somme. (68) Amplius V. Buonocore, L’impresa societaria a base personale – La società semplice, in Manuale di diritto commerciale, a cura di V. Buonocore, Torino, 2006, 190. (69) Cfr. Cass., sent. 2 febbraio 2009, n. 2569, secondo cui gli utili non distribuiti delle società di persone non costituiscono un incremento del patrimonio societario, bensì conservano la loro originaria natura di crediti dei singoli soci nei confronti della società.
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mento della tassazione per trasparenza (lo prevede testualmente il comma 5 dell’art. 55-bis t.u.i.r.). Si tratta del principale effetto dell’IRI: gli utili non prelevati sono assoggettati ad aliquota fissa in capo all’impresa/società, mentre solo quelli prelevati concorrono a formare il reddito complessivo ai fini IRPEF del soggetto che li apprende quale componente del reddito di impresa. Si registra, dunque, un mutamento nella qualificazione giuridica di tali somme che perdono la qualità di redditi di partecipazione, per divenire di per sé redditi di impresa. La differenza ha rilievo essenzialmente a fini dichiarativi non essendo, come noto, i redditi di partecipazione un’autonoma categoria reddituale. Dal punto di vista sostanziale ciò non dovrebbe comportare conseguenze. Per l’imprenditore individuale o il socio tali utili concorreranno alla determinazione del reddito complessivo e potranno compensare eventuali perdite altrimenti prodotte dal contribuente. Per la persona fisica, continuerà a valere l’art. 8, comma 3, t.u.i.r., secondo cui le perdite derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e quelle derivanti dalla partecipazione in società in nome collettivo e in accomandita semplice sono computate in diminuzione dai relativi redditi conseguiti nei periodi di imposta e per la differenza nei successivi, ma non oltre il quinto, per l’intero importo che trova capienza in essi. Dunque, i redditi prelevati andranno a compensare perdite derivanti da (altre) attività di impresa svolte dal contribuente individualmente o in forma associata (70). La previsione per cui, a seguito dell’opzione IRI, è esclusa l’applicazione dell’art. 5 t.u.i.r., si estende certamente alla regola dell’imputazione e della tassazione del reddito a prescindere dalla sua percezione; si pone però il problema se si estenda anche alla presunzione di proporzionalità degli utili rispetto ai conferimenti (71) ed alla regola per cui eventuali ripartizioni non proporzionali alle quote devono risultare da atto anteriore all’inizio del periodo di imposta. La questione appare problematica in quanto, testualmente, il legislatore si
(70) P. Meneghetti, G. Ranocchi, La “flat tax” alle corde sui prelevamenti, in Il Sole 24 Ore del 5 gennaio 2017. (71) Cfr. P. Meneghetti, G. Ranocchi, Per l’Iri è necessario un debutto soft sui prelievi dei soci e distribuzione riserve, cit.; A. Cioccarelli, G. Gavelli, Da chiarire l’attribuzione dell’imposta sugli utili prelevati, in Il Sole 24 Ore dell’11 maggio 2017. Il problema riguarda non solo le attribuzioni di utili, ma si estende a tutti i casi in cui il soggetto IRI debba trasferire ai soci elementi aventi rilevanza fiscale quali, ad esempio, ritenute o crediti di imposta. Si ritiene che tale problema potrà porsi solo una volta terminato il periodo di validità dell’opzione in quanto, applicata l’imposta sul reddito di impresa, sarà lo stesso soggetto IRI a utilizzare tali elementi a riduzione di quanto da lui dovuto. Cfr. F. Avella, V. Mollica, Iri, ritenute sulle provvigioni con margini per la detraibilità, in Il Sole 24 Ore del 17 maggio 2017.
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limita a stabilire che l’esercizio dell’opzione IRI “esclude quella dell’articolo 5 limitatamente all’imputazione e alla tassazione del reddito indipendentemente dalla sua percezione”. Tale formulazione sembrerebbe richiamare la terminologia usata dal comma 1 dell’art. 5 t.u.i.r., ingenerando così il dubbio che le presunzioni e le regole procedurali previste dal comma 2 dell’art. 5 possano continuare a trovare applicazione. Queste presunzioni, infatti, se possono avere rilievo in un sistema fondato sull’imputazione, ne hanno minore in un sistema fondato sull’effettiva percezione; a prescindere dalle quote di partecipazione, il socio non potrà, infatti, che essere tassato sulla base di quanto effettivamente prelevato. Se quanto prelevato non è proporzionale alle quote di partecipazione, sarà questione più di rilievo civilistico che fiscale. Allo stesso modo, riduce la sua utilità anche la regola procedurale (finalizzata ad evitare scelte nella ripartizione dell’utile giustificate solo da ragioni di convenienza fiscale valutate ex post) per cui eventuali differenze nella ripartizione degli utili rispetto ai conferimenti devono risultare da atti aventi specifici requisiti di forma anteriori all’inizio del periodo di imposta. Fermo che la tassazione dei soci, dovrà avvenire, come detto, in base a quanto prelevato, eventuali atti inerenti alla ripartizione degli utili tra i soci potranno, al più, essere utilizzati dagli Uffici quale indizio di possibili comportamenti illegittimi tenuti dai soci. Si tratta, comunque, di un ulteriore aspetto su cui si auspicano celeri chiarimenti da parte dell’Amministrazione finanziaria, al fine di consentire ai contribuenti di adottare un comportamento sostanzialmente e proceduralmente corretto. Con riferimento ai prelevamenti, il legislatore precisa altresì, come è naturale, che il regime di integrale tassazione non si applica alle somme prelevate a carico delle riserve formate con utili dei periodi d’imposta precedenti a quello dal quale ha effetto tale articolo, in quanto esse sono già state oggetto di tassazione (72). La medesima norma prosegue aggiungendo che i prelevamenti operati dall’imprenditore o dai soci in costanza di regime IRI si considerano prioritariamente effettuati, se esistenti, dalle riserve formate con gli utili già tassati per trasparenza. Tale presunzione, alla luce dei principi generali dell’ordinamento tributario, deve considerarsi relativa e, dunque, deve essere garanti-
(72) Allo stesso modo, eventuali perdite derivanti da periodi di imposta precedenti l’opzione IRI seguono l’ordinario regime di tassazione e possono essere compensate con redditi della stessa natura.
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ta ai contribuenti la possibilità di imputare i prelevamenti anche alle riserve formate con utili assoggettati ad IRI, pur in presenza di riserve già tassate per trasparenza (73). Gli ulteriori effetti della tassazione dei prelevamenti in capo al socio sono approfonditi nella relazione illustrativa (74), ove si precisa che l’opzione per il regime IRI implica la disapplicazione dell’art. 68, comma 6, quinto periodo, t.u.i.r., secondo cui il costo fiscale della quota di partecipazione in una società di persone è aumentato o diminuito dei redditi e delle perdite imputate al socio, mentre dal costo si scomputano, fino a concorrenza dei redditi già imputati, gli utili distribuiti al socio. Continuando nell’analisi del regime di tassazione degli utili prodotti in ambito IRI, si deve segnalare come solo con il d.l. 24 aprile 2017, n. 50 (75) sia stata risolta un’iniziale lacuna della nuova disciplina, quella della tassazione dei redditi prodotti in vigenza dell’IRI, ma distribuiti una volta terminato il regime opzionale. Al riguardo, l’art. 58, d.l. n. 50 del 2017 ha aggiunto il comma 6-bis all’art. 55-bis t.u.i.r. stabilendo che le somme prelevate da riserve formatesi in vigenza del regime IRI, una volta che si è fuoriusciti da detto regime, concorrono, nei limiti in cui sono state assoggettate a tassazione separata, alla formazione del reddito complessivo dell’imprenditore, dei collaboratori o dei soci, salvo il riconoscimento in capo a loro di un credito di imposta del 24%. In tal modo, si assicura che tali somme scontino il medesimo trattamento tributario che avrebbero avuto in mancanza dell’opzione IRI. Viene confermato in capo alla persona fisica o al socio il beneficio del differimento della tassazione al momento della distribuzione degli utili e viene eliminata ogni forma di doppia imposizione tramite l’attribuzione di un credito di imposta pari all’IRI pagata in precedenza. Si deve, innanzitutto, osservare come la circostanza per cui la norma trovi applicazione “in caso di fuoriuscita dal regime [IRI] anche a seguito di cessazione dell’attività” e, dunque, sia idonea ad essere applicata a tutte le ipotesi (fisiologiche, patologiche e dipendenti o meno dalla volontà del contribuente) di interruzione del regime IRI, renda ora ancora più opportuno un intervento del legislatore a chiarire quali siano tali circostanze (oltre
(73) Cfr. P. Meneghetti, G.P. Ranocchi, Per l’Iri è necessario un debutto soft sui prelievi dei soci e distribuzione riserve, cit., i quali osservano che, così facendo, potrebbero aumentare i vantaggi conseguenti all’adozione dell’IRI. (74) Ne riferisce R. Rizzardi, L’imposta sul reddito di impresa: una scelta per la capitalizzazione delle aziende, in Corr. trib., 2016, 3465. (75) Convertito, con modificazioni, dalla legge 21 giugno 2017, n. 96.
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alla scadenza naturale del periodo di validità dell’opzione o alla cessazione dell’attività di impresa). Tramite questa modifica normativa il legislatore, con sufficiente tempestività, ha ovviato alla principale lacuna dell’originario regime IRI che regolava esclusivamente il trattamento fiscale delle perdite per il periodo successivo a quello di vigenza dell’opzione. Dal punto di vista delle perdite, è, in particolare, stabilito che quelle non ancora utilizzate al momento di fuoriuscita dal regime IRI siano computabili in diminuzione dai redditi dei soci ai sensi dell’art. 8, comma 3, t.u.i.r.. In altri termini, è previsto che siano computate in diminuzione dai redditi derivanti dall’esercizio di imprese commerciali e da quelle derivanti dalla partecipazione in società in nome collettivo e in accomandita semplice, senza limiti quantitativi, ma non oltre cinque anni da quello di maturazione. Autoritativamente il legislatore ha poi stabilito che l’ultimo anno di permanenza nel regime si consideri come anno di maturazione delle stesse e che, nel caso di società in nome collettivo e in accomandita semplice, tali perdite siano imputate a ciascun socio proporzionalmente alla sua quota di partecipazione agli utili. In altri termini, il legislatore non fa altro che prevedere, fornendo alcune utili precisazioni, il ritorno all’applicazione delle regole ordinarie. Con riferimento agli utili mancava, invece, una norma specifica che è stata così opportunamente introdotta (76). Il meccanismo prescelto dal legislatore
(76) La stampa specializzata (G. Gavelli, Il “peso” della presenza di altri redditi, in Il Sole 24 Ore del 12 gennaio 2017; L. Gaiani, Nuova IRI: deducibili anche i prelievi del primo anno, in Il Fisco, 2017, 915; Id., Iri in Cerca di una via d’uscita sugli utili distribuiti ai soci, in Il Sole 24 Ore del 7 febbraio 2017; Id., Rebus tassazione degli utili al termine della nuova IRI, in Il Sole 24 Ore del 30 gennaio 2017; R. Rizzardi, L’imposta sul reddito di impresa: una scelta per la capitalizzazione delle aziende, cit., 3467) aveva ipotizzato le seguenti soluzioni: 1) prevedere un prolungamento “virtuale” del regime per cui tali utili saranno dedotti dalla società tornata in regime di trasparenza e integralmente tassati in capo al socio percettore, mano a mano che sono distribuiti ai soci; 2) stabilire l’assoluta irrilevanza di tali distribuzioni tanto per la società quanto per il socio, con l’effetto di rendere definitivo il prelievo in capo alla società; 3) prevedere la tassazione dei dividendi pagati al socio secondo le regole ordinarie dei redditi di capitale mano a mano che si procede alla loro distribuzione; 4) prevedere la deduzione integrale degli utili in capo alla società e l’integrale tassazione in capo al socio al momento della fuoriuscita. La prima ipotesi avrebbe avuto il vantaggio di risultare equilibrata tanto per la società quanto per i soci, pur obbligando la prima a monitorare l’utilizzo degli utili. Avrebbe avuto però lo svantaggio di comportare una sopravvivenza del regime IRI anche una volta terminato il periodo quinquennale (oltre agli eventuali rinnovi) che avrebbe potuto appesantire e complicare non solo la gestione della società (dovendosi adottare meccanismi di monitoraggio
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consente di risolvere efficacemente la principale difficoltà operativa che la norma poneva, ovverosia quella di prevedere un coinvolgimento del soggetto (non più) IRI. Al termine dell’opzione la soggettività tributaria torna, infatti ad operare secondo le regole tradizionali e cessano di applicarsi le regole IRI (salvo per quanto si dirà subito appresso). Il legislatore non ha però chiarito come debbano essere qualificati in capo all’imprenditore individuale o al socio gli utili formati in periodi di vigenza dell’IRI e distribuiti successivamente. Benché una volta terminato tale regime tornino applicabili le regole ordinarie, si ritiene di poter escludere tanto che le somme così distribuite diventino una componente del reddito di partecipazione del socio quanto che diventino reddito di capitale. Nonostante la cessazione dell’opzione IRI, ad avviso di chi scrive, pare più corretto ritenere che tali somme continuino a costituire reddito di impresa ai sensi del comma 3 dell’art. 55-bis t.u.i.r.. Almeno sotto questo punto di vista si registra allora una prosecuzione della disciplina con l’effetto che dovrebbero continuare a valere le regole illustrate in precedenza in termini di concorrenza al reddito complessivo (77). Nonostante il tenore letterale potenzialmente ambiguo della disposizione neo-introdotta (78), si deve poi ritenere che il credito di imposta, così come avveniva in passato prima dell’introduzione del regime di esenzione dei dividendi,
di formazione degli utili per distinguerli in base al periodo di formazione), ma anche la circolazione delle partecipazioni. Sarebbe stata però non del tutto dissimile ad altre fattispecie già previste dall’ordinamento e, in particolare a quanto stabilito dall’art. 170, comma 4, t.u.i.r. in tema di trasformazione regressiva. La seconda ipotesi sarebbe stata molto conveniente per il socio, ma non del tutto sistematicamente corretta in quanto avrebbe escluso ogni tassazione in capo allo stesso. Era, dunque, una soluzione che non appariva percorribile alla luce dei principi generali che individuano, comunque, nel socio il destinatario della tassazione una volta che apprende gli utili. La terza ipotesi avrebbe assimilato le società ex IRI a società di capitali e avrebbe reso definitiva la tassazione in capo alla società pretendendo dal socio la differenza. La sua implementazione avrebbe richiesto un intervento normativo: quanto prelevato dalla società sarebbe, infatti, dovuto essere ricondotto ai redditi di capitale, mentre l’art. 55-bis t.u.i.r. testualmente, lo riconduce alla categoria dei redditi di impresa. La quarta ipotesi sarebbe stata molto penalizzante tanto per la società quanto per i soci e avrebbe reso (eccessivamente) costosa l’uscita dal regime IRI. (77) Tra queste regole dovrebbe continuare a valere anche quella che prevede la disapplicazione dell’art. 68, comma 6, t.u.i.r.. Esso stabilisce il principio per cui il costo fiscale delle partecipazioni sia influenzato dai redditi “già imputati” ai soci per trasparenza. Le riserve IRI, venendo tassate solo al momento della loro distribuzione, non sarebbero in grado di determinare tali effetti, sicché il principio menzionato dovrebbe continuare a considerarsi non applicabile in caso di loro distribuzione. (78) L. Gaiani, Iri, credito d’imposta al socio per gli utili distribuiti a fine regime, in Il Sole 24 Ore del 20 aprile 2017.
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non possa che essere parametrato al dividendo ‘lordo’ (ovverosia il credito debba essere pari al 24% di quanto percepito dalla persona fisica/socio aumentato dell’imposta pagata in precedenza dall’imprenditore individuale/società) e non al dividendo ‘netto’ (ovverosia il credito non deve essere pari al 24% di quanto percepito tout court dal contribuente). Si tratta di un accorgimento tecnico ineludibile per eliminare effettivamente ogni forma di doppia imposizione. A fini operativi, l’applicazione di tale regime implica, infine, che si dovrà provvedere ad un preciso monitoraggio del periodo di formazione degli utili, in quanto al momento della loro distribuzione dovrà essere conoscibile per il percettore il regime fiscale cui sono stati assoggettati in origine. Si auspica peraltro un intervento dell’Amministrazione finanziaria volto a chiarire le interferenze tra il regime in esame e le presunzioni di prioritaria distribuzione di utili già previste dall’ordinamento. In questa prospettiva, avendo la norma finalità agevolative, si ritiene che non potrà non riconoscersi ai contribuenti la massima libertà e flessibilità nello scegliere quale riserve utilizzare. La scelta del legislatore appare prevalentemente ispirata a considerazioni di ordine pratico piuttosto che sistematico: per eliminare la doppia imposizione sulla tassazione di tali utili, viene fatto ricorso ad un meccanismo diverso da quello utilizzato durante il periodo di validità dell’opzione e diverso da quelli attualmente utilizzati per risolvere il medesimo problema. Non si può non osservare come lo strumento del credito di imposta, che sembrava ormai desueto o relegato solo ad ambiti diversi, acquisisca così una rinnovata vitalità (79). In definitiva, pare che, benché la soluzione prevista dal comma 6-bis dell’art. 55-bist.u.i.r. presenti alcune criticità e possa presentare qualche complessità nella gestione, sicuramente elimini una delle principali incertezze applicative del nuovo regime IRI. Il regime IRI opera, infine, anche in presenza di soci non residenti. A tal fine il legislatore (80) ha integrato l’art. 23, comma 1, lett. g), t.u.i.r. prevedendo la tassazione in Italia, non più solo dei redditi imputati per trasparenza ai sensi degli artt. 5, 115 e 116 t.u.i.r. a soci non residenti di enti trasparenti, ma anche dei redditi derivanti dall’art. 55-bis t.u.i.r. La scelta del legislatore appare formalmente errata, benché sostanzialmente pratica. L’art. 23 menzionato regola, infatti, testualmente i casi in cui opera il regime di trasparenza, che è un regime antitetico all’IRI. Dunque, non appare questa la giusta collocazione della norma. Dal punto di vista operativo, invece, la scelta è pratica ed efficiente perché
(79) (80)
G. Gavelli, Fissate le regole per l’uscita dall’Iri, in Il Sole 24 ore del 27 aprile 2017. Cfr. art. 1, comma 547, lett. a), legge n. 232 del 2016.
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consente di attrarre a tassazione in Italia tali somme a prescindere dall’esistenza di una stabile organizzazione del soggetto non residente. Anzi, la partecipazione in una società IRI, come la partecipazione in una società trasparente, viene ad atteggiarsi “quale proiezione [dei soci non residenti] nel luogo in cui opera la società” (81) e diviene autonomo criterio di collegamento. In alternativa a quanto fatto dal legislatore, il medesimo risultato si sarebbe raggiunto (e sarebbe stato sistematicamente più corretto) introducendo una lettera g-bis nel corpo dell’art. 23 t.u.i.r. dal tenore identico alla precedente lettera g). Il socio non residente che detiene la partecipazione in società di persone italiane, dunque, sarà tassato in Italia alle stesse condizioni, sia che la società resti trasparente (in questo caso, sui redditi attribuiti per trasparenza e non sulle successive attribuzioni), sia che la società opti per la tassazione IRI (in questo caso all’atto dell’effettiva percezione delle somme). Come noto, nel primo caso potrebbero esservi differenze temporali tra il momento di tassazione in Italia (all’atto della produzione del reddito) e all’estero (all’atto dell’effettiva distribuzione, se lo Stato estero – come l’Italia – considera le società di persone non residenti alla stregua di soggetti “opachi”); diversamente, in caso di opzione, vi sarà tendenziale coincidenza temporale tra la tassazione in Italia e quella nello Stato di residenza del socio, eliminando così alcuni problemi che normalmente le società trasparenti pongono (si pensi a quelli che derivano dall’utilizzo di eventuali crediti di imposta). Da questo sistema deriva una potenziale doppia tassazione del socio estero in quanto questi sarà tassato in Italia e nel Paese di residenza. Per valutare se e come tale effetto possa essere eliminato, si deve tenere conto del Modello OCSE di convenzione contro la doppia imposizione e del relativo Commentario. Le disposizioni convenzionali teoricamente applicabili al caso in esame sono: a) l’art. 10, Modello OCSE concernente i dividends; b) l’art. 7, Modello OCSE concernente i business profits; c) l’art. 21, Modello OCSE concernente gli other income. L’art. 10, Modello OCSE prevede il concorso della potestà impositiva dello Stato dove risiede la società che paga il dividendo con quello di residenza del percipiente ponendo, tuttavia, dei limiti quantitativi al primo Stato. A fini convenzionali, il termine “dividendo”, in via di prima approssimazione, ricomprende i redditi derivanti da titoli azionari (82). Dall’analisi del Commentario al
(81) Cfr. risoluzione 24 giugno 1986, n. 643; risoluzione 19 dicembre 2005, n. 171. (82) Il terzo paragrafo dello stesso articolo fornisce una definizione di dividendi a fini convenzionali precisando che “the term “dividends” as used in this Article means income from shares, “jouissance” shares or “jouissance” rights, mining shares, founders’ shares or other
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modello OCSE, si può, inoltre, desumere che la Convenzione Modello OCSE fa riferimento a “dividendi pagati” da società, definizione che viene di norma interpretata in senso ampio fino a ricomprendervi ogni caso in cui sia stata adempiuta l’obbligazione di mettere a disposizione del socio i fondi (83). Secondo il Commentario (84), le disposizioni in tema di dividendi sono applicabili anche alle partnership solo allorquando esse sono soggette nello Stato dove si trova la sede della loro direzione effettiva ad un regime tributario analogo a quello delle società di capitali. In altri termini, per il Commentario OCSE (85) si deve distinguere se le società di persone sono tassate nel loro Stato secondo lo schema della trasparenza o secondo quello del riconoscimento di piena soggettività. Solo nella seconda ipotesi si realizza una perfetta equiparazione tra i modelli impositivi delle società di persone e quelli delle società di capitali tale per cui le regole previste per gli utili distribuiti dalle società di capitali divengono applicabili anche alle somme distribuite dalle società di persone. Questa potrebbe essere la soluzione da applicare anche alle società che esercitano l’opzione IRI, se non fosse che essa presenta alcuni profili critici. Le norme del modello OCSE sui dividendi presuppongono, infatti, una loro tassazione di tipo cedolare mediante imposte sostitutive (di cui viene fissato l’ammontare massimo), mentre nel caso di specie le somme prelevate dalla società concorrono alla determinazione del reddito progressivo. Dunque, il meccanismo convenzionale potrebbe non funzionare. Si potrebbe allora valutare l’applicabilità delle norme in tema di business profits di cui all’art. 7 Modello OCSE stante anche la qualificazione delle somme prelevate dal socio quale reddito di impresa. Il predetto art. 7, come noto, attribuisce il potere impositivo esclusivamente allo Stato di residenza dell’impresa che ha prodotto i profitti, a meno che tale impresa non svolga la sua attività nell’altro Stato coinvolto per il tramite di una stabile organizzazione. Nel caso di specie non vi sarebbero però gli estremi dell’esistenza di una stabile organizza-
rights, not being debt-claims, participating in profits, as well as income from other corporate rights which is subjected to the same taxation treatment as income from shares by the laws of the State of which the company making the distribution is a resident”. (83) E. Della Valle, La soggettività delle partnerships nel modello OCSE di convenzione bilaterale contro le doppie imposizioni sul reddito: la prospettiva italiana, in Dir. prat. trib. int.le, 2003, 767. (84) Al paragrafo 27 del commento all’art. 10 si legge, infatti, che “distributions of profits by partnerships are not dividends within the meaning of the definition, unless the partnerships are subject, in the State where their place of effective management is situated, to a fiscal treatment substantially similar to that applied to companies limited by shares”. (85) Analoghe conclusioni sono raggiunte dall’Agenzia delle Entrate nella circolare 23 dicembre 1996, n. 306/E.
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zione in quanto il socio non residente potrebbe non avere alcuna stabile presenza in Italia. Solo valorizzando il nuovo contenuto dell’art. 23, comma 1, lett. g) che, per l’appunto, surroga l’esistenza in Italia di una stabile organizzazione, si potrebbe applicare l’art. 7 Modello OCSE. È ragionevole ipotizzare che sia questa la soluzione cui dovrebbe ispirarsi l’Amministrazione finanziaria italiana. In alternativa, secondo un terzo punto di vista più rispettoso delle regole internazionali e sistematicamente più corretto in questa prospettiva, si dovrebbe applicare l’art. 21, Modello OCSE concernente gli other income per effetto del quale gli utili prelevati dai soci saranno tassati esclusivamente nel paese di residenza del percettore e, quindi, non in Italia. 6. L’opzione per il regime IRI da parte delle società a ristretta base proprietaria. – Al fine di eliminare ogni forma di discriminazione qualitativa (fondata sul soggetto che esercita l’attività) nella tassazione del reddito di impresa, il legislatore (86) ha modificato anche l’art. 116 t.u.i.r., che, come noto, concerne le società a ristretta base proprietaria, ovverosia le società a responsabilità limitata il cui volume di ricavi non supera le soglie previste per l’applicazione degli studi di settore e che hanno una compagine sociale composta esclusivamente da persone fisiche in numero non superiore a 10 o a 20 nel caso di società cooperative. Questa scelta è volta ad evitare la disparità di trattamento che si sarebbe verificata tra le società di persone commerciali in contabilità ordinaria e quelle società di capitali che, proprio in virtù della composizione della loro base sociale, “si trovano in una situazione fattuale analoga” (87): solo le prime avrebbero potuto applicare il regime IRI e non anche le seconde. La novella legislativa rafforza così la scelta del legislatore di considerare le società di persone commerciali e le società a responsabilità limitata quali strumenti del tutto identici per lo svolgimento in forma associata dell’attività di impresa. L’estensione del regime IRI alle s.r.l. non comporta alcuna variazione in termini di soggettività passiva della società (queste società restano soggetti passivi di imposta), comporta solo che i dividendi distribuiti saranno deducibili per la società e costituiranno reddito di impresa (e non più reddito di capitale) per i soci percettori. Per ottenere tale risultato, il legislatore non solo ha modificato il testo dell’art. 116 t.u.i.r., ma addirittura ne ha modificato la rubrica. Tale disposizione non reca più l’“Opzione per la trasparenza fiscale delle società a ristretta
(86) (87)
Cfr. art. 1, comma 547, lett. c), legge n. 232 del 2016. Così testualmente la relazione illustrativa al provvedimento in esame.
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base proprietaria”, ma le “Opzioni per le società a ristretta base proprietaria”. L’art. 116 diventa così autonomo rispetto all’art. 115 e stabilisce ora lo “statuto fiscale” delle s.r.l. a ristretta base proprietaria. Il nuovo comma 2-bis consente a queste società di esercitare alternativamente l’opzione per la trasparenza fiscale o quella per l’IRI. La circostanza che il legislatore consideri i due regimi alternativi esclude la possibilità di transitare da un regime all’altro prima del termine di loro naturale scadenza (triennale per la trasparenza o quinquennale per l’IRI) (88). Una volta esercitata l’una o l’altra opzione, il contribuente non può modificarla prima della sua naturale scadenza (89).
(88) La problematica era stata prospettata dalla stampa specializzata. Cfr. P. Meneghetti, La Snc che si trasforma può perdere la flat tax, in Il Sole 24 ORE del 16 gennaio 2017. (89) Si può comunque lamentare il fatto che il legislatore avrebbe almeno potuto regolare i passaggi tra regimi in sede di prima applicazione. Non sarebbe stato irragionevole consentire alle società che hanno esercitato in passato l’opzione per la trasparenza fiscale di interrompere anticipatamente tale regime per accedere all’IRI in quanto istituto di nuova introduzione. Sembra, però, stare colmando tale lacuna l’Amministrazione finanziaria; quest’ultima, infatti, con la risposta ad istanza di interpello prot. n. 954-1384/2017, non ufficialmente pubblicata nel momento in cui si licenzia il presente scritto, ma resa nota dalla stampa specializzata (cfr. L. GAIANI, Per chi sceglie l’Iri decadenza anticipata dal regime di trasparenza, in Il Sole 24 Ore del 8 febbraio 2017 – il testo della risposta all’istanza di interpello è disponibile presso la Banca dati on line de Il Sole 24 Ore) ha fornito alcuni importati chiarimenti. L’Agenzia delle Entrate ha ritenuto che “l’introduzione nell’ordinamento del nuovo regime di tassazione IRI, alternativo a quelli già esistenti, possa legittimare l’eventuale deroga al vincolo temporale di permanenza in un determinato regime opzionale e la scelta per quello introdotto ex novo” dal momento che, “in perfetta coerenza e sintonia con le finalità agevolative sottese alla succitata disposizione del DPR n. 442 del 1997, … anche nel caso in cui venga introdotto nell’ordinamento un nuovo regime impositivo, alternativo a quelli già esistenti, [deve] essere concessa la facoltà, per i potenziali destinatari di applicare il nuovo regime fin dal primo anno di entrata in vigore della norma, ancorché non sia ancora trascorso il vincolo di permanenza nel regime precedente. Diversamente, qualora tale facoltà non venisse riconosciuta, dato il vincolo temporale che caratterizza l’opzione per qualsiasi regime impositivo, si arriverebbe, di fatto, a depotenziare la. portata applicativa del nuovo regime fiscale, impedendo di accedervi a tutti i potenziali destinatari che non abbiano terminato il periodo minima di permanenza. in un determinato regime”. In altri termini l’Agenzia delle Entrate dimostra, in modo condivisibile, di dover estendere il campo di applicazione dell’art. 1, comma 1, d.P.R. 10 novembre 1997, n. 442, per comprendervi non solo i mutamenti “interni” di un regime optato da un contribuente, ma anche i mutamenti “esterni” quale l’introduzione di un regime alternativo a quello in essere. La norma così interpretata, nella parte in cui consente le variazioni di opzioni o la loro revoca “nel caso di modifica del relativo sistema in conseguenza di nuove disposizioni normative”, viene a permettere ai contribuenti di fuoriuscire da un regime di tassazione non solo quando questo viene modificato, ma anche quando ne viene introdotto uno nuovo. Nell’attesa che questo chiarimento trovi ufficiale pubblicazione, si deve ricordare come l’Agenzia delle Entrate fosse già pervenuta ad una simile conclusione nella circolare 13 aprile
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La possibilità per le s.r.l. a ristretta base proprietaria di esercitare l’opzione per l’IRI deriva dal nuovo comma 2-bis dell’art. 116 t.u.i.r. che rinvia ai commi 1, 2 e 3 dell’art. 55-bist.u.i.r.. In particolare, tramite il rinvio al comma 3, viene espressamente chiarito che anche per i soci di s.r.l. gli utili di esercizio e le riserve di utili (deducibili in capo alla società) costituiranno redditi di impresa per i soci e come tali integralmente tassati. La tecnica legislativa usata dal legislatore lascia qualche perplessità: dal momento che l’art. 116 t.u.i.r. richiama i soli commi 1, 2 e 3 dell’art. 55-bis, ci si chiede se valga, ad esempio, anche il comma 4, se non altro per il fatto che è quello che fissa in cinque anni la durata dell’opzione. Oltre a tale più eclatante aspetto, comunque, i commi 4, 5 e 6 dell’art. 55-bis pongono alcune regole rilevanti per l’applicazione del regime in esame. Nonostante la malaccorta formulazione della norma, pare arduo e soprattutto irragionevole ipotizzare che il regime IRI sia applicato in modo diverso a imprenditori individuali e società di persone commerciali, da un lato, e società a responsabilità limitata, dall’altro. Si deve, pertanto interpretare il rinvio all’art. 55-bis come un rinvio all’intera norma, ovviamente nei limiti in cui tale richiamo sia compatibile trattando esso di alcuni aspetti specifici delle società di persone (90). L’esercizio dell’opzione IRI da parte delle s.r.l. a ristretta base proprietaria può poi porre problemi autonomi. Si pensi al caso di una società che applica il regime IRI al quale ha avuto accesso dopo aver applicato la trasparenza (91). Per questa società, varrà certamente la regola per cui si qualificano quali redditi di impresa solo gli utili formati durante il periodo di vigenza IRI e pure varrà la regola del comma 6 dell’art. 55-bis, per cui si deve presumere la prioritaria distribuzione di utili formati in periodi di imposta in cui non era vigente l’opzione IRI. In costanza di regime IRI, si presumeranno prioritariamente distribuiti utili formati in periodi precedenti. Ma, allora, si presumeranno prioritariamente
2017, n. 11/E, emanata a commento del nuovo regime di tassazione per cassa delle imprese minori. In questa sede, l’Amministrazione finanziaria, occupandosi della validità di opzioni espresse in precedenza quanto al regime contabile applicabile (che, alla luce delle nuove norme, influenza le regole di imputazione temporale dei componenti positivi e negativi di reddito), aveva già testualmente riconosciuto che le modifiche apportate al regime di tassazione delle imprese minori costituissero “nuova disposizione normativa” che consentiva la revoca di un’opzione prima della sua scadenza naturale. (90) Quanto al tema della differente durata dell’opzione per la trasparenza fiscale e per il regime IRI che le s.r.l. possono alternativamente esercitare, si ritiene di dover formulare l’auspicio di un celere intervento del legislatore che uniformi i periodi di durata. La differenza tra loro appare non giustificata. (91) È il caso di una società in cui si sono succeduti i seguenti regimi: regime ordinario – trasparenza – IRI.
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distribuiti utili formati in vigenza del regime di trasparenza o in vigenza del regime ordinario? Si deve, infatti, ricordare come il decreto ministeriale 23 aprile 2004 attuativo della trasparenza stabilisca che “salva diversa esplicita volontà assembleare si considerano prioritariamente distribuiti gli utili e le riserve di utile realizzati nel periodo di efficacia dell’opzione” e “tale presunzione si applica anche se gli utili e le riserve sono distribuiti in periodi diversi da quelli in cui è efficace l’opzione”. In forza di tale norma si dovrebbe presumere la prioritaria distribuzione di utili formatisi nella vigenza del regime di trasparenza (92). Operativamente, pare opportuno che le s.r.l. che intendano optare per l’IRI annotino distintamente le riserve distinguendole in funzione del regime fiscale vigente nel momento in cui si sono formate e, in sede di assunzione della delibera di distribuzione dell’utile, espressamente dichiarino da quali riserve esse vengano prelevate. L’opzione IRI poi provoca un altro sfrido: per le società che l’avranno esercitata varrà il regime di determinazione delle perdite previsto dal comma 2 dell’art. 55-bis (testualmente richiamato), sicché tali perdite saranno integralmente deducibili per queste società senza limiti di tempo. Ciò, tuttavia, comporta una deroga rispetto all’ordinario regime di riporto delle perdite per le società di capitali. Ai sensi dell’art. 84 t.u.i.r., infatti, le perdite di queste società sono riportabili senza limiti di tempo, ma solo nella misura dell’80 per cento del reddito imponibile. Ne deriva che l’esercizio dell’opzione IRI, deroga alla sussistenza di limiti quantitativi al riporto delle perdite per le società di capitali. Si tratta di una conseguenza rilevante che si giustifica per il fatto di garantire una perfetta equiparazione tra società di persone commerciali e s.r.l. a ristretta base proprietaria. Si auspica che sia di questo avviso anche l’Agenzia dell’Entrate e che lo chiarisca nel più breve tempo possibile. Infine, con il d.l. n. 50 del 2017, il legislatore avrebbe forse potuto coordinare meglio quanto previsto dall’art. 55-bis, comma 6-bis, t.u.i.r. in tema di utili distribuiti una volta esaurito il regime IRI con l’estensione del regime in esame alle s.r.l. a ristretta base proprietaria. Pur mancando un espresso rinvio in tal senso, la regola del comma 6-bis non può non valere anche per questa ipotesi, sicché anche il socio di queste
(92) Con riguardo al regime transitorio si prevede che: - le riserve di utili esistenti al momento dell’ingresso nel regime IRI (già tassate per trasparenza in capo al socio negli anni precedenti) non concorrano alla determinazione del reddito imponibile delle persone fisiche in caso di loro distribuzione; - le perdite residue al momento dell’uscita dal regime IRI siano utilizzabili dal titolare e dai soci entro cinque anni dal periodo di formazione della perdita, individuato nell’ultimo anno di applicazione dell’IRI, a prescindere dall’anno effettivo di maturazione.
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società riceverà una somma integralmente tassata (e non parzialmente esente), salvo il riconoscimento di un credito di imposta. Tale somma continuerà a costituire redditi di impresa del percettore senza acquistare la qualifica di reddito di capitale e, dunque, anche in tale caso, dovranno essere assunte dalla società e dai soci tutte le più adeguate cautele per monitorare i periodi di formazione degli utili. Ciò fa si che, complessivamente considerata, la regola del comma 6-bis, ove applicata dalla società di cui all’art. 116 t.u.i.r. si presenti di non facile applicazione e sia idonea a generare alcune complicazioni operative in quanto le distribuzioni di utili potranno scontare un duplice regime. 7. L’accertamento delle società che hanno esercitato l’opzione IRI. – Nulla viene, infine, previsto dal legislatore in tema di accertamento delle società (di persone o di capitali) che hanno esercitato l’opzione per l’IRI. Dal momento che l’esercizio di tale opzione comporta l’acquisto della piena soggettività passiva (almeno per le società di persone) (93) risulta che esse, in linea di principio, dovranno essere destinatarie di uno specifico avviso di accertamento e dovrà essere loro richiesta la maggiore imposta dovuta, senza che sia previsto alcun coinvolgimento dei soci. Tali sono i moduli di accertamento previsti per le società di capitali. Questo assetto si complica nel momento in cui si passa ad analizzare il trattamento da applicare ai maggiori redditi accertati in capo ad una società IRI, ma non “rinvenuti” presso la stessa. Se il maggior reddito deriva da valutazioni che non generano reddito distribuibile, solo la società sarà accertata. Se, invece, il maggior reddito risulterà distribuibile, questo sarà accertato sì in capo alla società, ma l’Agenzia delle Entrate potrà presumere che sia stato attribuito ai
(93) Il legislatore aveva, invece, fornito alcune regole in tema di accertamento per il regime di tassazione separata del reddito di impresa previsto dall’art. 9, legge 23 dicembre 2000, n. 388 (Legge Finanziaria per il 2001). Vi provvedeva il comma 6 dell’articolo da ultimo menzionato prevedendo l’applicazione dell’art. 40, comma 1, d.P.R. n. 600 del 1973. L’Agenzia delle Entrate, nella circolare 3 gennaio 2001, n. 1/E riteneva che, in forza di tale regime, “la tassazione del reddito dell’impresa individuale e delle società di persone [era] equiparata a quella delle società di capitali”, sicché “l’eventuale maggior reddito accertato viene imputato all’”impresa/contribuente” ed assoggettato all’imposta da questa dovuta”. Si giustificava questa conclusione per il fatto che “L’impresa individuale e la società di persone che optano per il regime in esame, infatti, acquisiscono autonoma soggettività passiva tributaria anche ai fini dell’accertamento del reddito d’impresa, per cui si esclude l’applicazione delle disposizioni di cui agli artt. 38 e 40, comma 2, del DPR. n. 600 del 1973”.
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soci (94). Se l’Agenzia accogliesse tale prospettiva, dovrebbe allora, contemporaneamente, riconoscere la deducibilità di tale reddito in capo alla società così da poterlo tassare integralmente in capo ai soci quale reddito di impresa. Tale assetto, che pare l’unico conforme al dato normativo, crea dal punto di vista procedurale non pochi problemi (95). La società sarà, infatti, destinataria di un avviso di accertamento da cui non deriverà alcuna maggiore imposta e che, essendo la società un autonomo soggetto passivo di imposta, non dovrà essere notificato anche ai soci. È questa la conclusione cui normalmente si perviene ove ad essere accertato sia un autonomo soggetto passivo di imposta. Se pur conforme alla normativa, tale soluzione non pare soddisfacente. È auspicabile che l’avviso emesso nei confronti della società sia indirizzato anche ai soci che potrebbero avere interesse non solo a conoscerlo, ma anche a impugnarlo. Il problema si trasferisce poi sul piano processuale ove, applicando le regole che concernono le società di capitali, si dovrebbe escludere la sussistenza di un’ipotesi di litisconsorzio necessario nei contenziosi che vedono coinvolti l’Agenzia delle Entrate, la società e i soci. Alla luce di quanto indicato dalla Cassazione nella nota sentenza 4 giugno 2008, n. 14815, non ricorrerebbe nel caso di specie un’ipotesi di litisconsorzio necessario. L’esercizio dell’opzione per l’IRI da parte delle società di persone comporta proprio la non applicazione del principio di trasparenza che, sulla base della giurisprudenza vigente, è l’unica situazione in grado di determinare il ricorso a questo rimedio processuale. È, invece, pacifico che le vicende fiscali della società e dei soci siano separate in quanto i presupposti impositivi sono differenti (96). Tali conclusioni, sia relativamente alla fase procedimentale che a quella processuale, sono corrette alla luce della legislazione e giurisprudenza vigenti, ma esse appaiono difficilmente accettabili dal punto di vista pratico. Ai soci deve essere portato a conoscenza l’accertamento della società e, almeno il contenzioso che li riguarda, deve essere svolto o contestualmente o una volta terminato quello che riguarda la società. Ne deriva, paradossalmente, la necessità di estendere alle società che esercitano l’IRI, che esclude la trasparenza, gli schemi dell’accertamento e del
(94) Cfr. anche G. Ferranti, Chiarita la determinazione del plafond e del reddito dei soggetti IRI, cit., 659. (95) Cfr. G. Ferranti, La nuova imposta sul reddito di impresa, cit., 4307; S. Capolupo, Luci e ombre della tassazione separata del reddito di impresa, cit., 231. (96) Così Cass., sez. trib., sent. 8 ottobre 2010, n. 20870.
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processo proprio degli enti trasparenti. È auspicabile che l’Amministrazione finanziaria si “autolimiti” fornendo ai contribuenti le più ampie garanzie o che il legislatore intervenga al più presto. 8. Considerazioni conclusive. – L’IRI, nelle intenzioni del legislatore, è un’imposta chiamata al difficile compito di risolvere, o quanto meno attenuare, il problema della discriminazione qualitativa nella tassazione del reddito di impresa rendendo lo strumento utilizzato per svolgere un’attività di impresa indifferente dal punto di vista fiscale. Si è visto come già in passato il legislatore avesse più volte tentato di perseguire il medesimo risultato mai riuscendoci. L’IRI deve così riscattare vari fallimenti del passato, peraltro dovuti alla mancanza delle norme attuative (che questa volta non è neppure previsto siano emanate) o ai repentini ripensamenti del legislatore (che si spera non si verifichino in questo caso). Si tratta di un compito non facile in quanto anche l’IRI presenta non poche criticità. Dal punto di vista applicativo sono molti i problemi che essa solleva quando è applicata dagli imprenditori individuali o dalle società di persone commerciali e sono ancora di più quando è applicata dalle società di capitali a ristretta base proprietaria. La normativa di riferimento è probabilmente troppo scarna e avrebbe meritato di essere più e meglio approfondita. Nonostante il legislatore sia già intervenuto ad apportare alcune correzioni, sono ancora molte le incertezze che solleva e le complicazioni di ordine operativo che devono essere risolte (senza contare che le stesse correzioni apportate dal legislatore stanno generando ulteriori incertezze). Queste circostanze non possono non pesare nell’indirizzare le scelte dei contribuenti, tenuto anche conto che i vantaggi derivanti dell’IRI sono strettamente connessi al mantenimento degli utili nell’azienda, condizione che già potrebbe essere non del tutto accettabile dai contribuenti (97). Il giudizio che si può dare, per ora, sull’IRI è un giudizio in chiaroscuro in quanto sono molti, forse troppi, i problemi che la normativa solleva. Per ora, solo con grande cautela, si può ipotizzare che questo istituto riscatti i suoi predecessori.
Federico Rasi
(97) Senza dimenticare, per i soggetti che non la adottano, i costi connessi al passaggio alla contabilità ordinaria.
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La procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata in materia di stabile organizzazione (c.d. web tax transitoria) Sommario: 1. Genesi politica e natura della procedura. – 2. Presupposti soggettivi
e dimensionali. – 3. Presupposto oggettivo: la possibile esistenza di una stabile organizzazione in Italia. – 4. Procedimento. – 5. (Segue) Esito negativo della procedura. – 6. Cause ostative. – 7. Confronto e relazioni con altre procedure di collaborazione o cooperazione tra fisco e contribuenti. – 7.1. Cooperative compliance. – 7.2. Ruling internazionale. - 7.3. Accertamento con adesione. – 7.4. Tardiva presentazione della dichiarazione omessa (art. 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000) e ravvedimento operoso (art. 13, D.Lgs. n. 472/1997). – 7.5. Voluntary disclosure. – 8. Effetti premiali. – 8.1. Effetti premiali amministrativi. – 8.2. Effetti premiali penali. – 9. Annualità interessate dalla sanatoria L’art. 1-bis del Decreto Legge 4 aprile 2017, n. 50, convertito dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96 ha introdotto una speciale “procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata”, attraverso cui i gruppi multinazionali di rilevanti dimensioni possono verificare in contraddittorio con l’Agenzia delle entrate l’esistenza di una stabile organizzazione, con rilevanti effetti premiali ai fini sanzionatori amministrativi e penali. Il nuovo istituto è stato mediaticamente e politicamente presentato come una sorta di web tax transitoria volta ad arginare la perdita di gettito derivante dalla mancata tassazione dell’economia digitale. Tuttavia non si tratta di un nuovo tributo né tanto meno la procedura in commento riguarda soltanto l’economia digitale. Nel presente contributo, oltre ad esaminare la natura della nuova procedura, la si compara con altri istituti già esistenti (cooperative compliance, ruling internazionale, accertamento con adesione, ravvedimento operoso e tardiva presentazione della dichiarazione omessa, voluntary disclosure) al fine di rilevarne analogie e differenze. Article 1-bis of Law Decree No. 50 of 4 April 2017, converted by Law No. 96 of 21 June 2017, introduced a new “procedure of cooperation and enhanced collaboration” that will allow large multinational groups to discuss and examine jointly with the Italian Revenue Agency whether they may be deemed to have a permanent establishment in Italy. This new procedure entails significant benefits for the taxpayer in relation to both administrative and criminal penalties. This new regime was presented to the media and politically as a sort of an interim web tax aimed at compensating in part for the revenue loss that derives
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from the non-taxation of digital economy. However, this is not a new tax or levy. Nor is the procedure applicable only to multinationals in the digital economy sector. This paper will analyze the features of the new procedure and will also compare it with similar existing regimes (i.e. cooperative compliance, international tax ruling, tax settlement, regularization procedure, late filing of the omitted tax declaration, voluntary disclosure) to identify similarities and differences.
1. Genesi politica e natura della procedura. – L’art. 1-bis del Decreto Legge 4 aprile 2017, n. 50, convertito dalla Legge 21 giugno 2017, n. 96 ha introdotto una speciale “procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata” (di seguito la “Procedura”). L’introduzione della Procedura è stata anticipata da un dibattito politico e mediatico che ha portato inizialmente ad individuare l’istituto come una sorta di web tax transitoria, volta ad arginare la perdita di gettito che – secondo i suoi promotori – sarebbe determinata dalle multinazionali del web, in attesa di una disciplina sovranazionale e coordinata per la tassazione dell’economia digitale (1).
(1) Come evidenziato dall’onorevole Francesco Boccia, promotore dell’istituto qui in commento, l’art. 1-bis non costituisce una vera e propria web tax, ma uno strumento volto a “facilitare” l’accertamento dell’esistenza di una stabile organizzazione in Italia (cfr. resoconto dei lavori della Commissione V della Camera dei Deputi nella seduta tenutasi il 22 maggio 2017, reperibile su http://documenti.camera.it/leg17/resoconti/commissioni/bollettini/ pdf/2017/05/22/leg.17.bol0821.data20170522.com05.pdf), ponendosi così in continuità con gli accordi raggiunti dall’Agenzia delle Entrate con alcune multinazionali del settore digitale. Quanto alle misure direttamente rivolte alla tassazione della cd. economia digitale, in Italia sono state avanzate le seguenti proposte. La prima è contenuta nel Disegno di Legge A.S. 2526 rubricato “Misure in materia fiscale per la concorrenza nell’economia digitale” di iniziativa del senatore Mucchetti, ove si presume che i soggetti non residenti, che concludono più di 500 transazioni sul circuito digitale nazionale in un semestre per un valore non inferiore al milione di euro, abbiano una stabile organizzazione occulta in Italia. Una volta verificatisi i presupposti della presunzione, i soggetti non residenti possono dichiararsi spontaneamente o essere segnalati dagli intermediari finanziari all’Agenzia delle Entrate, la quale li invita a regolarizzare l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia. Se ciò non avviene, gli intermediari finanziari che intervengono nelle operazioni di pagamento a favore dei soggetti non residenti destinatari della presunzione devono operare su detti pagamenti una ritenuta del 26%. L’altra misura è il Disegno di Legge A.C. 3076 dell’onorevole Quintarelli, che si propone, invece, di introdurre nell’ordinamento italiano il concetto di “stabile organizzazione digitale”. Successivamente, sempre il senatore Mucchetti ha presentato come primo firmatario un emendamento alla Legge di Bilancio 2018 che include previsioni volte (i) al monitoraggio delle attività digitali svolte in Italia da soggetti esteri senza una presenza fisica in Italia, (ii) all’introduzione di un’imposta sulle attività digitali del 6% sui ricavi derivanti dalla prestazione di “servizi pienamente dematerializzati” da parte di soggetti non residenti a soggetti residenti in Italia e (iii) all’adeguamento
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Tuttavia, la norma in esame non ha introdotto né una speciale forma di
della definizione di stabile organizzazione prevista dalla norma domestica a quella modificata dall’OCSE nell’ambito del Progetto BEPS. A livello internazionale sono state introdotte diverse misure. In India, a partire dal 2016 è stata introdotta la c.d. “equalisation levy”, al fine assicurare un analogo trattamento tra imprese residenti e non residenti, qualora queste ultime siano caratterizzate da una significativa presenza economica nel territorio, ma non soddisfino i parametri minimi per integrare i presupposti territoriali di tassazione in India, ove il reddito si produce. In maggiore dettaglio, la misura si prefigge di contrastare la perdita di gettito fiscale dello Stato indiano nell’ambito del settore della pubblicità a mezzo Internet, dove le imprese multinazionali riescono ad ottenere nel relativo territorio ingenti profitti senza scontare alcuna tassazione, per carenza di un criterio di collegamento con il territorio indiano. A tal fine, i profitti derivanti dalla pubblicità digitale vengono assoggettati ad un’aliquota del 6 per cento, qualora il fatturato che le imprese non residenti ottengono da tale settore sia superiore ad un ammontare prefissato. Il Regno Unito, invece, ha adottato a partire dal 2015 la cd. “diverted profit tax”, che trova applicazione qualora sia ragionevole assumere che il soggetto non residente abbia organizzato la propria attività in modo tale da eludere la creazione di una stabile organizzazione nel Regno Unito. Sui profitti che l’Amministrazione finanziaria inglese considera sottratti ad imposizione si applica un’imposta pari al 25 per cento dei profitti stessi. Per un commento sulle misure adottate in altri Stati, si rimanda a S. Wagh, The Taxation of Digital Transactions in India: The New Equalization Levy, in Bulletin for International Taxation, settembre 2016, 538 ss.; L. Cerioni, The New “Google Tax”: The “Beginning of the End” for Tax Residence as a Connecting Factor for Tax Jurisdiction?, in European Taxation, maggio 2015, 185 ss. A livello europeo occorre innanzitutto segnalare la presa di posizione di alcuni Stati membri ed in particolare Italia, Francia, Germania e Spagna che nei giorni precedenti all’incontro dell’ECOFIN tenutosi a Tallin il 16 settembre 2017 hanno presentato una dichiarazione congiunta volta a sollecitare l’intervento dell’Unione Europea sul tema della tassazione dell’economia digitale. Nel corso dell’incontro dell’ECOFIN sono poi emersi due approcci contrapposti. Il primo propone una soluzione di breve periodo che potrebbe sfociare nell’adozione di un prelievo alla fonte da applicare ai ricavi conseguiti dai gruppi che operano nel settore, ove tali ricavi siano strettamente connessi con lo Stato della fonte del reddito (la proposta, pubblicamente sostenuta anche da Belgio e Olanda, ha visto come firmatari Francia, Italia, Germania, Spagna, Austria, Bulgaria, Grecia, Portogallo, Slovenia e Romania). Il secondo approccio prevede invece l’introduzione di un nuovo concetto di stabile organizzazione, in base al quale la “presenza digitale” significativa all’interno di uno Stato darebbe luogo ad una “stabile organizzazione virtuale” ivi situata (tra i sostenitori di questa soluzione vi è, tra gli altri, la presidenza estone dell’Estonia del Consiglio dell’Unione Europea). La Commissione Europea in data 21 settembre 2017 ha pubblicato la “Communication from the Commission to the European Parliament and the Council a fair and efficient tax system in the European Union for the digital single market”, in cui ripercorre le diverse soluzioni sul tavolo ed auspica di addivenire ad un approccio condiviso e coordinato entro la primavera del 2018. In seguito, durante l’incontro dell’ECOFIN del 5 dicembre 2017, il Consiglio dell’Unione Europea ha presentato le proprie conclusioni volte a definire quella che dovrebbe essere una possibile risposta comune dell’Unione Europea alle sfide derivanti dalla tassazione della digital economy in vista delle successive discussioni a livello internazionale. A tale riguardo, il Consiglio suggerisce di approfondire il concetto di “stabile organizzazione virtuale” (identificabile sulla base di determinati elementi individuati
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prelievo né un nuovo tributo e tanto meno riguarda gli operatori o il settore dell’economia digitale. Come si avrà modo di apprezzare dall’esame della disciplina in commento, essa altro non è che una forma di collaborazione volontaria (voluntary disclosure) a regime avente la finalità di promuove e facilitare un confronto tra multinazionali estere e amministrazione finanziaria italiana e volta a chiarire se esista o meno nel territorio dello Stato una stabile organizzazione di imprese estere del gruppo. Qualora ad esito di tale confronto l’Agenzia delle entrate dovesse concludere che esiste una stabile organizzazione, la Procedura consente di sanare le violazioni pregresse di omessa dichiarazione, con rilevanti benefici sotto il profilo sanzionatorio amministrativo e penale. L’ultima parte del comma 1 prevede infatti che la “procedura di cooperazione e collaborazione rafforzata di cui al presente articolo” ha ad oggetto “la definizione dei debiti tributari dell’eventuale stabile organizzazione presente nel territorio dello Stato”. 2. Presupposti soggettivi e dimensionali. – Come accennato, la Procedura non è aperta a qualsiasi impresa non residente che abbia un dubbio in merito all’esistenza nei precedenti periodi d’imposta di una sua stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Occorre in primis che l’istante sia una società o ente di cui alla lettera d) del comma 1 dell’articolo 73 del testo unico delle imposte sui redditi che appartenga ad un gruppo multinazionale (comma 1). La Procedura non è quindi ammissibile per una società estera che non appartiene ad un gruppo multinazionale. Inoltre sono previsti limiti dimensionali sia con riferimento al gruppo multinazionale di appartenenza che alle attività svolte in Italia. Quanto alle dimensioni del gruppo multinazionale, occorre che esso abbia ricavi consolidati superiori a 1 miliardo di euro annui (comma 1), conside-
nei lavori OCSE, quali il fatturato realizzato, il numero di utenti e le attività digitali) insieme alle necessarie modifiche delle regole di determinazione dei prezzi di trasferimento e di attribuzione del reddito. Il Consiglio sottolinea che ogni possibile soluzione dovrà comunque essere condivisa con l’OCSE e le altre organizzazioni internazionali. L’OCSE, nell’ambito del Progetto BEPS, sta infatti continuando i lavori del rapporto sull’Action 1 (“Addressing the Tax Challenges of the Digital Economy”). In data 22 settembre 2017 è stato infatti pubblicato il documento “Request for input on work regarding the tax challenges of the digitalised economy” nel quale è stato richiesto pubblicamente di fornire spunti per la redazione del documento finale.
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rando a tal fine il valore più elevato delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi indicate nel bilancio consolidato relativo all’esercizio precedente a quello in corso alla data di presentazione dell’istanza e ai due esercizi anteriori (comma 3). Il riferimento al bilancio consolidato ai fini dell’individuazione della soglia di un miliardo di euro comporta ovviamente che il calcolo avvenga al netto delle operazioni infragruppo. Quanto alle dimensioni delle attività svolte in Italia, il comma 1 richiede che il gruppo di appartenenza dell’istante effettui cessioni di beni e prestazioni di servizi nel territorio dello Stato per un ammontare superiore a 50 milioni di euro, mentre il comma 4 prevede che a tal fine si considera il valore più elevato delle medesime cessioni di beni e prestazioni di servizi indicate nel bilancio relativo all’esercizio precedente a quello in corso alla data di presentazione dell’istanza e ai due esercizi anteriori. Ai medesimi fini si tiene conto anche delle cessioni di beni e delle prestazioni di servizi effettuate dai soggetti, residenti o non residenti, che si trovino, nei confronti della società o ente che presenta l’istanza di accesso alla Procedura, nelle condizioni di cui all’articolo 110, comma 7, del testo unico delle imposte sui redditi. Pertanto, ai fini del calcolo dei 50 milioni di euro relativi alle attività svolte in Italia, vengono considerate anche le vendite operate in Italia da altri soggetti del gruppo residenti all’estero. Un ultimo importante requisito di accesso alla procedura è che il gruppo multinazionale sia strutturato avvalendosi del supporto di una società consociata residente in Italia o di una stabile organizzazione in Italia di una società consociata estera. Tale previsione è probabilmente ascrivibile alla circostanza che quasi tutti i maggiori gruppi multinazionali che negli ultimi anni hanno subìto verifiche da parte dell’amministrazione finanziaria, a seguito delle quali è stata contestata l’esistenza di una stabile organizzazione occulta, operavano nel territorio dello Stato mediante società che fornivano supporto (solitamente logistico e/o di marketing) all’impresa estera (2) e che venivano remunerate per le attività svolte sulla base dei costi sostenuti. Inoltre il requisito in esame trova la sua ratio nella circostanza che, in mancanza di una società locale svolgente attività di supporto, l’esistenza di una stabile organizzazione sarebbe connessa ad attività occulte, in quanto tali non meritevoli di accesso al regime premiale in oggetto.
(2) Per tutti il caso Philip Morris nel quale l’entità italiana che forniva supporto era la società del gruppo Intertaba S.p.A. (cfr. Cass. civ., Sez. trib., Sent., 25 maggio 2002, n. 7682).
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3. Presupposto oggettivo: la possibile esistenza di una stabile organizzazione in Italia. – Il comma 2 prevede che la Procedura possa essere attivata quando i soggetti di cui al comma 1 ravvisino la possibilità che l’attività esercitata nel territorio dello Stato costituisca una stabile organizzazione. Va premesso il dubbio, rilevante sia per il presupposto soggettivo sia per quello oggettivo della Procedura, sulla razionalità della limitazione dell’ambito applicativo dell’istituto a problematiche di stabile organizzazione e a multinazionali che abbiano una certa dimensione e che siano organizzate con il supporto in Italia di una società di servizi. Considerato che, come si osserverà meglio infra, il tema della stabile organizzazione in Italia presenta profili interpretativi unici a livello mondiale, sarebbe stato utile e razionale che la Procedura fosse stata estesa anche prescindendo dai limiti dimensionali e organizzativi previsti dalla norma e fosse aperta anche alla sanatoria di altre possibili violazioni spesso oggetto di verifiche fiscali (si pensi ad esempio al tema dell’esterovestizione o dell’interposizione). Tale tema relativo alla limitazione del perimetro della Procedura (più politico che giuridico) (3), è particolarmente rilevante se si considera che la norma è stata introdotta quasi in concomitanza della fine del programma di voluntary disclosure, il quale invece era aperto alla sanatoria di qualsiasi violazione della normativa tributaria e si prestava già quindi sia alla possibilità di regolarizzare (qualsiasi tipologia, struttura e dimensione di) stabili organizzazioni non dichiarate, sia alla regolarizzazione di tutte le altre violazioni potenzialmente oggetto di verifiche fiscali. L’altra possibile scelta legislativa sarebbe stata quella di rendere la voluntary disclosure un istituto volto alla regolarizzazione “a regime” di tutte le violazioni tributarie, ivi incluse quelle specifiche coperte dalla Procedura. Come accennato, dal punto di vista costituzionale la disparità di trattamento che si è venuta a creare tra le limitate violazioni sanabili con la Procedura e quelle che non rientrano nel suo ambito applicativo non sembra creare discriminazioni costituzionalmente rilevanti (ex art. 3 Cost.), sia in ragione dell’esistenza di varie forme di autodenuncia, confronto e collaborazione volte a sanare violazioni pregresse (4), sia perché in Italia la tematica dei confini
(3) Non sussistendo a parere di chi scrive violazioni ex art. 3 Cost. dovute all’irragionevolezza delle predette limitazioni della Procedura. Sul punto si rinvia alle considerazioni di cui infra nel testo. (4) Sul confronto tra la procedura e altri istituti vedasi infra il par. 7.
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della stabile organizzazione dei gruppi multinazionali di rilevanti dimensioni è particolarmente incerta e desta dubbi interpretativi assai significativi. Pertanto, l’individuazione da parte del legislatore di un nucleo particolarmente ristretto di casistiche da sanare mediante la Procedura rientra, a parere di chi scrive, negli ambiti fisiologici della sua discrezionalità, senza violare i parametri di costituzionalità discendenti dall’art. 3 della Costituzione (5). Dubbi interpretativi sulla nozione di stabile organizzazione che giustificano l’ambito limitato della procedura discendono, in primis, dalla non esatta sovrapponibilità tra la definizione di stabile organizzazione contenuta nella norma interna (art. 162 tuir) e quella contenuta nelle convenzioni bilaterale per evitare le doppie imposizioni di volta in volta applicabili (6).
(5) Tra le ragioni non dichiarate della genesi della norma e della limitata casistica ammessa alla Procedura, oltre alle incertezze circa i confini della nozione di stabile organizzazione, va considerata la consapevolezza del legislatore e degli operatori circa la facilità con cui viene contestato il reato di omessa dichiarazione in presenza di una ipotesi di stabile organizzazione occulta. Ci si riferisce, da un lato, alla esigua soglia di rilevanza penale prevista dall’art. 5 del D.lgs 74/2000 (50.000 euro) e, dall’altro, alla tendenza dei verificatori e degli organi inquirenti italiani a prediligere la contestazione di omessa dichiarazione rispetto a quella di infedele dichiarazione (art. 4 D.lgs. 74/2000). Quest’ultimo reato, invero, in molte ipotesi potrebbe essere contestabile, in luogo di quello di omessa dichiarazione, sotto il profilo della insufficiente remunerazione della società consociata residente in Italia che ivi presta attività di supporto logistico, di marketing etc.. Tuttavia il reato di dichiarazione infedele prevede maggiori soglie e non sussiste in presenza di una adeguata documentazione nazionale tenuta dalla consociata residente in Italia che ivi presta le attività di supporto. Pertanto l’introduzione della Procedura è stata criticata in quanto la selezione della materia da sanare (stabile organizzazione) e dei soggetti a cui la procedura è riservata (multinazionali estere) sarebbe stata dettata per sfruttare sia le incertezze del nostro ordinamento in materia, sia la posizione a volte eccessivamente severa degli inquirenti, sia infine la maggiore docilità della tipologia di contribuenti ammessi alla procedura (le multinazionali estere), che per non subire danni reputazionali ed effetti a cascata negli altri ordinamenti sarebbe più disponibile a definire preventivamente le contestazioni amministrative e penali di omessa dichiarazione, piuttosto che affrontare l’alea del contenzioso tributario e penale e i correlati danni mediatici. (6) Al momento sono in vigore con l’Italia 94 trattati bilaterali contro le doppie imposizioni, ciascuno dei quali contiene una propria definizione di stabile organizzazione, per lo più conforme a quella contenuta nel Modello OCSE di Convenzione contro le doppie imposizioni del 1963. Le peculiarità della nozione di stabile organizzazione prevista dall’art. 162 del TUIR rispetto a quella prevista del Modello OCSE del 1963 sono varie: si pensi al periodo di soli tre mesi oltre il quale un cantiere può integrare una stabile organizzazione, o all’applicabilità della regola temporale relativa ai cantieri alle attività di supervisione ad essi connesse, o alla lista di esclusioni che contempla il caso in cui la sede fissa d’affari venga utilizzata per la combinazione di attività preparatorie o ausiliarie, o alla nozione di stabile organizzazione personale che esclude soltanto le attività di acquisto di beni, o al principio dell’irrilevanza dell’esistenza nel territorio dello Stato di elaboratori elettronici oppure, infine, alle regole specifiche di esclusione
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A ciò vanno aggiunte le difficoltà e peculiarità interpretative tipiche dell’Italia determinate dalla giurisprudenza fiorita in seno alla sezione tributaria della Corte di Cassazione dai casi Philip Morris in avanti e dalla posizione assunta dall’Italia in sede OCSE sul tema della stabile organizzazione. In tali sentenze la Suprema Corte ha elaborato posizioni assai peculiari, come quella della stabile organizzazione “plurima”, della rilevanza della partecipazione alle trattative (anche al di fuori di poteri di rappresentanza) e della rilevanza dell’affidamento a società controllate di funzioni d’affari mediante contratti di servizi. Tali principi hanno esteso significativamente le ipotesi in cui l’amministrazione finanziaria italiana può accertare una stabile organizzazione “all’interno” di una società controllata, facendo sì che l’Italia si presenti in subiecta materia come un vero e proprio unicum a livello internazionale. L’Italia ha apposto una Osservazione al Commentario all’art. 5 del Modello OCSE, con la quale ha chiarito che, nonostante le modifiche apportate al Commentario OCSE nel 2005 per ridimensionare il disorientamento generato dalla Corte di cassazione italiana in materia di stabile organizzazione, il nostro Stato non intende ignorare i principi affermati dalla propria giurisprudenza. La Corte di Cassazione si è espressa su tale Osservazione interpretandola nel senso che la propria giurisprudenza non può essere disattesa (7). Il risultato di quanto appena esposto è che in Italia è assai più facile, rispetto ad altri ordinamenti, che una società controllata
in materia di raccomandatari e mediatori marittimi. Di fronte a tali nozioni non combacianti, al fine di verificare la sussistenza o meno di una stabile organizzazione in Italia di un soggetto residente in un altro Stato con il quale l’Italia abbia stipulato un trattato bilaterale contro le doppie imposizioni, occorre confrontare la definizione di stabile organizzazione contenuta in detto trattato con quella interna di cui all’art. 162 del TUIR, tenendo conto sia del principio di prevalenza della norma pattizia, ove più favorevole, sia di quanto disposto all’art. 169 del TUIR, ai sensi del quale “Le disposizioni del presente testo unico si applicano, se più favorevoli al contribuente, anche in deroga agli accordi internazionali contro la doppia imposizione”. In tal senso, si veda E. Della Valle, La nozione di stabile organizzazione nel nuovo T.U.I.R, in Rass. Trib., 5/2004 e C. Sacchetto, Le fonti del diritto internazionale tributario, in C. Sacchetto (a cura di), Principi di diritto tributario europeo e internazionale, 2016, p. 13 secondo cui la regola previste dall’art. 169 del Tuir potrebbe avere la mera funzione di ribadire che le norme convenzionali non possono generare fattispecie impositive non previste dalla normativa dei Paesi contraenti. (7) Cass. Civ., sez. trib., 28 luglio 2006, n. 17206; Cass. Civ., sez. trib, 25 ottobre 2006, n. 22849; Cass. Civ., sez. trib, 25 ottobre 2006, n. 22850; Cass. Civ., sez. trib, 25 ottobre 2006, n. 22851; Cass. Civ., sez. trib, 25 ottobre 2006, n. 22852; Cass. Civ., sez. trib, 25 ottobre 2006, n. 22853; Cass. Civ., sez. trib., 15 febbraio 2008, n. 3889; Cass. Civ., sez. trib., 15 febbraio 2008, n. 3890; Cass. Civ., sez. trib., 15 febbraio 2008, n. 3891.
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sia considerata quale stabile organizzazione della società controllante, sotto la forma di una sede di direzione (8). Tale maggiore facilità di configurare la controllata quale stabile organizzazione della controllante e tale unicità dell’Italia nel panorama internazionale trae anche origine dalla giurisprudenza secondo la quale il rapporto di controllo attribuisce all’amministrazione finanziaria il potere di accertare (mediante una presunzione semplice) che la controllata sia stabile organizzazione della controllante (9). Siffatta presunzione pretoria è stata successivamente limitata ai soli casi in cui, tra gli Stati di residenza della controllata e della controllante, non si rinvenga un trattato per evitare le doppie imposizioni (10). Tuttavia si ritiene che la presunzione, anche nella forma più blanda affermata dalla giurisprudenza successiva, sia infondata per le ragioni già diffusamente affrontate altrove (11). A ciò vanno ad aggiungersi le incertezze determinate dai lavori dell’OCSE nei rapporti BEPS i quali sono intervenuti su diversi aspetti della definizione di stabile organizzazione prevista dall’Articolo 5 del Modello di Convenzione OCSE (12) (13).
(8) Sulle sentenze Philip Morris, le successive modifiche al commentario OCSE e l’Osservazione italiana in materia di stabile organizzazione si rinvia più diffusamente al nostro Stabile organizzazione e gruppi tra rigori giurisprudenziali e temperamenti dell’OCSE, in Corr. Trib., 43/2008, 3507 ss. (9) Cass. Civ., sez. trib., 6 aprile 2004, n. 6799. (10) Cass. Civ., sez. trib., 11 giugno 2007, n. 13579, con nota di M. Antonini, Brevi riflessioni in merito alle interrelazioni tra rapporti di controllo, oggetto principale e stabile organizzazione, in Riv. Dir. Trib., 2008, V, 137 ss. (11) Si rinvia ancora al nostro Stabile organizzazione e gruppi, cit., 3512. (12) I lavori dell’OCSE hanno condotto alla pubblicazione di 15 rapporti in cui sono descritte le misure volte al contrasto dei fenomeni di base erosion e profit shifting (BEPS). Le misure proposte nei 15 Final Report possono essere distinte tra: misure direttamente applicabili (i.e. modifiche alle Linee Guida OCSE sui prezzi di trasferimento); misure che necessitano la modifica della normativa domestica (i.e. modifiche alla disciplina CFC); misure la cui attuazione richiede la modifica dei trattati bilaterali in vigore (i.e. definizione di stabile organizzazione). Il recepimento di tale ultima tipologia di misure è stata demandata alla sottoscrizione del “Multilateral Convention to implement tax treaty related measures to prevent Base Erosion and Profit Shifting” (“Convenzione Multilaterale”). Per mezzo della Convenzione Multilaterale firmata il 7 giugno 2017 da 67 paesi è stato infatti possibile attuare rapidamente le misure BEPS evitando di procedere tramite la negoziazione bilaterale e le modifiche dei singoli trattati. Si ricorda che la Convenzione Multilaterale deve essere comunque ratificata secondo le procedure costituzionali dei singoli Stati aderenti. (13) Di seguito una sintesi delle aree di intervento identificate dall’Action 7 in materia di stabile organizzazione: 1. Il primo intervento dell’OCSE (punto A. “Artificial avoidance of PE status throu-
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Gli organi verificatori hanno talvolta attribuito ai rapporti BEPS una valenza interpretativa che li renderebbe applicabili indipendentemente dal loro recepimento all’interno di strumenti convenzionali bilaterali o multilaterali. Tale approccio ha influenzato fino ad ora soprattutto le attività di verifica nei confronti degli operatori dell’economia digitale. Infatti, gli organi verificatori hanno avviato nel corso degli ultimi anni una vera e propria campagna accertativa nei confronti delle principali multinazionali estere del settore, applicando già quanto previsto nelle Actions 1 e 7 del Beps con riferimento all’eco-
gh commissionnaire arrangements and similar strategies” di cui al par. 5 e ss. dell’Action 7) riguarda la definizione di stabile organizzazione personale prevista dall’Articolo 5 par. 5 del Modello di Convenzione OCSE. Il citato paragrafo ancora tradizionalmente la sussistenza della stabile organizzazione personale alla presenza nel territorio dello Stato estero di un “agente dipendente” munito di poteri che gli “permettono di concludere contratti a nome dell’impresa estera in detto altro Stato”. Tale formulazione tuttavia è facilmente eludibile dai gruppi multinazionali che operano nello Stato della fonte attraverso un commissionario o una persona che negozia tutti i termini dei contratti che vengono successivamente conclusi all’estero. La modifica suggerita dall’OCSE amplia il concetto di stabile organizzazione personale includendovi anche la persona (fisica o giuridica) che abitualmente svolge un “ruolo determinante” (cd. “leading role”) nella conclusione dei contratti per conto dell’impresa non residente. Sempre nell’ambito della modifica della definizione di stabile organizzazione personale, l’OCSE suggerisce altresì la modifica del par. 6 dell’art. 5 del Modello di Convenzione OCSE, secondo cui la configurabilità di una stabile organizzazione è esclusa in presenza della duplice condizione che l’agente sia indipendente ed agisca nell’ambito della sua ordinaria attività. In particolare, l’Action 7 amplia la definizione di soggetto “dipendente”, proponendo di considerare come tale l’intermediario che operi esclusivamente o quasi per conto di una sola impresa (c.d. monomandatario) o di più imprese tra di loro “connesse” o “strettamente connesse”. 2. Il secondo intervento (punto B.1 “Artificial avoidance of PE status through the specific activity exemptions - List of activities included in Art. 5(4)” di cui al par. 11 e ss. dell’Action 7) riguarda le attività preparatorie o ausiliarie elencate al par. 4 dell’Art. 5 del Modello OCSE. A seguito delle modifiche apportate dall’Action 7, queste non sono più da considerarsi automaticamente escluse dal concetto di stabile organizzazione, ma occorre verificare caso per caso se abbiano carattere ausiliario o preparatorio. Sempre con riferimento alle attività ausiliarie e preparatorie, l’Action 7 introduce inoltre una previsione volta a contrastare la frammentazione artificiosa di un’attività di impresa al fine di considerare ciascuna attività meramente preparatoria o ausiliaria (punto B.2 “Artificial avoidance of PE status through the specific activity exemptions - Fragmentation of activities between closely related parties” di cui al par. 14 e ss. dell’Action 7). 3. Il terzo intervento (punto C.1 “Other strategies for the artificial avoidance of PE status - Splitting-up of contracts” di cui al par. 16 e ss. dell’Action 7) propone una previsione volta a contrastare l’artificiosa suddivisione di un unico contratto in molteplici contratti (cd. “splitting-up”) al fine di non eccedere le soglie temporali oltre le quali normalmente i trattati configurano la sussistenza di una stabile organizzazione per attività di costruzione, installazione o supervisione.
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nomia digitale e alla configurabilità della stabile organizzazione, sul presupposto della valenza interpretativa di tali proposte di modifica. La posizione degli organi verificatori è tutt’altro che pacifica se si considera che i lavori dei BEPS appaiono, piuttosto, volti a fornire linee guida ai vari Stati membri de iure condendo, come dimostrano sia la circostanza che l’Italia non ha aderito in sede di Convenzione Multilaterale ad alcune delle posizioni espresse dai BEPS (14), sia la posizione stessa dell’OCSE, che nell’Explanatory Statement di accompagnamento alla Convenzione Multilaterale ha definito i Rapporti BEPS come “soft law”. 4. Procedimento. – Sotto il profilo procedimentale la Procedura si apre con l’istanza volta a chiedere all’Agenzia delle entrate una valutazione della sussistenza dei requisiti che configurano nel caso di specie una stabile organizzazione. Il comma 2 aggiunge che tale apposita istanza è finalizzata all’accesso al regime dell’adempimento collaborativo di cui al titolo III del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128. Il riferimento a quest’ultimo regime va coerenziato con la previsione del successivo comma 10, ai sensi del quale se a seguito della Procedura viene constatata l’esistenza della stabile organizzazione e vi è stata l’estinzione del relativo debito d’imposta, il contribuente può accedere al regime dell’adempimento collaborativo, sempre che ricorrano gli altri requisiti previsti dal decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128. (15) Analogamente al ruling per i
(14) In particolare l’Italia si è riservata di non applicare quanto previsto al par. 5 e ss. dell’Action 7 in merito alla modifica della definizione di stabile organizzazione personale (punto 1 nella nota che precede). Tale scelta è probabilmente dettata dal fatto che la giurisprudenza italiana sulla definizione di stabile organizzazione personale è, a parere dell’Amministrazione finanziaria, addirittura più ampia di quella proposta in sede BEPS. Ciò non esclude tuttavia che l’Italia possa modificare in seguito la propria posizione. In merito invece alla definizione di attività ausiliare e preparatorie (par. 11 e ss. dell’Action 7), l’Italia aderisce alla proposta dell’OCSE secondo cui il termine “stabile organizzazione” non include: a) le attività specificamente elencate come attività che non costituiscono una stabile organizzazione; b) qualsiasi altra attività; e c) l’esercizio combinato delle predette attività; ma solo a condizione che tale attività, ovvero l’attività complessiva della sede fissa di affari, abbia carattere preparatorio o ausiliario. A tale proposito, l’Italia aderisce anche alla proposta OCSE volta a contrastare la frammentazione del business (par. 14 e ss. dell’Action 7). Infine, l’Italia si riserva il diritto di non applicare la previsione sulla suddivisione artificiosa dei contratti (par. 16 e ss. dell’Action 7), probabilmente in ragione degli ampi presidi antielusivi offerti dal diritto tributario interno e dalla giurisprudenza italiana. (15) Ai sensi dell’art. 4 del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128, il contribuente,
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nuovi investimenti di cui all’art. 2 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147 (16), la Procedura può quindi diventare un veicolo di accesso al regime dell’adempimento collaborativo a prescindere dalla dimensione del contribuente (ossia anche qualora la dimensione della società o ente non residente che si avvale della Procedura non soddisfi i requisiti dimensionali previsti dall’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128 (17)). Il collegamento tra l’istanza di accesso alla Procedura ed il regime di adempimento collaborativo viene generalmente (18) inteso nel senso che la prima fase
per poter accedere al regime di adempimento collaborativo, deve essere dotato di un efficace sistema di rilevazione, misurazione, gestione e controllo del rischio fiscale (cioè, del rischio di operare in violazione di norme o di principi tributari), inserito nel contesto del sistema di governo aziendale e di controllo interno, che assicuri: a) una chiara attribuzione di ruoli e responsabilità ai diversi settori dell’organizzazione dei contribuenti in relazione ai rischi fiscali; b) efficaci procedure di rilevazione, misurazione, gestione e controllo dei rischi fiscali il cui rispetto sia garantito a tutti i livelli aziendali; c) efficaci procedure per rimediare ad eventuali carenze riscontrate nel suo funzionamento e attivare le necessarie azioni correttive. Inoltre, detto sistema deve prevedere l’invio, con cadenza almeno annuale, di una relazione agli organi di gestione per l’esame e le valutazioni conseguenti. La relazione illustra, per gli adempimenti tributari, le verifiche effettuate e i risultati emersi, le misure adottate per rimediare a eventuali carenze rilevate, nonché le attività pianificate. Per un commento al regime di adempimento collaborativo si rimanda alla Circolare dell’Agenzia delle Entrate del 16 settembre 2016 n. 38/E. In dottrina: Assonime, Circolare del 22 aprile 2016, n. 14; F. Pistolesi, Le regole procedimentali nel provvedimento di attuazione dell’adempimento collaborativo, in Corr. Trib., 30/2017, 2412 ss.; B. Ferroni, Imprese multinazionali e cooperative compliance, in Il fisco, 3/2017, 207 ss.; M. Ravera - B. Santacroce, Profili soggettivi e mappatura dei rischi nella “cooperative compliance”: impatti operativi per i gruppi d’impresa, in Corr. Trib., 47-48/2016, 3601 ss.; G. Salanitro, Profili giuridici dell’adempimento collaborativo, tra la tutela dell’affidamento e il risarcimento del danno, in Riv. Dir. Trib., 2016, I, 623 ss. (16) Ai sensi del quale l’accesso al regime dell’adempimento collaborativo è reso possibile a condizione che venga effettuato un investimento almeno pari a a trenta milioni di euro (cfr. art. 2, comma 1, decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147). (17) Secondo l’art. 7, comma 4, del decreto legislativo 5 agosto 2015, n. 128, in fase di prima attuazione, possono accedere al regime i contribuenti con volume di affari o di ricavi non inferiori a dieci miliardi di euro ovvero a un miliardo di euro in caso di presentazione della domanda per il Progetto Pilota di cui all’invito pubblico del 25 giugno 2013. Pertanto, la deroga dimensionale può essere assai significativa, se si considera che ai fini della Procedura qui in esame la soglia ha ad oggetto il fatturato consolidato del gruppo, di guisa che potrà essere ammesso al programma in esame anche un soggetto giuridico con un volume di affari ben inferiore al già ridotto volume di un miliardo di euro previsto per le imprese ammesse al Progetto Pilota. (18) In senso conforme vedasi G. Molinaro, Norma ad hoc temporanea per la tassazione delle web company, in Corr. Trib., 28/2017, 2205; D. Avolio - L. Imperato, Effetti premiali
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della Procedura, ossia quella volta a determinare in contraddittorio la sussistenza di una stabile organizzazione, debba svolgersi presso gli uffici della direzione centrale a Roma competente per la procedura di adempimento collaborativo. La seconda parte della Procedura, che fa seguito all’eventuale constatazione della sussistenza di una stabile organizzazione, si svolge in contraddittorio nell’ambito di un procedimento di accertamento con adesione (in tal senso dispongono i commi 5 e 6). In particolare il comma 5 prevede che “qualora in sede di interlocuzione con l’Agenzia delle entrate sia constatata la sussistenza di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, per i periodi d’imposta per i quali sono scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni, il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate invia al contribuente un invito ai sensi dell’articolo 5, comma 1, del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, al fine di definire, in contraddittorio con il contribuente, i debiti tributari della stabile organizzazione”. I primi commentatori della norma (19) ritengono che la seconda fase della procedura debba svolgersi presso la Direzione provinciale dell’Agenzia delle entrate competente per territorio. Tuttavia, la complessità dei soggetti coinvolti, la loro dimensione internazionale e il tecnicismo connesso all’attribuzione del reddito alla stabile organizzazione di una società appartenente ad un gruppo multinazionale di rilevante entità consiglierebbero il coinvolgimento necessario dell’ufficio ruling internazionale o, quanto meno, dei funzionari delle Direzioni regionali operanti nelle unità specializzate in materia di transfer pricing. Sarebbe quindi opportuno che il decreto attuativo del direttore dell’Agenzia delle Entrate previsto dal comma 13 integri la norma per quanto riguarda i profili procedimentali chiarendo anche con maggiore dettaglio quali siano gli uffici e le strutture competenti per la prima e per la seconda parte della Procedura. Il comma 6, che disciplina gli abbattimenti sanzionatori amministrativi in caso di conclusione della Procedura, afferma incidentalmente che le somme dovute in base all’accertamento con adesione sono versate ai sensi dell’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218. Il richiamo al comma 1 dell’art. 8 dell’ultimo decreto citato esclude la possibilità di avvalersi di un versamento rateale in quanto la norma prevede il versamento integrale entro 20 giorni dalla notifica dell’invito (20).
per la nuova voluntary della stabile organizzazione, in Corr. Trib., 29/2017, 2271. (19) Cfr. la nota precedente. (20) La norma è apparsa a qualche commentatore eccessivamente rigorosa ed è stata con-
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Sotto il profilo procedimentale va segnalata la situazione “patologica” in cui, a seguito della presentazione dell’istanza di accesso alla Procedura e della constatazione dell’esistenza di una stabile organizzazione, non abbia luogo la conclusione dell’accertamento per adesione ovvero le somme dovute non siano tempestivamente versate in tutto o in parte. In tal caso non è integrata la condizione prevista dal comma 6 per beneficiare dell’abbattimento delle sanzioni amministrative, mentre il comma 8 prevede che non si produce l’effetto premiale della causa di non punibilità penale prevista dal comma 7. Il comma 8 aggiunge in tali fattispecie che “In relazione ai periodi d’imposta e ai tributi oggetto dell’invito di cui al comma 5, il competente ufficio dell’Agenzia delle entrate, entro il 31 dicembre dell’anno successivo a quello di notificazione dell’invito o di redazione dell’atto di adesione, accerta le imposte e gli interessi dovuti e irroga le sanzioni nella misura ordinaria. La disposizione di cui al presente comma si applica anche in deroga ai termini di cui all’articolo 43 del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 57 del decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633”. Pertanto, la società o l’ente non residente potrà in tal caso soltanto prestare acquiescenza alla pretesa dell’ufficio (21) oppure proporre ricorso entro sessanta giorni dalla notifica degli atti impositivo (22). 5. (Segue) Esito negativo della procedura. – La norma tace sul caso in cui il confronto con l’Agenzia delle Entrate portasse a concludere che non
seguentemente auspicata la previsione in sede di provvedimento attuativo della possibilità di versare ratealmente le somme in esame (cfr. G. Sepio - M. D’Orsogna, La Web Tax transitoria per le multinazionali digitali (e non solo), in il Fisco, n. 31/2017, 3023). In senso opposto va osservato che il pagamento integrale pare una conseguenza dell’effetto premiale che si ottiene grazie alla Procedura ai fini penali. In tal senso, dalla lettura del comma 8 emerge come l’immediato integrale pagamento appaia strettamente connesso alla causa di non punibilità disciplinata dal comma 7. Si ricorda a tale riguardo che il pagamento integrale come modalità di accesso alla causa di non punibilità in materia penale tributaria si ritrova coerentemente anche nell’art. 13, D.Lgs. n. 74/2000, sia nel comma 2 (in tema di dichiarazione infedele e di dichiarazione omessa) sia nel comma 1 (in tema di omessi versamenti). (21) Con l’abbattimento delle sanzioni amministrative in misura pari a un terzo del minimo e con la possibilità di invocare la circostanza attenuante prevista dall’art. 13-bis del D.lgs. 74/2000. (22) Non sembra invece possibile presentare istanza di accertamento con adesione in quanto essa sarebbe preclusa dall’art. 6, comma 2, D.lgs. 218/1997. Infatti quest’ultima norma prevede che l’istanza di adesione può essere presentata esclusivamente dal contribuente che non sia stato precedentemente invitato al contraddittorio dall’Agenzia delle Entrate.
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vi è stata alcuna violazione di omessa dichiarazione a causa dell’assenza di una stabile organizzazione in Italia della società o dell’ente istante negli anni pregressi. Si tratta di una omissione che potrà essere colmata dal decreto attuativo previsto dal comma 13, il quale potrebbe prevedere che l’esito negativo sia documentato in un verbale dell’Agenzia, notificato al contribuente istante, nel quale siano fornite le motivazioni in fatto e in diritto che hanno portato a ritenere insussistente in tutto o in parte una stabile organizzazione (23). In tali fattispecie l’amministrazione finanziaria potrebbe rendersi conto che, nonostante l’assenza di una stabile organizzazione del soggetto non residente negli anni pregressi, la società residente in Italia (24) dedicata alla prestazione di servizi di supporto fosse insufficientemente remunerata. Secondo la prassi seguita dall’amministrazione finanziaria, in situazioni simili i funzionari responsabili del procedimento potranno informare l’ufficio competente territorio in ragione del domicilio fiscale della società residente al fine di avviare un procedimento istruttorio volto all’accertamento della congruità della remunerazione applicata per tale servizio. 6. Cause ostative. – Coerentemente con altre procedure tributarie affini di tipo premiale, fondate sulla spontaneità della collaborazione del contribuente, il comma 11 dispone che “Non possono avvalersi delle previsioni del presente articolo le società e gli enti di cui al comma 1 che abbiano avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni e verifiche, dell’inizio di qualunque attività di controllo amministrativo o dell’avvio di procedimenti penali, relativi all’ambito di applicazione dell’istanza di cui al medesimo comma 1” (25).
(23) La norma tace anche in merito alla vincolatività o meno per l’Amministrazione finanziaria dell’accertamento negativo di una stabile organizzazione. A tale riguardo, non sembra che la norma giustifichi soluzioni diverse da quelle ordinariamente applicabili nell’ambito e a seguito di una attività istruttoria che si concluda con esito negativo; in altre parole, nulla esclude che, soprattutto qualora sopraggiunga la conoscenza di fatti nuovi, l’amministrazione finanziaria possa procedere alla riapertura della verifica fiscale. (24) O la stabile organizzazione italiana di un altro soggetto giuridico non residente del gruppo. (25) Analoga formulazione si rinviene negli articoli 5-quater, comma 2, D.L. n. 167/1990 (in tema di accesso alla procedura di voluntary disclosure) e 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000 (in tema di causa di non punibilità per i reati di infedele od omessa dichiarazione allorquando il contribuente estingua il debito tributario). Entrambe le norme subordinano l’accesso alla causa di non punibilità soltanto al caso in cui il contribuente non abbia avuto formale conoscenza di accessi, ispezioni, verifiche o dell’inizio di qualunque attività di accertamento amministrativo o di procedimenti penali.
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L’aspetto più problematico della norma attiene all’oggetto della causa ostativa, che secondo il suo tenore letterale richiede una comparazione tra l’ambito dei procedimenti amministrativi o penali di cui l’istante abbia avuto formale conoscenza e l’ambito di applicazione dell’istanza. Infatti la norma prescrive una “relazione” tra l’oggetto degli accessi, delle ispezioni, delle verifiche, dei controlli amministravi o dei procedimenti penali e l’ambito di applicazione dell’istanza (che di regola riguarda l’esistenza o meno di una stabile organizzazione in Italia del soggetto istante con riferimento allo svolgimento in tutto o in parte della propria attività di impresa nel territorio dello Stato). In linea di principio, quindi, occorrerà verificare di volta in volta se gli atti ostativi siano collegabili all’omessa dichiarazione della dichiarazione dei redditi a causa dell’esistenza di una stabile organizzazione in Italia del soggetto istante. Pertanto, è chiaro che una verifica fiscale nei confronti della società istante o un decreto di sequestro penale notificato al suo legale rappresentante sarebbero ostativi all’ammissibilità della Procedura se risultasse documentalmente (rispettivamente da un verbale giornaliero o dalla motivazione del decreto) che il procedimento amministrativo o penale sono connessi all’accertamento di una omessa dichiarazione dei redditi a causa dell’asserita esistenza di una stabile organizzazione in Italia del soggetto istante. Più dubbia è l’integrazione della causa ostativa se gli atti amministrativi o penali menzionassero possibili omissioni della dichiarazione pur senza esplicitare o ipotizzare ancora la contestazione di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato. Una terza fattispecie, nella quale la causa ostativa non dovrebbe in linea di principio essere integrata, riguarda l’inizio di un procedimento amministrativo tributario formalmente a carico della società o dell’ente istante, che non indichi le ragioni sottese all’istruttoria (come ad esempio avviene all’inizio di una verifica generale o in presenza di un questionario che si limiti a richiedere i documenti contabili), oppure il caso in cui sia stato notificato al legale rappresentante un atto penalmente rilevante privo di riferimenti sia all’omessa dichiarazione sia, tanto meno, all’esistenza di una stabile organizzazione in Italia. Il comma 11 prevede che “La preclusione opera anche nelle ipotesi in cui la formale conoscenza delle circostanze di cui al primo periodo è stata acquisita dai soggetti che svolgono le funzioni di supporto di cui al medesimo comma 1”. L’ipotesi prevista dalla norma è quella di un procedimento amministrativo o penale diretto ad accertare violazioni della società residente in Italia del
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gruppo, che presta servizi di supporto alla società o all’ente istante non residente, di cui tale società e/o il suo legale rappresentante abbiano avuto formale conoscenza. Ferme restando, mutatis mutandis, le considerazioni sopra svolte, un caso che potrebbe sollevare dubbi circa l’ammissibilità della procedura è quello in cui, nei confronti della società italiana, sia iniziata una verifica fiscale avente ad oggetto la correttezza dei prezzi di trasferimento infragruppo che hanno portato detta società a dichiarare in Italia il reddito derivante dalle prestazioni dei servizi di supporto alla società o ente non residente che intende presentare l’istanza di accesso alla Procedura. Sebbene tale attività di supporto svolta dalla società consociata residente in Italia non sia di per sé rivelatrice dell’esistenza nel territorio dello Stato di una stabile organizzazione della società o ente non residente appartenente allo stesso gruppo, l’Amministrazione finanziaria potrebbe argomentare che l’oggetto della verifica (ossia la remunerazione ad arm’s length della società che presta supporto in Italia) costituisca un elemento connesso alle condizioni di accesso alla Procedura (26) e, in quanto tale, integri la causa ostativa di cui al comma 11. Un’ultima questione da affrontare attiene alla impugnabilità del provvedimento amministrativo con il quale venisse negato l’accesso alla procedura in ragione della sussistenza di una causa ostativa. A tale riguardo, non è possibile fornire una risposta univoca. Da un lato, infatti, potrebbe essere valorizzata la circostanza che il diniego di accesso alla Procedura impedisca di fruire di (potenziali) benefici soprattutto sotto il profilo sanzionatorio, di talché tale provvedimento sarebbe assimilabile (27) ad un diniego di agevolazioni o al rigetto di domande di definizione agevolata di rapporti tributari e, di conseguenza, autonomamente impugnabile ex art. 19, comma 1, lett. h), D.Lgs. 31
(26) Che tra i requisiti soggettivi di cui al comma 2 richiede infatti che la società o l’ente istante si avvalga in Italia di una società del gruppo svolgente servizi di supporto. (27) Si rammenta, infatti, che secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, l’elencazione degli atti impugnabili ex art. 19, D.Lgs. n. 546/1992 non costituisce un numerus clausus ma è, al contrario, suscettibile di interpretazione estensiva così da ricomprendere tutti i provvedimenti dell’amministrazione finanziaria atti ad incidere sulla sfera giuridica del contribuente (cfr., ex plurimis, Cass. Civ., SS.UU., 27 marzo 2007, n. 7388; Cass. Civ., Sez. trib., 9 agosto 2007, n. 17526). In dottrina, v. A. Guidara, sub art. 19, in C. Consolo - C. Glendi (a cura di), Commentario breve alle leggi del processo tributario, Padova, 2017, 326 ss.; F. Tesauro, Manuale del processo tributario, Torino, 2017, 57 ss.; G. Ragucci, sub art. 19, in F. Tesauro (a cura di), Codice commentato del diritto tributario, Torino, 2016, 388 ss.; P. Russo, Manuale di diritto tributario – Il processo tributario, Milano, 2013, 127 ss.; D. Chindemi, La difesa del contribuente nel contenzioso tributario, Maggioli, 2012, 42 ss.
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dicembre 1992, n. 546. Tale conclusione, tuttavia, potrebbe non essere condivisa in ragione della mancata incidenza diretta ed immediata del diniego di accesso alla Procedura nella sfera giuridica del contribuente (28). In ogni caso tale provvedimento potrebbe essere impugnato in via di tutela differita ex art. 19, comma 3, D.Lgs. n. 546/1992, facendo valere – nel ricorso avverso l’eventuale successivo provvedimento impositivo con il quale fosse contestata l’esistenza di una stabile organizzazione in Italia – l’illegittimità del diniego di accesso alla Procedura. In alternativa all’impugnabilità in sede tributaria, occorre altresì verificare se il provvedimento di diniego sia censurabile in sede amministrativa (29). La soluzione al quesito sembrerebbe essere affermativa, considerata la sussistenza, in capo al contribuente, tanto dell’interesse ad agire (30), quanto del c.d.
(28) Tale diniego, invero, non contiene una pretesa tributaria ben individuata e non sembra presentare un’immediata portata afflittiva delle prerogative del contribuente. Esso, infatti, è privo di connessione con un momento espressivo della funzione impositiva o di denegata restituzione (connotato tipico, invece, di tutte le ipotesi di cui all’art. 19, D.Lgs. n. 546/1992, e di quelle estensivamente ritenute impugnabili), né riverbera effetti nell’an o nel quantum di una pretesa impositiva. Stante tale incidenza mediata, indiretta e solo eventuale nella sfera giuridica del contribuente, al diniego di accesso alla Procedura non parrebbero estensibili i principi espressi dalla prevalente giurisprudenza (pur non univoca) che ebbe ad affermare l’impugnabilità delle risposte sfavorevoli alle istanze di disapplicazione delle disposizioni in materia di società di comodo in via autonoma ed immediata, tramite ricorso avverso il diniego, ovvero in via differita in sede di ricorso avverso l’avviso di accertamento conseguente alla mancata applicazione delle anzidette disposizioni, o ancora rimettendo al contribuente la scelta di avvalersi dell’uno o dell’altro mezzo di impugnazione (con riferimento all’impugnabilità del provvedimento di rigetto dell’istanza per la disapplicazione di disposizioni antielusive presentata ai sensi del previgente art. 37-bis, comma 8, D.P.R. n. 600/1973, cfr. Cass. Civ., Sez. Trib., 5 ottobre 2012, n. 17010; Cass. Civ., Sez. Trib., 28 maggio 2014, n. 11929, nonché, da ultimo, Cass. Civ., Sez. Trib., 7 luglio 2017, n. 16962). (29) Si rammenta che, con orientamento assolutamente costante, il Consiglio di Stato subordina l’esperibilità di un’azione di annullamento in sede amministrativa, alla sussistenza di tre distinti requisiti: (i) la titolarità di una posizione giuridica qualificata idonea a distinguere, per quanto attiene all’esercizio dell’azione amministrativa, il ricorrente dal quisque de populo; (ii) l’interesse ad agire, ovvero la concreta possibilità di perseguire, mediante il processo, un bene della vita, anche di natura morale o residuale; e (iii) la legittimazione attiva o passiva di chi agisce o resiste in giudizio (cfr., inter alia, Cons. Stato, sez. VI, 21 marzo 2016, n. 1156; Cons. Stato, sez. VI, 2 marzo 2015, n. 994; Cons. Stato, sez. VI, sent. 12 dicembre 2014, n. 6115; Cons. Stato, sez. III, 3 febbraio 2014, n. 474; Cons. Stato, sez. V, 23 novembre 2013, n. 5131; Cons. Stato, sez. III, 28 febbraio 2013, n. 1221; Cons. Stato, sez. V, 22 maggio 2012, n. 2947). In dottrina, cfr., ex multis, E. Casetta, Manuale di diritto amministrativo, Milano, 2015, 778 ss.; V. Domenichelli, Le parti del processo, in S. Cassese (a cura di), Trattato di diritto amministrativo, Milano, 2003, 4321 ss.; R. Villata, Presupposti processuali (dir. proc. amm.), in Enc. giur. Treccani, XXVII, Roma, 1991. (30) Relativamente all’interesse ad agire, è communis opinio che, in ambito amministra-
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interesse al mezzo (31). Peraltro, trattandosi di un atto amministrativo, il diniego di accesso alla Procedura soggiace alle norme generali previste in tema di procedimento amministrativo e deve, quindi, essere adeguatamente motivato (32). Ne consegue che, qualora l’Amministrazione disattenda l’istanza di accesso avanzata dal privato, essa dovrà puntualmente motivare le ragioni poste a fondamento della propria decisione, la quale, ove presenti un motivo illogico, lacunoso o incoerente, potrebbe essere (anche) per tale ragione censurabile innanzi al giudice amministrativo. Da ultimo, oltre al ricorso in sede giurisdizionale, resta ovviamente ferma la possibilità che il contribuente – ad esempio al ricorrere di errori marchiani (si ipotizzi: errata valutazione circa la sussistenza dei requisiti dimensionali di cui al comma 1, art. 1-bis, D. Lgs. n. 50/2017) – possa semplicemente muovere istanza di annullamento del diniego in sede di autotutela. 7. Confronto e relazioni con altre procedure di collaborazione o cooperazione tra fisco e contribuenti. - La disciplina positiva della Procedura richiama a vario titolo vari procedimenti amministrativi disciplinati dalla normativa tributaria. In particolare: - l’adempimento collaborativo (cooperative compliance) (commi 2 e 10);
tivo, l’utilità perseguita dal ricorrente possa essere anche meramente potenziale o strumentale (oltre alla giurisprudenza già richiamata nella nota precedente, v., inter alia, Cons. Stato, sez. 6, 21 marzo 1980, n. 394, in Cons. St., 1980, I, 352 e Cons. Stato, sez. 6, 16 maggio 1983, n. 356, in Cons. St., 1983, I, 356, nelle quali è stata ad esempio affermata l’impugnabilità del bando di concorso – mero atto preparatorio – da parte dei soggetti impediti a parteciparvi; od ancora Cons. Stato, sez. VI, 29 gennaio 1980, n. 47, in cui è stata riconosciuta l’impugnabilità dell’atto commissariale che dichiari l’improcedibilità del ricorso gerarchico). (31) Quanto all’interesse al mezzo, non pare potersi dubitare che dall’accertamento giurisdizionale dell’illegittimità dell’operato amministrativo possa ottenersi un miglioramento della situazione giuridica del contribuente, il quale, è facile ipotizzare, ben può trarre un effettivo beneficio dall’aver il giudice verificato la sussistenza di vizi che inficino il provvedimento amministrativo. Giusto per fornire un esempio, si ipotizzi che siano state violate le prescrizioni poste a presidio dello svolgimento della funzione (c.d. principio di logicità-congruità), di guisa che il provvedimento di diniego successivamente adottato presenti vizi tali da cagionarne l’illegittimità. Ebbene, a seguito all’attività “cassatoria” del giudice amministrativo, l’Amministrazione non potrà più incorrere nel medesimo “errore” che sia stato oggetto della precedente censura, così garantendo il raggiungimento di un risultato ottenibile, per l’appunto, esclusivamente per mezzo dell’impugnazione del diniego. (32) L’art. 3, comma 1, L. 7 agosto 1990, n. 241, prevede infatti che “…[l]a motivazione deve indicare i presupposti di fatto e le ragioni giuridiche che hanno determinato la decisione dell’amministrazione, in relazione alle risultanze dell’istruttoria”.
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- il ruling internazionale (comma 12); - l’accertamento per adesione (commi 5, 6 e 8). Inoltre Procedura in esame ha importanti elementi di contatto con le procedure di ravvedimento operoso di collaborazione volontaria (voluntary disclosure). Di seguito si confronterà brevemente la Procedura in esame con le altre procedure sopra richiamate, fornendo spunti in ordine alle reciproche interrelazioni. 7.1. Cooperative compliance. – La relazione tecnica evidenzia che la Procedura riflette la volontà del legislatore di intendere il controllo di tipo tradizionale come un momento eventuale del rapporto con il contribuente, favorendo invece forme di interlocuzione preventiva volte a esplicitare la pretesa erariale attraverso moduli consensuali e partecipativi. In tale contesto va letta la previsione del comma 2, ai sensi del quale per avvalersi della Procedura deve essere presentata apposita istanza finalizzata all’accesso al regime dell’adempimento collaborativo di cui al titolo III del D.lgs. 128/2015. Come anticipato al par. 4, la previsione che l’accesso alla Procedura si innesti con una istanza di accesso alla procedura di adempimento collaborativo sembra presupporre che la fase iniziale della Procedura sia trattata dallo stesso ufficio responsabile dei procedimenti di cooperative compliance, ovvero dall’ufficio Cooperative compliance della Direzione Centrale Accertamento dell’Agenzia delle Entrate. Inoltre, in caso di esito positivo della procedura (sussistenza di una stabile organizzazione e pagamento integrale delle somme dovute nell’ambito di una procedura di accertamento per adesione), il comma 10 prevede che è facoltà dei soggetti istanti accedere – evidentemente pro futuro - al regime dell’adempimento collaborativo (33). Tale ultima facoltà può essere esercitata a prescindere dell’ammontare del volume d’affari o dei ricavi della stabile organizzazione ma sempre che sussistano gli altri requisiti previsti dal D.lgs. 128/2015. A tale ultimo riguardo (dimostrazione degli altri requisiti) il provvedimento attuativo di cui al comma 13 dovrebbe chiarire meglio le interrelazioni tra i due procedimenti specificando se, come a parere di chi scrive, la dimostrazione dei requisiti richiesti dal D.lgs. 128/2015 ai fini dell’accesso alla procedura di adempimento collaborativo “a regime” non debba essere contenuta già nell’istanza di accesso alla Procedura ex art. 2 oppure in una nuova istanza successiva a conclusione e perfezionamento
(33) Sul punto vedasi amplius il par. 4 che precede.
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della Procedura stessa. Alternativamente, il provvedimento attuativo potrebbe prevedere che è facoltà dell’istante anticipare già nella richiesta di accesso alla Procedura di cui al comma 2 anche i requisiti per l’adempimento collaborativo (con una sorta di istanza subordinatamente condizionata all’esito positivo della Procedura qui in esame). 7.2. Ruling internazionale. – Il comma 12 fa salva la facoltà di richiedere all’amministrazione finanziaria la valutazione preventiva della sussistenza o meno dei requisiti che configurano una stabile organizzazione nell’ambito della procedura di ruling internazionale di cui all’art. 31-ter, comma 1 lett. c) del D.P.R. n. 600/1973 (come integrato dall’art. 2, comma 1, lett. b), D.Lgs. 15 marzo 2017, n. 32). La differenza fondamentale tra quest’ultimo istituto e quello oggetto della presente trattazione è che il ruling internazionale opera in via preventiva e ha ad oggetto una situazione fattuale che le parti assumono si verificherà per il periodo d’imposta nel corso del quale verrà stato stipulato l’accordo e nei successivi (34), fermo restando il potere dell’amministrazione di disattendere l’accordo raggiunto con il contribuente se le modalità di svolgimento dell’attività nel territorio dello Stato rappresentate dal contribuente nell’ambito del procedimento di ruling internazionale dovessero integrare una situazione di fatto diversa rispetto a quella prospettata. La procedura di cooperazione rafforzata in esame, al contrario, interviene su fatti e circostanze già verificatesi, avvicinandosi maggiormente sotto tale profilo alla voluntary disclosure, ossia ad un procedimento volto a sanare una violazione pregressa ed avente effetti premiali sotto il profilo amministrativo e penale. Il decreto attuativo potrebbe prevedere una contestualità delle due istanze e le modalità di coordinamento della loro trattazione. Ad esempio, potrebbe essere previsto che la società estera interessata alla Procedura a causa di dubbi circa l’operatività pregressa tramite una stabile organizzazione presenti l’istanza per attivare la Procedura in esame contemporaneamente ad una istanza di ruling internazionale condizionata all’esito della Procedura stessa: qualora venisse accertata una stabile organizzazione per gli anni pregressi, l’istanza di ruling internazionale potrebbe avere ad oggetto la conferma che la stabile verrebbe meno a seguito della riorganizzazione del business italiano oppure potrebbe riguardare i criteri di attribuzione del reddito per anni successivi.
(34) Fatta salva la possibilità di fare retroagire gli effetti dell’accordo al periodo di imposta nel quale è stata presentata l’istanza.
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7.3. Accertamento con adesione. – All’accertamento con adesione come procedimento volto a disciplinare le modalità di definizione in contraddittorio della pretesa impositiva associata all’esistenza di una stabile organizzazione nell’ambito della Procedura si è già fatto riferimento supra al par. 4. Qui vale la pena di osservare come le due procedure, se esaminate distintamente, siano ontologicamente diverse quanto ai presupposti di accesso ed agli effetti: infatti, mentre la Procedura si caratterizza per la sua spontaneità, l’accertamento con adesione può essere ordinariamente attivato soltanto in presenza di accessi ispezioni o verifiche o avvisi di accertamento, ossia di circostanze che sarebbero cause ostative della Procedura. Una ulteriore differenza riguarda gli effetti premiali amministrativi e penali in quanto, in relazione al delitto di omessa dichiarazione, l’accertamento per adesione rappresenta soltanto una circostanza attenuante (art. 13-bis, D.Lgs. n. 74/2000) e riduce le sanzioni amministrative ad un terzo del minimo, mentre la Procedura ha l’effetto di non rendere punibile il reato di omessa dichiarazione ed abbatte le sanzioni amministrative ad un sesto del minimo. Infine, come già osservato al par. 4, l’adesione consente a differenza della Procedura il pagamento rateale. In conclusione può concludersi che le due procedure hanno in comune la funzione di sanare una situazione pregressa e non quella (propria del ruling internazionale) di concordare il regime fiscale di una fattispecie attuale e futura, mentre per il resto hanno diversi presupposti ed effetti. L’art. 1-bis in esame ha quindi mutuato il procedimento proprio dell’accertamento per adesione ai soli fini di disciplinare la parte della Procedura volta alla definizione in contraddittorio della pretesa impositiva, secondo un modulo procedimentale ormai collaudato, senza che detta Procedura possa essere considerata una forma o sottospecie di accertamento per adesione, avendo caratteristiche, presupposti ed effetti suoi propri assai diversi. 7.4. Tardiva presentazione della dichiarazione omessa (art. 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000) e ravvedimento operoso (art. 13, D.Lgs. n. 472/1997). – La procedura in esame consente di evitare la punibilità ai fini penali per il reato di omessa dichiarazione in mancanza di cause ostative incompatibili con la spontaneità del comportamento. Ciò in analogia con quanto avviene qualora il contribuente presenti la dichiarazione omessa entro il termine per la presentazione della dichiarazione relativa al periodo d’imposta successivo (cfr. art. 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000). Tuttavia, in tale ultimo caso è possibile sanare esclusivamente il reato di omessa dichiarazione relativo all’ultima annualità per la quale sia scaduto il termine di presentazione della dichiarazione; grazie
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Procedura, invece, è possibile sanare ai fini penali anche le annualità anteriori. I profili di analogia con il ravvedimento operoso (art. 13, D.Lgs. n. 472/1997), al di là dell’effetto premiale penale nelle situazioni di spontaneità, sono assai limitati posto che il ravvedimento non è ammesso in ipotesi di dichiarazione omessa. 7.5. Voluntary disclosure. – Le affinità con la c.d. voluntary disclosure sono ancora più marcate rispetto agli altri istituti sopra illustrati (35). Analogamente alla collaborazione volontaria (in particolare la forma di voluntary disclosure c.d. “nazionale” (36)), infatti, la Procedura pone il contribuente che ha violato la normativa fiscale italiana nelle condizioni di poter sanare ai fini amministrativi e penali l’omessa dichiarazione della dichiarazione dei redditi. La differenza fondamentale attiene all’oggetto del confronto con l’amministrazione finanziaria giacché il contribuente che presenta istanza di voluntary disclosure autodenuncia una violazione ben documentata e motivata, mentre la Procedura è volta ad approfondire un dubbio del contribuente circa la possibile esistenza di una stabile organizzazione, che, come evidenziato supra al par. 5, potrebbe anche concludersi con un provvedimento attestante l’inesistenza della violazione. Rispetto alla voluntary disclosure, che consentiva di sanare l’omissione della dichiarazione connessa a qualsiasi tipo di stabile organizzazione di soggetti non residenti, la Procedura in esame è soggetta alle limitazioni dimensionali e organizzative meglio illustrate al par. 2. Una ulteriore differenza fondamentale è che la Procedura rappresenta, analogamente al ravvedimento operoso, un istituto di regolarizzazione “a regime”, mentre la voluntary disclosure ha consentito la regolarizzazione di violazioni tributarie a condizione che le istanze venissero
(35) Cfr. l’art. 1, L. 15 dicembre 2014, n. 186 [come modificato dall’art. 2, comma 1, lett. a), n. 1), D.L. 30 settembre 2015, n. 153, convertito, con modificazioni, dalla L. 20 novembre 2015, n. 187] che ha introdotto la collaborazione volontaria per le violazioni commesse sino al 30 settembre 2013; successivamente la possibilità di aderire alla procedura è stata prevista dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, convertito con modificazioni dalla Legge 1 dicembre 2016, n. 225 per le violazioni commesse sino al 30 settembre 2015. (36) La voluntary disclosure c.d. “nazionale” si applica ai soggetti che non possono aderire a quella c.d. “internazionale”, in quanto soggettivamente od oggettivamente non tenuti alla compilazione del quadro RW. Tale procedura è quindi finalizzata alla regolarizzazione di tutte violazioni dichiarative in materia di imposte dirette (incluse le dichiarazioni dei sostituti di imposta) e di imposta sul valore aggiunto non connesse con attività detenute all’estero in violazione delle norme sul monitoraggio fiscale.
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presentate entro finestre temporali limitate. Infine, vanno segnalati gli effetti penali più ampi della voluntary disclosure rispetto alla Procedura (37), dovuti alla circostanza che la prima era suscettibile di sanare tipologie molto più eterogenee ed ampie rispetto all’omissione della dichiarazione ex art. 5 D.lgs. 74/2000, la quale invece rappresenta la tipica violazione contestata in caso di stabile organizzazione nel territorio dello Stato (38). 8. Effetti premiali. 8.1. Effetti premiali amministrativi. – L’effetto premiale amministrativo principale derivante dal perfezionamento della Procedura è disciplinato dal comma 6, il quale dispone che “Nei confronti dei soggetti di cui al comma 1 che estinguono i debiti tributari della stabile organizzazione, relativi ai periodi d’imposta per i quali sono scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni, versando le somme dovute in base all’accertamento con adesione ai sensi dell’articolo 8, comma 1, del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, le sanzioni amministrative applicabili ai sensi dell’articolo 2, comma 5, del medesimo decreto legislativo n. 218 del 1997 sono ridotte alla metà”. Ciò significa che le sanzioni amministrative tributarie sono ridotte alla metà rispetto al caso in cui la medesima violazione fosse stata definita mediante accertamento per adesione: pertanto la sanzione minima del 120 per cento dell’imposta evasa, prevista dall’art. 1 del D.lgs. 472/1997, definibile pagando il 40 per cento mediante accertamento per adesione, è ulteriormente abbattuta al 20 per cento grazie al perfezionamento della Procedura. Un ulteriore beneficio spettante a chi si avvale della procedura è la facoltà, già ricordata sopra, di accedere al regime di adempimento collaborativo, a prescindere dall’ammontare del volume d’affari o dei ricavi della stabile
(37) Ed infatti, oltre alla non punibilità per i reati tributari di cui agli artt. 2, 3, 4, 5, 10bis e 10-ter, D.Lgs. n. 74/2000, l’art. 5-quinquies, D.L. n. 167/1990, in tema di effetti della procedura di voluntary disclosure, prevedeva la non punibilità per i reati di riciclaggio (art. 648-bis, c.p.), impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (ex art. 648-ter, c.p.), auto-riciclaggio (art. 648-ter1, c.p.). (38) Invero non sono mancate fattispecie nelle quali gli organi inquirenti hanno inquadrato il fenomeno della stabile organizzazione occulta nell’ambito del fenomeno della frode fiscale. In argomento, si rinvia ad A. Tomassini, Stabile organizzazione occulta al vaglio della giurisprudenza penale, in Riv. dir. trib., 2014, 168 e ss. Sarebbe quindi stato più opportuno, per rendere più appetibile l’istituto, un ampliamento della copertura penale anche per i reati di frode ex artt. 2 e 3 D.lgs. 74/2000.
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organizzazione e sempre che ricorrano gli altri presupposti previsti dal D.lgs. 128/2015 (comma 10) (39). 8.2. Effetti premiali penali. – Gli effetti premiali penali sono disciplinati dal comma 7, il quale prevede la non punibilità per il reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 del D.lgs. 74/2000, purché i debiti tributari della stabile organizzazione, relativi ai periodi d’imposta per i quali sono scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni, comprese sanzioni amministrative e interessi, siano tempestivamente estinti ai sensi del comma 6. Si è già osservato (40) come siffatti effetti premiali siano ben più ampi rispetto a quelli discendenti dall’accertamento per adesione (41) e dal ravvedimento operoso (42), mentre la voluntary disclosure prevedesse la non punibilità per ulteriori fattispecie di reato non contemplate dal comma 7 in esame. Ai fini di assicurare l’applicazione della causa di non punibilità, il comma 9 prevede che, entro trenta giorni dalla data di esecuzione dei versamenti di cui al comma 6, l’Agenzia delle entrate comunichi all’autorità giudiziaria competente l’avvenuta definizione dei debiti tributari della stabile organizzazione. La norma citata si spiega il quanto l’ufficio finanziario destinatario dell’istanza di accesso alla Procedura potrebbe effettuare “senza ritardo” (43), come prescritto dall’art. 331 c.p.p, la comunicazione di reato all’autorità giudiziaria (44). Pertanto il comma 9 assicura coerentemente che, una volta perfezionata la Procedura, l’Agenzia delle entrate informi l’autorità giudiziaria affinché essa possa accertare e dichiarare la causa di non punibilità. Ai fini della sussistenza della causa di non punibilità occorre distinguere a seconda che la Procedura si concluda con un atto di adesione che definisce
(39) Sul punto vedasi amplius i paragrafi 4 e 7.1. (40) Supra al para. 7. (41) Dove la definizione della pretesa tributaria costituisce soltanto una causa attenuante idonea a ridurre la pena della metà (art. 13-bis, comma 1, D.Lgs. n. 74/2000). (42) Che consente, solo a seguito delle modifiche intervenute con l’art. 11 del D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 158, la non punibilità del reato di omessa dichiarazione limitatamente al reato di omessa dichiarazione relativo all’ultima annualità già scaduta (cfr. art. 13, comma 2, D.Lgs. n. 74/2000). (43) Considerando anche che la Procedura potrebbe durare per parecchi mesi. (44) Cfr. sul punto G. Sepio - M. D’Orsogna, La Web Tax transitoria per le multinazionali digitali (e non solo), in Fisco, n. 31/2017, 3024, il quale auspica che tale obbligo di denuncia possa essere sospeso a causa della buona fede manifestata dal contribuente e dall’assenza di dolo mostrata dal presupposto della procedura, ossia dall’esistenza di un dubbio interpretativo.
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una violazione pregressa di omessa dichiarazione, rispetto al caso in cui la stessa termini con un verbale con il quale l’Agenzia delle entrate riconosce l’assenza di una stabile organizzazione e, quindi, l’insussistenza di violazioni punibili (45). Nel primo caso si produce l’effetto della non punibilità per il reato di omessa dichiarazione (46). In particolare, analogamente a quanto previsto in tema di voluntary disclosure, si ritiene che la causa di non punibilità operi limitatamente alle condotte relative agli imponibili ed alle imposte oggetto della Procedura (47). Nel secondo caso le conclusioni dell’Agenzia non dovrebbero comunque essere vincolanti per il Pubblico Ministero, anche se, a ben vedere, la trasparenza del contribuente e soprattutto l’approfondimento in contraddittorio con un organo tecnico in presenza di un dubbio interpretativo circa l’esistenza di una stabile organizzazione dovrebbero comunque portare a valutare con maggiore clemenza l’eventuale sussistenza del dolo richiesto dalla norma incriminatrice (48). 9. Annualità interessate dalla sanatoria. – Gli effetti premiali amministrativi e penali previsti rispettivamente dai commi 6 e 7 sono entrambi subordinati alla condizione che i debiti tributari della stabile organizzazione, relativi ai periodi d’imposta per i quali sono scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni, comprese sanzioni amministrative e interessi, siano tempestivamente estinti nell’ambito della procedura di accertamento per adesione. Il riferimento ai periodi d’imposta per i quali siano scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni implica a parere di chi scrive che, ai fini dell’abbattimento delle amministrative tributarie previsto dal comma 6, la Procedura debba interessare gli anni ancora ordinariamente accertabili, ossia senza considerare il raddoppio dei termini (49). La mancanza di una causa
(45) Su tale possibile esito della Procedura si rinvia al precedente para. 5. (46) In argomento si rinvia a D. Avolio - L. Imperato, Effetti premiali per la nuova voluntary della stabile organizzazione, in Corr. trib., n. 29/2017, 2275, secondo cui il Pubblico Ministero potrebbe sempre ritenere, anche in contrasto con la definizione intervenuta in sede amministrativa, che non sia corretta la determinazione degli imponibili e delle imposte da versare ad opera del contribuente, richiedendo un’integrazione di versamento. (47) Cfr. art. 5-quinquies, comma 2, D.L. n. 167/1990. (48) Sempre che la fattispecie rappresentata all’Agenzia delle Entrate coincida con quella accertata dal Pubblico Ministero nell’ambito dell’indagine penale. (49) Le considerazioni nel testo in merito agli anni ordinariamente accertabili e alla di-
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ostativa rappresentata dall’inizio di attività di accertamento (comma 11) è infatti di regola incompatibile con l’esistenza di una denuncia ex art. 331 già trasmessa all’autorità giudiziaria. Tuttavia, poiché una delle finalità della Procedura è anche quella di conseguire la non punibilità per il reato di omessa dichiarazione di cui all’art. 5 del Dlgs. 74/2000, la questione degli anni da sanare non va risolta esclusivamente alla luce delle norme sulla decadenza amministrativa. Infatti il riferimento anche del comma 7 all’estinzione delle obbligazioni tributarie relative “ai periodi d’imposta per i quali sono scaduti i termini di presentazione delle dichiarazioni” impone di considerare la diversità fra termini di decadenza amministrativa e prescrizione penale. Quest’ultima, infatti, abbraccia un ambito temporale più ampio rispetto ai termini ordinari di decadenza ai fini amministrativi. Sul punto va osservato che ai sensi del combinato disposto degli artt. 157 e seguenti c.p. e dell’art. 6, L. n. 251/2005, per i fatti di reato commessi sino al 16 settembre 2011 i termini di prescrizione sono pari a 6 anni in assenza di un evento interruttivo, ovvero a 7 anni e 6 mesi in presenza di un evento interruttivo (dato, ad esempio, dalla consegna di un processo verbale di constatazione ovvero dalla notifica di un avviso di accertamento); per i fatti commessi dal 17 settembre 2011, invece, ai sensi dell’art. 2, comma 36-vicies semel, lett. l), D.L. n. 138/2011, il quale ha introdotto il comma 1-bis, dell’art. 17, D.Lgs. n. 74/2000, i termini di prescrizione sono pari a 8 anni (in assenza di evento interruttivo) ovvero a 10 anni in presenza di un evento interruttivo (50). La disciplina della voluntary disclosure aveva risolto il problema di tale asimmetria prevedendo che ai fini della causa di non punibilità si considerassero oggetto della procedura di collaborazione volontaria anche
sciplina del raddoppio dei termini riguardano la regolarizzazione delle annualità fino al 2015. A decorrere dal 2016, infatti, è venuta meno la disciplina della decadenza amministrativa tributaria fondata sul raddoppio dei termini in caso di violazioni oggetto di denuncia penale ex art. 331 c.p.p. In particolare, i commi 130, 131 e 132 della L. 208/2015 hanno previsto che, a decorrere dai periodi d’imposta in corso alla data del 31 dicembre 2016, il termine per l’accertamento ai fini IVA e delle imposte dirette è il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione o, nel caso di omessa dichiarazione, del settimo anno settimo anno successivo a quello in cui la dichiarazione avrebbe dovuto essere presentata. (50) Giova precisare che l’aumento dei termini di prescrizione, rispettivamente, a 8 e 10 anni concerne esclusivamente i delitti di cui agli artt. da 2 a 10 del D.Lgs. n. 74/2000. Pertanto per i delitti di omesso versamento (artt. 10-bis, 10-ter e 10-quater) e di sottrazione fraudolenta al pagamento delle imposte (art. 11) permangono i termini di prescrizione di 6 anni ovvero di 7 anni e 6 mesi.
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gli imponibili, correlati alle attività dichiarate nell’ambito di tale procedura, per i quali fosse scaduto il termine per l’accertamento tributario (51). Pertanto nell’ambito della voluntary disclosure era sufficiente sanare gli anni aperti ai fini amministrativi (senza il raddoppio) per ottenere anche la non punibilità per i reati ancora non soggetti a prescrizione penale. In mancanza di una norma analoga, la sanatoria delle violazioni della stabile organizzazione mediante la Procedura in esame richiederà quindi, necessariamente, il pagamento delle imposte delle sanzioni e degli interessi relativi agli anni oggetto di prescrizione penale, interessando quindi un periodo maggiore rispetto a quello oggetto della decadenza tributaria.
Marco Cerrato
(51) Cfr. art. 2, comma 4, D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128.
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Riflessioni intorno al concetto di «soggiorno» nello Stato estero nel contesto dell’art. 51 comma 8-bis del Tuir Sommario: 1. Premessa. – 2. L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 51, comma
8-bis, del Tuir. – 2.1. Il «soggiorno» all’estero come requisito distinto ed ultroneo rispetto ai requisiti della «continuatività» ed «esclusività» della prestazione lavorativa. – 2.2. Il «soggiorno» all’estero come mero requisito temporale a completamento dei requisiti della «continuatività» ed «esclusività» della prestazione lavorativa. – 3. La lettura del concetto di «soggiorno» contenuto nell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir in conformità all’interpretazione dell’art. 15, par 2, lett. a), del Modello convenzionale OCSE per evitare le doppie imposizioni. – 4. Conclusioni.
Il «soggiorno» all’estero di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir deve essere interpretato quale requisito avente carattere puramente temporale, essenzialmente riferito alla durata dell’attività di lavoro e non comportante l’obbligo per il lavoratore dipendente di trasferirsi stabilmente a vivere all’estero. Inoltre, un’intepretazione del concetto di « soggiorno » all’estero in linea con quella fornita in sede OCSE implica che il ritorno in Italia del dipendente al termine di ogni giornata lavorativa non pregiudichi l’applicazione dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. The foreign “abode” sets forth by art. 51, par. 8-bis, of the Italian income tax code must be interpreted as a merely temporal requirement, essentially referred to the duration of the work activity and not entailing the obligation for the employee of living abroad. Moreover an interpretation of the concept of foreign “abode” in line with the one provided by the OECD implies that the homecoming in Italy of the employee at the end of each working day does not exclude the application of the art. 51, par. 8-bis, of the Italian income tax code.
1. Premessa. – Il presente lavoro ha ad oggetto l’interpretazione della norma contenuta nell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir (1) con particolare ri-
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La norma in parola dispone che “In deroga alle disposizioni dei commi da 1 a 8, il
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guardo al concetto di «soggiorno» nello Stato estero, al quale il legislatore fa riferimento nel fissare i requisiti oggettivi di applicazione della norma stessa. L’attività ermeneutica di seguito svolta, oltre ad esplicare effetti, come si avrà modo di notare infra, sul piano teorico, presenta indubbie ricadute anche sul piano operativo. Si pensi in proposito alle persone fisiche fiscalmente residenti in Italia, svolgenti la propria attività lavorativa presso un datore di lavoro estero (ci si riferisce, in particolare, a coloro che prestano attività lavorativa in Paesi limitrofi al nostro quali, ad esempio, Austria, Francia e Svizzera) (2), le quali, al termine della giornata lavorativa, anziché pernottare nel Paese estero, fanno generalmente ritorno alla loro dimora italiana. In tale eventualità, non è agevole comprendere se detti soggetti soffisfino o meno il summenzionato requisito del «soggiorno» all’estero e, di conseguenza, se ai medesimi risulti o meno applicabile la disciplina del reddito convenzionale contemplata dalla norma precedentemente citata. 2. L’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. – L’art. 51, comma 8-bis, del Tuir subordina il regime fiscale ivi previsto,
reddito di lavoro dipendente, prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto da dipendenti che nell’arco di dodici mesi soggiornano nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni, è determinato sulla base delle retribuzioni convenzionali definite annualmente con il decreto del Ministro del lavoro e della previdenza sociale di cui all’articolo 4, comma 1, del decreto-legge 31 luglio 1987, n. 317, convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 1987, n. 398”. In dottrina è stato osservato come il principio della retribuzione convenzionale sia stato mutuato dal legislatore previdenziale e in particolare dalla L. 3 ottobre 1987, n. 398, nella quale è previsto che “il versamento dei contributi previdenziali non venga calcolato sulla base della retribuzione effettiva, ma su una retribuzione forfetariamente determinata in relazione al settore di attività, alla qualifica del lavoratore e all’ammontare della retribuzione ordinariamente prevista” (cfr. G. Puoti, I redditi di lavoro dipendente nel modello OECD, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, III ed., Padova, 2005, 698). (2) È bene precisare che il caso cui si è fatto cenno nel testo e preso a paradigma nel presente lavoro, nel quale il lavoratore fiscalmente residente in Italia presta la propria attività all’estero alle dipendenze di un datore di lavoro estero, non è da considerarsi unico; può, infatti, accadere che il suddetto lavoratore, pur prestando la propria attività lavorativa all’estero, stipuli il contratto di lavoro con un datore fiscalmente residente in Italia (questo si evince dalla Circ. Ag. Entr. 16 novembre 2000, n. 207/E, par. 1.5.7.). La residenza fiscale, italiana o estera, del datore di lavoro non muta, tuttavia, il campo di indagine del presente lavoro, il quale ha ad oggetto la tematica, comune ad entrambi i casi testé rappresentati, attinente l’esatta latitudine del concetto di “soggiorno all’estero” del lavoratore.
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concernente persone fisiche fiscalmente residenti in Italia (3) svolgenti attività di lavoro dipendente all’estero, alla sussistenza dei seguenti tre requisiti da soddisfarsi congiuntamente: - il lavoratore deve prestare la propria attività all’estero «in via continuativa»; - il lavoratore deve prestare la propria attività all’estero come «oggetto esclusivo del rapporto di lavoro»; - il lavoratore deve «soggiornare» all’estero per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi (4). In relazione al primo dei suddetti requisiti è stato precisato che il medesimo riguarda la durata dell’attività lavorativa all’estero, la quale deve essere svolta «per un determinato periodo di tempo con carattere di permanenza o di sufficiente stabilità» (5). A questo proposito occorre che al dipendente sia affidato uno specifico incarico non occasionale, ma, appunto, permanente o comunque stabile (6) e che tale incarico risulti dal contratto di lavoro (7). In ordine al secondo dei summenzionati requisiti è stato chiarito che lo stesso concerne il luogo di svolgimento dell’attività lavorativa, la quale deve essere prestata esclusivamente all’estero (8) e deve espressamente risultare dal contratto di lavoro.
(3) La Circ. Ag. Entr. n. 207/E/2000, par. 1.5.7., ha precisato che l’art. 51, comma 8-bis, del Tuir è applicabile unicamente a lavoratori dipendenti fiscalmente residenti in Italia. (4) Sull’analisi, in generale, del contenuto dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir e dei relativi requisiti applicativi si veda, senza pretesa di esaustività, M. Aulenta, La tassazione dei redditi di lavoro dipendente prodotti all’estero, Rass. Trib., 2002, 151, ss., P.L. Cardella, Il punto sulla disciplina dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, Rass. Trib., 2003, 894, ss., G. Corasaniti, I redditi di lavoro dipendente (art. 15 Modello OCSE), in AA.VV., Materiali di Diritto tributario internazionale, coordinato da C. Sacchetto e L. Alemanno, Milano, 2002, 155, ss., F. Crovato, Il regime speciale per il lavoro all’estero di residenti italiani, in AA.VV., Il diritto tributario nei rapporti internazionali, a cura di L. Carpentieri, R. Lupi, D. Stevanato, Milano, 2003, 181, ss., R. Fanelli, La nuova disciplina fiscale dei redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, Corr. Trib., 2001, 1318, ss., M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, Milano, 2004, 976, ss., G. Puoti, I redditi di lavoro dipendente nel modello OECD, cit., 696, ss., M. Salvati, I redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, Corr. Trib., 2000, 3539, ss. (5) In questo senso si veda la Ris. Ag. Entr. 11 settembre 2007, n. 245/E e la Circ. Assonime 16 marzo 2001, n. 17, pag. 4. (6) Cfr. Circ. Assonime n. 17/2001, pag. 4. (7) Cfr. Circ. Ag. Entr. 15 gennaio 2003, n. 2/E, par. 9. e Circ. Assonime n. 17/2001, pag. 4. (8) Cfr. Ris. Ag. Entr. n. 245/E/2007 e Circ. Assonime n. 17/2001.
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In merito, infine, al terzo requisito di cui sopra è stato precisato quanto segue: - “Per quanto concerne il computo dei giorni di effettiva permanenza del lavoratore all’estero, si fa presente che il periodo da considerare non necessariamente deve risultare continuativo: è sufficiente che il lavoratore presti la propria opera all’estero per un minimo di 183 giorni nell’arco di dodici mesi” (9); - “Per l’effettivo conteggio dei giorni di permanenza del lavoratore all’estero rilevano, in ogni caso, nel computo dei 183 giorni, il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi” (10). Anche di quest’ultimo requisito occorre fare menzione nel contratto di lavoro (11) (12). Premesso quanto sopra, venendo alla questione di maggiore rilevanza nell’ambito del presente lavoro, si osserva come il requisito da ultimo descrit-
(9) Sul punto si veda la Circ. Ag. Entr. n. 207/E/2000, par. 1.5.7. Nello stesso documento l’Agenzia delle Entrate ha inoltre sostenuto che “il legislatore con l’espressione “nell’arco di dodici mesi” non ha inteso far riferimento al periodo d’imposta, ma alla permanenza del lavoratore all’estero stabilita nello specifico contratto di lavoro, che può anche prevedere un periodo a cavallo di due anni solari”. (10) In tal senso Circ. Ag. Entr. n. 207/E/2000, par. 1.5.7. (11) Cfr. Circ. Ag. Entr. 26 gennaio 2001, n. 7/E, par. 7.3. (12) Per quanto concerne la disciplina convenzionale si reputa opportuno osservare, brevemente, quanto segue. Nel caso qui trattato, in conformità alle previsioni dell’art. 15 del Modello OCSE di Convenzione fiscale sui redditi e sul patrimonio (di seguito «il Modello OCSE»), è concesso potere impositivo, non solo all’Italia in quanto allo Stato di residenza fiscale del lavoratore, ma anche allo Stato, diverso dal primo, in cui il lavoratore stesso presta la propria attività lavorativa. Questo perché, poiché il lavoratore deve “soggiornare” nello Stato da ultimo nominato per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di un anno solare, la condizione di cui all’art. 15, par. 2, lett. a), del Modello OCSE non risulta verificata e quindi l’Italia non ha potere impositivo esclusivo sul reddito di lavoro dipendente conseguito dal soggetto in questione (su questo aspetto si veda anche G. Corasaniti, I redditi di lavoro dipendente (art. 15 Modello OCSE), cit., 158. Da ciò consegue che l’eventuale imposta applicata dallo Stato estero sul reddito di lavoro dipendente ivi prodotto è ammessa in detrazione dall’imposta italiana solo parzialmente e ciò in virtù del disposto di cui all’art. 165, comma 10, del Tuir. In via interpretativa è stato sostenuto, più in particolare, che “per la determinazione del credito di imposta ex articolo 165 del Tuir, si ritiene che le imposte pagate all’estero a titolo definitivo dovrebbero essere ridotte in proporzione al rapporto tra la retribuzione convenzionale determinata ex articolo 51, comma 8-bis, del Tuir ed il reddito di lavoro dipendente che sarebbe stato tassabile in via ordinaria – e non in misura convenzionale – in Italia” (cfr. Ris. Ag. Entr. 8 luglio 2013, n. 48/E).
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to – rectius: il «soggiorno» all’estero del lavoratore per più di 183 giorni – non abbia trovato, ad oggi, esaurienti specificazioni tanto nella prassi quanto nella giurisprudenza domestiche e conseguentemente risulta non immediato stabilire l’esatta funzione svolta dal requisito in parola nel contesto applicativo dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. Nei prossimi due paragrafi analizzeremo partitamente quelle che riteniamo essere due plausibili interpretazioni della funzione svolta dal requisito di cui si discorre. 2.1. Il «soggiorno» all’estero come requisito distinto ed ultroneo rispetto ai requisiti della «continuatività» ed «esclusività» della prestazione lavorativa. – In base ad una prima interpretazione si potrebbe sostenere che, affinché il requisito del «soggiorno» all’estero esplichi concreta utilità nell’ambito dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir, è necessario attribuire al medesimo una funzione distinta ed ultronea rispetto a quelli attinenti l’attività lavorativa (13). In questa prospettiva il beneficio previsto dalla norma poc’anzi citata spetterebbe al lavoratore, il quale, oltre a prestare la propria attività all’estero, si trasferisse stabilmente a vivere nel Paese estero in cui lavora senza quindi, evidentemente, fare ritorno in Italia al termine di ogni giornata lavorativa. In una risalente Circolare (14), attinente solo in maniera indiretta la tematica che qui occupa, il Ministero delle Finanze italiano, in relazione al reddito di lavoro dipendente prestato in Francia da lavoratori «frontalieri» residenti in Italia (15), ebbe ad affermare l’inapplicabilità a tale reddito dell’allora vigente art. 3, comma 3, lett. c), del Tuir, il quale escludeva dalla formazione del reddito complessivo Irpef «I redditi derivanti da lavoro dipendente prestato all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto» (16).
(13) In tal senso si veda M. Salvati, I redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, cit., 3539. (14) Cfr. Circ. Min. Fin. 3 maggio 1996, n. 108/E. (15) La definizione di lavoratore “frontaliero”, esercente in specie la propria attività lavorativa in Svizzera, è ricavabile, da ultimo, dall’art. 3 del Decreto del Ministero dell’economia e delle finanze del 4 agosto 2016, dal quale è possibile desumere che quello in questione è un soggetto fiscalmente residente in Italia in un Comune compreso, in tutto o in parte, nella fascia di 20 Km dalla linea di confine con l’Italia dei tre Cantoni del Ticino, dei Grigioni e del Vallese (in tal senso si veda anche la Ris. Ag. Entr. 28 marzo 2017, n. 38/E). (16) La norma in parola è stata abrogata, a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2000, dall’art. 5, comma 1, lett. a), n. 1), del D. Lgs. 2 settembre 1997, n. 314 e sostituita, a partire dal medesimo periodo di imposta, dall’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. In dottrina è stato sostenuto che, attesa l’identità di ratio e il similare ambito applicativo tra le due norme testé citate, la prassi e la giurisprudenza relative alla prima di esse
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Parte prima
Seppure la norma da ultimo richiamata non prevedesse ancora, al pari del vigente art. 51, comma 8-bis, del Tuir, il requisito del «soggiorno» all’estero per più di 183 giorni, il Ministero delle Finanze ha motivato la suddetta inapplicabilità sostenendo essenzialmente che, mentre la norma contenuta nell’abrogato art. 3, comma 3, lett. c), del Tuir era applicabile a lavoratori trasferiti stabilmente all’estero per motivi di lavoro, la norma medesima non era, invece, applicabile ai lavoratori «frontalieri», per i quali il requisito della stabile permanenza all’estero non sussiste e ciò in ragione del fatto che detti ultimi soggetti fanno generalmente ritorno alla propria residenza italiana al termine della giornata di lavoro. Si rileva incidentalmente come la presa di posizione ministeriale appena richiamata sia stata successivamente superata per effetto dell’entrata vigore dell’art. 38, comma 3, della L. 8 maggio 1998, n. 146, il quale, nel fornire un’interpretazione autentica dell’abrogato art. 3, comma 3, lett. c), del Tuir (17), ebbe a prevedere che «Fino alla data di cui al comma 2 dell’articolo 5 del decreto legislativo 2 settembre 1997, n. 314 (31 dicembre 2000 n.d.a.), la disposizione recata dalla lettera c) del comma 3 dell’articolo 3 del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, va intesa nel senso che l’esclusione dalla base imponibile opera anche per i redditi di lavoro prestato nelle zone di frontiera ed in altri Paesi limitrofi da soggetti residenti nel territorio dello Stato” (18). Venendo alla specifica tematica qui trattata, pare di poter sostenere che l’estensione al caso di specie del principio fissato, con riguardo ai lavoratori «frontalieri», dalla Circ. Min. Fin. n. 108/E/1996 determinerebbe – nell’ipotesi in cui il lavoratore, anche non « frontaliero », rientrasse presso la propria residenza italiana al termine di ogni giornata lavorativa condotta all’estero – la mancata integrazione del requisito del « soggiorno all’estero » di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir (19).
debbano ritenersi valide anche ai fini dell’interpretazione della seconda (cfr. M. Piazza, Guida alla fiscalità internazionale, cit., 978). (17) Al riguardo si veda la Circ. Min. Fin. 12 giugno 1998, n. 150, Parte seconda. (18) Si rammenta, incidentalmente, che, a decorrere dal 1° gennaio 2014, il reddito di lavoro dipendente prestato all’estero dai lavoratori “frontalieri” concorre a formare il reddito complessivo per l’importo eccedente Euro 7.500,00 (cfr. art. 1, comma 175, L. 27 dicembre 2013, n. 147, così come modificato dall’art. 1, comma 690, della L. 23 dicembre 2014, n. 190). (19) In tal senso sembra esprimersi M. Salvati, I redditi di lavoro dipendente prestato all’estero, cit., 3541.
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2.2. Il «soggiorno» all’estero come mero requisito temporale a completamento dei requisiti della «continuatività» ed «esclusività» della prestazione lavorativa. – In forza, invece, di una seconda interpretazione, quello del «soggiorno» all’estero costituisce un requisito di carattere puramente temporale specificamente riferito alla durata dell’attività prestata all’estero dal lavoratore e non, quindi, un requisito, nettamente distinto ed ultroneo rispetto a quelli inerenti l’attività lavorativa, in base al quale il legislatore imporrebbe al lavoratore dipendente di trasferirsi stabilmente a vivere all’estero. In altri termini, secondo questa impostazione, ove il lavoratore presti la propria attività lavorativa all’estero in via continuativa e come oggetto esclusivo del rapporto di lavoro, egli beneficierà della disciplina di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir (solo) se detta attività lavorativa viene svolta nello Stato estero per un periodo superiore a 183 giorni nell’arco di dodici mesi. In questo senso paiono deporre i chiarimenti forniti tanto dall’amministrazione finanziaria quanto da autorevole dottrina, laddove è stato affermato che: -.al fine dell’integrazione del requisito del «soggiorno» «è sufficiente che il lavoratore presti la propria opera all’estero per un minimo di 183 giorni nell’arco di dodici mesi» (20); -.«per l’applicabilità del nuovo regime di tassazione su base convenzionale è, altresì, necessario che il lavoratore dipendente (…) lavori nello Stato estero in via esclusiva e continuativa“… per un periodo superiore a 183 giorni”» (21) e che per l’effettivo conteggio dei 183 giorni «deve (…) aversi riguardo – ad avviso del Ministero delle finanze – alla durata del rapporto di lavoro all’estero, così come stabilita per contratto, e non ai giorni di presenza fisica del lavoratore all’estero» (22). A favore del legame tra il concetto di «soggiorno» e la durata dell’attività prestata all’estero dal lavoratore, militano, inoltre, le ulteriori considerazioni attinenti la lettera e la ratio dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. Dalla lettura della norma si evince che il «soggiorno» per un periodo superiore a 183 giorni debba essere effettuato non, genericamente, all’estero, bensì «nello Stato estero». Poiché con tale ultima locuzione il legislatore può essersi riferito solo allo «Stato estero» nel quale il lavoratore presta la propria attività lavorativa, è ragionevole ritenere come il requisito temporale del «soggiorno» sia riferibile a detta attività e in particolare alla sua durata.
(20) Cfr. Circ. Ag. Entr. n. 207/E/2000, par. 1.5.7. (21) Cfr. Circ. Assonime n. 17/2001, pag. 4. Sul punto si veda anche la Circ. Ag. Entr. n. 207/E/2000, par. 1.5.7. (22) Ibidem.
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Parte prima
La necessarietà di un siffatto legame è avvalorata dalla finalità dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir attribuibile all’intento del legislatore di riconoscere un beneficio al lavoratore, non necessariamente in quanto soggetto trasferitosi all’estero per motivi di lavoro, ma, più semplicemente, in quanto soggetto svolgente attività lavorativa all’estero, per più di 183 giorni nell’arco di dodici mesi, la cui retribuzione è soggetta ad imposizione sia nel Paese di residenza sia nel paese della fonte reddituale (23). L’adozione di questa impostazione sul piano interpretativo avrebbe quale conseguenza, sul versante applicativo, che il rientro del lavoratore presso la propria residenza italiana al termine di ogni giornata lavorativa condotta all’estero non implicherebbe la mancata integrazione del requisito del «soggiorno» all’estero di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir (24). 3. La lettura del concetto di «soggiorno» contenuto nell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir in conformità all’interpretazione dell’art. 15, par 2, lett. a), del Modello OCSE. – Merita ora notare che, pur volendo assumere fondate le ragioni indicate nel precedente paragrafo 2.1., secondo cui quello del «soggiorno» all’estero rappresenta un requisito distinto ed ultroneo rispetto a quelli della continuatività ed esclusività della prestazione lavorativa all’estero, il sistematico rientro del lavoratore presso la propria residenza italiana, al termine di ogni giornata lavorativa condotta all’estero, potrebbe comunque
(23) Ciò si desume dalle osservazioni contenute nella Circ. Inps 10 aprile 2001, n. 86. E’ bene sottolineare come la dottrina abbia ravvisato nella norma in commento un ulteriore ratio, in aggiunta alla finalità indicata nel testo, e segnatamente l’intento di evitare di assumere quale base imponibile la retribuzione reale il cui importo è condizionato dal costo della vita nel Paese estero in cui è prestato il lavoro e ciò al fine ultimo di garantire l’equità dell’imposizione e di favorire l’impiego dei lavoratori all’estero (cfr. F. Crovato, Il regime speciale per il lavoro all’estero di residenti italiani, cit., 182). (24) Con riferimento alla prova circa l’effettiva sussistenza dei tre requisiti applicativi dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir si nota come la medesima possa essere fornita, indicativamente, nei termini seguenti: - la sussistenza della «continuatività» della prestazione di lavoro all’estero può essere dimostrata producendo documentazione – mail, fax, carte di lavoro e altra docuentazione aziendale – dalla quale si evinca lo specifico incarico affidato al lavoratore e il suo svolgimento lungo tutto il periodo di imposta considerato; - la sussistenza della prestazione lavorativa all’estero come «oggetto esclusivo del rapporto lavoro» può essere dimostrata producendo documentazione – pedaggi autostradali, scontrini di parcheggi e ricevute fiscali di ristoranti nei pressi della sede della società datrice di lavoro – dalla quale si evinca che il lavoratore si reca giornalmente al lavoro all’estero; - per la dimostrazione in merito alla sussistenza del soggiorno all’estero per più di 183 giorni si vedano i due precedenti alinea.
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non determinare il mancato soddisfacimento del summenzionato requisito e questo in virtù di una lettura del concetto di «soggiorno», contenuto nella norma domestica di cui si discorre, coerente con il disposto dell’art. 15, par 2, lett. a), del Modello OCSE, così come interpretato dal paragrafo 5 del relativo Commentario. Una lettura del concetto di «soggiorno» di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir coerente con il disposto della norma convenzionale poc’anzi citata, così come interpretabile alla luce dei chiarimenti forniti dal Commentario Ocse (25), trova legittimazione, a nostro parere, nelle seguenti osservazioni di carattere metodologico e di merito. Sul piano metodologico è appena il caso di rilevare come la tesi da noi sostenuta non attenga, propriamente, la questione relativa al conflitto tra norme di diritto internazionale pattizio (nel caso di specie l’art. 15, par. 2, del Modello OCSE) e norme di diritto interno (in specie l’art. 51, comma 8 bis, del Tuir), nonché i connessi principi, invocati al fine risolvere tale conflitto, attinenti la successione della legge nel tempo e il principio di specialità (26). La presente analisi non tratta, infatti, il conflitto tra norma convenzionale e norma interna – si pensi, a mero titolo esemplificativo, alle problematiche sollevate dalla diversa qualificazione di un cespite reddituale ai fini convenzionali e ai fini interni – possibilmente occorrente in sede di tassazione di redditi transnazionali. L’analisi qui svolta ha ad oggetto, invece, la possibilità di interpretare l’ambito oggettivo di applicazione dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir facendo ricorso all’argomento “sistematico” e avendo quale precipuo elemento caratterizzante l’estensione della latitudine dello specifico sotto sistema giuridico di riferimento al di fuori dei confini nazionali includendo nel suo novero anche le norme di diritto internazionale pattizio (27) e le relative interpretazioni.
(25) La valenza interpretativa svolta dal Commentario Ocse è stata più volte affermata dalla giurisprudenza di legittimità, dalla prassi ministeriale e dalla dottrina. Per ciò che concerne la giurisprudenza si veda, da ultimo, Cass. 24 novembre 2016, n. 23984. Sullo stesso punto si vedano, ex multis, Cass. 23 aprile 2004, n. 7851 e Cass. 3367/2000. Per quanto riguarda la prassi si vedano, tra le altre: Circ. Min. Fin. 22 dicembre 1996, n. 306/E, Ris. Min. Fin. 31 marzo 1999, n. 59/E, Ris. Min. Fin. 10 settembre 1999, n. 145/E e Circ. Min. Fin. 16 novembre 2000, n. 207/E. In dottrina si veda, per tutti, A. Pozzo, L’interpretazione delle Convenzioni internazionali contro la doppia imposizione, in AA.VV., Diritto tributario internazionale, coordinato da V. Uckmar, III ed., Padova, 2005, 171, ss. (26) Per approfondimenti sul tema si veda V. Uckmar-G.Corasaniti-P. De’Capitani di vimercate, Diritto tributario internazionale. Manuale, Padova, 2009, 7-8. (27) In merito alla differenza tra diritto internazionale pattizio e diritto internazionale consuetudinario si veda R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, in Trattato di diritto civile
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Parte prima
Nel caso di specie, trattasi dell’interpretazione fornita dal Commentario OCSE all’art. 15 dell’omonimo Modello convenzionale il cui contenuto è stato, peraltro, mutuato dall’Italia nella generalità delle Convenzioni bilaterali da essa siglate e ratificate con legge ordinaria. Si intende prendere spunto, in altri termini, dal concetto di “porosità degli ordinamenti giuridici”, o di “apertura laterale tra ordinamenti giuridici” (28), il quale, nel caso che qui occupa, trova concreta applicazione nel recepimento a fini ermeneutici interni di un’interpretazione fornita da un organismo internazionale di Stati (l’OCSE) garantendo in tal modo la “coerenza” del suddetto sotto sistema giuridico di riferimento (29). “Coerenza” che deve ritenersi vieppiù da rispettare per una ragione di successione di norme nel tempo e questo perché l’art. 15, par. 2, del Modello convenzionale è in vigore dal 1959, mentre la norma interna di cui si discorre è stata introdotta nell’ordinamento italiano, come si è già avuto modo di notare, solo a partire dal periodo di imposta successivo a quello in corso al 31 dicembre 2000. Pare invero di poter sostenere che l’interpretazione di una norma avente formulazione letterale (quasi) identica e operante in un contesto simile a quelli di una norma entrata in vigore precedentemente non possa prescindere dal bagaglio interpretativo formatosi in relazione a quest’ultima (30). Posto quanto sopra, sembra di poter affermare che la tesi qui sostenuta, non solo non trovi ostacoli interni di fonte costituzionale (ci si riferisce ovviamente al principio di legalità contenuto nell’art. 23 Cost.), ma addirittura trovi conforto, anche se in via indiretta, nel pensiero della stessa Consulta. Nella sentenza di seguito nominata i giudici delle leggi – sebbene in merito
e commerciale, diretto da L. Mengoni e già diretto da A. Cicu e F. Messineo, Milano, 1998, 663. (28) Così S. Cassese, Il diritto globale. Giustizia e democrazia oltre lo Stato, Torino, 2009, 25, il quale rammenta come il fenomeno cui si è fatto cenno nel testo consente all’organo giudicante di “ricorrere a una lex alius loci, o extera, ogni qualvolta, nella lex loci e nel diritto comune, non si trovasse decisus il caso sub iudice o questo fosse controverso”. (29) Si reputa opportuno sottolineare come l’interpretazione “sistematica” muova proprio dalla presunzione di coerenza del sistema giuridico (in tal senso R. Guastini, Teoria e dogmatica delle fonti, cit., 222). (30) È importante osservare che la regola, di fonte convenzionale, del soggiorno nello Stato estero di 183 giorni è stata già recepita, a livello domestico, dalla Svezia nel 1989. Detto questo, è ancora più importante rilevare, al fine che qui occupa, il suggerimento del Governo svedese in base al quale l’interpretazione della predetta regola dei 183 giorni, oramai mutuata dal legislatore interno svedese, avrebbe potuto avvenire facendo riferimento a quanto previsto dal Commentario OCSE (cfr. J.F. Avery Jones, L. De Broe, M. J Ellis, K. Vaan Raad, J.P. Le Gall, S. H. Goldberg, J Killius. G. Maisto, T. Miyatake, H. Torrione, R. J. Vann, David. A. Ward, B.Wiman, The origin of Concepts and Expressions used in the OECD Model and their adoption by States, BTR, 2006, 757 e nota 396).
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alla questione, non sovrapponibile sul piano concettuale a quella in oggetto, concernente la supremazia degli accordi internazionali rispetto alle disposizioni di legge interna – hanno invero avuto modo di affermare che, in ottemperanza all’art. 117, comma 1, Cost., “(…) al giudice comune spetta interpretare la norma interna in modo conforme alla disposizione internazionale, entro i limiti nei quali ciò sia permesso dai testi delle norme. Qualora ciò non sia possibile, ovvero dubiti della compatibilità della norma interna con la disposizione convenzionale ‘interposta’, egli deve investire questa Corte della relativa questione di legittimità costituzionale rispetto al parametro dell’art. 117, primo comma, come correttamente è stato fatto dai rimettenti in questa occasione” (31). Ora, poiché i testi dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir e dell’art. 15, par. 2, lett. a), del Modello OCSE, oltre a trattare la stessa tematica attinente la fiscalità sul reddito di lavoro dipendente conseguito da una persona fisica svolgente la propria attività lavorativa all’estero, paiono assolutamente compatibili sul piano letterale – in entrambi i testi è previsto, infatti, il riferimento del “soggiorno” nello Stato estero del lavoratore per un periodo (superiore o pari a) 183 giorni –, sembra legittimo supporre un’interpretazione della sunnominata norma domestica in maniera conforme alla predetta norma internazionale pattizia. Venendo ora al merito si osserva come il par. 5 del Commentario all’art. 15 del Modello OCSE abbia chiarito che nel computo dei 183 giorni siano da comprendere, tra l’altro, “le frazioni di giorno” precisando ulteriormente che “Una qualunque frazione di giorno, per quanto breve, nella quale il contribuente soggiorna in uno Stato conta come giorno di presenza in quello Stato ai fini del calcolo del periodo di 183 giorni” (32).
(31) Si veda la sentenza del 24 ottobre 2007, n. 349, la quale, in un caso di presunta incompatibilità di una norma interna con una norma racchiusa nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), ha sostenuto, oltre a quanto già riportato nel testo, che “Ciò non significa, beninteso, che con l’art. 117, primo comma, Cost., si possa attribuire rango costituzionale alle norme contenute in accordi internazionali, oggetto di una legge ordinaria di adattamento, com’è il caso delle norme della CEDU. Il parametro costituzionale in esame comporta, infatti, l’obbligo del legislatore ordinario di rispettare dette norme, con la conseguenza che la norma nazionale incompatibile con la norma della CEDU e dunque con gli “obblighi internazionali” di cui all’art. 117, primo comma, viola per ciò stesso tale parametro costituzionale. Con l’art. 117, primo comma, si è realizzato, in definitiva, un rinvio mobile alla norma convenzionale di volta in volta conferente, la quale dà vita e contenuto a quegli obblighi internazionali genericamente evocati e, con essi, al parametro, tanto da essere comunemente qualificata “norma interposta”; e che è soggetta a sua volta, come si dirà in seguito, ad una verifica di compatibilità con le norme della Costituzione”. (32) In questo senso la traduzione di G. Maisto, Modello di Convenzione fiscale sui
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Da quanto appena riportato sembra ragionevolmente poter desumere che la giornata lavorativa prestata all’estero dal dipendente, sebbene quest’ultimo rientri in Italia al termine della medesima, costituisca comunque una «frazione di giorno» computabile quale giorno di presenza al fine di verificare la sussistenza del requisito del «soggiorno» all’estero per più di 183 giorni previsto dall’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. Tale ultima affermazione pare, inoltre, corroborata dalle seguenti ulteriori osservazioni. Vale innanzitutto notare che una lettura del concetto di «soggiorno» di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir non coerente con il disposto di cui all’art. 15, par. 2, lett. a), della Convenzione e, in specie, non conforme all’interpretazione data alla norma pattizia da ultimo nominata da parte del par. 5 del Commentario all’art. 15 del Modello convenzionale Ocse, si porrebbe in contrasto con la ratio della predetta norma domestica. Ciò in quanto il requisito del “soggiorno” nello Stato in cui il lavoratore presta la propria attività non sarebbe integrato né ai fini convenzionali né ai fini domestici – e questo perché il lavoratore risulterebbe “soggiornare” all’estero per più di 183 giorni ai fini convenzionali e per meno di 183 giorni ai fini domestici – con la conseguenza che il lavoratore stesso, tassato sullo stesso reddito di lavoro dipendente sia nel Paese di residenza fiscale sia nel Paese della fonte, non potrebbe fruire in Italia del beneficio previsto dall’art. 51, comma 8-bis, del Tuir e ciò in contrasto con la ratio della norma da ultimo nominata, la quale, come già osservato, mira ad attenuare la doppia imposizione giuridica internazionale in capo al lavoratore (33). Inoltre, se «il periodo di ferie, le festività, i riposi settimanali e gli altri giorni non lavorativi, indipendentemente dal luogo in cui sono trascorsi” sono computati, come espressamente chiarito dalla più volte citata Circ. Min. Fin. n. 207/E/1996, nei 183 giorni, pare ragionevole sostenere che in tale computo debbano essere inclusi, a maggior ragione, i giorni lavorativi al termine dei quali in cui il lavoratore rientra alla propria residenza italiana. 4. Conclusioni. – Si osserva conclusivamente come il requisito del «soggiorno» all’estero di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir possa, a nostro avviso, essere legittimamente interpretato alla luce delle considerazioni effettuate
redditi e sul patrimonio, Milano, 2004, 225. (33) La finalità della norma indicata nel testo non si ritiene possa essere messa in discussione dal fatto che al lavoratore spetta il credito di imposta per i redditi prodotti all’estero di cui all’art. 165 del Tuir.
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nel precedente paragrafo 2.2., secondo cui, in estrema sintesi, quello in oggetto costituisce un requisito di carattere puramente temporale essenzialmente riferito alla durata dell’attività prestata all’estero dal lavoratore e non, quindi, un requisito, nettamente separato da quelli inerenti l’attività lavorativa, in base al quale il legislatore imporrebbe al lavoratore dipendente di trasferirsi stabilmente a vivere all’estero. Detto questo, ammesso di non voler considerare percorribile la soluzione interpretativa poc’anzi delineata, vale osservare come il sistematico rientro del lavoratore presso la propria residenza italiana, al termine di ogni giornata lavorativa condotta all’estero, non pare in ogni caso determinare il mancato soddisfacimento del requisito del «soggiorno» all’estero e questo in virtù di una lettura del concetto ivi contenuto coerente con il disposto dell’art. 15, par 2, lett. a), del Modello OCSE, così come interpretato dal paragrafo 5 del relativo Commentario. Da quest’ultima interpretazione pare infatti possa discendere che, come evidenziato al precedente paragrafo 3, sebbene il dipendente rientri in Italia al termine della propria giornata lavorativa prestata all’estero, tale giornata rappresenti comunque una «frazione di giorno» computabile quale giorno di presenza al fine di verificare la sussistenza del requisito del «soggiorno» all’estero per più di 183 giorni previsto dall’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. Premesso tutto ciò, non sembrano, quindi, estensibili al caso di specie le conclusioni raggiunte dall’amministrazione finanziaria nella citata Circ. n. 108/E/1996 con riguardo ai lavoratori «frontalieri» residenti in Italia, seguendo le quali il rientro del lavoratore, al termine di ogni giornata lavorativa condotta all’estero, presso la propria residenza italiana comporterebbe la mancata integrazione del requisito del « soggiorno all’estero » di cui all’art. 51, comma 8-bis, del Tuir. L’inconferenza, rispetto al caso di specie, dei predetti chiarimenti ministeriali poggia, oltre che sulle considerazioni già svolte, anche sulla seguente osservazione. L’interpretazione autentica dell’abrogato art. 3, comma 3, lett. c), del Tuir – volta ad includere nell’alveo applicativo della norma da ultimo nominata i “frontalieri”, i quali, per definizione, costituiscono soggetti non trasferiti stabilmente nello Stato estero nel quale prestano la loro attività lavorativa – lascia propendere per l’inclusione nel campo di applicazione dell’art. 51, comma 8-bis, del Tuir – norma la quale, come si è avuto modo di notare, ha sostituito l’abrogato art. 3, comma 3, lett. c), del Tuir – il reddito di lavoro dipendente prodotto all’estero da quei lavoratori che, così come i “frontalieri”, fanno ritorno alla loro residenza italiana al termine di ogni giornata lavorativa.
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Parte prima
Siffatta tesi pare trovare conferma anche sul fronte della prassi regolatoria. Ci si riferisce, a titolo esemplificativo, al caso della Svizzera, in cui il rilascio del permesso di lavoro a “frontalieri”, svolgenti la propria attività di lavoro dipendente nel Canton Ticino, non è subordinato all’obbligo del richiedente di trasferirsi stabilmente nella Confederazione. Il permesso di cui si discorre conferisce il diritto, ma non prevede l’obbligo, a pernottare in Comuni situati all’interno del Paese (34).
Francesco Pedrotti
(34) Si vedano in proposito le Avvertenze, emanate dall’Ufficio migrazione del Canton Ticino, rivolte ai cittadini stranieri di Stati membri UE titolari di un permesso di lavoro per “frontalieri”.
Giurisprudenza e interpretazione amministrativa
Cass. civ., Sez. V, 14 febbraio 2017 - aprile 2017, n. 9094; Pres. Bielli; Est. Perrino Estinzione delle società – Successione universale – Valore del bilancio finale di liquidazione – Legittimazione dei soci – Intrasmissibilità delle sanzioni tributarie – Responsabilità esclusiva delle persone giuridiche per le sanzioni tributarie La cancellazione della società dal registro delle imprese determina l’estinzione delle sanzioni tributarie, che pertanto non si trasmettono ai soci, ancorché essi siano successori universali della società. Si tratta di un corollario del principio della responsabilità personale, codificato nell’art. 2, comma 2, D. lgs. 18 dicembre 1997, n. 472, che assume viepiù rilevanza, ove si consideri che l’art. 7, comma 1, DL 30 settembre 2003, n. 269, convertito con la legge 24 novembre 2003, n. 326, ha introdotto il canone della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie.
[Omissis] Fatti di causa. In esito all’omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi per gli anni dal 2003 al 2005 da parte della s.r.l. Edil Time, l’Agenzia ha proceduto ad accertamento induttivo nei confronti della società di ma giore materia imponibile, ai fini Iva, Irap e delle imposte dirette. Ne sono scaturiti avvisi di accertamento con i quali sono state recuperate le maggiori imposte, oltre alle sanzioni ed agli interessi. La contribuente ha impugnato gli avvisi, sostenendo che le dichiarazioni fossero state tardivamente presentate e che il ritardo fosse esclusivamente imputabile all’intermediario incaricato della trasmissione telematica, secondo quanto desumibile anche dall’impegno alla trasmissione e dalla dichiarazione resi da costui. La Commissione tributaria provinciale ha accolto il ricorso e quella regionale ha respinto l’appello dell’Ufficio, facendo leva sulla documentazione esibita in giudizio dalla società, che ha evidenziato, oltre ai componenti positivi di reddito valorizzati dall’Agenzia, anche quelli negativi; documentazione che, ha sottolineato il giudice d’appello, i verificatori avrebbero potuto consultare sin dall’accesso e che legittimamente è stata esibita in sede giudiziale, non sussistendo i presupposti per l’operatività della preclusione stabilita dal D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5. La Commissione ha anche annullato le sanzioni irrogate alla società, a fronte della dichiarazione di responsabilità rilasciata
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Parte seconda
dall’intermediario che, a suo giudizio, ha concretato la buona fede della contribuente. L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso contro questa sentenza, che ha articolato in tre motivi, cui i tre soci, dei quali il primo anche nella qualità di liquidatore della società, nel frattempo cancellata dal registro delle imprese, hanno reagito con controricorso, illustrato con memoria. Ragioni della decisione. 1.- Il ricorso è inammissibile nei confronti della società, evocata in giudizio dall’Agenzia sebbene si riferisca in ricorso della sua estinzione per cancellazione dal registro delle imprese dovuta a cessazione di attività e sebbene l’Agenzia ne abbia evocato in giudizio i soci. La stabilizzazione della posizione giuridica della società derivante dall’applicazione del principio dell’ultrattività del mandato, difatti, è venuta meno per effetto giustappunto dell’evocazione e della costituzione in giudizio dei soci, successori, sia pure sui generis, della società (arg. ex Cass., sez. un., 4 luglio 2014, n. 15295; conf., 18 gennaio 2016, n. 710 e 29 luglio 2016, n. 15762). 2.- Il ricorso è poi senz’altro infondato per carenza di legittimazione passiva nei confronti del liquidatore. Ciò in quanto l’Agenzia non ha fatto valere la responsabilità del liquidatore in base all’art. 2495 c.c. o anche in base al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 36, sibbene l’obbligazione tributaria induttivamente accertata nei confronti della società. 3.- Il ricorso è, invece, ammissibile nei confronti dei soci, contrariamente a quanto sostenuto in controricorso ed in memoria. I soci, a sostegno dell’eccezione di carenza della loro legittimazione, nonchè dell’interesse ad agire del fisco, hanno allegato e documentato, ex art. 372 c.p.c., mediante produzione della visura camerale e del bilancio finale di liquidazione risalente al 26 ottobre 2012, successivamente quindi alla pubblicazione della sentenza impugnata, ma antecedentemente alla proposizione del ricorso per cassazione, che nessuna somma è stata loro ripartita per mancanza di attivo. 3.1.- Questa circostanza senz’altro non incide sulla loro legittimazione, giacchè non configura una condizione da cui dipende la possibilità di proseguire nei loro confronti l’azione originariamente intrapresa dal creditore sociale verso la società (in termini, Cass., sez. un., 12 marzo 2013, nn. 6070 e 6072). Non può per conseguenza essere condiviso l’orientamento di recente espresso da questa Corte, richiamato in memoria (Cass., ord. 23 novembre 2016, n. 23916 e, in precedenza, 26 giugno 2015, n. 13259; ancora più esplicita Cass. 31 gennaio 2017, n. 2444), secondo cui si può ritenere che gli ex soci siano subentrati dal lato passivo nel rapporto d’imposta solo se e nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, di modo che l’accertamento di tali circostanze costituisce presupposto della assunzione, in capo a loro, della qualità di successori e, correlativamente, della legittimazione ad causam ai fini della prosecuzione del processo. Queste conclusioni non sono difatti in linea con i principi affermati dalle sezioni unite, che individuano, invece, sempre nei soci coloro che son destinati a succedere nei rapporti debitori già facenti capo alla società cancellata, ma non definiti all’esito della liquidazione, indipendentemente, dunque, dalla circostanza che essi abbiano goduto di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione.
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3.2.- Che i soci abbiano goduto, o no, di un qualche riparto in base al bilancio finale di liquidazione non è dirimente neanche ai fini dell’esclusione dell’interesse ad agire del fisco creditore. Le sezioni unite, con le sentenze da ultimo indicate, hanno riconosciuto che la circostanza si potrebbe riflettere sul requisito dell’interesse ad agire, ma hanno ammonito che il creditore potrebbe avere comunque interesse all’accertamento del proprio diritto. Si può porre il caso, che le stesse sezioni unite hanno esaminato, di diritti e beni non compresi nel bilancio di liquidazione della società estinta, i quali pur sempre si trasferiscono ai soci, in regime di contitolarità o comunione indivisa, con la sola esclusione delle mere pretese, ancorchè azionate o azionabili in giudizio, e dei crediti ancora incerti o illiquidi, la cui inclusione in detto bilancio avrebbe richiesto un’attività ulteriore (giudiziale o extragiudiziale), il cui mancato espletamento da parte del liquidatore consente di ritenere che la società vi abbia rinunciato, a favore di una più rapida conclusione del procedimento estintivo (vedi, al riguardo, Cass. 19 ottobre 2016, n. 21105, che ha riconosciuto l’interesse ad agire del creditore che abbia esperito azione revocatoria ove la società debitrice alienante si sia estinta per cancellazione dal registro delle imprese). La possibilità di sopravvenienze attive o anche semplicemente la possibile esistenza di beni e diritti non contemplati nel bilancio non consentono di escludere l’interesse dell’Agenzia a procurarsi un titolo nei confronti dei soci, in considerazione della natura dinamica dell’interesse ad agire, che rifugge da considerazioni statiche allo stato degli atti. Nè persuasiva pare, al riguardo, la pronuncia di Cass. 22 luglio 2016, n. 15218, che sul punto si limita ad affermare che “il suddetto limite di responsabilità - ossia quello stabilito dall’art. 2495 c.c. - si riflette sul requisito dell’interesse ad agire nei confronti dei soci, evidentemente carente laddove, come nello specifico, nessuna riscossione di somme vi sia stata all’esito della procedura di liquidazione”. 4.- Nel merito, col secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, che va esaminato preliminarmente, perchè logicamente prodromico alla valutazione del primo, l’Agenzia delle entrate lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, là dove il giudice d’appello ha reputato utilizzabile la copiosa documentazione contabile prodotta dalla contribuente per la prima volta in sede contenziosa, in spregio della preclusione d a quella disposizione stabilita. La censura anzitutto postula una circostanza di fatto, ossia che la società abbia dichiarato di non possedere nel corso della verifica i documenti in questione, incompatibile con gli accertamenti svolti in sentenza, nella quale si legge che “...in sede di verifica la Guardia di Finanza ha avuto la possibilità di accedere alle scritture contabili del contribuente e pertanto era perfettamente in grado di valutare i componenti positivi e negativi di reddito ai fini dell’eventuale recupero a tassazione di maggiore imposta”; accertamenti, che non sono stati aggrediti con deduzione di vizio di motivazione. E giova sottolineare che incombe sull’Amministrazione l’onere di provare i provare i presupposti di fatto di applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 52, comma 5, ossia che il contribuente abbia nella sostanza rifiutato
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di esibire la documentazione richiestagli (da ultimo, vedi Cass. 11 agosto 2016, n. 16960). Generica è inoltre l’eccezione concernente la mancanza di data certa della documentazione esibita, in quanto tale documentazione non è neanche per sunto descritta, in modo da consentire alla Corte di delibare la fondatezza dell’obiezione. Il motivo va quindi respinto. 5.- Il che determina la conseguenziale infondatezza del terzo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, c.p.c., col quale l’Agenzia lamenta la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 41, nonchè del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 55, là dove il giudice d’appello ha riconosciuto il potere dell’Ufficio di ricorrere all’accertamento induttivo, ma ha aggiunto che la ricostruzione del reddito si sarebbe dovuta operare sulla base delle risultanze contabili allegate dalla parte. Ciò in quanto la legittimità dell’accertamento, sotto il profilo del metodo utilizzato, va valutata in base ai presupposti di legge esistenti all’epoca della sua adozione (Cass. 6 luglio 2016, n. 13735): e nel caso in esame la disponibilità accertata in sentenza della documentazione, che la stessa Amministrazione definisce copiosa, evidenzia la correttezza della statuizione impugnata, secondo cui i verificatori prima e l’Agenzia poi avrebbero dovuto considerare gli elementi da tale documentazione emergenti. 6.- Infondato è, infine, il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, col quale l’Agenzia si duole della violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 322 del 1998, art. 3, comma 10, nonché del D.Lgs. n. 472 del 1997, artt. 5 e 6, là dove la Commissione tributaria regionale ha escluso l’applicabilità delle sanzioni facendo leva sull’asserita mancanza di colpevolezza della società in ordine alla tardiva presentazione delle dichiarazioni, esclusivamente imputabile all’intermediario incaricato. L’estinzione della società ha determinato difatti l’intrasmissibilità della sanzione (arg. del D.Lgs. n. 472 del 1997, ex art. 8), regola che costituisce corollario del principio della responsabilità personale, codificato nell’art. 2, comma 2 del medesimo decreto, sia ai soci, sia al liquidatore. E tale principio assume viepiù rilevanza, ove si consideri che il D.L. 30 settembre 2003, n. 269, art. 7, comma 1, convertito con L. 24 novembre 2003, n. 326, ha introdotto il canone della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie (in relazione al quale si veda, tra le più recenti, Cass. 3 luglio 2015, n. 13730). 6.1.- La regola è principio di ordine generale, che definisce la fattispecie astratta sanzionatoria e che, in conseguenza, va applicata anche d’ufficio. 7.- Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. La Corte: dichiara inammissibile il ricorso nei confronti della società estinta e lo rigetta nei confronti dei soci e del liquidatore. Condanna l’Agenzia a pagare le spese nei confronti delle parti costituite, che liquida in Euro 7000,00 per compensi, oltre al 15% a titolo di spese forfettarie ed oltre agli accessori. [Omissis]
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L’intrasmissibilità delle sanzioni agli eredi e la sua riferibilità alle estinzioni delle società. Sommario: 1. Premessa. – 2. Il modello di sanzione voluto dalla riforma degli anni 1996-1997. – 3. (Segue): l’innesto della responsabilità esclusiva di società di capitali e persone giuridiche avvenuto nel 2003. – 4. L’intrasmissibilità delle sanzioni delle persone fisiche e delle persone giuridiche. – 5. La “trasmissione” delle sanzioni nella scissione di società. Della previsione di esclusiva sanzionabilità tributaria delle società, di cui all’art.7 DL 30 settembre 2003, n.269, si impone un’interpretazione sistematica, innanzi tutto con principi e regole contenute nel D.lgs. 18 dicembre 1997, n.472, tra cui la regola di intrasmissibilità della sanzione agli eredi, di cui all’art.8 dello stesso testo. Si può così dimostrare che le sanzioni tributarie irrogate alle società non si trasmettono ai soci, ma si estinguono con la cancellazione delle società dal registro delle imprese. The provision of the exclusive tax liability of the companies, ex art. 7 of DL 30th September 2003, no. 269, requires a systematic interpretation, first of all with the principles and the rules of D. lgs. 18 th December 1997, no. 472, including the intrasmissibility of the sanction to the heirs, ex art. 8 of the same text. So it can be shown that the tax penalties imposed on the companies are not passed on to their members, but are extinguished by the cancellation of the companies from the register of the companies.
1. Premessa. – Con la recente sentenza del 7 aprile 2017, n.9094, la Corte di Cassazione affronta per la prima volta il problema della sorte delle sanzioni amministrative tributarie irrogate alle società di capitali, che si estinguono. Il problema è figlio: a) dell’innovazione recata nella disciplina delle sanzioni dall’art.7 DL 30 settembre 2003, n.269, che, in discontinuità con la disciplina dell’epoca, ha previsto che «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica» (1); b) della svolta operata dalla Cassazione
(1) In argomento cfr. per tutti F. Batistoni Ferrara, Art.7 DL 30 settembre 2003, in Commentario breve alle leggi tributarie, II, Accertamento e sanzioni, a cura di Moschetti, 2012, 809 ss. Per primi importanti tentativi di inquadramento sistematico della riforma del 2003 all’interno della disciplina delle sanzioni si vedano: L. Murciano, La “nuova” responsabilità amministrativa tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art.7 del
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nel 2010 (con tre sentenze) e nel 2013 (con altrettante sentenze) nella direzione dell’estinzione delle società di capitali in forza della loro cancellazione dal registro delle imprese (in applicazione dell’art.2495 cod. civ., come riscritto dal D.lgs. 17 gennaio 2003, n.6, di riforma del diritto societario), in luogo della sostanziale “immortalità”, cui erano destinate fino all’estinzione di tutti i rapporti giuridici pendenti, sostenuta in precedenza dalla costante giurisprudenza (2); c) della ricostruzione in chiave successoria (di tipo universale) del trasferimento delle situazioni giuridiche facenti in capo alla società estinta in favore dei soci
d.l. n.269/2003, in Riv. Dir. Trib. 2004, I, I, 657 ss.; G. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario in Riv. Dir. Trib. 2004, I, 373 ss. Più in generale, sulla disciplina delle sanzioni amministrative tributarie dopo la riforma del 2003 si vedano ad esempio: L. Del Federico, Sanzioni amministrative (dir. trib.), in Diz. Dir. Pubbl. a cura di Cassese, Milano, 2006, VI, 5431 ss.; R. Miceli, Sanzioni amministrative tributarie, in Diritto on line, Enciclopedia Treccani (www.treccani.it), 2014; R. Cordeiro Guerra, Sanzioni amministrative tributarie, in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm, Aggiornamento, 2017, 456 ss. (2) Si tratta delle importanti sentenze delle Sezioni Unite: nn.4060, 4061 e 4062 del 22 febbraio 2010 (pubblicate e commentate in varie riviste: ad esempio, la 4061/2010 è pubblicata in NGCC 2010, I, 541 ss., ove M. De Acutis, Le sezioni unite e il comma 2° dell’art.2495 cod. civ., ovvero tra obiter dicta e contrasti (forse) soltanto apparenti, ivi, II, 260 ss.); e soprattutto, nn.6070, 6071, 6072 del 12 marzo 2013, in dichiarata continuità con le prime, pubblicate e commentate in varie riviste (ad esempio, Cass.6070/2013 è pubblicata in Le società 2013, 537, ove Cass.6070/2013, Le società 2013, 537, ove F. Fimmanò, Il commento, ivi, 542 ss., e G. Guizzi, Le Sezioni Unite, la cancellazione delle società e il “problema” del soggetto: qualche considerazione critica, ivi, 559 ss.). Tali pronunce acquistano un significato notevole, perché nonostante la chiara previsione del novellato art.2495 cod. civ. (in forza della quale la cancellazione di una società di capitali dal registro delle imprese ne determina l’estinzione, ha cioè ha una valenza costitutiva dell’estinzione), la giurisprudenza con difficoltà si è liberata delle proprie pregresse posizioni – già sotto la vecchia disciplina discutibili (ed è la stessa giurisprudenza a dare atto delle critiche) – per le quali la cancellazione dal registro delle imprese non valeva a provocare l’estinzione della società, se e fintanto che tutti rapporti giuridici alla stessa facenti capo non fossero definiti (si attribuiva, cioè, alla cancellazione una valenza soltanto dichiarativa dell’estinzione). I contrasti giurisprudenziali venutisi a creare, anche all’interno della stessa Corte di Cassazione, sono stati significativamente composti, nel senso della valenza costitutiva (dell’estinzione) della cancellazione, dalle citate pronunce delle Sezioni Unite del 2010 e del 2013. Sul tema dell’estinzione delle società, anche in conseguenza della svolta compiuta dalla Cassazione, si registrano numerosi contributi, tra i quali: D. Dalfino, La cancellazione della società dal registro delle imprese, Torino, 2017; G. Buccarella, La cancellazione della società dal Registro delle imprese, Milano, 2015; M. Verbano, Estinzione di società (società di persone), in Dig. Disc. Priv. Sez. Comm., Agg., 2015, 280 ss.; A. Zorzi, La cancellazione delle società di capitali, Milano, 2014; V. Sanna, Cancellazione ed estinzione nelle società di capitali, Torino, 2013; G. Positano, L’estinzione delle società per azioni fra tutela del capitale e tutela del credito, Milano, 2012.
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(ritenuti, appunto, successori universali), fatta non soltanto dalle riferite pronunce del 2010 e del 2013, ma da numerose altre successive (3). La soluzione data dalla Corte è di decisa affermazione dell’intrasmissibilità ai soci della sanzione, «regola che costituisce corollario del principio della responsabilità personale, codificato nell’art.2, comma 2 del medesimo decreto»; con l’aggiunta che «tale principio assume viepiù rilevanza, ove si consideri che il DL 30 settembre 2003, n. 269, art. 7, comma 1, convertito con L. 24 novembre 2003, n. 326, ha introdotto il canone della riferibilità esclusiva alla persona giuridica delle sanzioni amministrative tributarie». È un’affermazione che si staglia: vuoi perché innovativa, non avendo precedenti; vuoi per i toni netti, che sembrano attribuirle una portata generale; vuoi perché non necessaria, vista la soccombenza dell’Agenzia delle entrate sugli altri motivi di ricorso, ma anche l’esclusione della responsabilità della società affermata in entrambi i gradi di giudizio (ove emergeva la responsabilità di altro soggetto). E sin da ora si precisa che essa è nella sostanza condivisibile, anche se destano qualche perplessità la conseguenzialità del ragionamento (ma su ciò si glissa) e, soprattutto, la sua completezza, dal momento che esistono pur sempre sanzioni che si trasmettono nonostante l’estinzione delle società, come quelle dovute dalle società beneficiarie in caso di scissione parziale ex art.15 D.lgs. 18 dicembre 1997, n.472 (4). Essa offre lo spunto non tanto per una riflessione sugli effetti, per altro scontati, dell’estinzione della società sulle sanzioni da essa dovute (in qualche modo anticipata dall’affermazione, appena fatta, di sostanziale condivisibilità della soluzione data dalla sentenza della Cassazione), quanto e più che altro per tentare una ricostruzione unitaria dell’intrasmissibilità ad eredi e successori delle sanzioni, riguardanti sia le persone fisiche sia le persone giuridiche, la quale sia coerente col modello di responsabilità che sta alla base della disciplina delle sanzioni amministrative tributarie.
(3) Tra le quali in via in via meramente esemplificativa si ricordano: 31 gennaio 2017, n.2444; 17 gennaio 2017, n.1009; 30 dicembre 2016, n.27488; 23 novembre 2016, n.23916; 28 settembre 2016, n.19142; 22 luglio 2016, n.15177; 6 luglio 2016, n.13805; 28 giugno 2016, n.13290; 24 maggio 2016, n.10694; 24 dicembre 2015, n.25974; 1 ottobre 2015, n.19611; 27 ottobre 2015, n.21780; 9 ottobre 2015, n.20358; 4 settembre 2015, n.17631; 10 agosto 2015, n.16638; 26 giugno 2015, n.13259; 2 aprile 2015, n.6743; 31 ottobre 2014, n.23141; 8 ottobre 2014, n.21188; 21 gennaio 2014, n.1183; 17 dicembre 2013, n.28187; 6 novembre 2013, n.24955; 20 settembre 2013, n.21517; 18 luglio 2013, n.17564. (4) Cfr. infra ultimo paragrafo.
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A tal fine, visto che l’art.7 DL 269/2003 è privo di un funzionale corredo normativo, occorre mettere a fuoco le disposizioni del D.lgs. 472/1997. Rileva, essenzialmente, la previsione dell’art.8 D.lgs. 472/1997, per cui «l’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi». Ma vi sono anche altre previsioni, ad essa accostabili e rilevanti ai fini del presente ragionamento, che stabiliscono, con varie limitazioni, responsabilità per i debiti da sanzioni in capo a soggetti diversi dagli autori delle violazioni, quali: le persone, le società e gli enti privi di personalità giuridica nell’interesse delle quali (5) la violazione è commessa da dipendenti, rappresentanti, amministratori nell’esercizio delle loro funzioni o incombenze (ex art.11 D.lgs. 472/1997); il cessionario dell’azienda (ex art.14 D.lgs. 472/1997); le società beneficiarie della scissione (ex art.15 D.lgs. 472/1997). E interessa innanzi tutto mettere a fuoco la natura dei debiti da sanzioni. Per arrivare a tanto, di tali previsioni si impone una non facile interpretazione sistematica, che tenga conto: per un verso degli innovativi, rispetto al passato, principi e criteri direttivi contenuti nella delega di cui all’art.3, comma 133, delle legge 23 dicembre 1996, n.662, in attuazione dei quali è stato concepito il D.lgs.472/1997 (6) (sui quali però si innestano pur sempre istituti del passato (7)); per altro verso di incisivi interventi legislativi successivi, tra i
(5) L’art.11, comma 1, si riferisce a «la persona fisica, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione», ma laddove si riferisce all’interesse di altri deve essere letto (quanto meno anche) alla luce della corrispondente previsione della delega, che invece testualmente riferisce di «persona fisica, società o ente, con o senza personalità giuridica, che si giova o sul cui patrimonio si riflettono gli effetti economici della violazione» (cfr. nota successiva). Infatti, le due previsioni (della legge delegata e della legge delega) non sono del tutto sovrapponibili, giacché – come chiarito dalla giurisprudenza (già Cass. 20 dicembre 2005, n.3615) a proposito dell’art.5 del D.lgs. 8 giugno 2001, n.231 (per il quale «l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio») – agire nell’interesse di qualcuno implica una valutazione ex ante, mentre trarre un vantaggio (o ricevere nel patrimonio gli effetti economici della violazione) esprime un apprezzamento ex post. (6) Di essa rileva, quanto alle norme delegate richiamate, la lettera c): « c) previsione di obbligazione solidale a carico della persona fisica, società o ente, con o senza personalità giuridica, che si giova o sul cui patrimonio si riflettono gli effetti economici della violazione anche con riferimento ai casi di cessione di azienda, trasformazione, fusione, scissione di società o enti; possibilità di accertare tale obbligazione anche al verificarsi della morte dell’autore della violazione e indipendentemente dalla previa irrogazione della sanzione». (7) Si pensi alle previsioni di responsabilità solidale, di cui alla legge 7 gennaio 1929, n.4, della «persona rivestita dell’autorità o incaricata della direzione o vigilanza» e degli enti per le violazioni commesse da dipendenti o rappresentanti (ex artt.9, 10 e 12 della stessa) o del «successore a qualsiasi titolo per atto tra vivi in una azienda commerciale o industriale» (ex
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quali l’introduzione della riferibilità esclusiva a società o enti con personalità giuridica delle sanzioni amministrative tributarie ex art.7 DL 269/2003 (8). Il tutto in un contesto, anche internazionale, di sempre maggiore attenzione verso la materia delle sanzioni penali lato sensu intese, tra le quali anche quelle amministrative tributarie (9), e di loro applicazione nei confronti di soggetti diversi dalle persone fisiche (10). Naturalmente non si può procedere che con inevitabile approssimazione e ai fini che in questa sede interessano. 2. Il modello di sanzione voluto dalla riforma degli anni 1996-1997. – L’intrasmissibilità delle sanzioni amministrative tributarie è un corollario della natura penalistica delle stesse e della correlata responsabilità personale, sposate dal legislatore della riforma del 1996-1997. Infatti, nel momento in cui la sanzione ha una funzione eminentemente afflittiva, essa non può che essere riferita all’autore della violazione; e coerentemente devono applicarsi le regole proprie delle sanzioni penali stricto sensu intese, tra le quali, appunto, quella che la morte del reo fa venir meno la punizione, estinguendo l’illecito (art.150 cod. pen.) o la pena (art.171 cod. pen.), a seconda che interviene prima o dopo la condanna. Del resto, non si dubita più dell’esistenza di un diritto sanzionatorio, marcatamente punitivo e dalle caratteristiche comuni, che trascende il diritto penale, inglobando anche altri rami del diritto, quali il diritto amministrativo e, appunto, quello tributario: ciò già nell’applicazione delle
art.19). Ma si ricorda anche l’art.98, comma 5, DPR 602/1973, ove si disponeva che «al pagamento delle soprattasse o delle pene pecuniarie sono obbligati in solido con il soggetto passivo o con il soggetto inadempiente, coloro che ne hanno la rappresentanza». Su interpretazione e applicazione di tali articoli, in una prospettiva di comparazione con la nuova disciplina, cfr.: B. Cellini, Art.11. Responsabili per la sanzione amministrativa, in Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria a cura di Moschetti-Tosi, Padova, 2000, 302 ss.; e, più di recente, F. Picciaredda, Il regime sanzionatorio tributario concernente gli amministratori di società, in Liber Amicorum per Angelo Luminoso, II, Contratto e Mercato, Milano, 2013, 1088 ss, ove anche si guarda – 1095 ss. – alle conseguenze della riforma recata dall’art.7 DL 269/2003. (8) La conversione si è avuta con legge 24 novembre 2003, n.326. (9) Cfr. infra la successiva nota 12. (10) Per una rassegna delle sollecitazioni sovranazionali, europee e non (che poi hanno contribuito all’introduzione della responsabilità da reato degli enti ai sensi del D.lgs. 231/2001, in attuazione della delega contenuta nell’art.11 della legge 29 settembre 2000, n.300), ad una punizione degli enti cfr. G. Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Milano, 2012, 8 s.
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nostre regole costituzionali, e in primis dell’art.25 Cost. (11), ma di recente, soprattutto, in forza del diritto europeo e della CEDU (12).
(11) Per l’esistenza di un ormai sostanzialmente unitario diritto punitivo è sufficiente guardare ai manuali, tra i quali F. Mantovani, Diritto Penale, Parte generale, Padova, 2015, XXXIII, ove appunto si dice: «il diritto penale è solo una parte, anche se la più importante, del più ampio genus del diritto punitivo. Questo comprende non solo le norme soggette a sanzione penale stricto sensu, ma anche il complesso di norme soggette a sanzioni extra-penali aventi carattere punitivo (es.: le pene pecuniarie delle leggi finanziarie o amministrative, la confisca, il ritiro della patente di guida e altre misure interdittive): il diritto penale criminale e il diritto penale amministrativo»; si veda anche 945 ss. Nel senso della riconducibilità della sanzioni tributarie alla riserva di legge ex art. 25, comma 2, Cost. si veda per tutti L. Del Federico, Il principio di legalità, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario diretto da Giovannini, II. Diritto sanzionatorio amministrativo, 2016, 1421 ss. Perplessità, invece, residuano circa l’estensione della funzione rieducativa della pena ex art.27, comma 3, Cost. al di là della materia penale stricto sensu intesa, anche se vanno assumendo, per lo meno in dottrina, un peso importante le letture favorevoli ad una sua applicazione anche agli enti: cfr. M. Riverditi, La responsabilità degli enti: un crocevia tra repressione e specialprevenzione. Circolarità ed innovazione dei modelli sanzionatori, Napoli, 2009, 351 ss. (12) Si ricorda, in particolare, la nozione ampia di sanzione penale data dalla costante giurisprudenza della Corte di Giustizia e, soprattutto, della Corte EDU: è emerso, infatti, un approccio sostanzialistico alla materia penale, che ne ha dilatato i confini, ritenendosi penale ogni misura che, a prescindere dalla denominazione, risulti in concreto afflittiva e risponda ad uno dei cc.dd. criteri Engel (così denominati dall’omonima parte della sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel c. Paesi Bassi), più volte ribaditi (cfr. da ultimo le sentenze: 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia in Rass. Trib. 2014, 1155, con nota di A. Giovannini, Il ne bis in idem per la Corte Edu e il sistema sanzionatorio tributario domestico, ivi, 1164 ss.; 27 dicembre 2014, Lucky Dev. contro Svezia in Rass. Trib. 2015, 253, con nota di G. D’Angelo, Ne bis in idem e sanzioni tributarie: precisazioni della Corte EDU, ivi, 270 ss.), fino alla recente sentenza della Grande Camera del 15 novembre 2016, A. e B. c. Norvegia, che così li sintetizza: «the legal classification of the offence under national law; the nature of the offence; and the degree of severity of the penalty that the person concerned risked incurring». Le Corti interne “subiscono” questa lettura ampia della sanzione penale (cfr. ad esempio C. Cost. 21 luglio 2016, n. 200 sull’art.649 cod. proc. pen.), ma non mancano resistenze nell’applicare poi coerentemente i principi propri del diritto penale, tra i quali quello della retroattività della lex mitior escluso, ad esempio, dalla sentenza 20 luglio 2016, n.193, della Corte Costituzionale per le sanzioni amministrative (per una lettura critica cfr. D. Bianchi, Resta la frattura categoriale: il principio di retroattività in mitius non penetra nel diritto punitivo amministrativo, in Dir. Pen. e Proc. 2017, 316 ss.). Il fine perseguito dalle ricordate pronunce della Corte EDU è quello di evitare il cd. bis in idem, di cui all’art.4 del protocollo 7 della CEDU e all’art.50 CDFUE; sull’argomento è attesa la pronuncia della Corte di Giustizia, cui la Corte di Cassazione ha formulato rinvio pregiudiziale in relazione all’art.50 CDFUE (cfr. ord.15 novembre 2016, n.23232), che in forza dell’art.52, comma 3, della stessa Carta non può accordare una protezione inferiore a quella della Convenzione (ma la Corte di Giustizia ha chiarito che non vi è violazione del ne bis in idem se, sia pure per lo stesso fatto, la sanzione penale è inflitta alla persona fisica, mentre la sanzione
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La scelta più significativa (e di rottura col passato) del legislatore della riforma della fine degli anni ‘90 è stata quella dell’introduzione della personalità della sanzione, in uno con la concezione penalistica delle violazioni (evidente in tutta una serie di caratteristiche, tra le quali l’imputabilità, la colpevolezza, l’intrasmissibilità della sanzione agli eredi, il rilievo della condotta e della personalità dell’agente, come anche delle sue condizioni economiche e sociali, ai fini delle determinazione della sanzione), e sul modello di quanto già accaduto nel diritto amministrativo con la legge 24 novembre 1981, n.689. Tuttavia, nel momento in cui si è declinata la funzione (punitiva e) disincentivante della sanzione, parametrandola al vantaggio che si ricava dalla violazione, si è avvertita l’esigenza – da parte del legislatore delegato più che dal delegante (13) – che la sanzione ridondi anche a carico di chi trae vantaggio dalla violazione, se diverso dal suo autore (14). Ne è risultato un non sempre ragionevole connubio, che privilegiando la riferibilità della sanzione alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione, introduce delle responsabilità solidali, di tipo civi-
amministrativa è inflitta alla società dotata di personalità giuridica: cfr., di recente, la sentenza 5 aprile 2017, cause riunite C-217/15 e C-350/15). Tra i contributi della dottrina sull’argomento, oltre a quelli citati in precedenza, si segnalano in ambito tributario: P. Russo, Il principio di specialità ed il divieto del bis in idem alla luce del diritto comunitario, in AA. VV. Fisco e reato. Atti delle “Giornate di Studi”, Pisa, 2016, 201 ss.; A. Giovannini, Il principio del ne bis in idem sostanziale, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario diretto da Giovannini, 2016, II, Diritto penale e processuale, 1265 ss.; O. Mazza, L’insostenibile convivenza fra il ne bis in idem europeo e il doppio binario sanzionatorio per i reati tributari, in Rass. Trib. 2015, 1033 ss. Più in generale sull’influenza della CEDU e del diritto UE in materia tributaria si vedano, ad esempio e di recente: F. Amatucci, Il sistema delle sanzioni amministrative tributarie secondo il diritto UE e il diritto internazionale, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario diretto da Giovannini, 2016, II. Diritto sanzionatorio amministrativo, 1367 ss.; F. Bilancia-C. Califano-L. Del Federico-G. Puoti (a cura di), Convenzione europea dei diritti dell’uomo e giustizia tributaria, Torino, 2014. (13) Si ricorda, infatti, che: a fronte delle due opzioni date dalla legge delega «adozione di un’unica specie di sanzione pecuniaria amministrativa … determinata in misura variabile fra un limite minimo e un limite massimo ovvero in misura proporzionale al tributo cui si riferisce la violazione» (ex art.1, comma 133, lett.a), legge 662/1996), è stato il legislatore delegato a scegliere di commisurare di regola la sanzione al tributo dovuto; per la legge delega era sufficiente la previsione di un’obbligazione solidale a carico del soggetto «che si giova o sul cui patrimonio si riflettono gli effetti economici della violazione» (cfr. art.1, comma 133, lett.c), delle stessa legge: supra nota 6), anche se si indica al legislatore delegato «la possibilità di accertare tale obbligazione anche al verificarsi della morte dell’autore della violazione e indipendentemente dalla previa irrogazione della sanzione». (14) Cfr. supra nota 6.
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listico, sul modello di altre previsioni sanzionatorie (quali quelle ex artt.196 e 197 cod. pen. o 6 della legge 689/1981 (15)) o di quanto già previsto nell’ordinamento tributario (16): a carico di persone, società ed enti nell’interesse delle quali la violazione (che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo) è commessa da dipendenti, rappresentanti, amministratori nell’esercizio delle rispettive funzioni o incombenze; come anche a carico del cessionario dell’azienda (per il pagamento delle sanzioni riferibili alle violazioni commesse nell’anno in cui è avvenuta la cessione e nei due precedenti, nonché per quelle già irrogate e contestate nel medesimo periodo anche se riferite a violazioni commesse in epoca anteriore) e delle società beneficiarie della scissione (per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto). Si tratta di responsabilità che sono comunemente ricostruite nei termini della solidarietà dipendente, come peraltro confermano alcune scelte lessicali (17). Il che, però, se non desta problemi per il cessionario d’azienda e per le beneficiarie della scissione (18), vale fino ad un certo punto per le violazioni commesse da dipendenti, rappresentanti, amministratori nell’esercizio delle rispettive funzioni o incombenze, giacché la persona fisica, la società o l’ente, nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione, rispondono anche in via esclusiva, in tutto o in parte, della sanzione: laddove muoia l’autore della violazione (19); ma anche, e soprattutto, per la parte eccedente i vecchi cento milioni di lire (oggi cinquantamila euro), se la
(15) Appunto, tali previsioni sono richiamate a proposito dell’art.11 D.lgs. 472/1997 già dalla circolare ministeriale 10 luglio 1998, n.180. (16) Cfr. supra nota 7. (17) Si pensi ai riferimenti testuali, innanzi tutto, alla solidarietà, ma anche al regresso, al «pagamento di una somma pari alla sanzione», alle limitazioni di responsabilità. (18) Si vedano ad esempio: L. Del Federico, Art.14, Cessione di azienda, in Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria a cura di Moschetti-Tosi, Padova, 2000, 475 ss.; Id., Art.15, Trasformazione, fusione e scissione di società, in Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria a cura di Moschetti-Tosi, Padova, 2000, 489 ss. (19) A tale previsione (contemplata dall’art.11, ultimo comma, D.lgs. 472/1997) si riconduce in via interpretativa anche l’ipotesi in cui non venga identificato l’autore della violazione, con conseguente sanzionabilità del soggetto che si giova o sul cui patrimonio si riflettono gli effetti economici della violazione, piuttosto che non applicare affatto la sanzione: cfr. L. Del Federico, Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie: i principi sostanziali del D.lgs. n.472/1997, in Riv. Dir. Trib. 1999, I, 141. Ciò, però, può essere solo parzialmente condiviso, se e nella misura in cui non si pervenga per questa via ad un’imputabilità soggettivamente alternativa (e meno che mai orientabile) della sanzione, decisamente estranea alla legge.
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violazione non è commessa con dolo o colpa grave, anche perché della colpa grave si dà una singolare definizione restrittiva (20). E per questa via si dovrebbero in buona parte evitare gli effetti distorsivi della parametrazione della sanzione al tributo evaso, evidenti ogni qualvolta l’autore della violazione sia diverso dal contribuente che di essa si giova (21). Viene così in essere una responsabilità sui generis, definita anche corresponsabilità, di tali soggetti (22), forse poco armonizzata dal legislatore, e per l’appunto criticata, che, comunque, laddove diventa esclusiva si deve giustificare pur sempre alla luce dei principi ispiratori della riforma, i quali danno rilievo esclusivamente alla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione: la condotta di quest’ultima diventa riferibile ad un soggetto diverso in virtù di un rapporto di immedesimazione (organica, funzionale) in quest’ultimo, alla stregua, del resto, di quanto avviene, ad esempio, per la responsabilità amministrativa da reato degli enti ex D.lgs. 231/2001 (ma veniva già sostenuto nel diritto tributario prima della riforma (23)) (24).
(20) In proposito si vedano ad esempio le considerazioni critiche di: G. Falsitta, Confusione concettuale e incoerenza sistematica nella recente riforma delle sanzioni tributarie non penali, in Riv. Dir. Trib. 1998, I, 482 s.; L. Del Federico, Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie: i principi sostanziali del D.lgs. n.472/1997, in Riv. Dir. Trib. 1999, I, 141. La limitazione di responsabilità è prevista dall’art.11, comma 1, D.lgs. 472/1997, come riscritto dall’art. 16, comma 1, lett. d), n. 1), D.lgs. 24 settembre 2015, n. 158; in precedenza analoga disciplina era data dal combinato disposto dei previgenti artt.5, comma 2, e 11, commi 1 e 5, D.lgs.472/1997. (21) In verità, la soluzione messa in campo dal legislatore, di conciliazione della personalità della sanzione con la sua parametrazione al tributo evaso, ha attirato sin da subito critiche da parte della dottrina. Ex primis e per tutti si veda R. Lupi, Prime osservazioni sul nuovo sistema delle sanzioni amministrative tributarie, in Rass. Trib. 1998, p329 ss. e 347 ss. (22) La natura sui generis della responsabilità ex art.11 è evidenziata sin dai primi commenti; si vedano ad esempio: L. Del Federico, Introduzione alla riforma delle sanzioni amministrative tributarie, cit., 137 ss.; B. Cellini, Art.11. Responsabili per la sanzione amministrativa, cit., 374 s. (23) Si fa riferimento alle posizioni emerse (ma da contestualizzare, pur sempre, nel dibattito di allora circa la natura della responsabilità) dopo la svolta impressa nell’interpretazione dell’art.12 della legge 4/1929 – nel senso di ascrivere la responsabilità solidale dell’ente alle sole ipotesi in cui una norma espressamente ponga l’adempimento tributario a carico del suo rappresentante legale o del suo dipendente, operando diversamente la responsabilità esclusiva dell’ente – dalla Cassazione con la sentenza 22 luglio 1976, n.2903 (ma di poi numerose sentenze), di cui riferisce L. Del Federico, Le sanzioni amministrative nel diritto tributario, cit., 319 ss., ove anche – a partire da 315 ss. – si analizza l’evoluzione delle posizioni della Cassazione sul punto. (24) Sulla riferibilità alla società della condotta (anche penalmente) illecita dall’amministratore, in forza del rapporto organico che lo lega alla prima, come anche delle situazioni soggettive di dolo o colpa, si vedano le interessanti argomentazioni svolte, in tempi non sospet-
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Si è in presenza, comunque, di un modello unico di responsabilità, fortemente voluto dalla legge delega, che è tarato sulla persona fisica che ha commesso o concorso a commettere la violazione, a fronte del quale è possibile punire anche soggetti diversi: in via normale, appunto, si punisce la persona fisica autrice della violazione; in via ulteriore, ma al verificarsi di precise condizioni, la persona fisica, la società o l’ente, che si giova o sul cui patrimonio si riflettono gli effetti economici della violazione. 3. (Segue): l’innesto della responsabilità esclusiva di società di capitali e persone giuridiche avvenuto nel 2003. – Sul riferito disegno legislativo è intervenuto il legislatore del 2003, il quale ha previsto all’art.7, comma 1, DL 269/2003 che «le sanzioni amministrative relative al rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica sono esclusivamente a carico della persona giuridica» (ma qualche mese addietro la delega per il mai realizzato codice tributario aveva fissato al Governo, con formula poco felice, il principio che «la sanzione fiscale amministrativa si concentra sul soggetto che ha tratto effettivo beneficio dalla violazione» (25)). Il che, però, non rappresenta un abbandono del principio di personalità e un sostanziale ritorno al passato, come pure si dice (26), giacché non muta la disciplina di riferimento, il D.lgs. 472/1997, che appunto, al comma 3 dell’art.7 cit., viene espressamente richiamato, sia pure in quanto compatibile (27).
ti, da F. Bricola, Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione del fenomeno societario, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. 1970, I, 951 ss. Sul che, ormai abbastanza pacifico, si vedano per tutti, anche per i riferimenti: G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, Milano, 2008, 40 ss.; G. Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, cit., 8 s. (25) Così l’art.2, lett. l), della legge 7 aprile 2003, n.80. La circ. dell’Agenzia delle entrate 21 giugno 2004, n.28, riferisce che l’art.7 Dl 269/2003 abbia dato parziale attuazione a tale previsione. (26) Emblematica è la considerazione fatta sulla riforma del 2003 dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n.28 del 21 giugno 2004, ove si dice che «il criterio della personalizzazione della sanzione tributaria, tuttavia, non è stato del tutto abbandonato, posto che le novità apportate dal decreto non si estendono alla generalità delle sanzioni, ma solo a quelle relative al “rapporto fiscale proprio di società o enti con personalità giuridica”». Nella stessa direzione, di un sostanziale ritorno al passato, sia pure con diversità di posizioni, anche i primi commenti, tra i quali: L. Murciano, La “nuova” responsabilità amministrativa tributaria delle società e degli enti dotati di personalità giuridica: l’art.7 del d.l. n.269/2003, cit., 657 ss. (anche se, a 669 ss., si suggerisce un’altra opzione interpretativa); G. Marongiu, Le sanzioni amministrative tributarie: dall’unità al doppio binario, cit., 403 ss. (27) Il comma 3 dell’art.7 cit. appunto recita: «Nei casi di cui al presente articolo le dispo-
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Piuttosto, si impone una diversa declinazione del principio di personalità, non soltanto in relazione alle persone fisiche ma anche con riferimento agli enti, dovendosi riferire a questi ultimi anche i comportamenti illeciti, finanche nella componente soggettiva (del dolo e della colpa); la quale, poi, in difetto di contrarie statuizioni legislative (come quelle relative alla colpevolezza delle persone giuridiche, di cui al D.lgs. 231/2001), non può che essere quella delle persone fisiche, che vogliono ed agiscono per conto dell’ente. Del resto, non è più in discussione la capacità penale delle persone giuridiche (e l’esistenza dei ccdd. corporate crimes): così pacificamente nel diritto europeo e, significativamente, nel nostro ordinamento con l’introduzione della responsabilità degli enti per gli illeciti dipendenti da reato (28). In definitiva, nel diritto tributario per le persone giuridiche si è generalizzata quella responsabilità già presente, sia pure a determinate condizioni, nella disciplina delle sanzioni per i beneficiari delle violazioni diversi dall’autore materiale. E la difficoltà dell’interprete, chiamato ad effettuare la valutazione di compatibilità di cui al comma 3 dell’art.7 cit., sta nell’adeguare (e non certo nel non riferire) all’ente le previsioni normative relative alla “componente soggettiva” dell’illecito, in difetto di qualsivoglia indicazione legislativa,. 4. L’intrasmissibilità delle sanzioni delle persone fisiche e delle persone giuridiche. – Naturalmente il sistema che si è tracciato non è scevro di incoerenze (risalta, in particolare, l’irresponsabilità della persona fisica autrice dell’illecito che ridondi a carico della persona giuridica, decisamente distonica e finanche “pericolosa”, laddove l’ente non abbia di che rispondere), sulle quali non si può indugiare. Interessava in questa sede delineare, come per le sanzioni tributarie sia stato scelto (nel 1996-1997) e confermato (nel
sizioni del decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472, si applicano in quanto compatibili». (28) Di recente, si vedano: R. Cordeiro Guerra, Il principio di personalità, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario diretto da Giovannini, 2016, II. Diritto sanzionatorio amministrativo, 1457; A. Giovannini, Per una riforma del sistema sanzionatorio amministrativo, in Trattato di diritto sanzionatorio tributario diretto da Giovannini, 2016, II. Diritto sanzionatorio amministrativo, 1386 ss. Sulle ragioni della responsabilità penale delle persone giuridiche si veda per tutti G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., 17 ss., ove, poi, si conclude che «la persona giuridica non soltanto puniri potest, ma addirittura melius quam homo puniri potest» (così a 54); ivi anche, nella stessa direzione, riferimenti di diritto comparato e al diritto dell’Unione Europea (69 ss.). Anche se di grande interesse si rivela già F. Bricola, Il costo del principio «societas delinquere non potest» nell’attuale dimensione del fenomeno societario, cit., 951 ss., ove anche numerosi riscontri di diritto comparato (962 ss.).
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2003) un modello di responsabilità basato su un criterio di personalità, che dà rilievo esclusivo alla persona che ha commesso o concorso a commettere la violazione, ma che in taluni casi, e sicuramente per le persone giuridiche, riferisce la (sanzione e la) violazione al soggetto che beneficia di essa, in nome (e nell’interesse) del quale l’autore materiale agisce (per il cui tramite, cioè, anche la persona giuridica diventa autrice della violazione). Ciò a differenza del modello di responsabilità prescelto dal D.lgs. 231/2001, che, pure basato su un criterio di personalità, individua un’autonoma colpevolezza dell’ente (la cd. colpa da organizzazione, come diversamente configurata dagli artt.6 e 7 del D.lgs. 231/2001 (29)), che però è spiegabile per la persistenza della responsabilità della persona fisica autrice dell’illecito e per la sua diversa sanzionabilità (30). Corollario della natura personale della responsabilità per violazioni tributarie è la sua intrasmissibilità a soggetti diversi dai trasgressori. Sennonché il legislatore prende in esame solo un spicchio di tale corollario, giacché si riferisce chiaramente solo alle persone fisiche e peraltro in maniera incompleta: l’art.8 D.lgs.472/1997, infatti, enuncia la regola dell’intrasmissibilità della sanzione agli eredi, a differenza di quanto recita più compiutamente il codice penale che prende in esame anche la possibilità che la morte intervenga prima dell’applicazione della pena; ma il vuoto è di facile riempimento, giacché, alla stregua della disciplina codicistica, deve più correttamente dirsi che la morte estingue l’illecito, impendendo non soltanto la trasmissione della sanzione, ma anche l’irrogazione della stessa, se interviene prima di tale momento, tranne che nelle ipotesi speciali di corresponsabilità ex art.11 D.lgs. 472/1997, di cui si è detto e nei limiti in cui si è detto. Rimane, invece, scoperto il problema dell’estinzione della società o dell’ente responsabile o corresponsabile della sanzione. In verità, il problema non esisteva all’epoca della riforma delle sanzioni, dal momento che per il
(29) Cfr. per tutti G. Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, cit., 51 ss. (30) In dottrina, appunto si sottolinea come i criteri di determinazione della colpevolezza dell’ente previsti dal D.lgs.231/2001 sarebbero difficilmente riferibili alle sanzioni tributarie e poco proficui: cfr. per tutti A. Giovannini, Persona giuridica e sanzione tributaria: idee per una riforma, in Rass. Trib. 2013, 533 s. (ove icasticamente si dice che «i complicati marchingegni che essi sottendono si manifesterebbero, dal nostro punto di vista, senz’altro un fuor d’opera», si «rischierebbe di caricare il nostro sistema solo di legna verde, buona solamente per inceppare il camino»).
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diritto all’epoca vivente le società erano condannate ad una sostanziale immortalità, estinguendosi, ancorché cancellate dal registro delle imprese, con la definizione dell’ultimo dei rapporti giuridici pendenti (31). Analoghe considerazioni possono farsi per la successiva introduzione della responsabilità degli enti per gli illeciti dipendenti da reato, avvenuta nel 2001. Diversamente dovrebbe dirsi per l’art.7 DL 269/2003, che è successivo, sia pure di mesi, alla riformulazione dell’art.2495 cod. civ., la quale ha attribuito valenza costitutiva dell’estinzione della società alla sua cancellazione dal registro delle imprese; ma è verosimile che il significato di tale novella non fosse stato più di tanto metabolizzato: vuoi perché l’art.7 attua in qualche modo una delega precedente che, avendo avuto una sua gestazione parlamentare, origina prima della riforma del diritto societario, che modifica l’art.2495 cod. civ.; vuoi perché esso esprime un intervento veloce, quasi estemporaneo, come conferma la sedes del decreto legge, per di più omnibus; vuoi perché l’affermazione della valenza costitutiva della cancellazione passa per un lungo travaglio giurisprudenziale che vede i suoi primi approdi certi nel 2010 (32). In ogni caso, e forse a conferma di quanto si è detto, l’art.7 cit. manca del tutto di un funzionale corredo normativo. Sicché, può dirsi che il problema dell’eventuale trasmissione della responsabilità per gli illeciti tributari di società di capitali e persone giuridiche è sopravvenuto alla genesi dei testi normativi di riferimento. In difetto di alcuna indicazione normativa, neppure aggiunta in occasione delle diverse rivisitazioni degli stessi testi, la soluzione al problema non può che essere tratta dal sistema. E non si vedono ragioni per discostarsi dalla soluzione data per le persone fisiche dall’art.8 del D.lgs.472/1997, di cui si è detto in precedenza. A tal fine rileva innanzi tutto il modello di responsabilità personale che è stato scelto dal legislatore, al quale l’art.7, comma 3, DL 269/2003 attinge; e, come si è detto, la personalità va ormai riferita anche alle persone giuridiche, che così diventano autrici di illeciti in linea con un trend sovranazionale e nazionale che ha consolidato ormai la consapevolezza che societas delinquere et puniri potest, anzi per dirla con attenta dottrina che «melius quam homo puniri potest» (33). Peraltro, la punizione di società ed enti, (insieme o) in
(31) Cfr. supra paragrafo 1, nota 2. (32) Cfr. supra paragrafo 1, nota 2. (33) La frase è tratta da G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., 54, ove si espongono, a 17 ss., 31 ss., le ragioni, ampiamente condivise, della responsabilità delle persone giuridiche.
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luogo delle persone fisiche autrici materiali degli illeciti, era già presente, sia pure a certe condizioni, nel sistema sanzionatorio esistente: in forza dell’art.11 D.lgs.472/1997, che, a seguito dell’art.7 DL 269/2003, non è più riferibile a società di capitali e persone giuridiche. Ancora, l’art.7, comma 3, DL 269/2003 richiama, sia pure con il filtro della compatibilità, il D.lgs. 472/1997, tra le cui previsioni vi è anche l’art.8, per il quale «l’obbligazione al pagamento della sanzione non si trasmette agli eredi». Esso è formulato con riferimento alle persone fisiche, ma non avrebbe potuto essere diversamente, visto che per il diritto dell’epoca le società erano sostanzialmente immortali; e solo con la riforma del diritto societario del 2003, come metabolizzato dalla giurisprudenza, significativamente nel 2010 e nel 2013, si ammette che le società possano estinguersi (per effetto della cancellazione dal registro delle imprese) anche in presenza di “pendenze”, le quali, al pari di quanto accade per le persone fisiche, cadono in successione universale. Sicché, l’art.8 soggiace ad un’inevitabile interpretazione evolutiva, dovendo opportunamente essere riferito anche a società ed enti, non soltanto corresponsabili, ma anche responsabili degli illeciti tributari. Non va trascurato, poi, che ai fini dell’intrasmissibilità della sanzione irrogata alla società, e più in generale della sua responsabilità per violazioni tributarie, rileva anche il principio fondamentale di cui all’art.27, comma 1, Cost., per il quale «la responsabilità penale è personale», che, ove si propendesse per una soluzione diversa, risulterebbe inevitabilmente leso nel suo contenuto minimo, di divieto di punizione per un fatto altrui. Né vale richiamare le letture restrittive, ormai decisamente soccombenti, che riferiscono la previsione costituzionale alle sole persone fisiche (34); e, piuttosto, in siffatta previsione si può rinvenire la giustificazione costituzionale della scelta del modello di responsabilità alla base delle sanzioni tributarie (e della conseguente disciplina), come anche un argomento ulteriore a favore dell’approdo, appena riferito, dell’interpretazione evolutiva dell’art.8 D.lgs. 472/1997. In definitiva, anche per società di capitali e persone giuridiche coinvolte in violazioni tributarie vale la regola dell’intrasmissibilità della loro responsabilità, nel senso che il venir meno dell’ente comporta l’estinzione dell’illecito, impendendo non soltanto la trasmissione della sanzione, ma anche l’irrogazione della stessa, se interviene prima di tale momento (a differenza delle vio-
(34) Si è detto in precedenza della tendenza a riferire al di là della materia penale stricto sensu intesa anche la funzione rieducativa della pena ex art.27, comma 3, Cost.: cfr. supra nota 11.
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lazioni delle persone fisiche non sono previste ipotesi speciali di corresponsabilità); e l’art.8 D.lgs. 472/1997 deve essere riletto opportunamente in chiave estensiva quale enunciazione della regola dell’intrasmissibilità della sanzione ad eredi e successori. Analoga conclusione può trarsi per le sanzioni che restano a carico esclusivo delle società di persone, le quali pure si estinguono (rectius si presumono estinte) con la cancellazione dal registro delle imprese (35); anche se di tali società persistono gli obblighi solidali di pagamento delle sanzioni, che avendo natura civilistica devono ritenersi trasmissibili ai soci: così per la sanzione o per la parte della sanzione (entro i cinquantamila euro) per cui la società ha il regresso nei confronti del dipendente, del rappresentante o dell’amministratore (ex art.11 D.lgs.472/1997), come anche per le sanzioni dovute dalla società cessionaria di azienda (ex art.14 D.lgs.472/1997). La conclusione cui si è pervenuti non sembra avere, al momento e de iure condito, plausibili alternative, anche se non consta di particolari riscontri. In dottrina si è sostenuta ora la trasmissibilità del debito da sanzione, alla stregua di quello d’imposta (36), ora la sua intrasmissibilità, movendo dalla connotazione penalistica della sanzione e da un’interpretazione evolutivo-conseguenziale dell’art.8 D.lgs. 472/1997 (37). Ma è parecchio significativo il fatto che, di recente e alla prima occasione utile, la Corte Suprema abbia sposato decisamente la seconda posizione, concludendo che «la regola è principio di
(35) Nonostante l’art.2495 cod. civ. si riferisca alle società di capitali, la giurisprudenza di legittimità estende la portata della regola ad esso sottesa anche alle società di persone, la cui cancellazione, pertanto, dal registro delle imprese determina l’estinzione delle stesse, rectius ne fa presumere l’estinzione: in difetto di un esplicita previsione legislativa – presente, invece, per la cancellazione delle società di capitali ex art.2495 cod. civ. – rimane ferma la valenza dichiarativa della pubblicità nel registro delle imprese e con la cancellazione di tali società opera una presunzione iuris tantum di estinzione. In tal senso si rileggono coerentemente le previsioni di cui agli artt.2312 e 2324 cod. civ., circa la cancellazione delle stesse società e le responsabilità conseguenti dei soci, non toccate dalla riforma del diritto societario del 2003: si vedano in particolare le sentenze 4060, 4061 e 4062 del 2010, richiamate supra nella nota 2. (36) Questa sembra la prospettiva da cui muove A. Giovannini, Persona giuridica e sanzione tributaria: idee per una riforma, cit., 511, ove si legge la responsabilità ex art.7 DL 269/2003 alla stregua di quella ex art.11 D.lgs.472/1997, come «una speciale obbligazione di stampo civilistico, ovvero e più propriamente una speciale forma di espromissione, che, tolta alla disponibilità negoziale delle parti, il legislatore avrebbe preordinato in tutti i suoi elementi e quoad ad effectum»; anche se la conclusione di trasmissione della sanzione (535 ss.) è intrisa di valutazioni de iure condendo, finalizzate a mettere in discussione la personalità della pena e, finanche, la personalità giuridica collettiva. (37) Cfr. A. Guidara, Sull’asserita agonia fiscale delle società di capitali estinte, in Riv. Dir. Trib. 2015, I, 401 s.
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ordine generale, che definisce la fattispecie astratta sanzionatoria e che, in conseguenza, va applicata anche d’ufficio» (38) (39). 5. La “trasmissione” delle sanzioni nella scissione di società. – Infine, la conclusione cui si è pervenuti deve essere verificata con riferimento all’ipotesi, decisamente particolare, della scissione di società. Infatti, come è noto, laddove è totale, la scissione origina una successione universale, giacché le società derivanti dalla scissione subentrano in universum ius alla scissa, che appunto (viene cancellata dal registro delle imprese e) si estingue (40). In proposito, l’art.15, comma 2, D.lgs. 472/1997 stabilisce che «nei casi di scissione anche parziale di società od enti, ciascuna società od ente è obbligato in solido al pagamento delle somme dovute per violazioni commesse anteriormente alla data dalla quale la scissione produce effetto». Il che nelle ipotesi di scissione
(38) Il riferimento è ovviamente a Cass. 9094/2017, da cui prende le mosse il ragionamento qui condotto. La soluzione della Corte è in linea con la più volte affermata intrasmissibilità delle sanzioni, sia pure irrogate alle persone fisiche, aventi carattere afflittivo, quali quelle amministrative e tributarie, a differenza della normale trasmissibilità delle sanzioni civili (cfr. ad esempio Cass. 6 giugno 2014, n.12754). (39) Non incide su tale conclusione il disposto del comma 4 dell’art.28 D.lgs. 175/2014, per il quale: «Ai soli fini della validità e dell’efficacia degli atti di liquidazione, accertamento, contenzioso e riscossione dei tributi e contributi, sanzioni e interessi, l’estinzione della società di cui all’articolo 2495 del codice civile ha effetto trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese». Infatti, per quanto l’esegesi di esso non sia facile, l’interpretazione avanzata e preferibile (cfr. A. Guidara, Sull’asserita agonia fiscale delle società di capitali estinte: una (diversa) interpretazione dell’intervento legislativo di fine 2014, cit., 383 ss.) è nel senso che esso consente soltanto la notifica degli atti di accertamento, riscossione e sanzionatori alla società estinta. Il che per gli atti sanzionatori diventa un non senso (visto che l’illecito della società si estingue), tranne che per i debiti da sanzioni, cui le società sono tenute in solido (aventi, appunto, natura civilistica), per i quali la notifica dei provvedimenti sanzionatori presso la società estinta produce effetti nei confronti dei soci, cui tali debiti si trasferiscono. Ma se anche si leggesse l’art.28, comma 4, cit. nel senso che le società estinte rimarrebbero in vita limitatamente ai rapporti con il fisco, il problema dell’eventuale trasmissibilità delle sanzioni sarebbe soltanto differito nel tempo giacché l’estinzione della società avrebbe effetto «trascorsi cinque anni dalla richiesta di cancellazione del Registro delle imprese». Tra gli ultimi contributi, critici, sull’art.28, comma 4, cit., si vedano, anche per i riferimenti: G. Girelli, La sorte dei crediti fiscali dopo la cancellazione della società: molto rumore per nulla, in Riv. Dir. Trib. 2017, I, 27 ss.; F. Pepe, Le implicazioni fiscali della morte (e resurrezione?) delle società cancellate dal registro delle imprese, in Riv. Dir. Trib. 2016, I, 39 ss. (40) Cfr., ad esempio: D. Dalfino, “Venir meno” della società e processi pendenti, in Le società 2014, 1229 s.; C. Consolo, Spiegazioni di diritto processuale civile, II, Profili generali, Torino, 2015, 126 ss.
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totale sembra avvalorare la tesi della trasmissione delle sanzioni, per lo meno nei confronti di una società beneficiaria, giacché la società scissa viene meno; mentre, nel caso di scissione parziale non si ha alcuna trasmissione, giacché la scissa autrice della violazione persiste in vita, e la responsabilità della/e società beneficiaria/e della scissione resta di tipo solidale. In verità, in prima battuta si potrebbe pensare che tale previsione sia stata implicitamente abrogata dalla sopravvenienza dell’art.7 DL 269/2003, rilevandosi: che la responsabilità della società considerata dall’art.15, comma 2, D.lgs. 472/1997 (all’epoca in cui è stato scritto) era di tipo civilistico, per i debiti da sanzione di cui la società era obbligata in solido (ex artt.5, comma 2, e 11, commi 1 e 5, D.lgs.472/1997 ratione temporis vigenti, confluiti a partire dal 2015 nell’attuale art.11, comma 1, D.lgs.472/1997); che l’articolo 15 cit. dalla sua genesi non è stato mai modificato. Tale soluzione, però, è da escludere dal momento che tra le responsabilità della scissa che si trasmettevano alle società beneficiare della scissione si includevano anche quelle esclusive della società ex art.11 (41), ossia quelle per le violazioni (che abbiano inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo) di cui rispondeva anche la società (commesse da dipendenti, rappresentanti, amministratori nell’esercizio delle rispettive funzioni o incombenze) (42), ma che rimanevano a carico esclusivo della stessa per la morte dell’autore della violazione, ma anche, e soprattutto, per la parte eccedente i vecchi cento milioni di lire (oggi cinquantamila euro), se la violazione non era commessa con dolo o colpa grave. Sicché, riferendosi già alle sanzioni esclusive delle società, l’art.15, comma 2, D.lgs. 472/1997, interpretato evolutivamente, si presta ad essere riferito coerentemente alle sanzioni di cui, ai
(41) In tal senso già L. Del Federico, Art.15, Trasformazione, fusione e scissione di società, cit., 489 s. (similiter Id., Art.14, Cessione di azienda, in Commentario alle disposizioni generali sulle sanzioni amministrative in materia tributaria, cit., 475 ss.). (42) Si riporta il previgente art.11, comma 1, D.lgs. 472/1997, prima che venisse riscritto dall’art. 16, comma 1, lett. d), n. 1), D.lgs. 24 settembre 2015, n.158: «Nei casi in cui una violazione che abbia inciso sulla determinazione o sul pagamento del tributo è commessa dal dipendente o dal rappresentante legale o negoziale di una persona fisica nell’adempimento del suo ufficio o del suo mandato ovvero dal dipendente o dal rappresentante o dall’amministratore, anche di fatto, di società, associazione od ente, con o senza personalità giuridica, nell’esercizio delle sue funzioni o incombenze, la persona fisica, la società, l’associazione o l’ente nell’interesse dei quali ha agito l’autore della violazione sono obbligati solidalmente al pagamento di una somma pari alla sanzione irrogata, salvo il diritto di regresso secondo le disposizioni vigenti»
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sensi dell’art.7 DL 269/2003, rispondono soltanto le società di capitali: tant’è che nelle applicazioni giurisprudenziali non si dubita di ciò (43). Ne consegue che, laddove la scissa viene meno, si realizza una trasmissione della responsabilità e della sanzione in capo alle società che ad essa succedono: il che sarebbe in deroga a quanto si è sostenuto finora e in primis al principio di personalità della responsabilità, che sta alla base della disciplina delle sanzioni tributarie (44). Sennonché, la deroga avviene solo sul piano formale, giacché: se è vero che la scissa viene meno, essa continua pur sempre nella sua identità economica per il tramite del ramo di azienda che viene attribuito alla beneficiaria; il trait d’union tra violazione e (nuova) società è dato dal beneficio che quest’ultima trae dalla violazione, che ridonda pur sempre sull’azienda o sul ramo d’azienda. Sicché e in definitiva, prevedendosi la responsabilità delle beneficiarie in caso di scissione totale, si continua nella sostanza a punire la stessa individualità, che ha beneficiato della violazione (per il tramite dell’azienda o del ramo d’azienda), attribuendo alle altre beneficiare una responsabilità di tipo solidale. E non si realizza affatto una deroga al principio di personalità della responsabilità, dovendosi piuttosto intendere la personalità con riferimento alle persone giuridiche in un’accezione più ampia, di “identità economica” del soggetto.
(43) Si pensi alle diverse pronunce della Corte di cassazione (quali n.24207 del 29 novembre 2016, nn.23342 e 23343 del 16 novembre 2016, n.9594 dell’11 maggio 2016, nn.13059 e 13061 del 24 giugno 2015), che trattano le sanzioni alla stregua dei tributi dovuti dalla scissa ex art.173 TUIR, arrivando a postulare una responsabilità illimitata delle beneficiarie, anche per le sanzioni, in deroga alla regola civilistica ex art.2506 quater, comma 3, cod. civ. che limita la responsabilità di ciascuna scissa al valore effettivo del patrimonio netto ad essa assegnato (in argomento cfr. M. Palmeri, Alla Consulta la questione di legittimità sull’illimitata responsabilità tributaria delle società nella scissione parziale, cit., 952 ss.). (44) L’ipotesi della scissione totale è decisamente particolare e non può certo essere accostata a quella della scissione parziale, di cui si è detto; come anche non può essere accostata all’ipotesi di fusione di società, per la quale l’art.15, comma 1, D.lgs. 472/1997 prevede un’analoga persistenza della responsabilità, in quanto nella fusione si realizza «una vicenda meramente evolutiva-modificativa dello stesso soggetto, che conserva la propria identità, pur in un nuovo assetto organizzativo»: così si esprime Cass. SS. UU. 8 febbraio 2006, n.2637, ma dello stesso tenore numerose pronunce (quali: Cass. 23 giugno 2006, n.14526; Cass. 24 ottobre 2007, n.22330; Cass. 11 luglio 2011, n.15180; Cass. 11 aprile 2014, n. 8600; Cass. 29 settembre 2015, n.19303). Anche se all’epoca in cui fu partorita la riforma delle sanzioni e fino alla riforma del diritto societario del 2003, che nello specifico ha riformulato l’art.2504 bis cod. civ., nella fusione si vedeva una vicenda estintiva dell’ente cui succedeva in via universale altro ente: tra le ultime pronunce si vedano: Cass. 25 novembre 2004, n.22236 Cass. 24 giugno 2005, n.13695.
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Questa lettura trova conferma, del resto, nella disciplina della responsabilità da reato degli enti, di cui al D.lgs. 231/2001, ove pure si valorizza il continuum economico-sostanziale ai fini della punizione al di là della formale alterità tra gli enti (45) (e vale la regola che «l’ente è responsabile per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio» ex art.5 D.lgs. 231/2001). Rileva in particolare, l’art.30, comma 2, di esso che: per un verso ripropone la soluzione data dall’art.15, comma 2, D.lgs. 472/1997, ossia che «gli enti beneficiari della scissione, sia totale che parziale, sono solidalmente obbligati al pagamento delle sanzioni pecuniarie dovute dall’ente scisso per i reati commessi anteriormente alla data dalla quale la scissione ha avuto effetto»; ma allo stesso tempo vi aggiunge che «l’obbligo è limitato al valore effettivo del patrimonio netto trasferito al singolo ente, salvo che si tratti di ente al quale è stato trasferito, anche in parte il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato». Dal che si ha (sempre nel sistema del D.lgs. 231/2001): che nelle ipotesi di scissione totale la responsabilità è propria ed illimitata dell’ente cui è trasferito, anche in parte il ramo di attività nell’ambito del quale è stato commesso il reato, come del resto rimane ferma la responsabilità dell’ente scisso nelle ipotesi di scissione parziale (ai sensi del comma 1 dell’art.30 cit.); che la responsabilità degli altri enti beneficiari della scissione è solidale e limitata al valore effettivo del patrimonio netto loro trasferito. Tant’è che le sanzioni interdittive «si applicano agli enti cui è rimasto o è stato trasferito, anche in parte, il ramo di attività nell’ambito del quale il reato è stato commesso» (così il comma 3) (46).
Antonio Guidara
(45) Cfr. ad esempio: G. De Vero, La responsabilità penale delle persone giuridiche, cit., 132 ss.; A. Bernasconi, Responsabilità amministrativa degli enti, in Enc. Dir., Annali, II, tomo secondo, 2008, 983; V. Napoleoni, Le vicende modificative dell’ente, in Reati e responsabilità degli enti a cura di Lattanzi, Milano, 2010, 343 ss. (46) Piuttosto, si deve dare atto della relativa precisione della locuzione «ramo di attività», anche se sembrano prevalere le letture che guardano al ramo di azienda. In argomento si vedano ad esempio: V. Napoleoni, Le vicende modificative dell’ente, cit., 350 ss.; P. Sfameni, Art.30. Scissione dell’ente, in Responsabilità “penale” delle persone giuridiche a cura di Giarda-Spangher-Mancuso-Varraso, Milano, 2007, 272 ss.
Rubrica di diritto penale tributario a cura di Ivo Caraccioli
La rinnovata configurazione della nozione di “elemento attivo e passivo” e l’IVA. Suggestioni applicative e rigore interpretativo Sommario: 1. Premessa. – 2. Una breve digressione sulla ratio sottesa alla modifica
della definizione di elementi attivi e passivi introdotta dal D.Lgs. 158/2015. – 3. Quali conseguenze penali tributarie per l’erronea applicazione del regime IVA delle operazioni attive? – 4. La confutazione di una suggestione lessicale. Il regime IVA delle operazioni attive e quindi l’aliquota non costituiscono una componente incidente sull’imposta dovuta nell’accezione propria dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000. – 5. Conclusioni.
La recente modifica dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000 ad opera del D.Lgs. 158/2015 pone in rilievo la tematica del potenziale rilievo penalistico dell’alterazione del regime IVA delle operazioni effettuate dal contribuente. L’analisi evidenza come tale profilo rappresenti una carenza dell’attuale sistema penale tributario quand’anche lo stesso sia stato modificato di recente. Da un punto di vista pratico, tuttavia, non sembra utile novellare ancor una volta il D.Lgs. 74/2000 al fine di considerare una possibile violazione che, con ogni ragionevolezza, è abbastanza improbabile a verificarsi. The recent modification of art. 1, paragraph 1, letter b) of Legislative Decree no. 74/2000 by means of Legislative Decree no 158/2015 gives evidence to the issue of the potential criminal relevance of VAT regime concerning the transactions carried out by the taxpayer. The analysis outlines that the specific issue represents a loophole of the current criminal tax system even if recently modified. However, from a practical point of view, it does not seem useful a new modification of the Legislative Decree no. 74/2000 in order to consider a possible violation which, reasonably, is quite unlikely.
1. Premessa. – Le modifiche apportate dal D.Lgs. 158/2015 hanno avuto il pregio di portare nuovamente in rilievo alcuni profili dell’assetto penale tributario su cui l’attenzione degli interpreti in passato non era mai stata particolarmente elevata o comunque aveva avuto modo di esercitarsi in maniera
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poco costante; e ciò per motivazioni differenti non sempre riconducibili ad unità. Mentre in taluni casi, infatti, si trattava di tematiche che (a torto o a ragione) erano considerate autoesplicative (e perciò non bisognose di approfondimenti) in altre circostanze si era in costanza di profili su cui la prassi ermeneutica non aveva trovato particolari occasioni per soffermarsi. È in tale contesto, perciò, che per taluni argomenti penali tributari considerati di nicchia le modifiche introdotte dal D.Lgs. 158/2015 rappresentano un elemento di sicura novità che consente di approfondire con maggiore vivacità alcune tematiche che tre lustri di applicazione del D.Lgs. 74/2000 avevano relegato, al più, ad oggetto di mero dibattito teorico. Fra questi profili asseritamente minori figura senz’altro la definizione di elementi attivi e passivi disciplinata dall’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000. Al fine di evitare equivoci di sorta è bene una precisazione in limine. Tale definizione normativa aveva invero ingenerato più di una riflessione fra gli studiosi tanto da divenire uno degli obiettivi della riconfigurazione operata dal D.Lgs. 158/2015 del delitto di dichiarazione infedele (1) il cui fatto tipico era ritenuto – a ragione - sostanzialmente omologo a quello dell’analogo illecito amministrativo con conseguente rischio di sovrapposizione punitiva, scarsa caratterizzazione della fattispecie penale ed incoerenza rispetto al principio di sussidiarietà che dovrebbe sempre presiedere all’impiego della sanzione penale. L’interesse suscitato dalla definizione di cui all’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000, tuttavia, riguardava soprattutto l’individuazione del perimetro della nozione di fittizietà declinata con riguardo agli elementi passivi (2). Non è su tale tema (invero recessivo alla luce della sopravvenuta riforma dell’elemento oggettivo dei delitti disciplinati dagli artt. 3 e 4 del D.Lgs. 74/2000), tuttavia, che ci si vuole soffermare in questa sede. Ciò che si intende analizzare, invece, è l’effetto estensivo connesso all’ampliamento della nozione
(1) Ma ancora di più forse della incisiva riconfigurazione della fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici disciplinata dall’art. 3 del D.Lgs. 74/2000. (2) Sin dall’entrata in vigore del D.Lgs. 74/2000, infatti, la circostanza che la nozione penalistica di fittizietà potesse essere considerata fungibile rispetto a quella (tipicamente fiscale) di indeducibilità (una soluzione ermeneutica, come noto, patrocinata dalla prassi interpretativa erariale e della polizia tributaria) è stata oggetto di acceso dibattito dottrinale. Per riflessioni in tal senso, ex multis e solo exempli causa, cfr. G. Izzo, Bivalenza della nozione di elementi passivi fittizi nei reati dichiarativi, in Il Fisco, 2001, 7584 e ss. Come noto le modifiche apportate dal D.Lgs. 158/2015 alla configurazione normativa del delitto di dichiarazione infedele hanno risolto ogni perplessità in merito sostituendo nell’art. 4 del D.Lgs. 74/2000 la qualificazione in termini di fittizietà degli elementi passivi con quella assai più netta (ed inequivoca sotto il profilo lessicale) di inesistenza.
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normativa di elementi attivi e passivi; una nozione (valida per tutti i delitti dichiarativi) che ormai non coincide più con il solo complesso delle componenti che concorrono alla determinazione del reddito o delle base imponibile (3) ma è stata integrata facendo riferimento anche alle componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta. In particolare modo l’obiettivo di queste brevi considerazioni è verificare se in ragione di tale modifica legislativa di natura additiva si possa addivenire ad una soluzione interpretativa stabile (e coerente con il principio di legalità che presiede alla materia penale ex art. 25, comma 2, Cost.) rispetto ad un quesito che emerge di frequente in occasione di attività ispettive: e cioè se l’eventuale indebita applicazione di un determinato regime IVA a talune operazioni oggetto fatturazione (doloso o colposo che possa risultare l’errore in quanto – vale precisarlo – tale profilo è irrilevante ai fini dell’analisi qui condotta perché concerne, se del caso, l’esatta configurazione dell’elemento psicologico del reato) sia o meno tale da porre capo ad un’infedeltà dichiarativa a livello di fatto tipico della fattispecie incriminatrice (ed ovviamente a condizione che siano superate le soglie di punibilità ex lege prescritte). L’ipotesi – che prima facie potrebbe apparire astratta o infrequente – non lo è affatto se si considera la situazione in cui un contribuente indichi in maniera sistematica nelle fatture emesse una aliquota IVA agevolata in luogo di quella ordinaria ovvero, in presunta carenza dei relativi presupposti legali, fatturi in regime di non imponibilità (4) ovvero di esenzione (5) operazioni che al contrario, secondo l’interpretazione dei verificatori, sarebbero imponibili in maniera ordinaria. Si tratta – almeno per quanto consta – di una tematica su cui la giurisprudenza, nel vigore della pregressa formulazione del D.Lgs. 74/2000, non ha avuto modo di peritarsi in maniera frequente (6) e che nel nuovo assetto giuspositivo riemerge con rinnovata intensità alla luce della riformulazione della nozione di elementi attivi e passivi operata dal D.Lgs. 158/2015.
(3) In tal senso deponeva la pregressa formulazione dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000. (4) Cfr. art. 8, 8-bis, 9 del D.P.R. 633/72. (5) Cfr. art. 10 del D.P.R. 633/72. (6) Si ha notizia, infatti, della sola pronunzia del Tribunale di Crotone, Ufficio GUP, 22 maggio 2003 in cui è stata ritenuta condotta non riconducibile all’ambito di applicazione del delitto di dichiarazione infedele quella del contribuente che indichi nella relativa dichiarazione IVA talune operazioni come assoggettate al cosiddetto regime del margine in luogo che in piena imponibilità.
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2. Una breve digressione sulla ratio sottesa alla modifica della definizione di elementi attivi e passivi introdotta dal D.Lgs. 158/2015. – Le ragioni sottese alla modifica della definizione prevista dall’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000 sono note. Per un verso, il legislatore del decreto delegato del 2000 aveva adottato una opzione definitoria lungimirante (7) evitando ogni riferimento a nozioni tipiche della materia tributaria e configurando in tal modo un concetto neutro in grado di applicarsi ai comparti impositivi d’interesse senza mutuarne le peculiarità. Per altro verso, tuttavia, la scelta normativa (a giudizio di taluni interpreti determinata da un mero errore di apprezzamento) risultava incoerente rispetto al dichiarato obiettivo di considerare il gettito erariale quale bene giuridico tutelato. La formulazione letterale della disposizione infatti – fatto salvo (come si dirà) un illegittimo tentativo di forzare il testo in antitesi al divieto di analogia inteso quale corollario del principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost. – appariva inequivoca nel limitare il perimetro applicativo della nozione alle sole componenti della base imponibile; il che escludeva quindi da ogni potenziale criminalizzazione tutte le condotte aventi ad oggetto gli elementi incidenti in maniera diretta nella fase di liquidazione del tributo come, tipicamente, le detrazioni ovvero i crediti d’imposta (8). Questa asimmetria punitiva caratterizzante l’impostazione originaria del D.Lgs. 74/2000 è stata rettificata con l’intervento effettuato dal D.Lgs. 158/2015 il quale, come anticipato, ha integrato la definizione normativa di elementi attivi e passivi includendo in essa oltre ai componenti che concorrono alla determinazione dell’imponibile anche quelli che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta. Con la novella quindi sono divenute oggetto di potenziale criminalizzazione tanto le condotte illecite (anteriori in una prospettiva cronologica e sistematica) che alterano la formazione dell’imponibile dei tributi oggetto di tutela penale quanto quelle che invece operano - in un’ottica ex post - a livello di (semplice) determinazione quantitativa del tributo (con una configurazione dell’imponibile di riferimento, quindi, del tutto inalterata). In sintesi, quello che era stato (in modo reiterato) denunziato come un vero e proprio vacuum di tutela rispetto a comportamenti lesivi degli interessi erariali in misura potenzialmente pari, se non superiore,
(7) Per considerazioni in tal senso nell’immediatezza dell’entrata in vigore del D.Lgs. 74/2000, cfr. M. Di Siena, La nuova disciplina dei reati tributari, Milano, 2000, 111. (8) Al riguardo cfr. V. Napoleoni, I fondamenti del nuovo diritto penale tributario, Milano, 2000, 91 secondo il quale non potevano assumere rilevo penalistico “(…) quelle componenti negative che gravano, deprimendolo, non già sull’imponibile ma sull’imposta dovuta”.
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rispetto alla mera compressione dell’imponibile (era il caso paradigmatico dell’indicazione di crediti e ritenute d’acconto meramente figurativi) è stato colmato dal D.Lgs. 158/2015 (9). È in questo rinnovato scenario normativo, quindi, che si colloca la tematica cui sono dedicate le presenti considerazioni dovendosi comprendere se le ultime innovazioni normative possano indurre a modificare la soluzione interpretativa (qui patrocinata) che esclude la possibile criminalizzazione del fenomeno investigato. 3. Quali conseguenze penali tributarie per l’erronea applicazione del regime IVA delle operazioni attive? – È proprio il rilevato ampliamento della nozione di elementi attivi e passivi di cui all’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000, infatti, che rinnova l’interesse su di un fenomeno ben noto alla prassi ispettiva e le cui conseguenze penalistiche sono invero tutt’altro che pacifiche. Come anticipato, si tratta dell’ipotesi in cui l’evasione IVA (o presunta tale) non discende de plano dall’alterazione della base imponibile ma da una erronea selezione del regime delle operazioni attive effettuate (tipicamente non imponibilità o esenzione in luogo di integrale imponibilità ovvero applicazione di un’aliquota agevolata invece di quella ordinaria); delle operazioni che, tuttavia, sono integralmente trasfuse nella relativa dichiarazione annuale la quale, quindi, ne dà piena contezza e sotto questo profilo risulta priva di connotazioni di mendacità pur esponendo un tributo inferiore a quello astrattamente dovuto. Ebbene è doveroso chiedersi se un comportamento di tal genere possa integrare uno dei delitti dichiarativi (in alternativa quello di dichiarazione infedele ex art. 4 o quello di dichiarazione fraudolenta di cui al precedente art. 3) trattandosi di un mendacio rilevante nell’ottica definitoria di cui al citato art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000. Come anticipato, sino all’entrata in vigore del D.Lgs. 158/2015 – ancorché non risultino orientamenti giurisprudenziali definiti in subiecta materia – era ragionevole affermare che
(9) Che tale sia la ratio sottesa allo specifico intervento additivo eseguito dal D.Lgs. 158/2015 è desumibile dalla stessa relazione governativa al provvedimento la quale in parte qua afferma che obiettivo era introdurre “(…) nella lettera b) dell’articolo l, che reca una espressione di sintesi (“elementi attivi o passivi”) valevole, in particolare, riguardo alle fattispecie criminose concernenti la dichiarazione - atta a comprendere tutte le voci, comunque costituite o denominate, che concorrono, in senso positivo o negativo, alla determinazione del reddito o delle basi imponibili rilevanti ai fini dell’applicazione delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta (si pensi, ai crediti d’imposta ed alle ritenute). Ciò ad evitare rischi in termini di incertezze interpretative e di possibili lacune”.
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la risposta dovesse essere negativa. Infatti, la circostanza che la nozione di elementi attivi e passivi (valorizzata sia dall’art. 3 che dall’art. 4 del D.Lgs. 74/2000) rinviasse esclusivamente agli elementi espressi in cifra concorrenti alla determinazione dell’imponibile era tale da escludere un rilievo penalistico delle condotte suindicate. Si trattava di una conseguenza (involontaria) dell’opzione punitiva focalizzata sulla mendacità dell’imponibile ma era difficile giungere a conclusioni interpretative differenti (salvo intraprendere un pericoloso percorso analogico in malam partem). Come noto, infatti, alla determinazione del volume d’affari IVA del contribuente concorrono tutte le operazioni effettuate nel periodo d’imposta (quale che ne sia il relativo regime) e non sussiste quello che si potrebbe definire un fenomeno di parcellizzazione dell’imponibile. In altri termini, un’operazione fatturata, registrata in contabilità e risultante dalla relativa dichiarazione annuale concorre alla quantificazione dell’imponibile che è unitario, ancorché determinato dal concorso di plurime operazioni di cui ciascuna ha un proprio regime specifico (di talché non esiste un imponibile costituito dalle sole operazioni assoggettate ad aliquota ordinaria in contrapposizione, ad esempio, a quello rappresentato dalle sole operazioni ascrivibili ad una fattispecie di esenzione ex art. 10 del DPR 633/72). Ne conseguiva che un’eventuale alterazione (quand’anche dolosa) del regime individuale di una o più operazioni attive (è il caso, già menzionato, della fraudolenta evocazione del regime di esenzione) non incidendo sull’imponibile (ma solo sul tributo dovuto) era ascrivibile solo in maniera forzosa alla descrizione del fatto tipico dei delitti dichiarativi nella disciplina vigente ratione temporis. Una soluzione asimmetrica sotto il profilo sostanziale (perché è evidente come il bene giuridico tutelato rappresentato dall’interesse alla corretta riscossione dei tributi è ugualmente leso tanto da condotte che si incentrano sulla sottomanifestazione dell’imponibile quanto da comportamenti che si focalizzano sulla fase di liquidazione del tributo) ma poco censurabile in termini di rigore ermeneutico e di coerenza rispetto al principio di legalità di cui all’art. 25, comma 2, Cost. (ed ai suoi corollari). Nel rinnovato assetto normativo, invece, la soluzione può apparire prima facie difforme e, ad onore del vero, il contesto legislativo è effettivamente distante da quello precedente (10). L’introduzione nella definizione di elementi attivi
(10) Né deve stupire che un intervento legislativo asseritamente finalizzato ad evitare forme di eccessiva criminalizzazione della condotta dei contribuenti si sia risolto in parte qua in un ampliamento della tutela penale offerta dall’ordinamento agli interessi erariali. A parte, infatti,
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e passivi a latere della tradizionale nozione di componenti che concorrono alla determinazione del reddito o delle base imponibile (11) dell’ulteriore espressione componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta, infatti, potrebbe indurre a ritenere che ogni forma di (illecita) contrazione del quantum dovuto all’Erario sia suscettibile di integrare la descrizione del fatto tipico dei delitti di riferimento: sia nel caso in cui la menzionata illegittima contrazione si sostanzi in una condotta anteriore (tanto dal punto di vista cronologico quanto concettuale) alla fase di liquidazione del tributo che nell’alternativa ipotesi in cui l’evasione si risolva in una sorta di manipolazione delle procedure di liquidazione. Si potrebbe, pertanto, essere indotti a ritenere che nell’assetto risultante dal D.Lgs. 158/2015 la strumentale errata applicazione del regime IVA proprio delle operazioni attive (e, quindi, dell’aliquota) non sia più esente da una potenziale criminalizzazione; e ciò perché essa risulterebbe comunque idonea a contrarre il quantum dovuto all’Erario e siffatto genere di condotta sarebbe ormai ascrivibile all’ambito applicativo (ampliato) dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000 che considera a fini punitivi anche le componenti che incidono sulla determinazione dell’imposta dovuta. Ma quella appena formulata costituisce una conclusione cui aderire con certezza? Ad onore del vero – anticipando sin da subito l’esito della riflessione che si intende sviluppare brevemente – v’è motivo di dissentire dalla prefigurata assimilazione. È ragionevole affermare, infatti, che la tesi secondo cui la modificata definizione di elemento attivo e passivo può ormai riguardare anche il fenomeno d’interesse costituisca più una suggestione superficiale (ascrivibile alla citazione della nozione di imposta dovuta operata dall’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000) che una conclusione ponderata. E ciò per più motivi.
il carattere tutt’altro che univoco delle opzioni punitive di cui al D.Lgs. 158/2015 per quanto attiene all’impiego dello strumento della sanzione criminale (al riguardo cfr. M. Di Siena, La criminalizzazione del sostituto d’imposta nel rinnovato assetto del diritto penale tributario in Riv. Dir. trib., 2016, III, 31 e ss.) non v’è dubbio che la situazione pregressa, contraddistinta da una sostanziale assenza di tutela penale della fase di liquidazione del tributo, presentasse elementi di opinabilità. E ciò in particolare modo ove confrontata con la crescente rigidità punitiva che l’ordinamento ha assunto nel corso del tempo con riguardo alle condotte di omessa corresponsione di somme oggetto di rituale dichiarazione (come testimoniato dall’introduzione nel corpus del D.Lgs. 74/2000 degli artt. 10-bis e 10-ter ma anche, in altra maniera, del delitto di indebita compensazione disciplinato dall’art. 10-quater del medesimo testo normativo). (11) In tal senso deponeva sostanzialmente la pregressa formulazione dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000.
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4. La confutazione di una suggestione lessicale. L’aliquota non costituisce una componente incidente sull’imposta dovuta nell’accezione propria dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000. – Non v’è dubbio che la suggestione lessicale sia forte di talché – a fronte dell’affermazione (operata dal D.Lgs. 158/2015) della potenziale criminalizzazione delle condotte incidenti sulla determinazione del tributo - potrebbe risultare difficile sottrarre il regime IVA (e quindi la relativa aliquota) ad una facile riconducibilità alla descrizione del fatto tipico dei delitti dichiarativi. A una tale (superficiale) conclusione, tuttavia, ostano in primo luogo ragioni di ordine sistematico le quali appaiono viepiù palesi ove si considerino le modalità che hanno condotto alla recente modifica della nozione di elemento attivo e passivo. È fuori di dubbio, infatti, che l’intervento operato dal D.Lgs. 158/2015 è stato determinato dalla volontà legislativa di non lasciare sprovvista di tutela penale tutta la fase successiva alla determinazione dell’imposta lorda (intesa quale effetto meccanico della quantificazione dell’imponibile e dell’applicazione della relativa aliquota). Se si ha riguardo, infatti, all’elaborazione dottrinale e, in particolare, tanto alle considerazioni critiche circa la formulazione originaria dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000 (che concerneva la sola determinazione dell’imponibile) (12) quanto alle riflessioni sviluppatesi in merito alla rinnovata disposizione (13), emerge in modo reiterato l’affermazione secondo cui la ratio sottesa alla modifica normativa sarebbe ravvisabile nella volontà di apprezzare a fini penalistici anche componenti quali le ritenute alla fonte, gli acconti, le eventuali detrazioni nonché i possibili crediti d’imposta; tutte componenti – ove si voglia individuare una sorta di fil rouge fra le stesse – che risultano idonee a contrarre il debito tributario (solo) in un momento successivo alla quantificazione
(12) In tal senso¸ ex multis, cfr. A. Perini, La riforma dei reati tributari, in Dir. pen. proc., n. 1/2016, 15. (13) Al riguardo, exempli causa, cfr. E. Corucci, in La nuova giustizia penale tributaria, a cura di A. Giarda - A. Perini - G. Varraso, Padova, 2016, 186 secondo cui “(…) invero la (opinabile) scelta del legislatore del 2000 fu quella di tutelare (…) la veridicità della dichiarazione della base imponibile per poi trascurare qualsiasi forma di repressione di eventuali manipolazioni intervenute nel calcolo della imposta da versare. (….) Ebbene (…) l’imputazione dei crediti d’imposta e delle ritenute subite, fuoriusciva dall’ambito di applicazione delle norme penali tributarie, cosicché il contribuente avrebbe potuto indicare (e magari anche documentare) falsamente di avere subito determinate ritenute o di essere titolare di crediti d’imposta onde abbattere l’entità del quantum da versare. In un simile scenario, quindi, il contribuente avrebbe indicato una base imponibile veritiera scongiurando così l’integrazione della fattispecie, ma avrebbe evitato di versare (in tutto o in parte) le imposte dovute semplicemente manipolando i due sottraendi in questione”.
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dell’imposta lorda (vale a dire dopo che sia stata applicata la relativa aliquota) e che, quindi, attengono concettualmente alla fase della (successiva) liquidazione del tributo piuttosto che a quella della (anteriore) determinazione dell’imponibile e del tributo lordo. Si è cioè in presenza di una congerie di elementi, invero abbastanza eterogenei (non a caso la relazione al D.Lgs. 158/2015 impiega per definirli il termine anodino di voci), che risultano accomunati da due caratteristiche: i) sono tutti in grado di incidere in minus sul debito tributario effettivo e, quindi, sono idonei a ledere gli interessi patrimoniali dell’Erario; ii) al tempo stesso rappresentano delle grandezze la cui dinamica applicativa fa sì che essi operino a valere su di un determinato quantum (il tributo lordo) che costituisce già l’esito dell’applicazione di una determinata aliquota all’imponibile. Del resto, che quest’ultimo fosse il reale obiettivo del legislatore è dimostrato (ad onore del vero in maniera asimmetrica perché il delitto di dichiarazione infedele di cui al successivo art. 4 non è stato modificato nella descrizione qualitativa delle soglie di punibilità) dalla rinnovata formulazione del fatto tipico della fattispecie criminosa disciplinata dall’art. 3 del D.Lgs. 74/2000. Infatti, il comma 1, lettera b) di tale norma (come parzialmente integrato dal D.Lgs. 158/2015) fa esplicito riferimento – nella definizione della soglia di punibilità – all’ipotesi che la condotta implichi l’esposizione da parte del contribuente di crediti e ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta. Il che lascia intendere con chiarezza come l’obiettivo della modifica normativa apportata alla nozione di elemento attivo e passivo sia stata proprio quella di intercettare (a fini punitivi) le condotte destinate a rilevare in un momento concettualmente (e temporalmente) successivo a quello di determinazione dell’imposta lorda ed ad incidere su componenti (le detrazioni, i crediti d’imposta, le ritenute alla fonte e – se del caso – gli acconti d’imposta) che assumono rilievo solo in fase di liquidazione, vale ad dire solo una volta che il tributo lordo (inteso quale grandezza meccanica risultante dell’applicazione dell’aliquota alla base imponibile) possa ritenersi definito (14). Ora, se si analizza con attenzione la condotta d’interesse e cioè l’ipotesi dell’indebita applicazione di un’aliquota IVA (è il tipico caso - di cui si è detto – in cui il contribuente applica un regime di esenzione, e cioè un’aliquota zero, allorquando invece avrebbe dovuto assoggettare le operazioni attive effettuate a regime di imponibilità) è agevole comprendere come ci si trovi al di fuori del perimetro delle situazioni che hanno suggerito e determinato la modifica dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs.
(14) Così L. imperato in I nuovi reati tributari, a cura di I. Caraccioli, Milano, 2016, 58.
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74/2000. È sì vero che l’alterazione dell’aliquota IVA vulnera senz’altro la sfera degli interessi patrimoniali dell’Erario; ciò, tuttavia, non si verifica nella fase di cosiddetta liquidazione del tributo (che è invece quella tipica in cui esplicano efficacia tutte quelle grandezze – crediti d’imposta, ritenute, detrazioni, acconti – le quali, come evidenziato, hanno rappresentato il vero obiettivo di criminalizzazione della modifica apportata dal D.Lgs. 158/2015). Non v’è dubbio, infatti, che la possibile alterazione dell’aliquota IVA non incide nella fase successiva alla quantificazione del tributo lordo ma concorre alla determinazione stessa di tale grandezza. In altri termini, l’aliquota – contrariamente ai crediti d’imposta, alle ritenute, alle detrazioni ed agli acconti – non assume rilievo nello spazio giuridico (ma anche concettuale) in cui il contribuente transita dalla quantificazione lorda del tributo dovuto a quella netta ma, in quanto elemento strutturale dell’obbligazione tributaria, costituisce una grandezza che dà vita (essa stessa) al tributo lordo. Ciò significa, in sintesi, che rispetto all’insieme di elementi posti alla base dell’integrazione normativa apportata alla definizione di elemento attivo e passivo, l’aliquota presenta tratti del tutto eterogenei che ne impediscono un’assimilazione tout court che faccia perno sul solo effetto deteriore per gli interessi patrimoniali dell’Erario. Peraltro, la circostanza che l’aliquota – non operando a livello di quantificazione dell’imposta netta ma di determinazione del tributo lordo – sia di fatto estranea al rinnovato perimetro della nozione di elemento attivo e passivo, risulta anche in termini d’interpretazione meramente letterale. L’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000, infatti, cita in modo esplicito la nozione di componenti (concorrenti alla determinazione dell’imponibile ovvero incidenti sulla quantificazione dell’imposta dovuta). Ora, è del tutto palese come il legislatore, nell’impiegare il sostantivo componenti, abbia inteso riferirsi ad una dimensione algebrica della fattispecie ossia agli elementi che in termini di addendo positivo o negativo concorrono all’imponibile ovvero quale sottraendo abbattono in maniera indebita il tributo lordo (correttamente determinato perché derivante dall’applicazione dell’aliquota ad un imponibile non inficiato da indebite prospettazioni le quali, ove realizzate, sarebbero intercettate dalla tradizionale definizione di elementi attivi e passivi incentrata sulla determinazione dell’imponibile) ponendo così capo ad un’imposta dovuta inferiore al reale. Ebbene, è evidente come rispetto a tale configurazione l’aliquota non possa essere considerata, a stretto rigore, una componente. Non lo è senz’altro rispetto alla nozione di imponibile (a cui l’aliquota è strutturalmente estranea trovando applicazione dopo la determinazione dello stesso) ma non lo è anche (salvo forzature ermeneutiche) rispetto al tributo netto (id est l’imposta dovuta) atteso
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che non presenta alcun tratto comune con le grandezze (le ritenute, i crediti d’imposta e gli acconti) di cui il D.Lgs. 158/2015 ha inteso sancire il potenziale rilievo criminale. Sono queste ultime voci (o componenti), infatti, e non altro che la novella ha inteso considerare per colmare un vuoto di tutela penale; esse tuttavia sono tutte voci (al pari di quelle concorrenti alla determinazione dell’imponibile già prese in considerazione dalla pregressa formulazione dell’art. 1, comma 1, lettera b) del D.Lgs. 74/2000) che rilevano in un’ottica algebrica ossia quali addendi (negativi) di una somma rispetto alla cui dinamica l’aliquota si colloca in maniera eccentrica. L’aliquota, infatti, non solo – come è intuitivo – non interagisce in alcun modo con la configurazione dell’imponibile (una grandezza a cui essa viene semplicemente applicata per determinare il tributo lordo) ma del pari non è uno dei sottraendi il cui computo conduce dalla configurazione lorda a quella netta dell’imposta dovuta e la cui irrilevanza penale, per quanto detto, ha rappresentato la ratio della modifica normativa. 5. Conclusioni. – Da quanto sin qui esposto è agevole trarre delle rapide conclusioni che sono declinabili secondo una duplice direttrice. La prima conduce ad affermare che – con specifico riguardo alla tematica affrontata (ossia la possibile criminalizzazione dell’alterazione dell’aliquota IVA delle operazioni attive) – nonostante la forza evocativa (ed apparentemente suggestiva) delle modifiche, ci si trova dinanzi ad una situazione immutata rispetto al passato. Così come – a stretto rigore normativo – l’erroneità dell’aliquota non poteva porre capo ante D.Lgs. 158/2015 ad una falsità dichiarativa (perché non incideva ex se sulla configurazione dell’imponibile), del pari, essa risulta irrilevante alla luce dell’ampliamento del perimetro applicativo della nozione di elementi attivi e passivi operato dalla novella. Tale circostanza dà luogo alla seconda conclusione che attiene, invece, ad un piano di riflessione di natura politico – criminale. Non v’è dubbio che l’omessa criminalizzazione della specifica condotta rappresenti – soprattutto dopo un intervento legislativo che si proponeva di eliminare potenziali lacune al riguardo – un deficit del vigente assetto penale tributario. All’elemento oggettivo dei delitti dichiarativi, infatti, sfugge ancora qualcosa che impedisce di considerare come penalmente rilevanti tutte le condotte idonee a ledere la sfera patrimoniale degli interessi dell’Erario. A fronte di tale constatazione, tuttavia, è doveroso chiedersi se sia o meno opportuno un ulteriore intervento additivo in subiecta materia. Si tratta, evidentemente, di una opzione di natura politica su cui, tuttavia, è lecito formulare una valutazione ragionata. Ed in questa prospettiva non è illogico affermare che inseguire il fenomeno descritto con una nuova modifica costituirebbe, presumibilmente,
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una sorta di overreaction affetta da un certo tasso di incoerenza. Non solo – perché come più volte evidenziato in dottrina (15) – l’impiego della sanzione penale dovrebbe essere sempre ispirato al criterio della sussidiarietà di talché l’obiettivo del legislatore dovrebbe essere quello di fare economia di tale strumento; ma soprattutto perché, ragionevolmente, la struttura stessa dei delitti dichiarativi – caratterizzati, come noto, da una forma particolarmente selettiva di elemento psicologico quale il cosiddetto dolo di evasione – è tale da rendere del tutto marginale la probabilità che possa applicarsi una sanzione criminale nella fattispecie d’interesse. L’ipotesi di una dolosa alterazione da parte del contribuente del regime IVA delle operazioni attive effettuate, infatti, appare abbastanza residuale. È molto più logico immaginare che egli possa colposamente errare (per le più variegate motivazioni ivi incluso un erroneo apprezzamento della disciplina tributaria (16)) nella selezione dell’aliquota ponendosi così – per vizio dell’elemento psicologico – al di fuori del perimetro punitivo dei delitti dichiarativi. Prefigurare perciò un nuovo intervento sulla struttura del D.Lgs. 74/2000 al (solo) scopo di intercettare una condotta statisticamente improbabile rischierebbe di apparire un ozioso esercizio di ipertrofia normativa; una patologia che (purtroppo) pervade l’intero ordinamento tributario e di cui il comparto punitivo ha men che meno bisogno.
Marco Di Siena
(15) Per tutti cfr. E. musco, L’illusione penalistica, Milano, 2004. (16) Il che pone capo alla tematica (mai invero chiaramente definita) dei rapporti fra l’art. 15 del D.Lgs. 74/2000 e l’ipotesi di diritto comune dell’errore sulla norma integratrice del precetto punitivo di cui all’art. 47, comma 3, c.p. A tale proposito, da ultimo, cfr. L. Cardella, Il sistema dei reati tributari e le violazioni dipendenti da condizioni di obiettiva incertezza, in Riv. Trim. Dir. Trib., 2017, 339 e ss.
Rubrica di diritto europeo a cura di Piera Filippi
Corte di Giustizia dell’Unione europea, 20 settembre 2015, C300/16, Frucona Košice, ECLI:EU:C:2017:706; Pres. R. Silva de Lapuerta; Rel. A. Arabadjiev Nozione di vantaggio economico – Razionalità economica dell’amministrazione fiscale – Criterio del creditore privato – Onere di dimostrare la sussistenza dell’aiuto di Stato Costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107, par. 1 TFUE, il comportamento di un’amministrazione fiscale che non persegua in maniera coerente ed efficace la riscossione dei tributi, comportandosi allo stesso modo in cui si comporterebbe un creditore privato che si trovasse in una situazione la più simile possibile a quella del creditore pubblico e che tentasse di ottenere il pagamento delle somme dovutegli. Nell’ambito di applicazione dell’art. 101 TFUE incombe alla Commissione, qualora risulti che il criterio del creditore privato possa risultare applicabile, esaminare tale ipotesi indipendentemente da qualsivoglia richiesta in tal senso verificando l’insieme delle opzioni che un creditore privato avrebbe ragionevolmente individuato in una simile situazione.
[Omissis] Con il suo ricorso, la Commissione europea chiede l’annullamento della sentenza del Tribunale dell’Unione europea del 16 marzo 2016, Frucona Košice/Commissione (causa T103/14; in prosieguo: la «sentenza impugnata», EU:T:2016:152), con cui è stata annullata la decisione 2014/342/UE della Commissione, del 16 ottobre 2013, relativa all’aiuto di Stato SA.18211 (C 25/05) (ex NN 21/05) concesso dalla Repubblica slovacca a favore di Frucona Košice a.s. (GU 2014, L 176, pag. 38; in prosieguo: la «decisione controversa»). Fatti. – I fatti all’origine della controversia sono stati riassunti ai punti da 1 a 34 della sentenza impugnata nei seguenti termini: «Evoluzione della situazione della [Frucona Košice] e procedura di concordato (...) La Frucona Košice a.s. (...) è una società di diritto slovacco che era attiva, in particolare, nel settore della produzione di alcool e alcolici. Nel periodo compreso tra il novembre 2002 e il novembre 2003, la [Frucona Košice] beneficiava di moratorie di pagamento di debiti fiscali costituiti da accise di cui era debitrice. Tali moratorie le erano state concesse a seguito della costituzione di garanzie finanziarie a favore della competente amministrazione finanziaria locale, ossia l’ufficio Košice IV (in prosieguo: l’“amministrazione finanziaria locale”).
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Parte quarta
Il 25 febbraio 2004, la [Frucona Košice], a causa di incombenti difficoltà finanziarie, non era in grado di provvedere al versamento delle accise relative al gennaio 2004 della quale era debitrice. A seguito di una riforma legislativa in vigore dal 1° gennaio 2004, la [Frucona Košice] non poteva più ottenere ulteriori moratorie di pagamento. Di conseguenza, la [Frucona Košice] si vedeva ritirare la propria licenza di produzione e di trasformazione di alcool e alcolici. Da allora, essa limitava la propria attività alla distribuzione, con il marchio Frucona, di alcolici acquistati presso la O.H., una società che, conformemente ad un accordo con la [Frucona Košice], li produceva sotto licenza nelle fabbriche di alcolici di quest’ultima. La [Frucona Košice] si veniva inoltre a trovare in una situazione di indebitamento ai sensi dello zákon č. 328/1991 Zb. o konkurze a vyrovnaní (legge n. 328/1991, relativa alla liquidazione giudiziaria e al concordato). L’8 marzo 2004, la [Frucona Košice] presentava domanda di apertura di procedura di concordato dinanzi al Krajský súd v Košiciach [Tribunale della regione di Košice (Slovacchia)], proponendo a ciascuno dei propri creditori il pagamento di una percentuale pari al 35% dell’importo della somma loro dovuta (in prosieguo: la “proposta di concordato”). Il debito totale della [Frucona Košice] ammontava a circa 644,6 milioni di corone slovacche (SKK) [(circa EUR 21,4 milioni)], di cui circa SKK 640,8 milioni di debito [(circa EUR 21,3 milioni)] d’imposta. Con decisione del 29 aprile 2004, il Krajský súd v Košiciach [(tribunale della regione di Košice)] autorizzava l’avvio della procedura di concordato. Il 9 luglio 2004, all’udienza di esame del concordato, i creditori della [Frucona Košice], compresa l’amministrazione finanziaria locale, accettava la proposta di concordato. Nell’ambito di tale procedura di concordato, l’amministrazione finanziaria locale agiva quale creditore distinto, status della quale beneficiava in virtù delle garanzie costituite a suo favore nell’ambito delle moratorie di pagamento delle accise dovute dalla [Frucona Košice] (v. punto 2 supra). La [Frucona Košice] afferma di aver segnatamente sottoposto all’amministrazione finanziaria locale, prima del 9 luglio 2004, una relazione di revisione contabile redatta da una società di revisione indipendente (in prosieguo: la “relazione E”), al fine di consentire a detta autorità di valutare i rispettivi vantaggi della proposta di concordato e di liquidazione giudiziaria. Il 21 giugno 2004, l’amministrazione tributaria slovacca procedeva ad un’ispezione in loco nei locali della [Frucona Košice]. Nell’ambito di tale ispezione, veniva accertata la situazione finanziaria di quest’ultima alla data del 17 giugno 2004. Con decisione del 14 luglio 2004, il Krajský súd v Košiciach [tribunale della regione di Košice] omologava il concordato, ai sensi del quale, il credito dell’amministrazione tributaria slovacca doveva essere rimborsato per un importo pari al 35%, cioè per un ammontare di circa SKK 224,3 milioni [(circa EUR 7,45 milioni)]. Con lettera del 20 ottobre 2004, l’amministrazione finanziaria locale comunicava, in particolare, alla [Frucona Košice] che le modalità del concordato, secondo le quali
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una parte del debito d’imposta non doveva essere rimborsata, configuravano un aiuto di Stato indiretto soggetto all’autorizzazione della Commissione delle Comunità europee. Il 17 dicembre 2004, la [Frucona Košice] versava segnatamente all’amministrazione finanziaria locale l’importo di SKK 224,3 milioni [(circa EUR 7,45 milioni)], corrispondente al 35% del proprio debito d’imposta complessivo. Con decisione del 30 dicembre 2004, il Krajský súd v Košiciach [Tribunale della regione di Košice] dichiarava chiusa la procedura di concordato. Il 18 agosto 2006 il Krajský súd v Košiciach [Tribunale della regione di Košice] ha ridotto l’importo da versare all’autorità finanziaria locale a SKK 224,1 milioni [(circa EUR 7,44 milioni)]. Procedimento amministrativo Il 15 ottobre 2004, veniva presentata alla Commissione una denuncia relativa ad un presunto aiuto illegittimo a favore della [Frucona Košice]. Con lettera del 4 gennaio 2005, la Repubblica slovacca informava la Commissione, a seguito della richiesta di informazioni di quest’ultima, della possibilità che la [Frucona Košice] avesse percepito un aiuto illegittimo chiedendo di autorizzare l’aiuto in quanto aiuto al salvataggio concesso ad un’impresa in difficoltà. Dopo aver raccolto informazioni complementari, la Commissione, con lettera del 5 luglio 2005, notificava alla Repubblica slovacca la propria decisione di avviare il procedimento d’indagine formale previsto dall’articolo 88, paragrafo 2, CE in relazione alla misura in questione. Tale decisione veniva pubblicata nella Gazzetta ufficiale dell’Unione europea (GU 2005, C 233, pag. 47). Con lettera del 10 ottobre 2005, la Repubblica slovacca comunicava le proprie osservazioni sulla misura in questione alla Commissione. Con lettera del 24 ottobre 2005, la [Frucona Košice] trasmetteva parimenti proprie osservazioni sulla misura in questione alla Commissione. Esse venivano trasmesse alla Repubblica slovacca al fine di consentire a quest’ultima di rispondere, cosa che essa faceva con lettera del 16 dicembre 2005. Decisione iniziale Il 7 giugno 2006, la Commissione adottava la decisione 2007/254/CE, relativa all’aiuto di Stato C 25/2005 (ex NN 21/2005) concesso dalla Repubblica slovacca a favore di Frucona Košice, a.s. (GU 2007, L 112, pag. 14; in prosieguo: la “decisione iniziale”). Nel dispositivo di tale decisione si dichiarava, all’articolo 1, che l’aiuto di Stato concesso dalla Repubblica slovacca a favore della [Frucona Košice], per un importo di SKK 416 515 990 [(circa EUR 13 900 000)], era incompatibile con il mercato comune ingiungendone il recupero al successivo articolo 2. Procedimento dinanzi al Tribunale e alla Corte Il 12 gennaio 2007, la [Frucona Košice] presentava dinanzi al Tribunale un ricorso inteso all’annullamento della decisione iniziale. Con sentenza del 7 dicembre 2010, Frucona Košice/Commissione [(T11/07, EU:T:2010:498)], il Tribunale dichiarava il ricorso infondato. A seguito di impugnazione proposta dalla [Frucona Košice] ai sensi dell’articolo 56 dello Statuto della Corte di giustizia dell’Unione europea, la Corte, con senten-
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za del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione [(C73/11 P, EU:C:2013:32)], annullava la sentenza Frucona Košice/Commissione, [(T11/07, EU:T:2010:498)]. Nell’ambito della valutazione nel merito della controversia in primo grado, la Corte dichiarava che la Commissione, avendo omesso di prendere in considerazione, nell’ambito della valutazione del criterio del creditore privato, la durata del procedimento di liquidazione giudiziaria, era incorsa in un manifesto errore di valutazione, ovvero che, nei limiti in cui essa aveva preso in considerazione tale aspetto, aveva omesso di motivare in termini sufficientemente validi la decisione iniziale. Infine, la Corte rinviava la causa al Tribunale affinché questo statuisse sui motivi dinanzi ad esso sollevati sui quali non si era pronunciato. A seguito della sentenza [del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, (C73/11 P, EU:C:2013:32)], e al fine di porre rimedio alle carenze rilevate dalla Corte, la Commissione adottava, in data 16 ottobre 2013, la decisione [controversa], il cui articolo 1 dispone che la decisione iniziale “è abrogata”. Successivamente, con [ordinanza del 21 marzo 2014, Frucona Košice/Commissione (T11/07 RENV, non pubblicata, EU:T:2014:173)], il Tribunale (...) dichiarava (...) che non occorreva più statuire sul ricorso di annullamento della decisione iniziale. Decisione [controversa] (...) Nella decisione [controversa], la Commissione ha ritenuto, segnatamente, che fosse necessario esaminare la questione se, in sostanza, accettando la proposta di concordato e, pertanto, la cancellazione del 65% del suo credito, l’amministrazione finanziaria locale si fosse comportata nei confronti della [Frucona Košice] come un creditore privato in economia di mercato. Essa ha precisato, a tal riguardo, che l’amministrazione, in qualità di creditore della [Frucona Košice], si trovava in una posizione insolitamente forte, in quanto la situazione giuridica ed economica di tale autorità era più vantaggiosa di quella dei creditori privati della [Frucona Košice]. L’amministrazione finanziaria locale deteneva, infatti, oltre il 99% di tutti i crediti registrati ed era un creditore separato i cui crediti potevano essere soddisfatti in qualsiasi momento durante la procedura di liquidazione giudiziaria grazie alla vendita degli attivi garantiti (punto 80 della decisione [controversa]). In primo luogo, per quanto attiene al criterio del creditore privato, la Commissione ha osservato, in particolare, che l’applicabilità di tale criterio dipende dal fatto che lo Stato membro interessato concede, in una qualità diversa da quella di potere pubblico, un vantaggio economico ad un’impresa e che lo Stato membro, laddove invochi tale criterio nel corso del procedimento amministrativo, è tenuto, in caso di dubbio, a dimostrare inequivocabilmente e sulla base di elementi oggettivi e verificabili che la misura attuata sia ascrivibile al medesimo in quanto operatore privato in un’economia di mercato. L’Istituzione si è richiamata, a tal riguardo, alla sentenza del 5 giugno 2012, Commissione/EDF [(C124/10 P, EU:C:2012:318, punti da 81 a 85)] (punto 82 della decisione [controversa]).
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Al punto 83 della decisione [controversa], la Commissione ha dichiarato quanto segue: “In breve, la Repubblica slovacca sostiene che, a suo parere, la misura in questione costituisce un aiuto di Stato. Riconosce che, al momento del concordato, la questione dell’aiuto di Stato non è stata proprio presa in considerazione e ha chiesto che la misura contestata fosse trattata come un aiuto al salvataggio. Appare pertanto che, nel caso di specie, i requisiti della succitata giurisprudenza non sono stati soddisfatti e che la misura contestata costituisce un aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE”. In secondo luogo, dopo aver osservato, al punto 84 della decisione [controversa], che, “[la Frucona Košice aveva] invece sostenuto che la misura non si configura[va] come un aiuto e [aveva] presentato la documentazione sopra descritta, in particolare le relazioni di due revisori contabili”, la Commissione ha verificato se la Repubblica slovacca si fosse comportata, nei confronti della [Frucona Košice], come un creditore privato. A tal fine, la Commissione, in primo luogo, ha posto a raffronto, alla luce delle prove presentate dalla [Frucona Košice], la procedura di concordato e quella di liquidazione giudiziaria (punti da 88 a 119 della decisione [controversa]); in secondo luogo, ha posto a raffronto le procedure di concordato e di esecuzione fiscale (punti da 120 a 127 della decisione [controversa]) e, in terzo luogo, ha valutato le altre prove prodotte dalle autorità slovacche e dalla [Frucona Košice] (punti da 128 a 138 della decisione [controversa]). In sostanza, la Commissione ha ritenuto che sia la procedura di liquidazione giudiziaria sia quella di esecuzione fiscale fossero, dal punto di vista dell’amministrazione finanziaria locale, alternative più vantaggiose rispetto alla proposta di concordato (punti 119, 124 e 127 della decisione [controversa]). La Commissione ha concluso, al punto 139 della decisione [controversa], che il criterio del creditore privato non era soddisfatto e che la Repubblica slovacca aveva concesso alla [Frucona Košice] un vantaggio che quest’ultima non avrebbe potuto ottenere in condizioni di mercato. Al punto 140 di detta decisione, essa ha concluso che la cancellazione del debito approvata dall’amministrazione finanziaria locale nell’ambito del concordato costituiva un aiuto di Stato ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE. Infine, al punto 182 di questa stessa decisione, la Commissione ha concluso che tale aiuto di Stato non era compatibile con il mercato interno. Il dispositivo della decisione [controversa] consta di cinque articoli. A termini dell’articolo 1 della decisione [controversa], “[l]a decisione [iniziale] è abrogata” (v. punto 22 supra). Ai sensi del successivo articolo 2 [della decisione controversa], l’aiuto di Stato che la Repubblica slovacca ha concesso in favore della [Frucona Košice], per un importo di SKK 416 515 990 [(circa EUR 13 900 000)], è incompatibile con il mercato interno. Al successivo articolo 3 [della decisione controversa], la Commissione ingiunge alla Repubblica slovacca il recupero dell’aiuto in questione, già posto illegalmente a disposizione della [Frucona Košice], maggiorato degli interessi di mora». Procedimento dinanzi al Tribunale e sentenza impugnata Con atto introduttivo depositato presso la cancelleria del Tribunale il 17 febbraio
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2014, la Frucona Košice proponeva ricorso ai fini dell’annullamento della decisione controversa. A sostegno del proprio ricorso deduceva quattro motivi: il primo attiene alla violazione dei diritti della difesa; il secondo, ad un errore di diritto che vizierebbe il punto 83 della decisione controversa; il terzo, ad errori di fatto e di diritto che inficerebbero la conclusione secondo la quale la procedura di liquidazione giudiziaria sarebbe stata più vantaggiosa della procedura di concordato; e, il quarto, ad errori di fatto e di diritto che vizierebbero la conclusione secondo la quale la procedura di esecuzione fiscale sarebbe stata più vantaggiosa della procedura di concordato. Con la sentenza impugnata, il Tribunale respingeva il primo e il secondo motivo di impugnazione accogliendo invece il terzo e il quarto. Conseguentemente, annullava la decisione controversa condannando la Commissione alle spese. Conclusioni delle parti La Commissione chiede che la Corte voglia: – annullare la sentenza impugnata; – in via principale, respingere il ricorso e condannare la Frucona Košice alle spese, e – in subordine, rinviare la causa dinanzi al Tribunale e riservare la decisione sulle spese. La Frucona Košice chiede che la Corte voglia: – respingere l’impugnazione, e – condannare la Commissione alle spese. Sull’impugnazione A sostegno del proprio ricorso, la Commissione deduce sei motivi: il primo attiene all’erronea interpretazione della decisione controversa; il secondo e il quarto al mancato rispetto delle condizioni di applicabilità del criterio del creditore privato; il terzo motivo alla violazione dei principi dell’autorità della cosa giudicata e ne ultra petita; il quinto motivo ad un’erronea applicazione del criterio del creditore privato ed il sesto alla mancata considerazione dei limiti del proprio obbligo di procedere ad un esame diligente e imparziale. Appare opportuno esaminare, in primo luogo, il secondo e quarto motivo, in secondo luogo il primo motivo, in terzo luogo il terzo motivo e, in ultimo luogo, il quinto e il sesto motivo. Sul secondo e sul quarto motivo, relativi all’applicabilità del criterio del creditore privato Argomenti delle parti Con il secondo motivo, la Commissione sostiene che il Tribunale è incorso in un errore di diritto laddove, ai punti da 109 a 118 della sentenza impugnata, ha ritenuto che il criterio del creditore privato possa essere utilmente invocato dal beneficiario dell’aiuto. Secondo la Commissione, tale criterio si ricollega al punto di vista soggettivo dell’ente pubblico allorché questo decide di adottare la misura in questione. Pertanto,
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da un lato, rivelare o meno le proprie intenzioni in quel momento sarebbe una scelta che costituisce un diritto soggettivo dello Stato membro in questione, di modo che tale diritto non potrebbe essere invocato da terzi. Dall’altro lato, solamente detto Stato membro disporrebbe di tutti gli elementi rilevanti sulla base dei quali ha fondato la propria opinione al momento della decisione di adottare la misura in questione. Spetterebbe, pertanto, allo Stato membro medesimo invocare il criterio del creditore privato e fornire gli elementi richiesti. Orbene, nella specie, come risulterebbe dai considerando da 128 a 132 della decisione controversa, la Commissione sarebbe stata in possesso di elementi comprovanti che la posizione della Repubblica slovacca era chiara e coerente, tanto in risposta alla denuncia che al momento stesso dell’approvazione del concordato: lo Stato membro medesimo avrebbe sempre indicato che, a suo avviso, si sarebbe trattato di un aiuto di Stato. La Commissione aggiunge che, sebbene fosse corretto considerare che il beneficiario dell’aiuto potesse invocare il criterio del creditore privato, il Tribunale ha commesso un errore di diritto nel non aver imposto alla Frucona Košice di stabilire, allo stesso modo di uno Stato membro, inequivocabilmente e sulla base di elementi oggettivi e verificabili, che la misura attuata fosse riconducibile alla qualità di creditore privato di detto Stato membro. Con il quarto motivo, la Commissione sostiene che il Tribunale è incorso in un errore di diritto laddove ha dichiarato, al punto 247 della sentenza impugnata, che la Commissione non può distinguere, per quanto riguarda l’applicabilità del criterio dell’operatore privato, in funzione delle diverse alternative alla misura controversa. Poiché l’applicazione del criterio del creditore privato riposa sugli elementi forniti per stabilire la sua applicabilità, l’errore del Tribunale consisterebbe nella decisione secondo cui l’applicazione di detto criterio rappresenterebbe un esercizio astratto per ricostruire d’ufficio la condotta di un ipotetico creditore privato ideale, razionale e pienamente informato. Pertanto, essendo evidente che al creditore pubblico non sarebbe stata fornita alcuna informazione relativa ad una linea di condotta specifica, qualunque comparazione della condotta di tale ente con quella di un creditore privato in una situazione analoga non avrebbe alcun senso. Tale criterio non sarebbe quindi applicabile nella specie. La Commissione rileva che è pacifico, nel caso di specie, che all’epoca non sia stata operata alcuna comparazione, secondo il criterio del creditore privato, tra la proposta di concordato e la procedura di esecuzione fiscale. Pertanto, il Tribunale avrebbe dovuto pronunciarsi sulla questione se il punto 120 della decisione controversa contenesse, in effetti, la conclusione implicita secondo cui il criterio del creditore privato non era applicabile. La Frucona Košice contesta la fondatezza della tesi della Commissione.
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Giudizio della Corte Secondo consolidata giurisprudenza della Corte, la qualificazione come «aiuto di Stato», ai sensi dell’articolo 107, paragrafo 1, TFUE, esige che siano soddisfatte tutte le condizioni enunciate da tale disposizione. Così, in primo luogo, deve trattarsi di un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali. In secondo luogo, tale intervento deve essere idoneo ad incidere sugli scambi tra gli Stati membri. In terzo luogo, deve concedere un vantaggio selettivo al suo beneficiario. In quarto luogo, esso deve falsare o minacciare di falsare la concorrenza (sentenze del 21 dicembre 2016, Commissione/Hansestadt Lübeck, C524/14 P, EU:C:2016:971, punto 40, nonché del 21 dicembre 2016, Commissione/World Duty Free Group SA e a., C20/15 P e C21/15 P, EU:C:2016:981, punto 53). Il concetto di «aiuto» comprende non soltanto prestazioni positive quali le sovvenzioni, ma anche interventi che, in varie forme, alleviano gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, hanno la stessa natura e producono identici effetti (sentenza del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 30). Tuttavia, le condizioni che devono ricorrere affinché una misura possa ricadere nella nozione di «aiuto» ai sensi dell’articolo 107 TFUE, non sono soddisfatte qualora l’impresa beneficiaria potesse ottenere lo stesso vantaggio rispetto a quello procuratole per mezzo di risorse statali e in circostanze corrispondenti alle normali condizioni del mercato (sentenza del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 70 e giurisprudenza ivi citata). Tale valutazione va effettuata quando un creditore pubblico concede agevolazioni di pagamento per un debito dovutogli da un’impresa, applicando in linea di principio il criterio del creditore privato (sentenza del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 32). Pertanto, il criterio dell’investitore privato non costituisce un’eccezione applicabile unicamente su richiesta di uno Stato membro qualora ricorrano gli elementi costitutivi della nozione di aiuto di Stato incompatibile con il mercato comune, di cui all’articolo 107, paragrafo 1, TFUE. Infatti tale criterio, laddove applicabile, figura tra gli elementi che la Commissione deve prendere in considerazione al fine di accertare l’esistenza di un siffatto aiuto (v., in tal senso, sentenze del 5 giugno 2012, Commissione/EDF, C124/10 P, EU:C:2012:318, punto 103, nonché del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 32). Di conseguenza, qualora risulti che il criterio del creditore privato può risultare applicabile, incombe alla Commissione chiedere allo Stato membro interessato di fornirle tutte le informazioni rilevanti che le consentano di verificare il soddisfacimento dei requisiti di applicazione di tale criterio (sentenza del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 33). In primo luogo, dalla giurisprudenza della Corte richiamata supra risulta che incombe alla Commissione, qualora risulti che il criterio del creditore privato possa ri-
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sultare applicabile, esaminare tale ipotesi indipendentemente da qualsivoglia richiesta in tal senso. Pertanto, come sottolineato dall’avvocato generale ai paragrafi 72 e 76 delle proprie conclusioni, da un lato, nulla osta a che il beneficiario dell’aiuto possa invocare l’applicabilità di detto criterio e, dall’altro lato, laddove tale criterio venga invocato, incombe alla Commissione esaminare la sua applicabilità e, se del caso, la sua applicazione. In secondo luogo, per quanto concerne la pertinenza del punto di vista soggettivo dello Stato membro, va sottolineato che, come rilevato dall’avvocato generale al punto 74 delle proprie conclusioni, nel determinare se debba essere applicato il criterio dell’operatore privato occorre muovere dalla natura economica dell’azione dello Stato membro, e non dalle modalità con cui detto Stato, soggettivamente parlando, abbia ritenuto di agire o quali percorsi di azione alternativi abbia considerato prima di adottare la misura medesima. In ogni caso, il criterio del creditore privato è diretto ad esaminare se l’impresa beneficiaria non avrebbe manifestamente ottenuto analoghe agevolazioni da un creditore privato che si trovasse in una situazione la più simile possibile a quella del creditore pubblico e che tentasse di ottenere il pagamento delle somme dovutegli da un debitore in situazione di difficoltà finanziarie (sentenza del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 72) e, pertanto, se detta impresa avrebbe potuto ottenere lo stesso vantaggio rispetto a quello procuratole per mezzo di risorse statali e in circostanze corrispondenti alle normali condizioni del mercato (sentenza del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 70). Orbene, ne discende che l’esame che la Commissione deve, se del caso, condurre non può limitarsi alle sole opzioni di cui l’autorità pubblica competente abbia effettivamente tenuto conto, ma deve necessariamente riguardare l’insieme delle opzioni che un creditore privato avrebbe ragionevolmente individuato in una simile situazione. Quanto all’argomento invocato dalla Commissione nell’ambito del quarto motivo, è sufficiente rilevare che il Tribunale non ha commesso errori di diritto laddove ha affermato, al punto 247 della sentenza impugnata, che, dal momento che il criterio del creditore privato era applicabile in quanto tale, la Commissione non poteva distinguere, ai fini dell’applicabilità di detto criterio, secondo le diverse alternative alla misura controversa. Ne consegue che il secondo e il quarto motivo devono essere respinti in quanto infondati. Sul primo motivo, relativo ad un’erronea interpretazione della decisione controversa Argomenti delle parti La Commissione deduce, con il primo motivo, che il Tribunale ha erroneamente interpretato la decisione controversa nell’affermare, ai punti da 101 a 104 della sentenza impugnata, che l’Istituzione aveva ritenuto, in tale decisione, che il criterio del creditore privato fosse applicabile ai fatti del caso di specie. Pertanto, il Tribunale avrebbe erroneamente rilevato che dall’ultimo periodo del punto 80 della decisione medesima doveva dedursi che il criterio del creditore privato era
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applicabile nel caso di specie. Tale errore di interpretazione emergerebbe alla lettura dei successivi punti di detta decisione. Infatti, il punto 81 non verterebbe specificamente sulle condizioni di applicabilità di detto criterio, il punto 82 preciserebbe in maniera specifica la situazione per quanto concerne l’applicabilità di detto criterio e il punto 83, così come i punti da 128 a 132, verterebbero sulla questione dell’applicabilità del criterio medesimo. La Frucona Košice contesta la fondatezza della tesi della Commissione. Giudizio della Corte Innanzitutto, si deve rilevare che la decisione controversa non specifica espressamente che il criterio del creditore privato sarebbe inapplicabile nel caso di specie. Al contrario, applica tale criterio, sul quale è esplicitamente fondata la conclusione enunciata ai suoi punti 139 e 140, secondo cui la misura controversa costituisce un aiuto di Stato. Nel caso, poi, in cui la Commissione avesse nutrito dubbi in merito all’applicabilità di detto criterio, va ricordato che essa avrebbe dovuto, come risulta supra dal punto 24, chiedere allo Stato slovacco informazioni pertinenti a tale riguardo e procedere ad una valutazione globale di detti elementi (v., in tal senso, sentenza del 5 giugno 2012, Commissione/EDF, C124/10 P, EU:C:2012:318, punto 86). Orbene, nella decisione controversa non vi è traccia né di una simile richiesta, né di un simile esame. Infine, va rilevato che la Commissione ha applicato il criterio del creditore privato dopo aver precisato, ai punti 84 e 86 della decisione controversa, che il beneficiario aveva fatto valere che l’accettazione della proposta di concordato non costituiva un aiuto di Stato, in quanto il procedimento di liquidazione giudiziaria sarebbe stato meno favorevole per lo Stato slovacco. Alla luce di tali rilievi, il primo motivo dev’essere respinto in quanto infondato. Sul terzo motivo, relativo ai principi di autorità di cosa giudicata e ne ultra petita Argomenti delle parti La Commissione fa valere che il Tribunale ha violato i principi di autorità di cosa giudicata e ne eat iudex ultra petita partium nel ritenere, ai punti da 123 a 126 della sentenza impugnata, che la Corte avesse implicitamente ma necessariamente considerato, nella propria sentenza del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione (C73/11 P, EU:C:2013:32), che il criterio del creditore privato fosse applicabile ai fatti del caso di specie e che, pertanto, accogliere la lettura della decisione controversa proposta dalla Commissione determinasse una violazione dell’autorità di cosa giudicata. La Frucona Košice contesta la tesi della Commissione. Giudizio della Corte Poiché il terzo motivo riguarda il ragionamento svolto ad abundantiam a sostegno della decisione del Tribunale, secondo cui il criterio del creditore privato sarebbe stato applicabile ai fatti del caso di specie e il primo, secondo e quarto motivo, volti a contestare la medesima decisione del Tribunale, sono stati respinti in quanto infondati, il terzo motivo dev’essere respinto in quanto inconferente. Sul quinto e sesto motivo, relativi all’applicazione del criterio del creditore privato e all’obbligo della Commissione di condurre un esame diligente e imparziale
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Argomenti delle parti Con il quinto motivo, la Commissione, in primo luogo, sostiene che il criterio del creditore privato le impone di determinare il punto di vista soggettivo dell’autorità pubblica e di compararlo a quello di un creditore privato nelle medesime circostanze. A tal proposito, risulterebbe dalla giurisprudenza della Corte che sono unicamente pertinenti gli elementi disponibili e le evoluzioni prevedibili al momento dell’adozione della decisione da parte dell’autorità pubblica stessa. La Commissione ne deduce che spetta allo Stato membro interessato dimostrare di aver dovuto effettivamente prendere in considerazione, nell’assumere la propria decisione, simili elementi ed evoluzioni, che devono essere comparabili a quelli che un operatore privato avrebbe necessariamente inteso conoscere prima di assumere la stessa decisione. Infatti, discenderebbe dalla giurisprudenza della Corte che l’applicazione del criterio del creditore privato escluderebbe che costui possa aver agito in modo casuale. Invero, può aver agito solamente con perfetta conoscenza di causa, dal momento che, secondo tale giurisprudenza, non sono sufficienti valutazioni economiche compiute dopo la concessione del beneficio in questione, l’accertamento retroattivo delle redditività dell’investimento realizzato dallo Stato membro interessato, o successive giustificazioni della scelta del procedimento effettivamente prescelto. Ciò non significa che le parti interessate non possano sottoporre informazioni o elementi utili per rendere edotta la Commissione, ad esempio, sulla natura e l’oggetto della misura di cui trattasi, sul suo contesto o sullo scopo perseguito. Tuttavia, non competerebbe a tali parti sostituire la loro valutazione a quella effettivamente condotta dallo Stato membro interessato al momento in cui quest’ultimo ha assunto la propria decisione, così come non competerebbe alla Commissione la ricostruzione d’ufficio della condotta dell’ipotetico creditore privato ideale, razionale e pienamente informato. Le informazioni fornite alla Commissione, oltre a quelle invocate dallo Stato membro interessato, potrebbero essere dirette a dimostrare che, sulla base delle informazioni effettivamente considerate dallo Stato membro medesimo, un creditore privato avrebbe o meno agito allo stesso modo. Tali informazioni non possono essere, tuttavia, volte a giustificare la decisione assunta con riferimento ad informazioni o elementi che non sono stati effettivamente presi in considerazione dallo Stato membro interessato. In secondo luogo, la Commissione rileva che il Tribunale, nell’esporre, al punto 137 della sentenza impugnata, il proprio criterio di analisi, ha omesso di restringere l’obbligo di verifica della Commissione agli elementi rilevanti di cui questa disponeva. Tale omissione avrebbe indotto il Tribunale a ritenere, al punto 201 della sentenza impugnata, che la Commissione avrebbe dovuto cercare di ottenere informazioni aggiuntive al fine di verificare e di supportare le proprie conclusioni dedotte dagli atti del procedimento amministrativo. Al menzionato punto 201, il Tribunale avrebbe così creato un nuovo requisito secondo il quale la Commissione sarebbe tenuta a ricostruire la condotta dell’ipotetico creditore privato ideale, razionale e pienamente informato, cercando tutti gli elementi e le informazioni «immaginabili», requisito che contrasterebbe con la stessa filosofia
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alla base del criterio del creditore privato, ossia una valutazione del punto di vista soggettivo dell’autorità pubblica al momento della sua decisione. Secondo la Commissione, i punti 137 e da 180 a 213 della sentenza impugnata sono quindi fondati, da un lato, sull’erronea considerazione che la giurisprudenza della Corte imponga alla Commissione di procedere ad un’analisi oggettiva e completa di vantaggi e svantaggi della procedura di liquidazione giudiziaria piuttosto che ad un’analisi basata sulla situazione soggettiva dell’autorità pubblica, e, dall’altro lato, su un’erronea lettura della decisione controversa, nel senso che ne risulterebbe che l’Istituzione avrebbe proceduto a detta analisi. In terzo luogo, la Commissione rileva che la decisione controversa è fondata sulla situazione degli attivi della Frucona Košice al 17 giugno 2004 e che, secondo il Tribunale, correttamente la Commissione non aveva accettato la metodologia del rapporto E per quanto riguarda la determinazione dei coefficienti di liquidazione di tali attivi. Tuttavia, poiché tali informazioni di natura economica costituivano le sole a disposizione dell’amministrazione finanziaria locale nel momento in cui questa ha deciso di accettare la proposta di concordato, la logica conseguenza di tali constatazioni di fatto sarebbe che un creditore privato che disponesse unicamente di dette informazioni non avrebbe acconsentito al concordato. Infatti, se la propria condotta fosse consistita nel sollecitare informazioni supplementari, un simile creditore non avrebbe accettato la proposta di concordato. La Commissione ritiene che, tenuto conto del proprio obbligo di eseguire la propria verifica esclusivamente rispetto alle informazioni e agli elementi di cui il creditore pubblico era effettivamente in possesso o che fossero di pubblico dominio, gli atti del procedimento amministrativo giustificassero validamente, in ogni caso, la propria conclusione secondo cui un creditore privato non avrebbe acconsentito al concordato. Infatti, il Tribunale non avrebbe indicato alcun elemento ulteriore, pertinente al momento dei fatti, che la Commissione avrebbe omesso di prendere in considerazione. Pertanto, il Tribunale sarebbe incorso in un errore di diritto nell’affermare, ai punti 186 e 235 della sentenza impugnata, che gli elementi risultanti dal fascicolo non erano idonei a suffragare in maniera sufficiente ed univoca le conclusioni tratte dalla Commissione per valutare a SKK 435 milioni (circa EUR 14,5 milioni) il ricavato della vendita degli attivi in sede di liquidazione giudiziaria. La Commissione aggiunge che il Tribunale non indica l’ampiezza della prova che la Commissione avrebbe dovuto fornire né precisa se che detto standard obbligasse la Commissione a stabilire, in modo inequivoco, quale sarebbe stato il risultato della vendita. In quarto luogo, la Commissione deduce che gli errori di diritto da essa rilevati hanno parimenti viziato la valutazione del Tribunale relativa alla durata del procedimento di liquidazione giudiziaria nonché quella relativa al procedimento di esecuzione fiscale. Infatti, tali valutazioni sarebbero basate sul medesimo erroneo criterio e sul rigetto della valutazione da parte della Commissione del risultato della liquidazione degli attivi della Frucona Košice. Con il sesto motivo, la Commissione ritiene che i punti da 191 a 195 della sentenza impugnata possano essere interpretati quale contestazione alla Commissione di
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una violazione del proprio obbligo di procedere ad un’indagine diligente e imparziale. La Commissione fa valere che, qualora tale interpretazione fosse corretta, il Tribunale avrebbe attribuito a detto obbligo una portata erronea imponendo alla Commissione un onere eccessivo. A tal proposito, la Commissione rileva che, ai punti 187 e 191 della sentenza impugnata, il Tribunale ha correttamente rilevato che la Commissione ha contestato il valore probatorio del rapporto E compiendo pertanto deduzioni in base agli elementi offerti dalla Frucona Košice o da questa non contestati. Avrebbe successivamente deciso di condannare la Commissione per non aver richiesto informazioni aggiuntive al fine di verificare e fondare le conclusioni che essa aveva tratto da tali elementi, senza spiegare il tipo di elementi aggiuntivi che la Commissione avrebbe eventualmente potuto richiedere. La Commissione avrebbe basato la propria valutazione degli elementi di cui effettivamente disponeva in tale momento e avrebbe ritenuto di potersi riferire all’importo stabilito da parte del beneficiario, ammesso dall’amministrazione finanziaria e basato su rapporti imparziali, senza esigere la produzione di altri rapporti. In ogni caso, un creditore pubblico non avrebbe accettato che il proprio debitore non fondasse sufficientemente la stima del valore degli attivi offerti in garanzia al fine di ottenere un rapporto del proprio debito tributario. Nel caso di specie, l’amministrazione finanziaria aveva proceduto a proprie conclusioni quanto al valore di detti attivi, come risulterebbe dalla decisione di dilazionare il debito. La Frucona Košice contesta la tesi della Commissione. Giudizio della Corte In limine, va rilevato che il quinto e sesto motivo riguardano, in sostanza, l’estensione degli obblighi di indagine della Commissione quando quest’ultima si spinga a valutazioni relative al criterio del creditore privato, come accolto dal Tribunale in sede di esame delle parti della decisione controversa relative sia alle procedure di liquidazione giudiziaria che alle procedure di esecuzione fiscale. Conformemente a ben consolidata giurisprudenza della Corte, in sede di applicazione del criterio del creditore privato, spetta alla Commissione effettuare una valutazione globale che tenga conto di tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie, che le consentano di determinare se l’impresa beneficiaria non avrebbe manifestamente ottenuto agevolazioni paragonabili da un creditore privato (v., in tal senso, sentenze del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 73, e del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 47). A questo riguardo, da un lato, deve considerarsi rilevante qualunque informazione idonea a influenzare, in maniera non trascurabile, il processo decisionale di un creditore privato normalmente prudente e diligente, che si trovi in una situazione la più simile possibile a quella del creditore pubblico e che tenti di ottenere il pagamento delle somme dovutegli da un debitore in situazione di difficoltà di pagamento (sentenze del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 78,
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e del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, EU:C:2013:186, non pubblicata, punto 54). Dall’altro lato, ai fini dell’applicazione del criterio dell’investitore privato sono unicamente pertinenti gli elementi disponibili e le evoluzioni prevedibili al momento dell’adozione di tale decisione (v., in tal senso, sentenza del 5 giugno 2012, Commissione/EDF, C124/10 P, EU:C:2012:318, punto 105). Un simile esame da parte della Commissione della questione se determinate misure possano essere considerate aiuti di Stato, in quanto le pubbliche autorità non avrebbero agito come un creditore privato, richiede che si proceda ad una valutazione economica complessa (sentenze del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 74, e del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 48). A tal proposito occorre ricordare che, nell’ambito del controllo che i giudici dell’Unione europea esercitano sulle valutazioni economiche complesse compiute dalla Commissione nel settore degli aiuti di Stato, non spetta al giudice dell’Unione sostituire la propria valutazione economica a quella della Commissione (sentenze del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 75, e del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 49). Tuttavia, il giudice dell’Unione è tenuto in particolare a verificare non solo l’esattezza materiale degli elementi di prova addotti, la loro attendibilità e la loro coerenza, ma altresì ad accertare se tali elementi costituiscano l’insieme dei dati rilevanti che devono essere presi in considerazione per valutare una situazione complessa e se siano di natura tale da corroborare le conclusioni che ne sono state tratte (sentenze del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione, C73/11 P, EU:C:2013:32, punto 76, e del 21 marzo 2013, Commissione/Buczek Automotive, C405/11 P, non pubblicata, EU:C:2013:186, punto 50). Nel caso di specie va esaminato, in primo luogo, l’argomento proposto dalla Commissione nell’ambito del quinto e del sesto motivo, argomento diretto contro la parte della sentenza impugnata relativa al procedimento di liquidazione giudiziaria. A tal proposito, sotto un primo profilo, vanno respinti gli argomenti dedotti dalla Commissione e relativi al fatto che occorrerebbe determinare, in un primo momento, il punto di vista soggettivo dell’autorità pubblica competente e, in seconda battuta, porre a raffronto l’approccio di tale autorità con quello di un creditore privato ipotetico, in quanto la pertinenza di un simile ragionamento è già stata esclusa, nell’ambito dell’esame del secondo e quarto motivo, nei limiti in cui tale ragionamento riposa su una erronea portata del criterio del creditore privato. Sotto un secondo profilo, nella parte in cui la Commissione contesta al Tribunale di aver creato – in particolare non avendo ristretto l’obbligo di verifica della Commissione agli elementi a propria disposizione – un nuovo requisito che imporrebbe all’Istituzione un onere eccessivo, consistente nel dover ricercare tutti gli elementi e le
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informazioni «immaginabili», va rilevato che l’argomento della Commissione muove da una lettura erronea della sentenza impugnata. A tal proposito, innanzitutto, va rilevato che il Tribunale ha dichiarato, in particolare ai punti da 134 a 137 della sentenza impugnata, che la valutazione del criterio del creditore privato dev’essere effettuata con riferimento alla situazione più vicina possibile a quella dell’autorità pubblica in questione. Il Tribunale ha quindi esposto, ai punti da 138 a 143 della sentenza impugnata, i principi che, a suo parere, disciplinano l’onere della prova gravante sulla Commissione rilevando, in tale contesto, gli elementi che l’Istituzione deve, eventualmente, reperire e tenere in considerazione nell’ambito del proprio esame, nonché i limiti generali dei propri obblighi investigativi, quali elaborati dalla giurisprudenza dei giudici dell’Unione. A tal proposito, occorre anche ricordare che la legittimità di una decisione in materia di aiuti di Stato deve essere valutata dal giudice dell’Unione alla luce delle informazioni di cui la Commissione poteva disporre quando l’ha adottata (sentenza del 2 settembre 2010, Commissione/Scott, C290/07 P, EU:C:2010:480, punto 91 e giurisprudenza ivi citata). Orbene, gli elementi d’informazione di cui la Commissione «poteva disporre» includono quelli che risultavano pertinenti ai fini della valutazione da compiere conformemente alla giurisprudenza richiamata supra ai punti da 59 a 61 e di cui essa avrebbe potuto, su richiesta, ottenere la produzione in sede di procedimento amministrativo. Infine, ai punti da 171 a 178 della sentenza impugnata, il Tribunale ha ricordato che, secondo la propria giurisprudenza, la Commissione non è in alcun modo sottoposta ad un obbligo generale di avvalersi di periti esterni e ha respinto, su tali basi, le asserzioni della Frucona Košice secondo cui la Commissione avrebbe dovuto procurarsi nuove perizie esterne. Orbene, i punti da 180 a 213 e 235 della sentenza impugnata, contro cui sono dirette le censure della Commissione richiamate supra al punto 64, letti alla luce del contesto di diritto ricordato dal Tribunale, non comporterebbero nuovi requisiti incompatibili con la giurisprudenza della Corte. Pertanto, il rilievo in punto di fatto di cui al punto 185 della sentenza impugnata, secondo cui la Commissione avrebbe determinato i coefficienti di liquidazione in via deduttiva basandosi sugli elementi risultanti dagli atti del procedimento amministrativo, non avrebbe proceduto ad alcuna analisi metodologica o economica né avrebbe richiesto informazioni supplementari intese a verificare e a suffragare le conclusioni che essa aveva tratto da tali elementi, non può essere intesa quale requisito che travalicherebbe quelli previsti in base ai principi ricordati dal Tribunale ai punti da 138 a 143 della sentenza impugnata o che sarebbe incompatibile con quelli illustrati supra ai punti 60 e 61. Per quanto concerne le valutazioni di fatto compiute dal Tribunale di cui ai punti 186, 196, 200 e 201 della sentenza impugnata, secondo cui gli elementi risultanti dagli atti del procedimento amministrativo non sarebbero idonei a suffragare in maniera sufficiente le valutazioni della Commissione dei coefficienti di liquidazione, ragion per cui la Commissione avrebbe dovuto pertanto cercare di ottenere informazioni sup-
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plementari al fine di verificare e supportare le proprie conclusioni, tali valutazioni non oltrepassano in alcun modo i limiti del controllo giurisdizionale dell’errore manifesto di valutazione, da effettuarsi da parte del Tribunale, in virtù della giurisprudenza richiamata supra al punto 64, e non si può neppure ritenere che essi introducano un requisito incompatibile con i principi esposti supra ai punti 60 e 61. Nei limiti in cui il Tribunale, al punto 186 della sentenza impugnata, ha dichiarato che gli elementi risultanti dagli atti del procedimento amministrativo dovrebbero fondare le conclusioni tratte dalla Commissione non solo in modo sufficiente, ma anche in modo univoco, è sufficiente rilevare che risulta dai punti da 187 a 201 della sentenza impugnata che, in ogni caso, il Tribunale non ha proceduto alla propria valutazione in relazione a tale requisito e non vi ha neppure fatto cenno nell’ambito delle considerazioni di cui ai punti 196, 200, 201 e 235 della sentenza impugnata. Infatti, come rilevato dall’avvocato generale ai paragrafi 125 e 131 delle proprie conclusioni, il Tribunale si è limitato, ai punti da 191 a 195, 198 e 199 della sentenza impugnata, a rilevare contraddizioni interne della decisione controversa e a svolgere constatazioni di fatto secondo cui nessun elemento risultante dagli atti del procedimento amministrativo può fornire una spiegazione relativa ai coefficienti di liquidazione prescelti dalla Commissione. Pertanto, contrariamente a quanto affermato dalla Commissione, il Tribunale non ha applicato un criterio giuridico erroneo. Ne consegue che le asserzioni della Commissione devono essere respinte in parte in quanto inoperanti, e in parte in quanto infondate. In secondo luogo, nei limiti in cui la Commissione fa valere che gli errori di diritto da essa identificati hanno parimenti viziato la valutazione del Tribunale relativa alla durata del procedimento di liquidazione giudiziaria, di cui ai punti da 223 a 235 della sentenza impugnata, nonché la valutazione relativa al procedimento di esecuzione fiscale, di cui ai punti da 277 a 284 di detta sentenza, è sufficiente osservare che, non avendo l’esame delle asserzioni della Commissione condotto all’accertamento di errori di diritto, tale argomento è privo di fondamento. Peraltro, ai punti 279, 282 e 283 della sentenza impugnata, il Tribunale ha rilevato che la Commissione, anzitutto, non aveva fornito informazioni circa la prevedibile durata del procedimento di esecuzione fiscale, che essa non aveva poi preso in considerazione che detto procedimento poteva essere interrotto dall’avvio di un procedimento di liquidazione giudiziaria e, infine, che essa non aveva fornito informazioni circa i costi che un simile procedimento può far sorgere. Orbene, simili considerazioni, nella parte in cui si riferiscono ad informazioni che un creditore privato normalmente prudente e diligente, posto in una situazione paragonabile a quella dell’amministrazione finanziaria locale, non poteva in astratto ignorare, sono tali, esse sole, da giustificare la decisione del Tribunale secondo cui la Commissione non ha preso in considerazione tutti gli elementi pertinenti (v., in tal senso, sentenza del 24 gennaio 2013, Frucona Košice/Commissione C73/11 P, EU:C:2013:32, punti 77, 78 e 81).
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Peraltro, discende dai punti da 69 a 84 supra che, contrariamente a quanto sostenuto dalla Commissione, dalla sentenza impugnata emerge che il Tribunale ha sufficientemente precisato l’estensione degli obblighi di indagine della Commissione, da un lato, e la natura degli elementi aggiuntivi che quest’ultima avrebbe potuto sollecitare, dall’altro. Ne consegue che il quinto e il sesto motivo devono essere respinti in quanto infondati. Poiché tutti i motivi offerti dalla Commissione a sostegno del presente ricorso devono essere respinti, va respinto il ricorso in toto. Sulle spese Ai sensi dell’articolo 184, paragrafo 2, del regolamento di procedura della Corte, quando l’impugnazione è respinta, la Corte statuisce sulle spese. Ai sensi dell’articolo 138, paragrafo 1, di tale regolamento, applicabile al procedimento di impugnazione in forza del suo articolo 184, paragrafo 1, la parte soccombente è condannata alle spese se ne è stata fatta domanda. La Commissione, rimasta soccombente, dev’essere condannata alle spese, conformemente alla domanda della Frucona Košice. Per questi motivi, la Corte (Prima Sezione) dichiara e statuisce: 1) L’impugnazione è respinta. 2) La Commissione europea è condannata alle spese. [Omissis]
Quando l’accettazione di un concordato comportante una transazione fiscale può costituire un aiuto di Stato: l’applicazione del criterio del creditore privato. Sommario: 1. Premessa. – 2. La controversia Frucona II. – 3. La nozione di aiuto di Stato. – 4. Il possibile carattere selettivo dei concordati con transazione fiscale. – 5. Il vantaggio percepito dal beneficiario dell’aiuto. – 6. Il criterio del creditore privato. – 6.1. Analogie con il principio dell’investitore privato. – 6.2. Differenze tra il criterio dell’investitore privato e quello del creditore privato. – 6.3. L’applicazione del criterio del creditore privato nel caso di specie. – 6.4. L’evoluzione giurisprudenziale sull’onere della prova dalla sentenza Land Burgenland alle sentenze Buczek e Frucona II. – 7. Conclusioni. Partendo dalla recente sentenza della Corte di giustizia Frucona II, la nota affronta una parte della complessa tematica dell’applicazione della disciplina degli aiuti di Stato alle misure di carattere fiscale, più specificamente quella concernente l’applicazione del criterio del creditore privato. In sostanza, al fine di valutare se alcune imprese hanno ricevuto delle agevolazioni dallo Stato, la Commissione è chiamata a valutare il comportamento delle amministrazioni fiscali impegnate a riscuotere dei crediti presso i contribuenti alla luce di quello che può essere considerato come un criterio di razionalità e di efficienza economica. In effetti, quando la Pubblica Amministrazione accetta di partecipare ad un concordato, e più in genere quando rinuncia ad escutere una parte delle imposte nei confronti di un’impresa, può concedere a quest’ultima un vantaggio. Tale vantaggio diviene un vero e proprio aiuto ai sensi dell’art. 107, par. 1 TFUE,
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quando la scelta dell’amministrazione fiscale risulta essere differente da quella che, nelle stesse circostanze, avrebbe compiuto un ipoteco creditore privato che avesse compiuto un’attenta e ponderata valutazione dei propri interessi. Nella pronuncia commentata, la Corte ha peraltro definitivamente chiarito che spetta alla Commissione dimostrare, attraverso un’analisi economica coerente e dettagliata, che nel singolo caso il principio non è stato rispetto. Starting from the analysis of the recent Court of Justice, judgment in the Frucona II case, the article comments on the complex issue of the application of the State aid rules to fiscal measures and, more specifically, about the application of the private creditor test. In essence, in order to assess whether some undertakings have received a State aid, the Commission can be called on to evaluate the behavior of the tax administrations engaged in collecting taxes and credits from the taxpayers, in the light of what can be considered as a criterion of rationality and of economic efficiency. Indeed, when the fiscal Administration agrees to take part in a fiscal settlement, or more generally, when it renounces to part of the taxes that a company should pay, it is offering him an advantage. This advantage becomes a State aid within the meaning of art. 107, par. 1 TFEU, when the choice of the tax administration differs from that which, under the same circumstances, would have been taken by a private creditor which carried out a careful and weighted assessment of its own interests. In the article it is also clarified that in the Frucona II judgment the Court has also definitively stated that it is for the Commission to demonstrate, through a coherent and detailed economic analysis, that in the individual case the criterion of the private investor has not been respected.
1. Premessa. – La disciplina europea degli aiuti di Stato è, come è ben noto, una materia complessa ed in costante divenire che, con il passare del tempo viene a coprire un numero crescente di comportamenti adottati dagli Stati e dalle pubbliche autorità. In particolare, in tempi relativamente recenti, le disposizioni nazionali in materia fiscale sono maggiormente entrate nel mirino della Commissione la quale: da un lato ha iniziato a qualificare in maniera inflessibile come aiuti di Stato qualsiasi differenza nelle imposte applicabili ad attività simili, anche se non direttamente concorrenti (1); dall’altro, per colpire quelle pratiche di
(1) Per un caso particolarmente significativo si confronti la Dec. della Commissione del 25 luglio 2012, n. 2013/199/UE, «Tassi di imposizione differenziati applicati dall’Irlanda al trasporto aereo», in GUUE del 30 aprile 2013, n. L 119, 30, confermata dalla Corte di giustizia con sentenza 21 dicembre 2016, in cause riunite C164/15 P e C165/15 P, Commissione europea c. Aer Lingus e Ryanair, ECLI:EU:C:2016:990, in Rivista di diritto tributario, 2017, Vol. XXVIII, 2017, n. 2, parte IV, 36, con nota critica di M. Orlandi, Differenza tra l’ammontare delle accise applicabili a servizi simili ed aiuti di Stato: in merito alla sentenza Aer Lingus e Ryanair c. Commissione.
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transfer pricing (transazioni tra imprese appartenenti allo stesso gruppo) che non avvengono a condizioni di mercato (2), ma sono comunque omologate ed accettate dalle autorità fiscali attraverso dei tax ruling (3), ha cercato di imporre in questa materia l’applicazione del principio di libera concorrenza (4); da un terzo è riuscita a definire ed imporre un principio generale, il criterio del creditore privato (o hypothetical private creditor test), secondo il quale le amministrazioni fiscali chiamate a recuperare somme vantate nei confronti di imprese, si devono comportare alla stregua di un normale soggetto operante sul mercato che si muove facendo tutto quanto sia possibile per incassare i propri crediti (5), applicando quindi di volta in volta, le procedure ed i criteri che risultano essere più favorevoli all’amministrazione locale.
(2) Quando una transazione tra imprese dello stesso gruppo avviene a condizioni diverse da quelle di mercato vi è il legittimo sospetto che una delle imprese abbia inteso effettuarla al fine di ridurre i propri utili e, corrispettivamente, abbattere la propria base imponibile. (3) L’atto di accettazione di imposte più basse di quelle normalmente dovute, soprattutto quando origina da una discrezionalità della pubblica amministrazione, implica generalmente l’intenzione dello Stato di aiutare le imprese interessate. Si cfr. in proposito M. Orlandi, Principio di libera concorrenza, interpelli e disciplina degli aiuti di Stato: un rapporto complesso, in Il diritto dell’Unione europea, 2017, n. 3, 531. (4) Il principio di libera concorrenza costituisce un consolidato principio giuridico in ambito OCSE, ma la sua osservanza non è imposta in alcun atto vincolante dell’UE (si cfr. M. Orlandi, Principio di libera concorrenza ..., cit.; P.J. Wattel, The Cat and the Pigeons: some General comments on (TP) Tax Rulings and State Aid After the Starbucks and Fiat Decisions, in State Aid Law and Business Taxation, a cura di I. Richelle, W. Schön, E. Traversa, Springer, Heidelberg, 2016, 185, in partic. a 186). Per quanto concerne il diritto interno di alcuni degli Stati membri è da sottolineare che: l’Irlanda nega che esso appartenga al proprio sistema giuridico (si cfr. la posizione espressa dall’Irlanda così come riportata nella Dec. 30 agosto 2016, n. C(2016) 5605 final, On State Aid SA.38373 (2014/C) (ex 2014/NN) (ex 2014/CP) implemented by Ireland to Apple, punto 197); il Belgio ammettendo rettifiche degli utili in diminuzione e non in aumento, lo applica in una maniera tanto diversa da quella assunta a riferimento della Commissione che quest’ultima lo qualifica espressamente come un aiuto di Stato (si cfr. la Dec. dell’11 gennaio 2016, 2016/1699/ UE, «relativa al regime di aiuti di Stato sulle esenzioni degli utili in eccesso SA.37667 (2015/C) (ex 2015/NN) cui il Belgio ha dato esecuzione», in GUUE del 27 settembre 2016, n. L. 260, 61, punti 151 e 156); l’Italia lo ha introdotto nel 2017 (attraverso la modifica del TURI di cui al DPR 22 dicembre 1986, n. 917, art. 110, co. 7, operata dal DL 24 aprile 2017, n. 50, in GU 24 aprile 2017, n. 95, art. 59, co. 2, il quale ha trasformato il vecchio riferimento al «valore normale» nei prezzi di trasferimento con il prezzo di «libera concorrenza»); il Lussemburgo lo applica in una declinazione diversa da quella usata dalla Commissione (quella propria dell’art. 164 del Codice lussemburghese delle imposte sui redditi, della Circolare 164/2 del 28 gennaio 2011, e della prassi amministrativa lussemburghese); l’Olanda lo ha introdotto nel 2001 in vista del recepimento delle linee guida OCSE (e non al fine di recepire un principio UE). (5) Il principio è stato sancito per la prima volta da Corte giust. 29 aprile 1999, in causa C 342/96, Tubacex, ECLI:EU:C:1999:210, in Racc. 1999, I-2459.
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Oggetto di questo lavoro è proprio la terza fattispecie. L’occasione di un commento è offerta dall’emanazione di una recente sentenza della Corte di giustizia, la Frucona Košice (o Frucona II) del 20 settembre 2017 (6), la quale ha concluso una controversia in materia di aiuti di Stato tramite strumenti fiscali, che durava ormai da 13 anni ed era già al suo terzo passaggio in Corte di giustizia. Nel caso di specie la richiamata pronuncia ha dato torto alla Commissione europea, la quale non aveva adeguatamente motivato una parte di una propria Decisione. In buona sostanza il beneficiario dell’aiuto, e con esso gli Stati membri in genere, hanno finito con il registrare un discreto successo: in effetti, se la pronuncia circoscrive la discrezionalità delle amministrazioni fiscali nazionali lo fa in maniera ragionevole e soprattutto ricorda che, anche in questo settore, l’onere della prova della sussistenza di un aiuto di Stato incombe sulla Commissione. La Corte ha inoltre chiarito meglio quali sono gli elementi che, in questo settore, devono essere espressamente valutati dalla Commissione e, se del caso dai giudici nazionali (7) – in Italia quelli amministrativi (8) - nell’applicare la normativa europea relativa agli aiuti di Stato. Da segnalare che, come vedremo meglio in seguito, il criterio (o principio) è stato applicato in un contesto specifico ma in realtà ha una portata
(6) Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, ECLI:EU:C:2017:706. (7) Sulla competenza del giudice nazionale ad applicare gli artt. 107 e 108 TFUE si cfr.: C.E. Baldi, Il ruolo del giudice nazionale nell’applicazione del diritto comunitario in materia di aiuti di Stato, in Aiuti di Stato fiscali e giurisdizioni nazionali: Problemi attuali. Atti e documenti del progetto di formazione e ricerca National Tax Judges and Fiscal State Aid, a cura di A. Di Pietro, A. Mondini, Cacucci, Bari 2015, 33; M. Orlandi, Sull’applicabilità diretta da parte del giudice italiano degli artt. 92 e 93 del Trattato istitutivo della CEE, in Giurisprudenza di Merito, n. 4/5, 1994, IV, 791; Id., Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, ESI, Napoli 1995, 613 e ss. (8) Come è ben noto, in Italia la L. 24 dicembre 2012, n. 234, «Norme generali sulla partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea», in GURI del 4 gennaio 2012, n. 3, art. 49, ha modificato il codice del processo amministrativo di cui all’allegato 1 del D.L. 2 luglio 2010, n. 104, art. 133, il quale ora dispone che: «sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo, salvo ulteriori previsioni di legge […] le controversie relative agli atti ed ai provvedimenti che concedono aiuti di Stato in violazione dell’art. 108, par. 3, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea e le controversie aventi ad oggetto gli atti e i provvedimenti adottati in esecuzione di una decisione di recupero di cui all’articolo 14 del Reg. (CE) n. 659/1999 del Consiglio, del 22 marzo 1999, a prescindere dalla forma dell’aiuto e dal soggetto che l’ha concesso». Ne sembrerebbe derivare che qualora un concordato fiscale dovesse contenere un aiuto di Stato la sua impugnazione dovrebbe essere conosciuta dal Giudice amministrativo!. Sullo specifico argomento si cfr. R. Politi, Riparto della giurisdizione sulle controversie in materia di aiuti di Stato fiscali, in Aiuti di Stato fiscali e giurisdizioni nazionali ..., cit., 77.
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generale e risulta applicabile nell’ambito di ogni controversia in materia tributaria, quando l’amministrazione fiscale finisca con l’accettare un pagamento di imposte che sia inferiore a quello normalmente dovuto (9), o lo dilazioni a condizioni migliori di quelle di mercato (10). In analogia con quanto avvenuto nel settore dei tax ruling, dove la Commissione ha avviato un’indagine su larga scala chiedendo agli Stati membri di comunicarle le rispettive prassi applicative della normativa in materia, nonché la trasmissione di un numero rilevante di provvedimenti applicativi della stessa, così ora la Commissione potrebbe chiedere agli Stati membri la trasmissione più o meno sistematica dei provvedimenti più significativi che hanno portato alla chiusura di liti fiscali o al recupero solo parziale di crediti. Quanto sopra allo scopo di verificare se gli stessi applichino più o meno correttamente il criterio del creditore privato o se in realtà cerchino surrettiziamente di aiutare alcune imprese praticando ingiustificati ‘sconti fiscali’ (11). 2. La controversia Frucona II. – La controversia conclusa con la sentenza Frucona II sostanzialmente è nata nel 2004 quando la Frucona Košice, impresa slovacca che produceva e distribuiva bevande alcoliche, è venuta a trovarsi in gravi difficoltà finanziare e non ha versato all’amministrazione fiscale alcune accise al cui pagamento era tenuta. Nel perdurare delle proprie difficoltà l’impresa ha presentato istanza per l’avvio di una procedura di concordato (12) davanti al Tribunale territorialmente competente, proponendo a ciascuno dei propri creditori un pagamento pari al 35% delle somme effettivamente dovute. La proposta di concordato veniva accettata dai vari creditori, inclusa l’amministrazione fiscale locale, che era di gran lunga la principale creditrice della Frucona Košice (e che a seguito del concordato ha effetti-
(9) È da ritenere che, per quanto riguarda l’ordinamento italiano, sia applicabile anche ad altre fattispecie come, ad esempio, gli accertamenti con adesione e le conciliazioni fiscali. (10) Si cfr. Corte giust. 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, ECLI:EU:C:1999:332, in Racc. 1999, I-3913, punto 24. (11) Da notare peraltro che il criterio ha origini giurisprudenziali e non è formalizzato in alcun atto vincolante dell’UE. (12) Nella Repubblica slovacca il concordato con i creditori costituisce una procedura giudiziaria finalizzata, come nel caso della procedura di fallimento, a disciplinare la situazione finanziaria di una società che si trova in bancarotta. Essa si differenzia da un fallimento poiché la società che accetta il concordato prosegue le proprie attività (mentre con il fallimento le cessa) senza che avvengano mutazioni della proprietà (mentre con il fallimento i suoi attivi sono venduti a un nuovo proprietario).
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vamente incassato crediti fiscali per 244-277-841 SKK), la quale in buona sostanza accettava, come gli altri creditori, di cancellare una consistente parte del debito fiscale dell’impresa e questo, nonostante disponesse di garanzie sul patrimonio immobiliare, mobiliare e sui crediti della Frucona Košice per un importo superiore alla cifra accettata. Il 14 luglio dello stesso anno il Tribunale competente omologava il concordato, ma pochi giorni dopo, con lettera del 20 luglio, l’amministrazione fiscale rilevava che le modalità con le quali si era giunti al concordato, comportando un sensibile ‘minore introito’ per le casse dello Stato, nascondevano un vero e proprio aiuto ai sensi dell’art. 107 TFUE e quindi il concordato avrebbe dovuto formare l’oggetto di una notifica preventiva alla Commissione UE e di una esplicita autorizzazione da parte di quest’ultima. In mancanza, avrebbe dovuto essere considerato un aiuto illegittimamente concesso. Venuta a conoscenza della situazione la Commissione ha tempestivamente avviato le procedure di cui al Regolamento n. 659/1999/CE (13) (oggi codificato e rifuso nel Regolamento 2015/1589/UE (14), e quindi, con Decisione 7 giugno 2006, n. 2007/254/CE (15), ha accertato che fosse concesso un aiuto di Stato incompatibile con il mercato comune. Visto che l’agevolazione era stata erogata in violazione dell’obbligo di notificazione preventiva ne ha ordinato il recupero. La Decisione della Commissione è stata in un primo tempo impugnata dalla Frucona Košice davanti al Tribunale UE il quale, con sentenza 7 dicembre 2010 (16), ha dichiarato infondata l’impugnazione e subito dopo, il 22 dicembre dello stesso anno, a seguito di una separata procedura di infrazione, la Corte di giustizia condannava la Repubblica slovacca per non aver tempestivamente adempito agli obblighi stabiliti nella Decisione 7 giugno 2006, n. 2007/254/CE,
(13) Reg. del Consiglio, del 22 marzo 1999, n. 659/1999/CE, «recante modalità di applicazione dell’articolo 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea», in GUCE del 27 marzo 1999, n. L 83, 1. (14) Reg. del Consiglio, del 13 luglio 2015, n. 2015/1589, «recante modalità di applicazione dell’articolo 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea», in GUUE del 24 settembre 2015, n. L 248, 9. (15) Dec. della Commissione del 7 giugno 2006, n. 2007/254/CE, «relativa all’aiuto di Stato C 25/2005 (ex NN 21/2005) concesso dalla Repubblica slovacca a favore di Frucona Košice, a. s.», in GUCE del 30 aprile 2007, n. L 112, 14. (16) Si cfr. Trib. 7 dicembre 2010, in causa T11/07, Frucona Košice c. Commissione, ECLI: EU:T:2010:498, in Racc. 2010, II-5453, con note di O. Otting, S. Rothweiler, Judgment of the General Court in Case T-11/07 - Frucona Košice a.s. v European Commission, in European State Aid Law Quarterly, 2012, n. 2, 253.
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recuperando l’aiuto indebitamente concesso (17). La pronuncia del Tribunale è stata quindi appellata davanti alla Corte di giustizia la quale, con sentenza 24 gennaio 2013 (18), ha accertato la sussistenza di alcuni errori di diritto nelle valutazioni della Commissione poi avallate dal Tribunale (19), ed ha quindi annullato la sentenza di quest’ultimo rinviando la causa in primo grado e stabilendo che la nuova pronuncia avrebbe dovuto investire alcuni punti di diritto non sufficientemente esaminati nel corso del primo procedimento. In relazione alle valutazioni della Corte, il 16 ottobre 2013 la Commissione adottava una nuova Decisione, la n. 2014/342/UE (20), attraverso il cui art. 1 annullava la precedente Decisione 7 giugno 2006 considerandola irrimedia-
(17) Emerge dalla sentenza della Corte del 22 dicembre 2010, in causa C507/08, Commissione c. Repubblica slovacca, ECLI:EU:C:2010:802, in Racc. 2010, I-13489, che la Repubblica slovacca aveva avviato tempestivamente le procedure per il recupero dell’aiuto ma si era scontrata con il fatto che la decisione del Tribunale che omologava il concordato aveva acquisito autorità di cosa giudicata e, dunque, in applicazione del diritto interno non poteva essere rimessa in discussione. Proprio con riferimento all’argomentazione secondo la quale la pronuncia del Tribunale slovacco avrebbe acquisito autorità di cosa giudicata, al punto 58 della sentenza Commissione c. Repubblica slovacca, la Corte riconosce in linea di principio l’argomentazione affermando «l’importanza del principio dell’autorità del giudicato vuoi nell’ordinamento giuridico dell’Unione vuoi negli ordinamenti giuridici nazionali. Infatti, al fine di garantire sia la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, sia una buona amministrazione della giustizia, è importante che le decisioni giurisdizionali divenute definitive dopo l’esaurimento delle vie di ricorso disponibili o dopo la scadenza dei termini previsti per questi ricorsi non possano più essere rimesse in discussione». Peraltro dal successivo punto 61 della stessa sentenza emerge che, nonostante la vigenza del principio, «sia dal fascicolo sia dalle osservazioni formulate in sede di udienza dalla Repubblica slovacca emerge che le autorità nazionali di tale Stato membro disponevano di strumenti del diritto nazionale che, se utilizzati in modo diligente, avrebbero potuto offrire a tale Stato la possibilità di recuperare l’aiuto in oggetto». Non essendovi la possibilità di accedere al fascicolo non si può comprendere quali possano essere questi strumenti alternativi che avrebbero consentito di recuperare l’aiuto superando il principio dell’autorità del giudicato. (18) Corte giust. 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona Košice (Frucona I), ECLI:EU:C:2013:32, in Racc. digitale, con nota di A. Nucara, In Search of the Holy Grail of a Hypothetical Private Creditor, in European State Aid Law Quarterly, 2014, 80. (19) In particolare la Corte ha stabilito che la Commissione, nel valutare il comportamento dell’amministrazione fiscale slovacca, ed in particolare la sua opzione di accettare il concordato, non aveva tenuto in considerazione la durata delle possibili opzioni alternative al concordato ed in particolare di quelle necessarie per un procedimento di liquidazione giudiziaria. (20) Dec. della Commissione del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, «relativa all’aiuto di stato SA.18211 (C 25/2005) (ex NN 21/2005) al quale la Repubblica slovacca ha dato esecuzione in favore di Frucona Košice a.s.», in GUUE del 14 giugno 2014, n. L 176, 38.
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bilmente viziata (21) ma, all’art. 2, statuiva nuovamente che «l’aiuto di Stato che la Repubblica slovacca ha concesso in favore della [Frucona Košice], per un importo di SKK 416.515.990 [circa EUR 13.900.000], è incompatibile con il mercato interno». Al successivo art. 3, la Commissione disponeva quindi l’obbligo per la Repubblica slovacca di recuperare integralmente l’aiuto in questione, cui dovevano aggiungersi gli interessi di mora. Anche questa Decisione veniva impugnata innanzi al Tribunale (22) il quale con sentenza del 16 marzo 2016, accoglieva alcuni dei motivi del ricorso e conseguentemente annullava la nuova Decisione della Commissione (23). A questo punto la Commissione impugnava la sentenza del Tribunale, impugnazione che è stata decisa dalla Corte di giustizia con la sentenza del 20 settembre 2017, Frucona II (24), la quale ha definitivamente confermato la pronuncia del Tribunale e l’illegittimità della Decisione della Commissione. Peraltro tale pronuncia non faceva venir meno l’accertamento, ormai dichiarato, che la Repubblica slovacca non avendo tempestivamente ottemperato alla Decisione n. 2007/254/CE, era venuta meno ai propri obblighi. Per quanto più specificamente relativo alle argomentazioni giuridiche e ai punti di diritto trattati, in buona sostanza, la controversia è stata incentrata in primo luogo sulla qualificabilità alla stregua di un aiuto di Stato di un concordato fallimentare comportante una transazione fiscale e, più in genere, sulle misure che uno Stato è tenuto a porre in essere quando vanta un credito nei confronti di un’impresa. In secondo luogo la Corte ha definitivamente confermato che grava sulla Commissione l’onere di dimostrare che lo Stato, non comportandosi come un normale creditore privato, nelle singole circostanze ha concesso un aiuto ad alcune imprese.
(21) Come sottolineato nelle conclusioni presentate il dall’avv. gen. Nils Wahl, il 3 maggio 2017, nella causa C 300/16, Frucona II, cit., e come emerge dalla Dec. del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, cit., punto 10, la stessa è stata adottata per porre rimedio agli errori che viziavano la Dec. del 7 giugno 2006, n. 2007/254/CE, cit. (22) Il quale dunque con ordinanza del 21 marzo 2014 poteva dichiarare di non doversi più pronunciare sull’impugnazione dell’originaria Decisione. (23) Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, ECLI:EU:T:2016:152, con nota di U. Soltész, Frucona Košice: The Application of the ‘Private Creditor Test’ Under the General Court’s Scrutiny, in Journal of European Competition Law & Practice, 2016, vol. 7, n. 7, 455. (24) In commento.
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3. La nozione di aiuto di Stato. – Il primo punto da sottolineare concerne il fatto che i concordati e le connesse transazioni fiscali, per loro stessa natura, non costituiscono delle misure destinate ad agevolare talune imprese o, peggio, a falsare la concorrenza all’interno del mercato unico europeo ma, un poco in tutti gli Stati, servono a gestire situazioni particolari contemperando l’interesse generale ad una sopravvivenza delle singole imprese che si trovano in una crisi più o meno momentanea, con quello dei creditori delle stesse imprese ad incassare la massima parte di quanto spetta loro. In particolare, è da sottolineare che una transazione fiscale rappresenta una deroga al principio generale di indisponibilità ed irrinunciabilità dei crediti tributari e normalmente è applicata con rigore dalle amministrazioni fiscali. Vi è da aggiungere che la conscia o colpevole opzione per un concordato sfavorevole allo Stato è significativamente scoraggiata dal fatto che sarebbe tale da esporre il funzionario statale che materialmente la compie ad una responsabilità per danno erariale (25). Resta il fatto che, in alcuni casi particolari, può anche costituire un aiuto di Stato. Per fare chiarezza sul punto sembra utile tornare, sia pur brevemente, sulla definizione di aiuto di Stato. Secondo un’impostazione ormai consolidata, la definizione di aiuto di Stato è particolarmente ampia e vi rientra ogni meccanismo tale da assicurare ad una specifica impresa, o ad un determinato settore, un vantaggio od un beneficio la cui provenienza ed i cui costi siano sopportati dal settore pubblico (26). In effetti, secondo una consolidata giurisprudenza, la nozione di aiuto di Stato non coincide con quella più ristretta di sovvenzione ed abbraccia tutti gli «interventi i quali, in varie forme allievino gli oneri che normalmente gravano sul bilancio di un’impresa e che di conseguenza, senza essere sovvenzioni in senso stretto, ne hanno la stessa natura e producono identici effetti» (27). Nella definizione di aiuto di Stato possono evidentemente ri-
(25) Sulla specifica tematica si cfr. M. Ingrosso, Aiuti di stato e danno erariale, in Aiuti di Stato fiscali e giurisdizioni nazionali ... cit., 158. (26) Così M. Orlandi, Gli aiuti di Stato nel diritto comunitario, cit., 129. (27) Così C. giust. 23 febbraio 1961, in causa 30/59, De gezamenlijke Steenkolenmijnen, ECLI:EU:C:1961:2, in Racc. 1961, 3. Cfr. anche C. giust.: 2 luglio 1974, in causa 173/73, Assegni familiari per l’industria tessile, ECLI:EU:C:1974:71, in Racc. 1974, 709, punto 27; 10 luglio 1986, in causa 234/84, Belgio c. Commissione, ECLI:EU:C:1986:302, in Racc. 1986, 2263, punto 13; 24 febbraio 1987, in causa 310/85, Deufil, ECLI:EU:C:1987:96, in Racc. 1987, 901, punto 8; 15 marzo 1994, in causa C387/92, Banco Exterior de España, ECLI:EU:C:1994:100, in Racc. 1994, I-877, punto 13; 11 luglio 1996, in causa C39/94, SFEI, ECLI:EU:C:1996:285,
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entrare anche provvedimenti che comportano delle esenzioni da imposte e tasse, anche se è altrettanto evidente che non ogni loro riduzione può essere considerata come un’agevolazione. Per integrare la nozione di aiuto di Stato serve, come vedremo meglio in seguito, che il regime fiscale in questione sia selettivo (28), vada cioè a vantaggio di una o più imprese favorendole rispetto ai propri concorrenti, mentre una misura fiscale di carattere generale, applicabile a tutti gli operatori economici, non può costituire un aiuto di Stato (29). Più specificamente, secondo la giurisprudenza della Corte, perché sia applicabile la disciplina europea sugli aiuti di Stato devono ricorrere 4 condizioni: «in primo luogo, deve trattarsi di un intervento dello Stato o effettuato mediante risorse statali. In secondo luogo, tale intervento deve poter incidere sugli scambi tra Stati membri. In terzo luogo, deve concedere un vantaggio al suo beneficiario. In quarto luogo deve falsare o minaccia-
in Racc. 1996, I-3547, punto 58; 26 settembre 1996, in causa C241/94, Francia c. Commissione, in Racc. 1996, I-4551, punto 34; 1° dicembre 1998, in causa C200/97, Ecotrade, ECLI:EU:C:1998:579, in Racc. 1998, I-7907, punto 34; 17 giugno 1999, in causa C295/97, Piaggio, ECLI:EU:C:2003:252, in Racc. 1999, I-3735, punto 34; 8 novembre 2001, in causa C143/99, Adria-Wien Pipeline, ECLI:EU:C:2001:598, in Racc. 2001, I-8365, punto 38; 22 novembre 2001, in causa C53/00, Ferring, ECLI:EU:C:2001:627, in Racc. 2001, I-9067, punto 15; 8 maggio 2003, in cause riunite nn. C328/99 e C399/00, SIM 2, in Racc. 2003, I-4035, punto 35; 3 marzo 2005, in causa C172/03, Heiser, ECLI:EU:C:2005:130, in Racc. 2005, I-1627, punto 36; 8 settembre 2011, in cause riunite da C78/08 a C80/08, Paint Graphos, ECLI:EU:C:2011:550, in Racc. 2011, I-7611, punto 45; 15 novembre 2011, in cause riunite C106/09 P e C107/09 P, Commissione c. Government of Gibraltar, ECLI:EU:C:2011:732, in Racc. 2011, I-11113, punto 71; 21 marzo 2013, in causa C405/11P, Buczek, ECLI:EU:C:2013:186, in Racc. digitale (e con pubblicazione sommaria in European State Aid Law Quarterly, 2014, n. 3, 526, con nota di A. Vallery, H. Wiame, The Private Creditor Test: Anything New Under the Sun?, 528), punto 30; 9 ottobre 2014, in causa C522/13, Ministerio de Defensa, ECLI:EU:C:2014:2262, inedita, punto 22; 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 20. (28) Si cfr. Corte giust.: 15 marzo 1994, in causa C387/92, Banco Exterior de España, cit., punto 14; 19 settembre 2000, in causa C156/98, Germania c. Commissione, ECLI:EU:C:2000:467, in Racc. 2000, I-6857, punto 22; 3 marzo 2005, in causa C172/03, Heiser, cit., punto 40; 15 giugno 2006, in cause riunite C393/04 e C41/05, Air Liquide Industries Belgium, ECLI:EU:C:2006:8, in Racc. 2006, I-5293, punto 32; 22 dicembre 2008, in causa C487/06 P, British Aggregates, ECLI:EU:C:2008:757, in Racc. 2008, I-10515, punto 82; 15 novembre 2011, in cause riunite C106/09 P e C107/09 P, Commissione c. Government of Gibraltar, cit., punto 72 e 75. (29) Si cfr. Corte giust.: 3 marzo 2005, in causa C172/03, Heiser, cit., punto 43; 15 dicembre 2005, in causa C148/04, Unicredito Italiano, ECLI:EU:C:2005:774, in Racc. 2005, I-11137, punto 48; 15 novembre 2011, in cause riunite C106/09 P e C107/09 P, Commissione c. Government of Gibraltar, cit., punto 73.
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re di falsare la concorrenza» (30)). Da sottolineare che, mentre la prima e la terza condizione attengono alla nozione di aiuto la seconda e la quarta rappresentano le condizioni alle quali l’aiuto deve essere considerato incompatibile con il sistema previsto dal Trattato. In effetti la seconda e la quarta condizione, rispettivamente la capacità d’incidere sugli scambi e la loro idoneità a falsare o minacciare di falsare la concorrenza non incidono sulla qualificazione della misura statale ma circoscrivono l’ambito di applicazione dell’art. 107 TFUE (31). Resta il fatto che, ai fini dell’applicabilità dell’art. 107 par. 1 TFUE, le quattro condizioni devono ricorrere contemporaneamente (32). Visto che, nel caso di specie, l’amministrazione tributaria slovacca ha concesso alla Frucona Košice una riduzione del debito fiscale che, a prima vista, appare piuttosto vantaggiosa, sembra opportuno, anche se la Corte non ha sviluppato una specifica argomentazione in merito, verificare se effettivamente le 4 richiamate condizioni necessarie all’applicazione dell’art. 107, par. 1 TFUE, possono risultare integrate. Per quanto concerne la prima condizione, mentre un concordato con delle parti private non può determinare un costo per lo Stato, una transazione fiscale eseguita in quel contesto costituisce inequivocabilmente una misura statale in quanto viene deliberata o comunque accettata da un organo dell’amministrazione statale e, comportando una diminuzione delle imposte
(30) Così Corte giust. 24 luglio 2003, in causa C280/00, Altmark, ECLI:EU:C:2003:415, in Racc. 2003, I-7747, punto 75. Si cfr. anche Corte giust.: 20 novembre 2003, in causa C126/01, GEMO, ECLI:EU:C:2003:622, in Racc. 2003, I-13769, punto 22; 3 marzo 2005, in causa C172/03, Heiser, cit., punto 27; 1° luglio 2008, in cause riunite C341/06 P e C342/06 P, Chronopost/UFEX e a., ECLI:EU:C:2008:375, in Racc. 2010, I-4777, punti 121 e 122; 10 giugno 2010, in causa C140/09, Fallimento Traghetti del Mediterraneo, ECLI:EU:C:2010:335, in Racc. 2010, I-5243, punto 31; 29 marzo 2012, in causa C417/10, 3M Italia SpA, ECLI:EU:C:2012:184, in Racc. digitale, punto 37; 30 giugno 2016, in causa C270/15 P, Belgio c. Commissione, ECLI:EU:C:2016:489, inedita, punto 31; 21 dicembre 2016, in cause riunite C20/15 P e C21/15 P, World Duty Free Group SA, ECLI:EU:C:2016:981, inedita, punto 53. (31) Si cfr. M. Orlandi, Gli aiuti di Stato ..., cit., 173 e 181. (32) Si cfr. Corte giust: 21 marzo 1990, in causa C142/87, Tubemeuse, ECLI:EU:C:1990:125, in Racc. 1990, I-959, punto 25; 14 settembre 1994, in cause riunite da C278/92 a C-280/92, Spagna c. Commissione, ECLI:EU:C:1994:325, in Racc. 1994, I-4103, punto 20; 16 maggio 2002, in causa C482/99, Francia c. Commissione, ECLI:EU:C:2002:294, in Racc. 2002, I-4397, punto 68; 24 luglio 2003, in causa C280/00, Altmark, cit., punto 74; 20 novembre 2003, in causa C126/01, GEMO, cit., punto 21; 22 giugno 2006, in cause riunite C182/03 et C217/03, Forum 187 ASBL, ECLI:EU:C:2006:416, in Racc. 2006, I-5479, punto 84.
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effettivamente incassate od incassabili dall’erario, finisce con il gravare sulle risorse statali. Più in particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di giustizia, «una misura mediante la quale le pubbliche autorità accordino a determinate imprese un trattamento fiscale vantaggioso che, pur non implicando un trasferimento di risorse statali, collochi i beneficiari in una situazione finanziaria più favorevole rispetto agli altri contribuenti, costituisce aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107, par. 1, TFUE» (33). Sotto il profilo qui considerato essa comporta infatti la «rinuncia dello Stato membro alla riscossione di tributi che avrebbe normalmente percepito» (34), ed, in tale contesto, il «beneficio [per le imprese] costituisce la risultante del venir meno di entrate tributarie per i pubblici poteri» (35). Non rileva a tal fine che la rinuncia ai crediti avvenga per Legge o nell’ambito di una procedura amministrativa o giudiziaria (36). Data la chiarezza del contesto non sorprende che le argomentazioni contenute nella Decisione della Commissione sul punto, per quanto stringate (37), non siano state oggetto di contestazione. Quanto alla seconda condizione, un concordato fiscale può, senza grosse difficoltà, costituire una misura capace di incidere sugli scambi tra gli Stati membri. In effetti, secondo la giurisprudenza della Corte, non è necessario dimostrare che l’aiuto abbia un effettivo impatto su questi ultimi (nel senso che produca un aumento delle esportazioni od una diminuzione delle im-
(33) Così Corte giust. 18 luglio 2013, in causa C6/12, P Oy, ECLI:EU:C:2013:525, in Racc. digitale, punto 18. Si cfr. anche Corte giust.: 15 marzo 1994, in causa C387/92, Banco Exterior de España, cit., punto 14; 10 gennaio 2006, in causa C222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., ECLI:EU:C:2006:8, in Racc. 2006, I-289, punto 132; 8 settembre 2011, in cause riunite da C78/08 a C80/08, Paint Graphos, cit., punto 46; 15 novembre 2011, in cause riunite C106/09 P e C107/09 P, Commissione c. Government of Gibraltar, cit., punto 72; 21 dicembre 2016, in cause riunite C164/15 P e C165/15 P, Commissione europea c. Aer Lingus e Ryanair, cit., punto 41. (34) Così Corte giust. 19 settembre 2000, in causa C156/98, Germania c. Commissione, cit., punto 26. (35) Così Corte giust. 19 settembre 2000, in causa C156/98, Germania c. Commissione, cit., punto 27. (36) Si cfr. Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, ECLI:EU:T:2002:188, in Racc. 2002, II-3049, punto 158. (37) Nella Dec. del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punto 76, la Commissione si è limitata ad affermare che: «la cancellazione del debito nei confronti di un’autorità pubblica come l’ufficio delle imposte rappresenta una forma di utilizzazione di risorse statali».
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portazioni), ma una sua più astratta idoneità a generare tali effetti (38). Tale condizione si considera soddisfatta quando il settore interessato sia stato oggetto di liberalizzazione a livello dell’Unione europea (39) oppure vi siano degli scambi tra gli Stati membri, attuali o potenziali, del bene prodotto dall’impresa che ha ricevuto l’aiuto (40). Nel caso di specie i beni prodotti o distribuiti dalla Frucona Košice (bevande alcoliche) costituivano delle merci in concorrenza con quelle di altri produttori che venivano liberamente scambiate tra gli Stati membri e, dunque, si poteva presumere che un aiuto alla loro produzione o alla loro distribuzione avesse un impatto sugli scambi tra gli Stati membri. Anche in questo caso il contesto di riferimento non lasciava grandi margini di discussione, anche se le argomentazioni espresse dalla Commissione sul punto sono state irragionevolmente sintetiche (41), ma comunque non hanno
(38) Come chiarito da Corte giust. 8 settembre 2011, in cause riunite da C78/08 a C80/08, Paint Graphos, cit., punto 78: «per qualificare una misura nazionale come aiuto di Stato [...] basta esaminare se tale aiuto sia idoneo a incidere su tali scambi e a falsare la concorrenza». Si cfr. anche Corte giust.: 29 aprile 2004, in causa C372/97, Italia c. Commissione, ECLI:EU:C:2004:234, in Racc. 2004, I-3679, punto 44; 15 dicembre 2005, in causa C148/04, Unicredito Italiano, cit., punto 54; 10 gennaio 2006, in causa C222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a, cit., punto 140; 15 giugno 2006, in cause riunite C393/04 e C41/05, Air Liquide Industries Belgium, cit., punto 34; 30 aprile 2009, in causa C494/06 P, Wam, ECLI:EU:C:2009:272, in Racc. 2009, I-3639, punto 50. (39) Come evidenziato da Corte giust. 10 gennaio 2006, in causa C222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a, cit., punto 142: «il fatto che un settore economico sia stato oggetto di liberalizzazione a livello comunitario evidenzia un’incidenza reale o potenziale degli aiuti sulla concorrenza, nonché gli effetti di tali aiuti sugli scambi fra Stati membri». Si cfr. anche Corte giust.: 13 febbraio 2003, in causa C409/00, Spagna c. Commissione, ECLI:EU:C:2003:92, in Racc. 2003, I-1487, punto 75; 15 dicembre 2005, in causa C148/04, Unicredito Italiano, cit., punto 57. (40) In particolare Corte di giust. 8 settembre 2011, in cause riunite da C78/08 a C80/08, Paint Graphos, cit., punto 79, ha sottolineato che: «quando l’aiuto concesso da uno Stato membro rafforza la posizione di un’impresa rispetto ad altre imprese concorrenti nell’ambito degli scambi intracomunitari, questi ultimi devono ritenersi influenzati dall’aiuto». Si cfr. anche Corte giust.: 17 settembre 1980, in causa 730/79, Philip Morris, ECLI:EU:C:1980:209, in Racc. 1980, 2671, punto 11; 22 novembre 2001, in causa C53/00, Ferring, cit., punto 21; 29 aprile 2004, in causa C372/97, Italia c. Commissione, cit., punto 52; 15 dicembre 2005, in causa C148/04, Unicredito Italiano, cit., punto 56; 10 gennaio 2006, in causa C222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a, cit., punto 141; 15 giugno 2006, in cause riunite C393/04 e C41/05, Air Liquide Industries Belgium, cit., punto 35; 9 ottobre 2014, in causa C522/13, Ministerio de Defensa, cit., punto 52. (41) In effetti la Commissione nella Dec. del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punto 77, si è limitata ad osservare che «tutti i settori in cui il beneficiario svolgeva la propria attività prima della procedura di concordato e nei quali è attivo attualmente rien-
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formato oggetto di contestazione. Saltando momentaneamente la terza condizione di applicabilità del divieto di cui all’art. 107 par. 1 TFUE, va evidenziato che è presumibile che un concordato fiscale soddisfi anche la quarta condizione in quanto, sempre secondo una consolidata giurisprudenza, il fatto che l’aiuto sgravi un’impresa dei costi che avrebbe normalmente dovuto sostenere è sufficiente a dimostrare che il gioco della concorrenza è falsato. Secondo la Corte è lo sgravio stesso che, in via automatica, rafforza artificialmente il beneficiario rispetto ai propri concorrenti e dunque, in via mediata (42), distorce la concorrenza (43). Anche in questo caso, sempreché l’aiuto superi le soglie fissate nel Regolamento de minimis (44), non è necessario produrre un’effettiva dimostrazione dell’impatto dell’aiuto sulla posizione di altre imprese, ma è sufficiente verificare che la misura considerata ‘possa avere’, in atto od in potenza, un impatto sulla concorrenza, anche su quella potenzialmente esercitabile dai suoi concorrenti. Peraltro la Commissione non argomenta il punto (45).
trano negli scambi tra Stati membri». Mancando un riferimento alle conseguenze generate da tale constatazione le argomentazioni non sembrano soddisfare le condizioni di motivazione minima stabilite dalla Corte nella sentenza 30 aprile 2009, in causa C494/06 P, Wam, cit., punto 49, dove ha stabilito che: «anche qualora emerga dalle circostanze in cui l’aiuto è stato concesso che esso è atto ad incidere sugli scambi fra Stati membri e a falsare o a minacciare di falsare la concorrenza, la Commissione è tenuta quanto meno ad indicare queste circostanze nella motivazione della propria decisione». Si cfr. anche Corte giust.: 13 marzo 1985, in cause riunite 296/82 e 318/82, Leeuwarder Papierwarenfabriek, ECLI:EU:C:1985:113, in Racc. 1985, 809, punto 24; 7 giugno 1988, in causa 57/86, Grecia c. Commissione, ECLI:EU:C:1988:284, in Racc. 1988, 2855, punto 15; 24 ottobre 1996, in cause riunite C329/93, C62/95 e C63/95, Germania c. Commissione, ECLI:EU:C:1996:394, in Racc. 1996, I-5151, punto 52; 6 settembre 2006, in causa C88/03, Portogallo c. Commissione, ECLI:EU:C:2006:511, in Racc. 2006, I-7115, punto 89. (42) Si cfr. anche B. Pezzini, L’operazione Maribel bis/ter nel Regno belga: riduzioni generali progressive dei contributi di previdenza sociale o aiuti alle imprese operanti nei settori più esposti alla concorrenza internazionale?, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 1999, 1629, in partic. a 1631. (43) In proposito Corte giust. 3 marzo 2005, in causa C172/03, Heiser, cit., punto 55, ha riconosciuto che: «si deve rammentare che gli aiuti diretti a sgravare un’impresa dai costi cui avrebbe dovuto normalmente far fronte nell’ambito della propria gestione corrente o delle proprie normali attività falsano in linea di principio le condizioni di concorrenza». Si cfr. Corte giust. 17 settembre 1980, in causa 730/79, Philip Morris, cit., punto 11; 22 novembre 2001, in causa C53/00, Ferring, cit., punto 21; 29 aprile 2004, in causa C372/97, Italia c. Commissione, cit., punto 52; 15 dicembre 2005, in causa C148/04, Unicredito Italiano, cit., punto 56. (44) Reg. della Commissione, del 18 dicembre 2013, n. 1407/2013/UE, «relativo all’applicazione degli articoli 107 e 108 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea agli aiuti «de minimis», in GUUE del 24 dicembre 2013, n. L 352, 1. (45) Solamente nel punto 78 della Dec. del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, cit., si leg-
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Per quanto concerne invece la terza condizione necessaria ad integrare la nozione di aiuto, la misura statale ed in questo caso il concordato con transazione fiscale, deve al contempo presentarsi come una misura di carattere selettivo, deve cioè differenziare la posizione del suo beneficiario rispetto a quella dei concorrenti, o comunque della generalità delle imprese, e al contempo recargli un vantaggio. Sia l’attribuzione ad un concordato fiscale del carattere selettivo, sia lo stabilire che reca un beneficio o un vantaggio concorrenziale al suo beneficiario presenta delle difficoltà e proprio su quest’ultimo punto si è sviluppato il dibattito giuridico. 4. Il possibile carattere selettivo dei concordati con transazione fiscale. – Facendo un breve passo indietro e fermo restando che, in assenza di una armonizzazione delle procedure nazionali in materia fallimentare e fiscale (46), le autorità slovacche sono tenute ad applicare solamente la normativa nazionale, va segnalato che l’applicazione di tale normativa non può né avvenire in maniera discriminatoria (sfavorendo quindi le imprese provenienti da altri Stati membri) né in maniera tale da concedere delle agevolazioni (aiuti di Stato) ad alcune delle imprese. Il caso in cui una normativa nazionale disciplinante i concordati possa costituire, di per sé, un aiuto di Stato è peraltro raro (47) e non ricorre nel caso di specie, visto che la legge slovacca che disciplina i concordati (in particolare la 328 del 1991) applicandosi alla generalità delle imprese è sostanzialmente e oggettivamente priva di quel carattere selettivo che è essenziale ai fini dell’applicabilità dell’art. 101 TFUE. L’indagine della Commissione si è dunque concentrata sulle modalità attraverso le quali la
ge che: «nella decisione di avviare il procedimento di indagine formale, la Commissione ha espresso dubbi sul fatto che la misura contestata non abbia falsato o minacciato di falsare la concorrenza conferendo al beneficiario un vantaggio che non avrebbe potuto ottenere nelle condizioni abituali di mercato». (46) Da segnalare che, al momento, l’Unione europea non dispone delle competenze necessarie a definire norme in materia di armonizzazione o ravvicinamento delle disposizioni nazionali in materia fallimentare o di procedure tributarie. (47) Si cfr. peraltro Corte giust. 17 giugno 1999, in causa C295/97, Industrie Aeronautiche e Meccaniche Rinaldo Piaggio, cit., la quale ai punti 37-39 della motivazione ha considerato che la L. n. 95/79 «tende ad applicarsi in maniera selettiva a favore di grandi imprese industriali in difficoltà che hanno una posizione debitoria particolarmente elevata verso talune categorie di creditori, per la maggior parte di carattere pubblico» e può comportare la concessione di un aiuto di Stato quando il Ministro dell’Industria decida «di collocare l’impresa in difficoltà in amministrazione straordinaria e di autorizzarla a continuare la sua attività».
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normativa generale ha trovato applicazione ed in particolare sulle condizioni attraverso le quali si è pervenuti al concordato ed alla transazione fiscale (48). In effetti, la selettività necessaria all’applicazione dell’art. 107 TFUE non deve necessariamente costituire una caratteristica della norma ma può anche essere registrata nel suo momento applicativo, quando le autorità chiamate ad applicarla tengono un comportamento qualificabile come discrezionale (49) o, peggio, arbitrario o discriminatorio (50). Per tornare al caso di specie, per accertare il carattere selettivo delle misure applicate per recuperare i tributi non versati, doveva essere in primo luogo verificato se l’amministrazione fiscale slovacca disponesse di una reale discrezionalità o fosse vincolata da rigide regole, procedure e metodi di calcolo, capaci di definire tassativamente le condizioni e le modalità del recupero delle imposte non pagate e di determinarne esattamente la quantificazione (51). Visto che emerge chiaramente dalla Decisione n. 2014/342/CE che, per recuperare le imposte non versate, l’amministrazione fiscale della Repubblica slovacca disponeva di più opzioni (una procedura di concordato, una procedura di liquidazione giudiziaria, una procedura di esecuzione fiscale), le quali inevitabilmente erano destinate a condurre a risultati diversi in tempi diversi, l’amministrazione fiscale deteneva la possibilità di effettuare un’applicazione discrezionale della norma generale e quindi, ove avesse scelto un’applicazio-
(48) Da sottolineare che nella Dec. del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punto 76, la Commissione ha adottato un’argomentazione inaccettabilmente sintetica. Invece di interrogarsi sul livello di discrezionalità dell’amministrazione fiscale della Slovacchia si è limitata ad affermare che: «una misura che favorisce una sola impresa è selettiva». Secondo tale impostazione qualsiasi atto dell’amministrazione fiscale, anche quello che applica pedissequamente una legge generale dello Stato sarebbe selettivo. (49) Si cfr. Corte giust. 26 settembre 1996, in causa C241/94, Francia c. Commissione, cit., punti 23 e 24; 1° dicembre 1998, in causa C200/97, Ecotrade, cit., punto 40; 17 giugno 1999, in causa C295/97, Piaggio, cit., punto 39; 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, cit., punto 27. Si cfr. anche Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 157. (50) Peraltro, come sottolineato da Trib. 21 ottobre 2004, in causa T-36/99, Lenzing AG, ECLI:EU:T:2004:312, in Racc. 2004, II-3597, punto 129 e 132: «per negare il carattere di provvedimento generale, non è necessario verificare se il comportamento dell’ente statale interessato sia arbitrario. È sufficiente accertare […], che il detto ente ha un potere discrezionale», ma, evidentemente, il più comprende anche il meno. (51) In effetti come sottolineato da Corte giust. 18 luglio 2013, in causa C6/12, P Oy, cit., punto 26, l’applicazione di un sistema amministrativo «non può in linea di principio considerarsi selettiva se le autorità competenti, nel decidere sull’esito da riservare alla domanda [...], dispongono soltanto di un potere discrezionale delimitato da criteri oggettivi che non sono estranei al sistema fiscale predisposto dalla normativa di cui trattasi».
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ne non favorevole a se stessa, avrebbe potuto concedere un aiuto di Stato. È da ritenere che essa avrebbe avuto la possibilità di concedere un aiuto di Stato anche nel momento in cui fosse stata abilitata a determinare od influenzare la percentuale del credito recuperabile attraverso il concordato. Tornando al caso di specie, restava quindi da verificare se l’opzione per il concordato e le condizioni alle quali è stato concluso, non comportassero un beneficio. 5. Il vantaggio percepito dal beneficiario dell’aiuto. – Accertato che l’opzione per il concordato fiscale poteva essere effettivamente discrezionale, occorreva stabilire se, concretamente, nell’omologare il concordato fiscale in favore della Frucona Košice l’amministrazione fiscale le avesse attribuito un vantaggio, la avesse collocata «in una situazione finanziaria più favorevole rispetto agli altri contribuenti» (52), cosa che a prima vista sembrava implicita nel fatto che era stato consentito all’impresa di non versare il 65% delle imposte normalmente dovute. Resta il fatto che, secondo la giurisprudenza, l’elemento del vantaggio non è sempre oggettivo ma è suscettibile di non ricorrere o di venire meno, «qualora l’impresa beneficiaria potesse ottenere lo stesso vantaggio rispetto a quello procuratole per mezzo di risorse statali e in circostanze corrispondenti alle normali condizioni del mercato» (53). Quando si verifica tale ipotesi, evidentemente, la nozione di aiuto di Stato non è integrata. Concretamente, per accertare se un’impresa avrebbe potuto ottenere sul mercato lo stesso vantaggio, la Commissione deve ricorrere ad una serie di indagini comparative ed in particolare, come confermato nella sentenza Frucona II, deve avvalersi del relativamente nuovo criterio del creditore privato.
(52) Così Corte giust. 18 luglio 2013, in causa C6/12, P Oy, cit., punto 18. Si cfr. anche Corte giust.: 15 marzo 1994, in causa C387/92, Banco Exterior de España, cit., punto 14; 10 gennaio 2006, in causa C222/04, Cassa di Risparmio di Firenze e a., cit., punto 132; 8 settembre 2011, in cause riunite da C78/08 a C80/08, Paint Graphos, cit., punto 46; 15 novembre 2011, in cause riunite C106/09 P e C107/09 P, Commissione c. Government of Gibraltar, cit., punto 72; 21 dicembre 2016, in cause riunite C164/15 P e C165/15 P, Commissione europea c. Aer Lingus e Ryanair, cit., punto 41. (53) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 21. Si cfr. anche Corte giust.: 11 luglio 1996, in causa C39/94, SFEI, cit., punto 60; 29 aprile 1999, in causa C342/96, Tubacex, cit., punto 41; 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, cit., punto 22; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 70; 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punti 31 e 45; 5 giugno 2012, in causa C124/10P, EDF, in Racc. digitale, punto 78. In dottrina si cfr. U. Soltész, op. cit.
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6. Il criterio del creditore privato. – Il criterio del creditore privato è stato introdotto gradualmente nel sistema europeo attraverso la giurisprudenza del Tribunale (54) e della Corte di giustizia la quale lo ha affermato attraverso sentenze Tubacex (55), DM Transport (56), Rousse Industry (57), Lenzing (58), Frucona I (59), Buczek Automotive (60) e Frucona II (61). Secondo la giurisprudenza, esso deve essere costantemente applicato dallo Stato e dalle sue amministrazioni nel tentativo di recuperare i propri crediti. Quanto alla sua struttura, il criterio del creditore privato ricorda da vicino, tanto che secondo l’avv. gen. Nils Wahl ne può essere considerato una derivazione od una estensione (62), un altro principio sviluppato ormai da molti anni dalla Commissione e dalla Corte di giustizia nell’applicazione della disciplina degli aiuti di Stato ai conferimenti in imprese pubbliche, che è quello dell’investitore privato (63). In effetti, in applicazione dell’art. 345 TFUE, lo
(54) In particolare da Tribunale Trib.: 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 167; 21 ottobre 2004, in causa T-36/99, Lenzing AG, cit., punti 149, 154 e 161 (avente ad oggetto dei crediti previdenziali); 17 maggio 2011, in causa T-1/08, Buczek, in Racc. 2011 II-2107 (con nota di M. Muñoz de Juan, J. M. Panero Rivas, Locus Standi and the Private Creditor Test after the Judgment of the General Court on Buczek Automotive v. Commission, in European State Aid Law Quarterly, 2012, n. 1, 273), punto 70. (55) Corte giust. 29 aprile 1999, in causa C342/96, Tubacex, cit., punto 46. (56) Corte giust. 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, cit. (relativa contributi previdenziali obbligatori dei datori di lavoro), punto 24. (57) Corte giust. 20 marzo 2014, in causa C271/13 P, Rousse Industry, ECLI:EU:C:2014:175, inedita (con nota di I. Stoycheva, E. Škufca, Duly Applying the Private Creditor Test the CJEU Confirms that the Failure to Actively Seek Recovery of Outstanding Debt Constitutes State Aid, in European State Aid Law Quarterly, 2015, n. 1, 166), relativa al recupero di prestiti, punto 57. (58) Corte giust. 22 novembre 2007, in causa C525/04 P, Lenzing AG, ECLI:EU:C:2007:698, in Racc. 2007, I-9947, punto 59. (59) Corte giust. 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 22. (60) Corte Giust. 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 32. (61) Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 22. (62) In realtà nelle conclusioni presentate il 3 maggio 2017 nella causa C300/16, Frucona II, l’avv. gen. Nils Wahl (in particolare nella nota n. 4) ha sostenuto che il principio dell’investore privato ed il criterio del creditore privato siano in realtà la stessa cosa. In particolare il criterio dell’investitore privato «a seconda delle circostanze, [...] viene anche indicato, inter alia, come criterio dell’investitore privato, del creditore privato o del fornitore privato». (63) Sul principio dell’investitore privato si cfr. in dottrina: R. Adam, A. Tizzano, Manuale di diritto dell’Unione europea, Torino 2014, 635; E.M. Appiano, Dotazioni di fondi alle ‘holding’ pubbliche e diritto comunitario della concorrenza in materia di aiuti, in Diritto comunitario e degli scambi internazionali, 1996, 107; J.-Y. Chérot, Les Aides d’État dans les Communautés européennes, Economica, Parigi 1998, 52; M. Orlandi, Aiuti di Stato mediante
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Stato è libero di investire le proprie risorse come meglio crede, quindi di partecipare anche al capitale sociale di imprese e di gestirle, ma, nel momento in cui queste ultime operano sul mercato e non agiscono in qualità di pubblici poteri (64), il suo comportamento resta pienamente soggetto all’applicazione delle regole di concorrenza sancite nel TFUE. 6.1. Analogie con il principio dell’investitore privato. – All’atto pratico, per distinguere un normale investimento dello Stato da un finanziamento che nasconde la concessione di un aiuto, si deve verificare se lo Stato, quando effettua investimenti, ricostituzioni di capitale, prestiti, etc., ad imprese proprie (o comunque controllate da autorità pubbliche) si comporti nella stessa maniera in cui, nella stessa situazione, si sarebbe comportato un avveduto imprenditore privato. Certo, il paragone non deve essere fatto con quello di un imprenditore qualsiasi, ma con quello di un’ipoteco imprenditore privato di dimensioni e di forza economica paragonabile a quella dello Stato, che magari persegua strategie di profitto di lungo termine. Il paragone comporta necessariamente una certa approssimazione, quella che è propria nella comparazione di fattispecie che non sono coincidenti, ma è evidente che qualsiasi deviazione dagli schemi logici normalmente usati dagli imprenditori comporta la concessione di un’agevolazione. L’applicazione del principio non è solamente condivisibile ma ormai assolutamente consolidata in una giurisprudenza granitica (65).
conferimento di capitale alle imprese, in Giurisprudenza di merito, n. 2, 1993, III, 543; Id., Gli aiuti di Stato nel diritto ..., cit., 427 e ss.; Id., La disciplina degli aiuti di Stato, in Il Diritto privato dell’Unione Europea, a cura di A. Tizzano, Giappichelli, Torino 2006, 1672, in partic. a 1680 e ss.; A. Pagano, Sull’applicazione del criterio dell’investitore privato operante in un’economia di mercato, in Diritto pubblico comparato ed europeo, 2010, n. 3, 1282. (64) Si cfr. Corte giust. 5 giugno 2012, in causa C124/10 P, EDF, cit., punto 81. In dottrina si cfr. N. Baeten, L. Gam, op. cit., 547. (65) Si cfr. Corte giust.: 10 luglio 1986, in causa 234/84, Belgio c. Commissione, cit., punto 14; 10 luglio 1986, in causa 40/85, Belgio c. Commissione, ECLI:EU:C:1986:305, in Racc. 1986, 2321, punto 13; 21 marzo 1991, in causa 305/89, Alfa Romeo, ECLI:EU:C:1991:142, in Racc. 1991, 1603 (con nota di M. Orlandi, Aiuti di Stato mediante conferimento di capitale alle imprese, in Giurisprudenza di merito, n. 2, 1993, III, 543), punto 19; 3 ottobre 1991, in causa C261/89, Italia c. Commissione, ECLI:EU:C:1991:367, in Racc. 1991, I-4437, punto 8; 14 settembre 1994, in causa C42/93, Spagna c. Commissione, ECLI:EU:C:1994:326, in Racc. 1994, I-4175, punto 13; 14 settembre 1994, in cause riunite da C278/92 a C280/92, Spagna c. Commissione, cit., punto 21; 28 gennaio 2003, in causa C334/99, Germania c. Commissione, ECLI:EU:C:2003:55, in Racc. 2003, I-1139, punto 133; 5 giugno 2012, in causa C124/10 P,
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In parziale analogia con il principio dell’investitore privato, quando la Commissione si trova in presenza di una remissione di debiti fiscali nei confronti di un’impresa privata che si trova in difficoltà, o comunque quando un’amministrazione statale transige un credito contestato o di difficile esazione, essa è chiamata a valutare attentamente il proprio comportamento massimizzando le entrate (66). In particolare essa è chiamata a determinare, tenuto conto di tutti i fattori e di tutti gli elementi rilevanti, se l’impresa beneficiaria avrebbe potuto ottenere condizioni paragonabili da un creditore privato prudente e diligente, che si trovasse in una situazione quanto più prossima a quella in cui si trovava l’amministrazione statale, e che fosse attivamente impegnato nel tentativo di recuperare le somme di cui è creditore (67). Più specificamente, secondo la giurisprudenza, al fine di stabilire «quando un creditore pubblico concede agevolazioni di pagamento per un debito dovutogli da un’impresa» al suo comportamento va «in linea di principio [applicato] il criterio del creditore privato» (68) inteso questo come un soggetto che mira al soddisfacimento del proprio interesse economico muovendosi con cura ed attenzione, ma al contempo con una certa duttilità. Nel valutare tale comportamento la Commissione, ma eventualmente anche il giudice nazionale (69), è inevitabilmente chiamato a svolgere analisi economiche complesse (70). 6.2. Differenze tra il criterio dell’investitore privato e quello del creditore privato. – Se in precedenza si è sottolineato che il criterio del creditore privato risponde a criteri di razionalità economica (71) e nella sostanza non
EDF, cit., punto 79. (66) Si cfr. A. Vallery, H. Wiame, op. cit., 533. (67) Così Corte giust., 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 73. Si cfr. anche Corte giust.: 29 aprile 1999, in causa C342/96, Tubacex, cit., punto 46; 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, cit., punto 25; 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punti 45, 46 e 59; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, punto 72. (68) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 22. Si cfr. anche Corte giust.: 29 aprile 1999, in causa C342/96, Tubacex, cit., punto 46; 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 32. (69) Si cfr. Corte giust. 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, cit., punto 25. (70) Si cfr. Corte giust.: 22 novembre 2007, in causa C525/04 P, Lenzing AG, cit., punto 59; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 74; 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 48. (71) Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 251.
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è strutturalmente diverso da quello dell’investitore privato, bisogna ora riconoscere che lo caratterizzano alcune differenze che consentono di qualificarlo come un principio o criterio separato (72) ed impongono di applicarlo con una particolare cautela (73). In effetti, in primo luogo, la riscossione dei tributi non costituisce un’attività soggetta alle regole di mercato e non esiste un imprenditore privato chiamato a definire e a riscuotere tasse ed imposte, e dunque identificare l’analogia tra il comportamento di un’amministrazione fiscale e quello di un ipotetico creditore privato chiamato a svolgere un’attività simile, da un lato richiede una buona dose di fantasia e, dall’altro, implica delle valutazioni che sono largamente teoriche e di carattere necessariamente discrezionale. In secondo luogo non esiste un creditore privato tipico: in effetti vi sono dei creditori solidi che saranno disposti ad affrontare procedure di esazione lunghe e difficili pur di rientrare di propri crediti e vi saranno dei creditori che, a loro volta, si troveranno in difficoltà economiche od avranno problemi di liquidità e quindi saranno più propensi ad accettare somme ridotte purché arrivino in tempi rapidi. Le valutazioni che i creditori fanno possono inoltre essere ottimiste o pessimiste: scegliere ex post quale delle due usare come termine di paragone
(72) In particolare la Corte, nella sentenza 29 aprile 1999, in causa C342/96, Tubacex, cit., punto 46, ha sottolineato che: «lo Stato non si è comportato come un investitore pubblico, il cui intervento dovrebbe essere paragonato al comportamento dell’investitore privato, che colloca capitali in funzione della loro capacità di produrre reddito a termine più o meno breve» ma «come un creditore pubblico il quale, così come il creditore privato, cerca di recuperare gli importi spettantigli e che, a tal fine, stipula accordi con il debitore in forza dei quali i debiti accumulati saranno dilazionati o frazionati al fine di agevolarne il rimborso». In tale ipotesi lo Stato doveva quindi applicare ai propri crediti non il normale tasso usato per i prestiti (e che è finalizzato a generare un profitto per il prestatore) ma solamente quello sufficiente «a riparare il danno subito dal creditore a causa del ritardo nell’adempimento da parte del debitore, vale a dire gli interessi moratori». Si cfr. anche Trib.: 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 167; 7 dicembre 2010, in causa T11/07, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 114. (73) In dottrina vi sono diversi autori che contestano la stessa possibilità di paragonare il comportamento di una amministrazione fiscale a quella di un operatore di mercato, in particolare: W. Schön, Tax Legislation and the Notion of Fiscal Aid: A Review of 5 Years of European Jurisprudence, in State Aid Law and Business Taxation, cit., 3, in partic. a 6; P.J. Wattel, op. cit., 186. L. De Broe, The State Aid Review Against Aggressive Tax Planning: Always Look a Gift Horse in the Mouth, in EC Tax Review, 2015, vol. 24, n. 6, 290, in partic. a 292, considera invece che il paragone del comportamento dello Stato con quello di un normale operatore di mercato introduca degli elementi ancora più vaghi del principio di libera concorrenza.
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rischia di essere arbitrario. In terzo luogo il principio dell’investitore privato è destinato a trovare applicazione nei confronti di una situazione profondamente diversa da quella in cui trova applicazione quello del creditore privato: il primo ha quale riferimento la situazione di un imprenditore che guarda ai possibili esiti di un investimento di medio-lungo termine; il secondo ha quale riferimento un creditore che ha a che fare con un debitore che si trova in situazioni economiche difficili e nel medio e lungo termine ha prospettive incerte (74). In quarto luogo le valutazioni espresse nell’ambito dell’applicazione del principio dell’investitore privato, riguardano la previsione della ragionevole redditività di un’attività economica (e dunque sono di carattere essenzialmente economico) mentre quelle espresse nell’ambito del criterio del creditore privato devono essere al contempo di ordine tecnico-giuridico (riguardando di volta in volta le possibilità che si arrivi ad un definitivo accertamento del diritto alla riscossione, la possibilità del debitore di opporvisi, l’individuazione degli strumenti più convenienti per l’escussione dei crediti (75), il possesso di idonee garanzie (76), la valutazione dell’atteggiamento degli altri creditori e della forza degli strumenti giuridici in proprio possesso (77), la possibilità che le procedure vengano interrotte (78), etc.) ed economico (la valutazione delle possibilità di risanamento dell’impresa (79), l’individuazione dei beni su cui esercitare le azioni esecutive, la quantificazione del loro valore, la perdita di valore dei beni aziendali nei tempi necessari ad incassare i propri crediti attraverso le varie procedure disponibili (80), la stima dei costi inerenti le diverse
(74) Si cfr. Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 167. In dottrina si cfr. O. Otting, S. Rothweiler, op. cit., 258. (75) Si cfr. Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 29. (76) In effetti, come correttamente rilevato da Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 168, la scelta del creditore è influenzata da fattori come «la sua qualità di creditore ipotecario, privilegiato o ordinario, la natura e la portata delle eventuali garanzie che detiene». (77) Come sottolineato da Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 168, se «succedesse che, nell’ipotesi della liquidazione di un’impresa, il valore di realizzo degli attivi permettesse di rimborsare solamente i crediti ipotecari e privilegiati, i crediti ordinari non avrebbero alcun valore». (78) Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 282. (79) Si cfr. Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 168. (80) Si cfr. Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punti 8081.
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procedure (81) etc.). Il combinarsi dei due ordini di valutazione determina inevitabilmente un aumento esponenziale della discrezionalità dell’organo accertatore e dei sui possibili margini di errore. Rimettere in discussione tali valutazioni in applicazione della normativa sugli aiuti di Stato, se in alcuni casi può essere necessario, sul piano generale non favorisce la certezza del diritto, soprattutto ove si consideri che la Commissione è, a sua volta, titolare di un’ampia discrezionalità che può ben essere usata secondo modalità distinte da quelle usate dalle autorità nazionali. In effetti, in applicazione della normativa sugli aiuti di Stato, e più specificamente in applicazione del principio del creditore privato, l’analisi cui la Commissione è chiamata è particolarmente vasta e come sottolineato nella sentenza Frucona II «non può limitarsi alle sole opzioni di cui l’autorità pubblica competente abbia effettivamente tenuto conto, ma deve necessariamente riguardare l’insieme delle opzioni che un creditore privato avrebbe ragionevolmente individuato in una simile situazione» (82) valutando espressamente i vantaggi e gli svantaggi che ne possono derivare (83). Evidentemente, come sottolineato nella sentenza Frucona II, ciò non significa che l’amministrazione statale, ed in particolare quella fiscale, debba mettere in campo tutti i possibili ed immaginabili strumenti esistenti, ma deve valutare coerentemente ed attentamente quali tra quelli disponibili gli risulta più conveniente usare (84). Tra gli elementi di cui si deve tener conto non vi è solamente la cifra finale teoricamente riscuotibile ma si deve calcolare anche la durata delle procedure necessarie ad incassare i crediti (85), ed in particolare si deve tenere in considerazione il fatto che, con il passare del tempo, i beni dell’impresa tendono a
(81) In effetti il Tribunale già nella sentenza 7 dicembre 2010, in causa T11/07, Frucona Košice c. Commissione, cit., aveva sottolineato come la Commissione avesse compiuto un errore nella stima dei costi relativi alla procedura di fallimento, ma che in realtà tali errori non erano tanto gravi da poter determinare l’annullamento della Decisione, mentre sono stati valutati in maniera più rigida da Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 283. (82) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 29. (83) Si cfr. anche Corte giust. 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 57. (84) Si cfr. Trib. 17 maggio 2011, in causa T-1/08, Buczek, cit., punto 87. In dottrina si cfr. Si cfr. M. Muñoz de Juan, J. M. Panero Rivas, op. cit., 278. (85) Si cfr. anche Corte giust.: 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 58; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 81; 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punti 80-81.
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perdere valore e che quindi la soddisfazione del creditore può essere destinata decrescere progressivamente. Un altro parametro da valutare attentamente è costituito dai costi che le diverse procedure comportano (86) così come i rischi che vi sono connessi. Al fine di valutare la correttezza del confronto teorico tra il comportamento dello Stato e quello di un ipotetico creditore privato che si trovasse nelle sue stesse condizioni un termine di raffronto molto significativo è dato dal comportamento effettivamente tenuto dagli altri creditori dello stesso debitore con l’ovvia conseguenza che se un creditore privato ha accettato una certa decurtazione delle proprie spettanze non sembra ragionevole rimproverare all’amministrazione fiscale di essersi comportata allo stesso modo (87). Tale raffronto può peraltro essere considerato decisivo nel solo caso in cui i crediti privati siano della stessa natura ed abbiano le stesse precedenze di quelli pubblici (88). 6.3. L’applicazione del criterio del creditore privato nel caso di specie. – Accertato che l’amministrazione tributaria slovacca era in presenza di un cospicuo credito, che il suo incasso solo parziale aveva determinato un mancato introito per lo Stato, che da tale mancato introito derivava un vantaggio per la Frucona Košice, e che tale vantaggio avrebbe potuto distorcere la concorrenza ed alterare il commercio tra gli Stati membri, alla Commissione non restava che applicare il principio del creditore privato per accertare se l’impresa avrebbe potuto ottenere un simile vantaggio sul mercato. In tale specifico contesto va peraltro avvertito che non poteva assumere rilievo la considerazione in base alla quale il creditore pubblico si era effettivamente comportato nella stessa maniera in cui si sono comportati i creditori privati, i quali hanno accertato la stessa decurtazione percentuale dei propri crediti. Nel caso di specie tale considerazione, lungi dall’essere rilevante, sembrava addirittura fuorviante. In effetti, come accennato, un simile raffronto è qualificabile come ragionevole solamente nel caso i cui i crediti privati siano qualificabili come cospicui e reali (mentre i debiti privati della Frucona ammontavano all’1% del totale) (89), ed abbiano la stessa valenza giuridica
(86) Si cfr. M. Muñoz de Juan, J. M. Panero Rivas, op. cit., 279. (87) Si cfr. A. Nucara, op. cit., 82. (88) Si cfr. M. Muñoz de Juan, J. M. Panero Rivas, op. cit., 279. (89) Più precisamente la percentuale dei crediti in mano ai privati costituisce un parametro indicativo ma non definitivo per stabilire che il criterio del creditore privato ricorre. Come
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di quelli pubblici, ma tale non era il caso di specie visto che i crediti dell’amministrazione fiscale erano assistiti da privilegi mentre quelli privati non lo erano (90). In particolare, nella contestata Decisione, la Commissione ha valutato che l’amministrazione fiscale slovacca non avesse usato correttamente il proprio potere discrezionale nello scegliere tra le diverse procedure utilizzabili per riscuotere il proprio credito: la procedura di liquidazione giudiziaria; la procedura di esecuzione fiscale; la procedura di concordato. Secondo la Commissione la scelta effettuata dall’amministrazione fiscale, nonostante fosse corroborata da perizie e relazioni di società esterne, non era la più vantaggiosa e, per dimostralo, ha provveduto a raffrontare i possibili risultati a cui ha condotto quella di concordato con quelli possibilmente derivanti da un fallimento e connessa liquidazione giudiziaria (91) e successivamente con quelle derivanti da una esecuzione fiscale (92), concludendo che la seconda e la terza possibilità costituivano, nell’ottica dell’amministrazione finanziaria locale, delle alternative vantaggiose e che quindi l’opzione per il concordato fiscale nascondesse in realtà un aiuto di Stato alla Frucona Košice (93). Più specificamente, secondo la Decisione della Commissione, la Slovacchia avrebbe finito con il concedere un aiuto di Stato alla Frucona in quanto le altre procedure previste dalla propria normativa gli avrebbero consentito di recuperare almeno parte di quei 416.515.990 SKK dei quali ai sensi degli artt. 2 e 3 della Decisione n. 2014/342, la Commissione ha poi ordinato il recupero. Nonostante il ragionamento della Commissione fosse teoricamente ineccepibile, nel caso di specie il Tribunale e la Corte di giustizia hanno ritenuto che non fosse adeguatamente provato. In particolare la Commissione avrebbe
sottolineato da Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 166: «la quota rappresentata dai crediti degli enti pubblici nell’importo complessivo dei debiti di un’impresa in difficoltà non può, di per sé, costituire un fattore determinante per valutare se le cancellazioni di debiti concesse da tali enti alla detta impresa includano elementi di aiuto di Stato». Per contro «nel caso in cui l’importo complessivo dei crediti privati ecceda quello dei crediti pubblici, un provvedimento di ristrutturazione del debito adottato da un ente pubblico solo difficilmente potrebbe essere considerato un aiuto di Stato». (90) Si cfr. Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 168. (91) Dec. della Commissione del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punti da 88 a 119. (92) Dec. della Commissione del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punti da 120 a 127. (93) Dec. della Commissione del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punti 119, 124 e 127.
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omesso di valutare in maniera compiuta i tempi necessari a perfezionare la procedura di fallimento e le somme finali teoricamente riscuotibili ed il loro riflesso sugli incassi finali. Emerge infatti dalla stessa Decisione (94) che, al momento di concludere il concordato, al fine di indurre l’amministrazione finanziaria ad optare per quella scelta, la Frucona Košice aveva prodotto una relazione della società di audit EKORDA secondo la quale la procedura fallimentare avrebbe potuto produrre i propri esiti a distanza di un periodo di tempo compreso tra i 3 ed i 7 anni e, dopo tale periodo, l’amministrazione fiscale slovacca avrebbe incassato una cifra inferiore a quella pattuita nell’ambito del concordato. A non migliori risultati avrebbe condotto la procedura di esecuzione fiscale. Un rapporto del Ministero della giustizia slovacco del 2004 evidenziava poi che i creditori privilegiati riuscivano molto raramente a recuperare, nell’ambito di un procedimento di liquidazione giudiziaria, più del 5-10% dei loro crediti (95), mentre una più generale documentazione proveniente dalla Banca mondiale intitolata Doing business in 2004, e regolarmente prodotta alla Commissione, confermava che i tempi per le procedure di fallimento in Slovacchia erano in media 4,8 anni e che incidevano sui ricavati per il 20% circa (96). Le indicazioni contenute nella richiamata documentazione trovavano poi conferma pratica nelle risultanze della liquidazione giudiziaria di un’altra distilleria slovacca (97) nella quale gli attivi non sono stati liquidati prima otto anni e le offerte non hanno superato il 30% del valore stimato dell’impresa (98). Nell’ambito della controversia la Commissione non era peraltro tenuta ad accettare supinamente le indicazioni contenute nella richiamata documentazione: una perizia od una relazione assumono infatti valore probante solo in forza del loro contenuto oggettivo (99). La Commissione poteva dunque
(94) Dec. della Commissione del 16 ottobre 2013, n. 2014/342/UE, Frucona Košice a.s., cit., punti 46-48. (95) Si cfr. Trib. 7 dicembre 2010, in causa T11/07, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 144. (96) Si cfr. già Trib. 7 dicembre 2010, in causa T11/07, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 97. (97) La Liehofruct White Lady Distillery, s.r.o. Levoča. (98) Si cfr. già Trib. 7 dicembre 2010, in causa T11/07, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 100. (99) Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 172.
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respingerle, ma a tal fine avrebbe dovuto produrre calcoli ed argomentazioni convincenti. In effetti i calcoli e le argomentazioni prodotte dalla Commissione, al pari di quelle delle altre parti, devono essere considerate probanti in relazione al loro contenuto oggettivo. Secondo il Tribunale e la Corte, quelli addotti nella Decisione, n. 2014/342/UE non costituivano il frutto di un’«analisi metodologica o economica» sufficientemente accurata (100) e non veniva spiegata l’origine dei coefficienti di liquidazione usati (101). Vi è da aggiungere che la Commissione non «ha sollecitato, nel procedimento amministrativo, informazioni supplementari intese a verificare e a suffragare le [proprie] conclusioni» (102). Inoltre la Commissione ha ritenuto che la durata della procedura di liquidazione non avrebbe influenzato significativamente la decisione di un creditore privato, ma tale argomentazione, oltreché ad essere illogica, non è risultata adeguatamente dimostrata (103). 6.4. L’evoluzione giurisprudenziale sull’onere della prova: dalla sentenza Land Burgenland alle sentenze Buczek e Frucona II. – Il riconoscimento che l’applicazione del criterio del creditore privato costituisce uno strumento necessario per determinare l’esistenza di un vantaggio economico, già effettuato nella sentenza Buczek (104) e quindi confermato nella sentenza Frucona II (105), produce un consistente effetto nelle procedure applicative dell’art. 107, par. 1, TFUE. In effetti, secondo una regola generale, alla Commissione spetta di dimostrare l’esistenza di un aiuto di Stato (106) mentre lo Stato, nel caso che ne affermi l’applicabilità, ha
(100) In effetti le argomentazioni della Commissione erano in parte basate su dati e coefficienti di liquidazione contenuti proprio nella relazione della EKORDA che la stessa Commissione aveva considerato inaffidabile e non veniva dimostrato perché alcuni di essi potevano essere considerati attendibili ed altri no. (101) Si cfr. Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 77. Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa 103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punti 198 e 199. (102) Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa 103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 185. (103) Si cfr. Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punti 222-223 e 227-229 e 277-285. Si cfr. anche Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punti 79 e 80. (104) Si cfr. Corte giust.: 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punti 32-34. (105) Si cfr. Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 23. (106) Si cfr. Corte giust.: 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 34 e 62.
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interesse a dimostrare che possono trovare applicazione le deroghe di cui all’art. 107, parr. 2 e 3 TFUE. Il riconoscimento che il criterio del creditore privato attiene all’esistenza dell’aiuto e non all’applicabilità dell’eccezione, impone inequivocabilmente che sia la Commissione a dover dimostrare che il comportamento delle singole amministrazioni tributarie è stato difforme da quello di un ipotetico creditore privato (107). Una volta che sia stata configurata l’applicabilità del criterio, indipendentemente dal fatto che sia stata eccepita dallo Stato interessato o dal beneficiario dell’aiuto (108), ed indipendentemente dal fatto che sia concesso tramite mezzi propri dei pubblici poteri (109), esso deve essere necessariamente preso in considerazione dalla Commissione (110). In particolare, secondo la Corte, «qualora risulti che il criterio del creditore privato può risultare applicabile [la Commissione deve ...] chiedere allo Stato membro interessato di fornirle tutte le informazioni rilevanti che le consentano di verificare il soddisfacimento dei requisiti di applicazione di tale criterio» (111). È alla stessa che «in sede di applicazione del criterio del creditore privato, spetta [... di] effettuare una valutazione globale che tenga conto di tutti gli elementi rilevanti nel caso di specie, che le consentano di
In dottrina si cfr. A. Vallery, H. Wiame, op. cit., 531. (107) Si cfr. Corte giust.: 5 giugno 2012, in causa C124/10 P, EDF, cit., punto 103; 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 62; 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 22. (108) Come sottolineato da Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 25: «risulta che incombe alla Commissione, qualora risulti che il criterio del creditore privato possa risultare applicabile, esaminare tale ipotesi indipendentemente da qualsivoglia richiesta in tal senso». Peraltro, nella sentenza 24 ottobre 2013, in causa C214/12 P, C215/12 P e C223/12 P, Land Burgenland, ECLI:EU:C:2013:682, in Racc. digitale, punti 57, 60 e 61, la Corte aveva affermato che sulla Commissione non incombe l’obbligo di applicare il criterio dell’operatore privato. Resta il fatto che tale affermazione era dovuta alla circostanza per la quale né lo Stato membro, né l’autorità che aveva concesso il presunto aiuto né il beneficiario del medesimo avevano fornito prove in merito all’applicabilità del criterio dell’operatore privato nel corso del procedimento amministrativo. (109) Si cfr. Corte giust.: 5 giugno 2012, in causa C124/10 P, EDF, cit., punto 92; 3 aprile 2014, C224/12 P, ING Groep, ECLI: EU:C:2014:213, in Racc. digitale, punto 30. (110) Si cfr. Corte giust.: 3 aprile 2014, C224/12 P, ING Groep, cit., punto 32; 5 giugno 2012, in causa C124/10P, EDF, cit., punto 103; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 71. Si cfr. anche le conclusioni presentate dall’avv. gen. Nils Wahl, il 3 maggio 2017, nella causa C-300/16, Frucona II, cit., punti 48 e 76. (111) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 24. Cfr. anche Corte giust. 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 33.
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determinare se l’impresa beneficiaria non avrebbe manifestamente ottenuto agevolazioni paragonabili da un creditore privato» (112). Tale impostazione rappresenta una precisa (e condivisibile) evoluzione della precedente giurisprudenza Land Burgenland, la quale sembrava addossare agli Stati membri l’onere di dimostrare che il criterio del creditore privato fosse stato rispettato (113) e sulla quale nella causa Frucona II la Commissione aveva particolarmente insistito (114). L’evoluzione giurisprudenziale avutasi con le sentenze Buczek e Frucona II è quindi significativa e rafforza, almeno in parte, la posizione degli Stati impegnati a difendere la discrezionalità e l’operato delle proprie autorità fiscali. Resta il fatto che, se la Commissione è tenuta a dimostrare che il criterio dell’imprenditore privato non è stato rispettato, lo deve fare alla luce delle informazioni e dei documenti in proprio possesso. Come si è visto, quando la Commissione non disponga di sufficienti mezzi probatori o quando comunque nutra dei «dubbi in merito all’applicabilità di detto criterio», è tenuta a chiedere allo Stato di appartenenza dell’amministrazione finanziaria «informazioni pertinenti a tale riguardo e procedere ad una valutazione globale di detti elementi» (115). In applicazione del principio di leale cooperazione gli Stati sono evidentemente tenuti a fornire tali elementi. Peraltro, nonostante l’onere di dimostrare l’esistenza dell’aiuto incomba essenzialmente sulla Commissione, una volta che essa abbia sufficientemente argomentato e provato che un creditore privato si sarebbe comportato in ma-
(112) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 59. Si cfr. anche Corte giust.: 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 73; 21 marzo 2013, in causa C405/11 P, Buczek, cit., punto 47. (113) In effetti nella sentenza 24 ottobre 2013, in causa C214/12 P, C215/12 P e C223/12 P, Land Burgenland, cit., punto 57, la Corte aveva affermato che: «qualora uno Stato membro invochi un criterio come quello del venditore privato, incombe al medesimo, in caso di dubbio, provare inequivocabilmente, e sulla base di elementi oggettivi e verificabili, che la misura attuata sia riconducibile alla sua qualità di azionista». Nella stessa pronuncia, punto 61, la Corte aveva anche affermato che «solo quando lo Stato membro interessato presenti alla Commissione elementi del genere richiesto, spetta a quest’ultima operare una valutazione globale prendendo in considerazione, oltre agli elementi forniti dallo Stato membro stesso, qualsiasi altro elemento pertinente nella specie che le consenta di accertare se la misura in questione sia riconducibile alla qualità di azionista o a quella di potere pubblico dello Stato membro medesimo». (114) In effetti, secondo la Commissione, il criterio dell’investitore privato rappresentava un’eccezione all’applicabilità dell’art. 107 par. 1 TFUE e, come tale, poteva essere unicamente richiesta dallo Stato. (115) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 36. Si cfr. anche Corte giust. 5 giugno 2012, in causa C124/10 P, EDF, cit., punto 86.
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niera diversa da quella in cui si è comportata l’amministrazione fiscale che ha rimesso parte dei crediti, spetta allo Stato difendersi confutando gli argomenti fatti valere dalla Commissione. È in particolare a lui che spetta di controargomentare la razionalità dei comportamenti della propria amministrazione e, se questa non ha sufficientemente motivato le proprie scelte nel momento in cui le ha adottate, la difesa è ardua. In effetti, secondo la giurisprudenza, una volta che sia stata aperta un’indagine per presunti aiuti di Stato, la documentazione che deve essere fornita alla Commissione è quella relativa alle scelte effettuate dalle amministrazioni fiscali al momento dell’assunzione delle proprie decisioni, quindi «ai fini dell’applicazione del criterio dell’investitore privato sono unicamente pertinenti gli elementi disponibili e le evoluzioni prevedibili al momento dell’adozione di tale decisione» (116). Più specificamente non si può argomentare la scelta delle amministrazioni nazionali producendo fatti ed evidenze successive alle loro decisioni (117). Ad esempio non si potrebbe giustificare una transazione fiscale come quella operata nel caso Frucona II, affermando che essa ha consentito la sopravvivenza dell’impresa la quale, successivamente, ha potuto versare consistenti contributi fiscali. In altri termini, dalle sentenze Buczek e Frucona II deriva per le singole amministrazioni fiscali un certo aggravio dell’onere di motivazione cui sono normalmente tenute: quando esse, in applicazione del diritto interno finiscono con il rinunciare alla riscossione totale o parziale di alcuni crediti dello Stato sono infatti tenute ad argomentare come e perché hanno rinunciato a tali debiti, perché quell’opzione è risultata conveniente, perché un ipotetico imprenditore privato che si fosse trovato in una condizione analoga alla sua si sarebbe comportato allo stesso modo.
(116) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 61. Si cfr. anche 5 giugno 2012, in causa C124/10 P, EDF, cit., punto 105. (117) In effetti Corte giust. 5 giugno 2012, in causa C124/10 P, EDF, cit., punto 85, ha sottolineato che: «valutazioni economiche operate successivamente alla concessione di tale beneficio, la constatazione retrospettiva dell’effettiva redditività dell’investimento realizzato dallo Stato membro de quo o giustificazioni successive della scelta del modus procedendi effettivamente attuato non possono essere sufficienti per dimostrare che detto Stato membro abbia adottato tale decisione, preliminarmente o simultaneamente alla concessione del beneficio, nella sua qualità di azionista». Si cfr. anche Trib. 16 marzo 2016, in causa T103/14, Frucona Košice c. Commissione, cit., punto 97.
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7. Conclusioni. – Il ricorso al criterio del creditore privato si è ormai affermato nella giurisprudenza della Corte di giustizia e, considerando la crescente attenzione che la Commissione sta prestando agli aiuti di stato tramite strumenti fiscali, sembra destinato a costituire un termine di paragone sempre più utilizzato e d’altronde non se ne vedono altri che lo possano sostituire. Resta il fatto che, come riconosciuto dalla Corte (118), il suo uso tende a collidere con il principio che garantisce la certezza del diritto per quelle imprese che sono coinvolte in concordati con transazioni fiscali, o in accertamenti con adesione e in concordati fiscali, o comunque in liti con amministrazioni statali che conducono ad una ridefinizione dei propri debiti (119). Tende a collidere con tale principio per un duplice ordine di motivi. In primo luogo perché il ricorso al criterio del creditore privato non può che essere applicato da parte della Commissione o dei giudici nazionali ‘tardivamente’, quando le parti private e l’amministrazione fiscale ritengono di aver già composto le proprie differenze di vedute e la definizione delle imposte che l’impresa è tenuta a pagare sono divenute sostanzialmente definitive (120) e questo senza aver ritenuto che siano concessi aiuti. Rimettere in discussione situazioni ritenute definitive in qualche caso può essere giustificabile ma non è certo auspicabile che diventi una prassi. In secondo luogo l’applicazione pratica del principio è estremamente complessa, il criterio presenta dei margini di applicazione che sono necessariamente soggettivi e quindi incerti, ed è soggetto ad una interpretazione necessariamente discrezionale da parte delle autorità fiscali nazionali, le quali da un lato non sono avvezze ad effettuare questo tipo di analisi (121), da un altro – in alcuni Stati membri – non hanno le capacità per svolgere analisi
(118) Si cfr. Corte del 22 dicembre 2010, in causa C507/08, Commissione c. Repubblica slovacca, cit., punto 58 (119) Si cfr. M. Muñoz de Juan, J. M. Panero Rivas, op. cit., 278. (120) In effetti non è molto probabile che un’amministrazione tributaria impegnata a riscuotere i propri crediti consideri che il proprio atteggiamento sia stato talmente morbido da poter essere qualificato alla stregua di un aiuto di Stato e, di conseguenza chieda allo Stato di appartenenza di notificare alla Commissione le proposte di concordato con transazione fiscale, di accertamento con adesione o, ancora, di conciliazione fiscale. (121) Si cfr. M. Muñoz de Juan, J. M. Panero Rivas, op. cit., 279.
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economiche complesse (122) e da un terzo, non hanno riferimenti certi (123). A questa discrezionalità si sovrappone poi quella della Commissione, la quale può ben utilizzare parametri diversi da quelli usati dalle amministrazioni e dai giudici nazionali. Può peraltro anche succedere che i parametri usati siano gli stessi ma che le valutazioni delle amministrazioni nazionali siano ottimiste e quelle della Commissione pessimiste (o viceversa) e in tale ipotesi sembra difficile identificare quali siano quelle giuste. Vi è da aggiungere che la discrezionalità in mano alla Commissione, già estremamente ampia, è soggetta ad essere ulteriormente amplificata da quella giurisprudenza secondo la quale «nell’ambito del controllo che i giudici dell’Unione europea esercitano sulle valutazioni economiche complesse compiute dalla Commissione nel settore degli aiuti di Stato, non spetta al giudice dell’Unione sostituire la propria valutazione economica a quella della Commissione» (124). In effetti, sebbene le sentenze Lenzing, Buczek, e Frucona II, dimostrino che il Tribunale e la Corte sono effettivamente in grado di valutare l’esattezza materiale dei mezzi di prova, la loro attendibilità, la loro coerenza (125) e se sono altresì capaci di verificare, se gli elementi di prova addotti «costituiscano l’insieme dei dati rilevanti che devono essere presi in considerazione per
(122) In effetti, considerando che la stessa Commissione, che tra i propri funzionari può annoverare economisti di ottimo livello, nel caso Frucona II ha commesso degli errori di valutazione economica così evidenti, sembra difficile chiedere ad un Tribunale fallimentare, al cui interno siedono solamente giuristi, di fare sistematicamente delle analisi economiche complesse e spesso comparate. (123) In effetti il criterio del creditore privato viene menzionato nella Comunicazione della Commissione «sulla nozione di aiuto di Stato di cui all’art. 107, par. 1, del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea» (2016/C 262/01), in GUUE del 19 luglio 2016, n. C 262, 1, punto 74, ma, concretamente, non vengono fornite indicazioni su quando esso possa risultare integrato. (124) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 63. Si cfr. anche Corte giust.: 25 gennaio 1979, in causa 98/78, Racke, ECLI:EU:C:1979:14, in Racc. 1979, 69, punto 5; 22 ottobre 1991, in causa C16/90, Nölle, ECLI:EU:C:1991:402, in Racc. 1991, I-5163, punto 12; 18 luglio 2007, in causa C326/05 P, Industrias Químicas del Vallés, in Racc. 2007, I-06557, punto 76; 22 novembre 2007, in causa C525/04 P, Lenzing AG, punto 57; 2 settembre 2010, in causa C290/07 P, Scott, ECLI:EU:C:2010:480, in Racc. 2010, I-7763, punto 66; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 75; 21 marzo 2013, in causa C405/11P, Buczek, cit., punto 49. (125) Si cfr. Corte giust.: 22 novembre 2007, in causa C-525/04 P, Lenzing AG, cit., punto 56; 2 settembre 2010, in causa C290/07 P, Scott, cit., punto 65; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 76; 21 marzo 2013, in causa C405/11P, Buczek, cit., punto 50.
Rubrica di diritto europeo
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valutare una situazione complessa e se siano di natura tale da corroborare le conclusioni che ne sono state tratte» (126), il margine di discrezionalità di cui gode la Commissione applicando il criterio del creditore privato è comunque particolarmente ampio (127). Come sottolineato da Olaf Otting e Sebastian Rothweiler, una volta che la Commissione abbia assolto ai propri adempimenti di ordine procedurale e stabilito correttamente i fatti, anche se ha svolto delle valutazioni imprecise o parzialmente errate è difficile che la Corte proceda ad annullare la sua Decisione (128). In altri termini è da ritenere che una Decisione della Commissione che, applicando il criterio del creditore privato, qualifichi una transazione fiscale, o più in genere la composizione bonaria di una lite fiscale, come un aiuto di Stato ai sensi dell’art. 107 par. 1 TFUE, potrà essere cassata dal Tribunale e dalla Corte di giustizia solamente in casi di errori di valutazione manifesti. Tutto questo impone dunque un’applicazione restrittiva del criterio del creditore privato e c’è dunque da augurarsi che, come suggerito anche dalla giurisprudenza DM Transport (129) e HAMSA, la Commissione applichi il criterio del creditore privato solamente quando la rinuncia a dei crediti dello Stato sia «manifestamente più ampia di quella che avrebbe concesso un ipotetico creditore privato che si trovasse, nei confronti della ricorrente, in una situazione simile a quella dell’ente pubblico» (130). Evidentemente l’opzione per qualificare come aiuti solamente le violazioni manifeste del criterio del creditore privato rende più difficile il lavoro della
(126) Così Corte giust. 20 settembre 2017, in causa C300/16 P, Frucona II, cit., punto 64. Si cfr. anche Corte giust. 21 novembre 1991, in causa C269/90, Technische Universität München, ECLI:EU:C:1991:438, in Racc. 1991, I-5469, punto 14; 15 febbraio 2005, in causa C-12/03 P, Tetra Laval, ECLI:EU:C:2005:87, in Racc. 2005, I-987, punto 39; 18 luglio 2007, in causa C326/05 P, Industrias Químicas del Vallés, cit., punto 77; 22 novembre 2007, in causa C-525/04 P, Lenzing AG, cit., punto 57; 24 gennaio 2013, in causa C73/11 P, Frucona I, cit., punto 76; 21 marzo 2013, in causa C405/11P, Buczek, cit., punto 50. (127) Come sottolineato da A. Vallery, H. Wiame, op. cit., 534, «the standard for concluding that the Commission committed a manifest error of assessment is quite high». Contra vedi U. Soltész, op. cit., 456, il quale sottolinea come la sentenza 103/14 «shows that the General Court is prepared to scrutinise Commission decisions which rely on the ‘private creditor test’ very closely» e che «this leaves very little margin of appreciation for the Commission when assessing the aid character of a measure». (128) Si cfr. O. Otting, S. Rothweiler, op. cit., 257. (129) Si cfr. Corte giust. 29 giugno 1999, in causa C256/97, DM Transport, cit., punto 22. (130) Si cfr. Trib. 11 luglio 2002, in causa T152/99, HAMSA, cit., punto 170.
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Commissione (131), ma al contempo garantisce un accettabile livello di tutela del principio della certezza del diritto.
Maurizio Orlandi
(131) Si cfr. anche A. Vallery, H. Wiame, op. cit., 536.