L’INK® NUMERO 14 | 2013

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indice 3 Editoriale: Ritorno al passato, presente, futuro 4 La storia insegna 6 (Capo)lavori 9 Storie di famiglia 10 ll paese dei mulini a colori 11 Over the stop 12 Di(segni) del destino 13 Una storia vera 14 Acronimi d’oltre oceano 16 Elogio del dettaglio 20 Social society 21 Il codice che vince 23 Arte per corrispondenza 26 Olivetti, l’arte di comunicare 28 Diesel, le origini di un mito 32 Info o grafica? 34 <title>La tipografia nel web</title> 36 Manifesti d’arte 38 Parola di futuristi 41 La parola immaginata 42 L’arte grafica ha trovato Casa(bianca) 45 Grasset, la tipografia come opera totale 46 Artisti al muro 47 Creatività riciclata 48 Un logo a pezzi 49 Palestre creative 51 Credits e info

5 È successo a Hollywoodland 6 Visioni. Allusioni. Creazioni 7 Talento. Passione. Lettering 10 Tipografia e videoclip 11 Segnali dal passato 12 Unità EMme 13 Schwitters: Merz ist Form 14 Il rosso di un’era 16 Rivoluzione PostScript 17 Disegni di strada 18 Type design e protagonisti contemporanei 19 Sol l’idea conta 20 Mondo punk! 21 Stori@ di un glifo quotidiano 23 Holzer, la verità è dura come un osso 24 Fascicolo 104. Dossier Postale di Alighiero Boetti 25 Lavoro con le immagini e con le parole perché hanno la capacità di esprimere chi siamo o non siamo 26 Typi da laboratorio 27 Quando il lettering è parte del film 29 Linotype: dal piombo al digitale 32 BANG! gasp. GULP. mumble 33 Gotham: un carattere presidenziale 35 Interrogazione di classe‽ 36 Ideogrammarsi 41 Letture parallele 42 Una città di piombo 45 Prestampa 46 Tag cloud 48 Cancello le parole così le notate maggiormente: il fatto che siano cancellate fa sì che vi venga voglia di leggerle



Ritorno al passato, presente, futuro “Mi ricordo benissimo, era l’estate del 1893. Una serata piacevole, con il bel tempo, insieme a due amici all’ora del tramonto [...] Cosa mai avrebbe potuto succedere? Il sole stava calando sul fiordo, le nuvole erano rosso sangue. Improvvisamente, ho sentito un urlo che attraversava la natura. Un grido forte, terribile, acuto che mi è entrato in testa, come una frustata. D’improvviso l’atmosfera si era fatta angosciante, simile a una stretta soffocante: tutti i colori del cielo mi sono sembrati stravolti, violentissimi irreali [...] Anch’io mi sono messo a gridare, tappandomi le orecchie, e mi sono sentito un pupazzo fatto solo di occhi e di bocca, senza corpo, senza peso, senza volontà, se non quella di urlare, di urlare, urlare, ... Ma nessuno mi stava ascoltando: ho capito che dovevo gridare attraverso la pittura, e allora ho dipinto le nuvole come fossero cariche di sangue, ho fatto urlare tutti i colori”. (Edvard Munch) La parola – scritta e dipinta – deve essere iniziata così. Un gigantesco, viscerale, incoercibile urlo per separarsi da un utero accogliente (una serata piacevole). Gridare per testimoniare lo stupore e la paura. Emergere da un nulla imperscrutabile, sentirsi disorientati e poi felici di aver visto la luce. All’inizio suoni disarticolati, come il nostro corpo che cerca di organizzarsi in movimenti coerenti, degli arti e del pensiero. Infine, l’irruzione del colore e del suono: gridare attraverso la pittura e gridare attraverso la scrittura, narrare cieli di sangue e aggettivare con insolite cruenze le nuvole sui fiordi. L’INK® 2013 torna all’etimo, a quanto i greci reputavano la «verità» della parola. Non lo spessore integralista che ogni religione affida ai suoi comandamenti. Bensì alla dimensione pagana del logos. Il logos è veritiero perché illustra – il più realisticamente possibile – quanto si vede, si ascolta, si annusa, si sente ed emoziona. Il logos sostituisce il cosmos (ordine) al (caos) restituendo all’uomo originario l’effetto catartico dell’urlo.

Il cacciatore ha imparato a proteggere la sua tribù. Lo fa costruendo armi per uccidere animali che lo aggredirebbero e che, comunque, nutrono la sua gente. Lo fa con i «misteri» scaramantici delle pitture rupestri. L’etimo è sempre Art, il suono indoeuropeo che prelude insieme ad arma ed arte, che appunto rende sinonimi il cielo insanguinato di Munch e le nuvole di sangue, di cui Salvatore Quasimodo recupera, “l’eco fredda e tenace giunta fino a te, dentro la tua giornata”. E come nel “Narratore ambulante” di Llosa, alcune popolazioni dell’Amazzonia, continuano a raccontarsi la loro tradizione orale, perché credono che solo la loro ininterrotta narrazione sosterrà il sole. Così il logos-etimo diventa anche bios (storia e grano), senso dell’esistenza ed esistenza. L’urlo di chi viene alla luce e che evolve verso il colore, il suono, il dire attraverso cui si manifestano fantasia e pensiero. mariella rossi


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martina guglielmi

ivertenti, espressive, particolari, uniche. Le insegne lasciano il segno: nello sguardo dell’osservatore, negli spazi dove si trovano. I Sumeri nel II millennio a.C. sono i primi a identificare e segnalare con immagini simboliche e mitologiche luoghi e edifici. Troviamo segni colti e letterari nelle insegne etrusche di spazi pubblici e religiosi. Nel 508 a.C., a Roma, con la nascita della Repubblica, l’insegna raggiunge la massima diffusione e espressività. Dipinte, decorate, stampate o incise. Rettangolari, quadrate, tonde o triangolari. Comunque siano fatte, le insegne ci guidano attraverso le strade delle nostre città, ci dicono se un negozio vende libri o scarpe, ci segnalano in che tipo di locale stiamo entrando (o se è meglio non entrarci), ci insegnano ad apprezzare il nome di un luogo e la sua storia. Sì, perché in un’insegna ci sono le tracce di qualcosa che ha preso vita, sono scritte le sue origini, è inciso il lavoro di mani esperte, guidate da un estro artistico o da una logica funzionale, che unisce forme, linee e punti per dare informazioni precise. Eppure ogni insegna, anche la più semplice, è una piccola opera d’arte, un modo particolare di de-scrivere il mondo. Aggiungere una decorazione a una Q, un’ombra a una A o la tridimensionalità alla R cambia le cose. Creare un’insegna diventa un’azione fantastica, libera la creatività e la mano

scorre, il colore scivola, il pennello dipinge. Basta pensare alle vecchie insegne a cannelli di carbone, a ferro di cavallo, a forma di legno o di bacinella di rame che una volta indicavano le botteghe del carbonaio, del maniscalco, del calzolaio e del barbiere. Molte insegne, ad esempio di osterie o di alberghi, erano ispirate ai luoghi vicino ai quali si trovavano, come una chiesa, un ponte, un fontana, una piazza o una via. Oppure erano create a partire da miti popolari, dalle figure di eroi leggendari, da mode o consuetudini del tempo. Oggi la decorazione artistica e il valore funzionale dei segni hanno sostituito le figure simboliche e allegoriche. Abbiamo voluto fare una piccola storia delle insegne, scegliendo e fotografando quelle di alcuni negozi: una pulitura degli anni ’60, una farmacia, una caffetteria del 1988, una salumeria, e altre ancora. Con qualunque tecnica siano state prodotte e da qualunque idea siano state ispirate, le insegne ci indicano una direzione e, se osservate più attentamente, ci insegnano a leggere e riconoscere diverse identità. Gli artisti, fotografi, film maker Faythe Levine e Sam Macon affermano, giustamente, che “[…] è importante mostrare al grande pubblico come i pittori di insegne contribuiscono ad arricchire la nostra società. È il momento di dare loro il riconoscimento che meritano. È il momento di far conoscere la loro influenza sul nostro spazio pubblico e la nostra coscienza”.


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“È importante mostrare

al grande pubblico come i pittori di insegne contribuiscono ad arricchire la nostra società.

È il momento di dare loro il riconoscimento che meritano. È il momento di far conoscere la loro influenza sul nostro spazio pubblico e la nostra coscienza.” Faythe Levine e Sam Macon (artisti, fotografi e film maker)

È successo a Hollywoodland Costruita nel 1923, l’insegna di Hollywood era composta da tredici lettere alte 15 metri che originariamente riportavano la scritta “hollywoodland”. Il suo scopo era pubblicizzare una nuova serie di costruzioni abitative sulle colline. Inizialmente si pensava di rimuoverla in poco tempo, ma l’ascesa del cinema americano a Los Angeles durante l’età d’oro di Hollywood l’ha fatta diventare un riferimento internazionale. Perciò fu lasciata dove si trova tuttora e dimenticata dai suoi iniziali autori. Nel corso di più di mezzo secolo ha resistito a numerose intemperie, anche se la struttura originale si è irrimediabilmente deteriorata. Nel ‘49 la camera di commercio di Hollywood decise infatti di riparare la costruzione e rimuovere l’ultimo retaggio ludico “land” per battezzare con il nome “Hollywood” il famosissimo quartiere delle star. / GM


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(Capo)lavori artigianali Fabio Zoratti ha una carriera da graphic designer alle spalle, ma un’ecletticità particolare lo avvicina anche all’arte, alla fotografia, alla pubblicità e alla comunicazione. In questi ultimi anni particolarmente digital oriented, Fabio ha realizzato bellissimi lavori artigianali: come ad esempio le insegne fatte a mano. Queste l’hanno impegnato dall’ideazione del visual al disegno, dalla colorazione dei materiali alla finitura vera e propria dei più piccoli dettagli. Ecco come ci racconta la sua particolare storia professionale.

Visioni. Allusioni. Creazioni. Edward Ruscha è un artista americano considerato tra i capostipiti della Pop Art. Riesce a spaziare dal disegno alla grafica, dalla pittura alla fotografia, dai libri d’artista al cinema. Utilizza materiali insoliti come polvere da sparo, fiori bolliti e cioccolato oltre ad acrilico e pastelli. Nella sua ricerca artistica è centrale la relazione tra spazio visivo e spazio verbale. Peculiare l’uso che fa del linguaggio che viene esplorato nel suo potere evocativo, con ironia quasi inespressiva. Gli interessano headline, frasi estrapolate da riviste e giochi di parole che sovrappone alle immagini dipinte. Si tratta di soluzioni verbali scritte a grandi lettere: all’impassibilità dei soggetti sovrappone parole o accostamenti di parole e frasi nonsense che creano inaspettate figure retoriche e inaspettati readymade linguistici. Con questa semplicità, Ruscha cattura un vasto catalogo di realtà (Twentysix Gasoline Station, Some Los Angeles Apartments, Nine Swimming-Pools), lo scompone, ne prende le distanze e lo racconta con un linguaggio ridotto all’essenziale. / AS

Quando hai iniziato a creare insegne artigianali fatte a mano? La storia di questi lavori inizia 15 anni fa a Schio, nel paese dove vivo e lavoro. Allora mi sono occupato della realizzazione di un quadro per GAS con la tecnica della pittura ad olio per un negozio che voleva, a suo modo, promuovere il marchio. Nella zona sono stato il primo a intuire il potenziale evocativo e comunicativo della targa fatta a mano: queste creazioni sono infatti molto originali e il valore del pezzo unico aumenta il loro fascino nel tempo. L’idea ha funzionato tanto che è stata poi ripresa anche da molte grandi marche come ad esempio Napapijri. Com’è tornare a lavorare “a mano”? A differenza del trattamento digitale, l’opera artigianale ha bisogno di lavorazioni aggiuntive, a volte il colore deve essere schiarito o il disegno iniziale ha lasciato sbavature da cancellare. Questi imprevisti accadono soprattutto quando in fase di lavorazione ci si allontana dalla bozza iniziale. L’artigianalità è molto importante, anche se il computer la mette in secondo piano uniformando tutte le esperienze. L’anno scorso ho dedicato molto tempo alla costruzione di siti web con particolare attenzione alla personalizzazione delle icone e mi mancavano le tecniche tradizionali, quelle dove non si può cancellare l’ultima azione con un

semplice cmd+z. I programmi digitali offrono la possibilità di “personalizzare” la grafica in tutti i modi possibili: si può dare all’immagine o al carattere un’aria invecchiata, ingiallita, metallica e creare infiniti effetti creativi; ma l’esperienza non è assolutamente paragonabile al lavoro artigianale. Gli strumenti digitali permettono di lavorare in modo molto veloce, come sono stati gestiti invece i tempi di realizzazione di queste opere uniche fatte a mano? Il tempo, nella maggior parte dei casi, ha giocato a mio favore. Organizzo sempre tutto in modo da poter gestire nel dettaglio ogni fase di lavorazione, dal reperimento dei materiali, all’effettiva realizzazione. Finora non ho dovuto confrontarmi con richieste di consegne urgenti in tempi record. Questo ha permesso la realizzazione di opere di alta qualità curate, pensate e ragionate. Il lavoro artigianale presenta tuttavia alcuni limiti e per affrontarli bisogna fare molta esperienza. Ci si rende conto effettivamente solo alla fine quale effetto crea un’opera nel contesto in cui viene inserita. Con l’aiuto del digitale, invece, questo è molto più prevedibile. Bilanciando con equilibrio gli interventi digitali e artigianali, le opere che si creano possono davvero essere sorprendenti, uniche nel loro genere e preziosissime.


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Talento. Passione. Lettering Se il nome non vi dice nulla, sicuramente i suoi lavori sì. Dana Tanamachi è una graphic designer americana conosciuta come “la dea della lavagna e del gessetto”. Questi oggetti, assieme a uno straccio umido, tavoli e scale di supporto sono i semplici strumenti da lavoro che utilizza per creare complessi murales di lettering. Eleganti e purtroppo effimere, le sue opere non vengono conservate con alcun fissativo e, dopo le occasioni per cui sono state ordinate, vengono di norma cancellate. È forse anche questo che fa amare ulteriormente le sue opere. Sono anni e ore di allenamento che hanno concesso a Dana il titolo di miglior chalk lettering designer. La passione e il talento le hanno portato clienti come Tommy Hilfiger, Rugby Ralph Lauren, l’Andaz Hotel di New York, e molti altri. Ha elaborato persino copertine intere per TIME, HOW Magazine e O! Magazine di Oprah. / SEV



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«Ovunque bisogna iniziare da capo e si vorrebbe finire ovunque*» come queste righe iniziano in una penna, finiscono in un’altra e si tramandano di persona in amico, in famiglia, in compagno. Attraversando un interminabile passaparola culturale. *(“Le affinità elettive”, J. W. Goethe) STORIE DI FAMIGLIA mariella rossi / giulia segalla

Dalle prime pitture rupestri, allo splendore degli alfabeti più antichi. Attraverso il gergo anarchico di Yippie, Punk e giovani Millennials nativi digitali. Una K e un apostrofo arrivano a Diskos e sposano L’INK®. Diskos. Con la K. La nostra K. Giunta da remotissime spiagge mediterranee per omaggiare le radici classiche del sapere e dell’apprendere. Una K emancipata dal suo alfabeto che ha sentito l’impulso di ridisegnarsi in una metamorfosi visiva e concettuale. Transitando attraverso parentesi circonflesse, l’antica k dell’imparare ha chiuso il suo flusso narrativo nel più coerente dei modi. Mutando nella rappresentazione di un libro aperto sottolinea infatti la naturale propensione a ogni possibile forma piena del pensiero, dell’immaginazione, dell’arte e della scrittura. La K di Diskos ha trovato il suo posto

anche in L’INK®, preceduta da un apostrofo viaggiatore che spezza e integra parole di ieri e di oggi. L’énkaustos greco, un’antichissima tecnica di pittura murale; l’encaustum latino, un preziosissimo inchiostro rosso usato unicamente dagli imperatori; ink, tecnica e arte di parole e segni e infine link, il collegamento elettronico dell’era social-digitale. K e apostrofo, unite, danno vita all’ultimissima crisalide L’INK®. Il nome della nostra rivista ricorda insomma la memoria dell’inchiostro, l’attualità delle tecnologie digitali e sancisce il legame eterno tra passato, presente e futuro. In 16 anni di storia di famiglia.


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IL PAESE DEI MULINI A COLORI giulia segalla

Il Moulin Rouge, la trasgressione, Toulouse-Lautrec. Il Mulino Bianco, Antonio Banderas, amori allusi, illusi. E tutte le galline di maghi buoni come i loro biscotti. Un cantastorie girovagando va, a partire dalla stessa ruota che rigira acqua e aria. Pigalle infiamma, il quartiere a luci rosse ospita un nuovo spettacolo di ballo al Moulin Rouge. XVIII arrondissement. Parigi. Toulouse-Lautrec è ancora virtualmente lì, immobile, seduto all’altro lato del cavalletto mentre osserva la ballerina dalle guance di rovere. Rovente, il rosso che la circonda danza come fuoco sotto le sue scarpe e scalda il blu delle notti antiche trapunte di neve. Neve. Candido cotone si scioglie sotto il passo svelto della folla.

Il Mulino Bianco è dietro l’angolo, immerso nel placido silenzio delle colline senesi. Un Antonio Banderas avvolto in soffici nuvole di farina si aggira tra le stanze scaldate dai riflessi del grano. Nell’aria, suoni, profumi e sapori buoni come il pane solleticano il naso di due giovani fanciulli incantati da una magica Rosita chiocciante tutta tremiti e gorgoglii. L’atmosfera è di un altro mondo, di un’epoca lontana. Come se il passato non fosse mai passato e il presente fosse solo un’illusione. Come se il romantico tempo delle torte di mele si trovasse in vendita tra gli scaffali del mercato. L’acqua scorre, il vento gira. Ci riporta dentro le nostre case con un biscotto in tasca e un collarino nero stretto al polso ancora macchiato di porpora fresca. Un cantastorie narrando va, esplora le strade di tutte le città.

Tipografia e videoclip Nel 1965, Bob Dylan realizza un videoclip per il brano “Subterranean Homesick Blues”, uno dei primi video in assoluto nella storia musicale, dove vengono mostrati continuamente dei cartelloni con parole e testi. Tuttavia, negli anni, elementi tipografici di questo o simile genere non ebbero mai un particolare peso nei videoclip. Con l’avvento di Youtube le cose cambiano. I fan iniziano a pubblicare lyric video che riportano i testi delle loro canzoni preferite, soprattutto in attesa della pubblicazione dei video ufficiali di queste canzoni; come ad esempio, il video “Hello Brooklyn” di JayZ, dove il testo della canzone riempie la città. Ora invece sono gli artisti stessi che pro-

pongono i lyric video prima del lancio di un singolo o, addirittura, introducono il testo della canzone nei videoclip ufficiali. Il testo diventa parte integrante del video. Così accade nel brano “Good Life” di Kanye West, nel quale le parole sincronizzate con la musica sono illustrate in modo tale da riprendere il senso e la natura della parola cantata. Nel video “Move In The Right Direction” dei Gossip, il testo fa parte di un set immaginario dove suona il gruppo e danzano alcuni ballerini. La ricetta visiva, a quanto pare, continua ad avere molto successo. / SEV


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Segnali dal passato Oggi, se dovete recarvi in qualche località sconosciuta, prendete la macchina, impostate la destinazione sul navigatore e, pronti, partenza, via!, in men che non si dica raggiungete la meta. Un po’ di tempo fa, le cose non erano così semplici. La rivoluzione ebbe inizio nel 1894, quando 57 ciclisti decisero di fondare il Touring Club Italiano con l’idea di diffondere i valori del ciclismo e del viaggio. Con questo intento introdussero per primi la segnaletica stradale in tutta Italia, grazie al contributo economico di numerosi soci, compagnie e singoli privati. La segnaletica era nata con l’intento di rendere accessibili destinazioni sconosciute, favorire l’accoglienza turistica e facilitare i viaggi a velocipedisti. Era l’Ufficio Tecnico Segnalazioni Stradali l’incaricato di realizzare, distribuire e collocare i cartelli a livello nazionale. / SEV

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OVER THE STOP giulia segalla

“Se dall’alto delle piramidi quaranta secoli di storia consigliavano i soldati di Napoleone, dall’alto del suo palo, di ferro o di legno, il cartello consiglierà i turisti che passano per la via”. (Rivista mensile del Touring Club Italiano) Gli antichi romani non furono i primi a solcare strade e vie di comunicazione, eppure donarono alla nostra penisola una delle reti più organizzate al mondo. All’inizio si trattava di semplici percorsi polverosi, scomodi e pieni di buche. Con il tempo le necessità militari e commerciali hanno trasformato i sentieri in vie di scambio sempre più attrezzate. Pietre miliari indicavano il passo ai viandanti; locande, fontane e stazioni per il cambio dei cavalli permettevano viaggi frequenti e mercati tra villaggi. L’automobile ha chiamato in scena,

fulvi e scintillanti, anche i primi segnali verticali. Una volta tanto, l’usabilità ha avuto la meglio sulle barriere della lingua stipulando un’alleanza comunicativa tra il vocabolario anglosassone e quasi tutti i popoli del pianeta. Fatta eccezione per la Bielorussia, dopo qualche mutazione visiva l’intera Europa e alcune regioni dell’Africa, dell’America, dell’Asia e dell’Oceania, hanno adottato lo stesso format e la stessa parola per segnalare un pericolo alla sua specie: STOP. E ci fermiamo a osservare.


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(DI)SEGNI DEL DESTINO giulia segalla

“Ventiquattro schiavi mori sospingevano remando la sontuosa galera che doveva condurre il principe Amgiad al palazzo del califfo. Il principe tuttavia, avvolto nel suo manto purpureo, giaceva solitario in coperta, sotto il cielo notturno di un blu profondo tempestato di stelle”. (“Doppio sogno”, Arthur Schnitzler) Quel giorno il mare luccicava infranto. La baia si faceva sempre più vicina e la truppa si preparava ad ammainare la nave. Riposi velocemente il libro appena iniziato, allora non scrivevo mai a digiuno di parole: disturbavo la penna solo dopo aver divorato qualche grande autore. M’illudevo così di poter essere contagiato dallo stile dei migliori e un po’ alla volta d’imparare a padroneggiare, maneggiare, personalizzare anche il mio. Come se il talento fosse un grande arnese e io un artigiano alla gavetta. Wolff Olins viaggiava con me, riposava sfinito dopo una lunga notte di lavoro sotto le vele gonfiate dal vento. Blu, rosse, gialle, arancio. Immerso nei suoi incubi stringeva tra le dita l’ultima creazione. Sì, ci sapeva fare. Lavorava nella grafica, ma era un comunicatore fatto e finito. Io? Un copywriter. L’altra metà della coppia creativa, quello che pensava, rimuginava, annotava parole, frasi, citazioni. Segni che Wolff prontamente trasformava in splendidi “disegni”.

Eravamo, dicevo, al lavoro per una nuova compagnia petrolifera che aveva scovato il più grande potenziale del mondo in uno dei più piccoli paesi del pianeta. In pieno centro del deserto asiatico si ergeva immobile la nostra piccola fortezza: il Kuwait. Kuwait. Qu. Wait. White. Eight. È così che è nato tutto. Da un nome. In principio c’era il verbo, ma subito dopo è arrivato il nome. Era proprio di un nome che mi occupavo quel giorno. E Q8 sarebbe stata la proposta che avrei incartato e consegnato l’indomani al mio cliente, composto nel suo vestito di petrolio, ben seduto al mio tavolo da lavoro. Uno dei loghi più famosi della storia della comunicazione venne alla luce lì, su due piedi – o dovrei piuttosto dire su due vele – con lo stile avventuriero di Olins e le mie irrimediabili manie visionarie. Q8. Ku. Eight. Kuwait. Buttammo l’ancora e attraccammo al porto. Finiva un viaggio e ne iniziava un altro. memorie di un ghostwriter sconosciuto

Unità EMme Si chiama em l’unità di misura utilizzata nel campo della tipografia per indicare la larghezza del corpo di un font. Il rettangolo immaginario che contiene ognuna delle lettere di un set di caratteri considerava un tempo la M maiuscola come riferimento totale della larghezza di ogni “blocco” utilizzato nelle presse da stampa. Da qui deriva il nome em. Con l’evoluzione della stampa e la digitalizzazione dei font, il termine ha continuato a persistere comprendendo anche quei set di caratteri che non contengono una M, come ad esempio il cinese e l’arabo. La spaziatura em è leggermente più ampia della distanza tra il punto più basso della lettera più discendente ed il punto più alto della lettera più ascendente. Per esempio, dunque, 1 em in un tipo di carattere a 12 pt vale esattamente 12 punti. / NS


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UNA STORIA VERA l’apprendista stregona

“Questa forza allegra, precisa e dolce insieme, che l’animava dai capelli alle caviglie ci veniva a turbare. Ci inquietava in un modo incantevole, ma ci inquietava, è la parola”. (“Viaggio al termine della notte”, Louis-Ferdinand Céline) La prima volta che l’ho incontrata, essere sue; lei sì che sapeva scrivere, lei era a scuola da parecchi anni. ma era altrettanto caparbia da pensare Festeggiava allora la nuova sede che anche noi potessimo appassionarci conquistata appena l’anno precedente. alla scrittura tanto da imparare a Non sembrava una di quegli insegnanti modellarla con maestria. Basta leggere che avevo conosciuto nella mia terribile, – mi ripeteva – studiare, allenarsi e devastante e altrettanto deprimente mescolare il tutto con una buona dose di carriera scolastica. E infatti non lo era. cocciutaggine. Il suo dovere era prima di tutto il suo piacere. Oscar Wilde diceva che “Il mondo è semplicemente diviso in due classi: mariella ha fondato e cresciuto coloro che credono all’incredibile, Diskos, ha creato questa rivista che tu, come il pubblico, e coloro che fanno lettore, stringi tra le mani. Stringi tra cose incredibili”. mariella ha fatto le mani parole che avrebbero dovuto dell’incredibile a Diskos e come tutte

Schwitters: Merz ist Form “La forma tipografica non consiste solo nel riprodurre il contenuto scritto. [...] Il valore tipografico consiste in tutte le parti del materiale: lettera, parola, paragrafo, cifra, punteggiatura, linea, spazio intermedio e spazio complessivo.”

Kurt Schwitters è uno dei protagonisti più radicali del dadaismo, sebbene sia riduttivo collocarlo esclusivamente in questa corrente. Con la prima uscita della rivista Merz, nei primi decenni del ‘900, comincia la sua incessante attività nel campo della tipografia e della progettazione grafica. La sua è una ricerca sul linguaggio, sulla composizione che esalta non la funzione ma la forma della parola, che diventa essa stessa contenuto, elemento autonomo in grado di colpire. Da qui la famosa espressione “Merz ist Form”. Nei suoi collage, Schwit-

le persone rivoluzionarie e intelligenti, non ha mai voluto meriti per sé. Non avrebbe probabilmente accettato nemmeno queste poche righe. So che tra l’altro mi avrebbe detto, adesso, di chiudere qui la frase perché chi avrebbe voluto avrebbe imparato dalla scuola. Cosa? Che è vero, è verissimo: da grandi capacità derivano grandi responsabilità. E le passioni vanno coltivate, onorate, rispettate (cit. m.). Anche quando l’impossibile sembra invalicabile. Per aspera ad astra, mariella.

ters utilizza i materiali più eterogenei della vita quotidiana, le rovine e gli scarti trovati sulle strade berlinesi. Li incolla e li assembla senza regole con lettere, cifre e parole stampate su carta, con lo scopo di provocare la crisi dei linguaggi della cultura alta e sottolineare il bisogno di un rinnovamento. A questi si aggiungono i collage di soli testi stampati, ritagliati e incollati, che mirano a raggiungere una fusione formale tra pubblicità e arte.“Il mio obiettivo” – dice – “è l’opera d’arte totale, MERZ, che raccoglie tutte le arti nella direzione dell’unità artistica”. / DP


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Il rosso di un’era

ACRONIMI D’OLTRE OCEANO mariella rossi / giulia segalla

Il suo nome traeva origine dall’aridità delle formule chimiche, ma lasciate fare ai copy, divenne un’head: «Now You’ve Lost Old Nippon», un peana da guerra combattuta mostrando i muscoli delle invenzioni industriali. New York. 1940. In un pomeriggio straordinariamente caldo, una folla disordinata, sorvegliata da squadre di agenti in divisa, sostava per ore nel quartiere centrale. Quel giorno, le vetrine dei negozi di lingerie esponevano per la prima volta rivoluzionari collant femminili realizzati con una fibra sintetica che, a sentir parlare i giornali, avrebbe addirittura sostituito la magnificenza della seta e donato un’ombra di lusso alle case popolari. Pochi anni prima, il 28 febbraio 1935, in un laboratorio dell’azienda chimica DuPont, il trentanovenne Wallace Hume Carothers scopriva, tra l’ammirazione dei colleghi, l’entusiasmo operaio: il nylon. Figlio dei polimeri sintetici, svolse come previsto e brillantemente le sue

iniziali prevalenti funzioni belliche. Grazie al nylon furono realizzate minuziose vele per l’industria navale, migliaia di paracadute militari e oggetti casalinghi di uso quotidiano. Al di là dell’Atlantico si vocifera che l’acronimo in questione – NYLON, per l’appunto – sia il risultato di un’alleanza tra le iniziali di New York e Londra. Altre più elaborate e fiabesche teorie, invece, rimbalzano alla seconda guerra mondiale, quando il Giappone chiuse i ponti all’importazione della seta e impedì la produzione dei paracadute avversari. L’ira funesta dell’America sfociò nel surrogato chimico del giovane Wallace e rimbombò da un polo all’altro echeggiando l’urlo di guerra “Now You’ve Lost Old Nippon”. Ora hai perso vecchio Giappone.

Prendete sul serio, o come vi pare, queste storie fantastiche quanto reali. Come il narratore ambulante di Llosa, sostengo con le mie fiabe il sole della tradizione orale, per evitare che l’orizzonte, ingoiando la luce al tramonto, trasformi i nani in giganti e le colline in invalicabili montagne.

Boston, XVII secolo, Hester Prynne si trova sul patibolo per essere processata per adulterio. Tra la popolazione, in gran parte puritana, c’è chi chiede persino la pena di morte. Alla fine la giovane viene condannata a portare ricamata sul petto l’iniziale A – di adultera – colorata di rosso. Parliamo di “La lettera scarlatta”, celebre romanzo di Nathaniel Hawthorne. Quest’opera cerca di trasmettere al lettore le numerose ingiustizie che avvenivano all’epoca. Come Hawthorne fa notare, la sola presenza della lettera “A” sul petto di Hester Prynne – la protagonista principale – è sufficiente ad attirarle addosso gli sguardi furenti, l’indignazione dei concittadini e a condannarla a una vita da reietta. Si tratta solo di una lettera – si potrebbe pensare. In realtà quella semplice lettera rappresenta un marchio e in quanto tale sminuisce l’umanità di chi lo porta. Attraverso una “A” Hester viene relegata su un gradino inferiore della scala sociale. Anche se a conti fatti una lettera non è altro che un innocuo segno, il potere simbolico che l’accompagna e il significato che le attribuisce la società possono essere talmente devastanti da distruggere più di una vita. / LP


Marco Monsellato, Elena Caneva, Francesca Baggio

diskos.it

Ci sono molti modi per attirare l’attenzione. Imparali tutti. Diskos, la comunicazione che fa scuola.


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logio del dettaglio La lettera tipografica non può essere separata dalla lettera scritta. Essa ne deriva, sovente ne è anche la copia fedele [...] La calligrafia è e resterà la miniera d’oro della tipografia. Jean Mutville, calligrafo

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caratteri tipografici ci accompagnano fin da piccoli, quando cominciamo a leggere e a guardare il mondo intorno a noi. Sono il pane quotidiano di chi si occupa di grafica e comunicazione.

Il modo con cui diamo forma al testo, attraverso i caratteri, si chiama tipografia. Spesso le nostre scelte sono rese invisibili dall’abitudine con cui si legge e si scrive la parola stampata e dall’ignoranza delle regole che ne determinano la forma e la composizione.

Di solito i caratteri tipografici vengono chiamati con il nome di chi li disegna o con un nome di pura fantasia. Sono il prodotto dell’ingegno del progettista, il type designer, e vengono realizzati da professionisti con particolari software

Rivoluzione PostScript 72

che ne definiscono il linguaggio di descrizione interpretato PostScript. Sono tutelati dalla normativa sul diritto d’autore come i normali programmi informatici che usiamo ogni giorno. Nel linguaggio tecnico si chiamano font, termine inglese che deriva dal francese fonte, fusione. Il font mariella è un elogio alla fantasia e al gusto per il dettaglio di una persona (*) che sulla parola ha costruito la sua vita professionale e personale. Il grande amore e l’impegno che mariella investiva nella scrittura e nella forma delle parole è stato raccolto da Diskos, la sua scuola – la sua creatura, come la chiamava lei – per farlo diventare uno strumento di lavoro, da condividere, per poter continuare a scrivere la forma delle sue amate parole.

500 moveto

Il PostScript è un linguaggio di programmazione introdotto da Adobe nel 1985 con la stampante Apple LaserWriter. Si contraddistingue poiché in grado di descrivere pagine di testo e grafica in modo indipendente dalla risoluzione e dal dispositivo di visualizzazione. Permette quindi di trasferire informazioni da un device all’altro senza perdere qualità. Descrizione indipendente dalla risoluzione e resa di alta qualità nella visualizzazione fanno capire la straordinaria importanza che questo linguag-

fabio perin / milena zanotelli

% position the current point at

gio ha rivestito nella tipografia rivoluzionando completamente la gestione del carattere. Da linguaggio di controllo per le stampanti è divenuto un linguaggio di programmazione completo. Tutti gli elementi, anche il testo, sono specificati in termini di linee rette e curve di Bézier, con la conseguente facoltà arbitraria di ridimensionamento e trasformazione degli elementi stessi. Interpretando il linguaggio PostScript, le istruzioni vengono convertite in punti necessari per l’output di stampa. / DP


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anatomia del carattere asta ascendente apice

braccio

barra

asse del carattere orecchio goccia

grazia

asticina

ispessimento

allineamento maiuscole accentate allineamento maiuscole allineamento medio superiore

barra

cravatta asta

allineamento medio inferiore allineamento inferiore coda

grazia collo

occhiello

Al mondo esistono più di centomila font ma siamo certi che il nostro – modellato sulla minuta e perfetta grafia di mariella – si differenzierà da tutti gli altri, perché vergato originariamente da una persona veramente unica, che a tutti noi ha insegnato davvero tanto ogni giorno, in ogni occasione, facendoci conoscere e amare il gusto, la profondità, la conoscenza e l’importanza delle belle parole.

asta discendente

pancia

terminale

raccordo

anello/gancio

corpo del carattere altezza della maiuscola altezza della minuscola oppure occhio del carattere

appunti di psicologia, mariella rossi accentata grave

legatura

virgoletta caporale

(*) a mariella rossi tutti noi diciamo grazie per questo regalo e per i suoi molti e preziosi consigli che non smettono mai di accompagnarci. “La tipografia sta alla letteratura come l’esecuzione musicale sta alla composizione: è un atto essenziale di interpretazione.” (Robert Bringhurst, poeta e e tipografo)

Disegni di strada

maiuscola capitale

full stop

comma

T in Tel Aviv >

Ogni giorno vi svegliate, uscite di casa, andate al lavoro, a lezione, a fare commissioni, a divertirvi. E poi rincasate. Vi siete mai chiesti che forma abbia il tragitto che percorrete ogni giorno? Qualcuno l’ha fatto e ha addirittura pensato di utilizzare un GPS per disegnare forme e lettere. Che si vada a piedi o con qualunque altro mezzo, la tecnica è sempre la stessa: tracciare una figura su una mappa interattiva e percorrere il tragitto disegnato. Le coordinate vengono memorizzate a ogni punto dal sistema GPS che, alla fine del percorso, fornisce i risultati. È così che è stato creato ad esempio The Running Alphabet: un progetto composto dal corridore graphic designer Joan P. Moll assieme a collaboratori invitati che hanno tracciato le lettere dell’alfabeto inglese correndo con un GPS. / SEV

minuscola


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Type design e protagonisti contemporanei Ogni progetto grafico ha come elemento di base il carattere tipografico, senza le famiglie di caratteri non c’è identità che duri nel tempo. Non c’è informazione e conoscenza senza la tipografia. Il type design viene sviluppato in molte nazioni come l’America, i paesi scandinavi, la Gran Bretagna e l’Olanda: qui nascono nuove fonderie tipografiche che ereditano dalle vecchie un linguaggio progettuale e cercano di aggiornare la comunicazione visiva. Il nome type design evidenzia la natura progettuale del carattere ma esplicita anche i principi che costituiscono il design. Design è disegno del dettaglio e la progettazione del type design si basa dunque su ogni piccolo elemento della lettera che è componibile, ma è anche indipendente: questo ragionamento è un principio del disegno industriale che prevede una struttura di elementi assemblabili. Il sistema viene creato attraverso la composizione di singoli moduli che possono variare a seconda del contesto. La costruzione della pagina, invece, si struttura attraverso ripetibilità a texture e trame a diversa scansione. La forma della scrittura in collaborazione con la sua traduzione meccanica dà vita ai principi del design. / LC

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da (“Le Città invisibili” di Italo Calvino)

Sol l’idea conta L’arte è un’idea. L’idea è importante mentre l’oggetto – il feticcio che passa dalle mani dei mercanti a quelle dei collezionisti – invece non lo è. Sol LeWitt, grande artista minimalista americano innamorato dell’Italia e padre nobile di tutta l’arte concettuale, la pensava così. Tutto il suo lavoro nasce da questa semplice e fortissima convinzione, ecco perché non è rilevante sapere chi realizza le sue opere: l’esecuzione delle sue meravigliose gallerie di forme geometriche declinate in infinite permutazioni è spesso affidata ad anonimi collaboratori. Il cuore del lavoro di LeWitt è il progetto che custodisce l’idea, i segni che lo definiscono, la parola che lo racconta. L’arte è un’idea. Quando le idee hanno valore diventano preziose, si comprano e si vendono. LeWitt negozia le sue idee con dei certificati simili a dei buoni del tesoro: non sono oro, ma hanno lo stesso valore simbolico (e possono valere un bel po’ di bigliettoni). / DM


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Social society Un paese libero sulla parola (e sulla grammatica) giulia segalla

Noi. Nati con la tastiera. Comodamente stravaccati nel bel mezzo della rivoluzione digitale. Sostenitori della libertà, dell’esibizionismo; curiosi, impegnati – ma non impiegati – chiacchieroni come pettegole in fila alle Poste il venerdì mattina. Noi e il nostro paese. Chi impazza su Facebook, Twitter e blog. Tutto il giorno. Tutti i santi giorni. Chi scrive più di quanto abbiano mai scritto i filosofi greci e i poeti latini. Chi pubblica quintali di ebook, guide, post, commenti, pareri. E chi invece non ha mai acceso un computer negli ultimi vent’anni. Noi, il nostro paese e il digital. Il digital divide. Divide, ma unisce. Cambia la scrittura, la semplifica all’estremo, la

riempie di keyword per conquistare presunti primi posti nell’indicizzazione di Big G. Fatica sprecata? Per ora, a quanto pare, no. Ovunque c’è posto per chi vuole scrivere. Ovunque c’è chi spergiura di saper scrivere. Chi non lamenta sensi di colpa davanti a eccidi di massa: accenti violati, congiuntivi sfregiati, apostrofi trascurati. E c’è chi invece cura ogni dettaglio, come Google comanda, aggiudicandosi centinaia – che dico? – migliaia di lettori. Questa grande, enorme, incoercibile rivoluzione ci porta a fare i conti con una scrittura che rincorre il modello narrativo americano. Estremamente semplice e proprio per questo particolarmente complessa.

Mondo punk! Strani, anarchici, anticonformisti. Nell’immaginario comune, quando si sente parlare di punk, si pensa subito a creste, giacche borchiate, droghe e musiche assordanti. Forse, però, la realtà è un po’ più complessa. Nato negli anni 70 in maniera spontanea e improvvisa, questo movimento si oppone per scelta alla cultura industriale e massificata del mondo occidentale. Nutrendosi delle note dei Sex Pistols e dei Ramones, questi giovani si sono scavati una nicchia, ricavati uno spazio, inventati uno stile. Il tutto con la logica dell’autoproduzione.

Che si trattasse di canzoni strimpellate nei garage, o di vestiti messi insieme alla bene e meglio con degli scarti, i punk hanno creato qualcosa che non si era mai visto prima. Basta con la perfezione e la ricercatezza. Niente accademia. L’importante era fare qualcosa di nuovo, di mai visto, di scioccante. Il movimento punk, almeno nella sua forma originaria, ha avuto vita breve. Più precisamente è sopravvissuto finché la società dei consumi non ha inglobato anche i suoi ideali e non lo ha trasformato nell’ennesima moda preconfezionata. / LP


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Il codice che vince Il buongiorno si vede dall’emoticon giulia segalla

L’anno scorso, le emoticon hanno festeggiato una sorridente carriera lunga più di 30 anni. 30 anni di smiley e faccine. 30 anni di lenta, inesorabile e costante evoluzione della comunicazione. La storia di questa scrittura visiva sembra controversa e poco approfondita. Lasciando il giusto merito ai suoi pionieri e rispettando i puristi della lingua, assolutamente contrari all’uso improprio della punteggiatura, azzardo a dire la mia. Senza dubbio è iniziato tutto ai tempi delle pitture rupestri e dei geroglifici. Quando insomma la scrittura non c’era e le rappresentazioni visive avevano il compito di tramandare informazioni ad altre forme viventi capaci di recepire e interpretare i messaggi. Prima ancora, l’istinto di conservazione animale ci costringeva a segnalare al prossimo i pericoli dei territori ancora ignoti. L’evoluzione ha con il tempo conquistato

Stori@ di un glifo quotidiano Fu Ray Tomlinson – in parte inventore e primo diffusore della posta elettronica – a scegliere l’attuale “chiocciola” (@) che tutti conosciamo per separare negli indirizzi e-mail il nome di un utente dal suo rispettivo dominio. Era il 1972, da allora la A commerciale diventa un simbolo della rete onnipresente sullo sfondo dello spazio comunicativo quotidiano. Sono molte le ipotesi sulle sue origini. Secondo alcuni linguisti sono riconducibili alla scrittura amanuense del primo Medioevo, per altri invece il segno è associato alla preposizione latina “ad”, che esprime il moto a luogo. Una terza tesi lo colloca nelle pratiche commerciali dei mercanti veneziani del VII secolo d.C., dove si suppone indicasse l’anfora: unità

punti esclamativi, racconti, versi, poesie, romanzi, rebus e naturalmente i fumetti. Per esplodere infine ai giorni nostri, portando con sé l’attuale necessità estrema di semplificare. Retaggio di altre espressioni culturali, come il cinema, la musica e la pubblicità, il codice minimale del web ha infettato le nostre abitudini quotidiane manifestandosi con il tempo nell’incapacità generale di comunicare senza per forza “mostrare”. Torniamo insomma a un’espressione fatta di immagini, quella che in pieno Medioevo si rivolgeva dall’alto dei cieli agli analfabeti più fedeli. Forse incubiamo una nuova e sorprendente civiltà; forse invece costruiamo finalmente il giusto equilibrio tra parola e forma; oppure semplicemente bramiamo un eterno ritorno a quello che non c’è? Lo scopriremo vivendo, ma soprattutto scrivendo ;-)

@

di misura utilizzata per lo scambio delle merci. I popoli anglofoni mutarono con il tempo il latino “ad” in “at”, cambiando il significato da moto a luogo a stato in luogo. Nel 1963, il segno tipografico entrò a far parte del codice ASCII. La forma del glifo è descritta usando svariate metafore della vita quotidiana, dagli animali al cibo, a seconda delle diverse culture. C’è chi dice assomigli alle spirali delle conchiglie dei molluschi, chi a un gatto rannicchiato che dorme, chi a un rotolo di cannella, e così via. Quel che è certo, è che il segno nasce dall’unione stilizzata delle lettere minuscole a e d. Grazie alla sua rotondità, circoscrive un territorio; con la rivoluzione digitale addirittura una persona specifica, tramite il cosiddetto “tag”. / DP



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Arte

Jenny Holzer, Siena 2009

per corrispondenza Nel 1962

Ray Johnson, trasgressivo e estroverso artista americano, dà all’Arte Postale un indirizzo autonomo rispetto a Fluxus, vivace movimento artistico internazionale neo dadaista, di cui la Mail Art rappresentava solo uno dei tanti aspetti.

Attraverso la New York Correspondence School of Art – embrione di ciò che sarebbe diventato lo sterminato network della Mail Art – raccoglie gli elaborati inviati a diversi corrispondenti con i quali comunica via posta: buste, timbri, francobolli e adesivi sono parte integrante di questo modo di fare arte. La risposta a questa iniziativa è immediata e finisce per formare una vera e propria rete internazionale di artisti, diversi per scuola e formazione, che si cimentano con il mezzo postale, utilizzando tecniche e materiali differenti:

lettere, buste, cartoline postali, collage, poesia visiva, libri d’artista e persino oggetti tridimensionali. Diskos ha scelto questa particolare forma artistica per riconnettere tra loro studenti, docenti e in generale tutte le persone che negli anni hanno contribuito a far crescere questa realtà formativa così unica. Il progetto è stato battezzato “Dove sei adesso?” e ha suscitato grande entusiasmo e scatenato la fantasia degli apprendisti stregoni, dei loro maghi e mentori, di tutti quelli che hanno partecipato a questa iniziativa. L’INK® ospita in queste pagine soltanto una selezione dei materiali prodotti. Tutti quelli che ci sono arrivati, però, saranno i protagonisti di una mostra (e di una festa) che organizzeremo all’interno del nostro hangar di studio e lavoro in occasione della chiusura dell’anno formativo.

Holzer, la verità è dura come un osso Un flusso costante di informazioni, racconti, parole. Una corrente ininterrotta che sgorga da televisione, radio, web, musica, cinema, stampa. Un brulicare incessante di voci nelle strade, nelle case, nei luoghi di lavoro. Parole che si sovrappongono, mescolano, contraddicono in un groviglio inestricabile e incomprensibile. Jenny Holzer cerca di fare chiarezza: seziona, delimita, estrae dal flusso brevi stringhe di senso, locuzioni semplici, aforismi, sentenze in cui il linguaggio è ridotto alla nuda e semplice verità. Holzer li chiama Truismi. Sono le ossa del linguaggio, lo scheletro della comunicazione, la radiografia del corpo sociale. Holzer incide i suoi truismi sulla pietra, li scolpisce con la luce per le strade, li imprime con il fuoco di led scarlatti proprio su quel corpo sociale (che in fondo è il nostro) che di verità non vuol sentir parlare. / DM


24 Fascicolo 104. Dossier Postale di Alighiero Boetti Boetti individua 25 persone (tante quante sono le lettere dell’alfabeto) scelte tra gli artisti (Giulio Paolini, Salvo Mangione, Bruce Nauman, Lawrence Wiener, Ettore Spalletti – vi partecipa anche Marcel Duchamp in realtà morto l’anno precedente), i critici (Maurizio Fagiolo, Lucy Lippard, Giulio Carlo Argan, Tommaso Trini), i galleristi (Seth Siegelaub, Konrad Fisher, Yvon Lambert, Arturo Schwarz, Leo Castelli), i collezionisti (Giuseppe Panza di Biumo, Corrado Levi, Pier Luigi Pero) e tra gli amici e le persone a lui vicine. Il sistema dell’arte, insieme agli affetti personali dell’artista, partecipa a un viaggio immaginario dalla struttura complessa: a ogni persona viene inviata da Boetti una lettera a un indirizzo immaginario. L’irreperibilità del destinatario produce il ritorno al mittente della lettera – tutte le lettere sono impostate come raccomandata-espresso – che viene fotocopiata, inserita in una nuova busta e rispedita alla tappa successiva del viaggio immaginario da dove, ovviamente, ritorna. La successione dei viaggi, reali per le lettere ma inesistenti per le persone, produce un percorso, iniziato nel settembre del 1969 e terminato a maggio del 1970, che trova una sistemazione definitiva nelle riproduzioni inserite nel Dossier Postale. “[...] È uno dei più bei lavori che io abbia mai fatto. Complicatissimo, è durato un anno [...]. Quando le buste tornavano indietro da me, dopo essere state in India, Africa, America, le xerografavo sia da una parte sia dall’altra, le mettevo in una busta più grande e le spedivo di nuovo. A ogni viaggio la busta diveniva più grande, a cipolla, perché conteneva la precedente. Nel cuore di essa, in quella iniziale, vi era il programma del viaggio. [...]” (Alighiero Boetti. Intervista rilasciata a Mirella Bandini in “Nac”, numero 3, marzo 1973). NB: il titolo dell’opera Fascicolo 104 deriva da un’annotazione del postino, stampata in rosso, che compare sulla cartella “n.104” contenente fotocopie di una lettera destinata a Bruce Nauman. Le fotocopie inserite nei 99 esemplari del Dossier Postale sono complessivamente 36.000. La prima lettera, del 24 settembre 1969 – è indirizzata a Giulio Paolini e contiene la fotocopia di un foglio bianco. (la descrizione del progetto è a cura di Giorgio Maffei per Corraini)

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“Lavoro con le immagini e con le parole perché hanno la capacità di esprimere chi siamo o non siamo.” Barbara Kruger – artista americana, classe 1945 – sovrappone immagini fotografiche fortemente stilizzate a scritte rosse e nere ingigantite spesso a dismisura ed esposte in luoghi pubblici altamente frequentati. Il carattere tipografico che l’artista utilizza da sempre per la maggior parte di queste creazioni è il Futura, ideato dal tipografo Paul Renner nel 1927, in pieno clima Bauhaus. “Tu investi nella divinità del capolavoro. Io compro quindi sono. Un’immagine non è un mondo. Non trovare il tuo mondo nel nostro. Il tuo corpo è un campo di battaglia. Non abbiamo bisogno di un altro eroe. Il mondo è piccolo se non lo devi pulire”. Sono solo alcuni dei messaggi visivi dell’artista: comandano attenzione e dichiarano verità, veicolano dubbi, quesiti, riflessioni sulla società contemporanea; smontano stereotipi visivi e cliché giocando sempre e comunque un ruolo significativo nella coscienza collettiva. / MZ


26 Typi da laboratorio

martina guglielmi

uando si parla di stile Olivetti ci si riferisce a un gusto, un clima, una direzione. È un concetto che va oltre la moda o la genialità. Lo stile Olivetti deriva da una ricerca avviata e sviluppata da una direzione industriale, da pittori e grafici, scrittori e pubblicisti, architetti e industrial designer. È divenuto parte integrante della cultura italiana, ha oltrepassato i confini nazionali e ancora oggi è un modello di riferimento in tutto il mondo. L’ingegnere Camillo Olivetti fonda la sua azienda di macchine per scrivere nel 1908. Le Olivetti diventano subito rinomate per il continuo lavoro di ricerca sulle migliori soluzioni meccaniche, sugli acciai e sui procedimenti di fusione. Uno spirito d’innovazione che caratterizzerà sempre la Olivetti anche quando, nei primi anni ’80 del Novecento, sarà tra le prime aziende a produrre personal computer e stampanti per ufficio. La Olivetti si caratterizza ben presto come uno dei centri più attivi della moderna cultura d’impresa, vista come sintesi tra industrial design, grafica

e comunicazione. Ogni elemento dell’identità aziendale vede impegnati i migliori creativi dell’epoca nello scegliere il colore di una copertina o il profilato di uno stand, nel trovare un aggettivo per un headline o ideare una linea per la carrozzeria di una macchina. Fino alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la pubblicità Olivetti mantiene inalterata la strategia comunicativa che contrappone la scrittura a mano e la moderna e chiara scrittura a macchina. Gli headline promettono di “trasformare i calamai in portafiori”. L’arte tipografica esalta le forme e libera allusioni e rapporti, con gusto cubista e surrealista. Nel secondo dopoguerra cresce il numero dei prodotti e quello dei potenziali consumatori, sempre più diversificati. I tempi sono cambiati e l’azienda si adegua. Olivetti decide di impegnarsi in interventi di comunicazione differenziati, in più direzioni, secondo una logica che integra diversi mezzi, a partire da quelli nuovi. Alle campagne pubblicitarie promosse pressoché costantemente si aggiungono le riproduzioni artistiche,

C’è chi usa il pennello, chi la matita, chi la penna e chi qualsiasi cosa. Si chiama typeworkshop ed è un laboratorio creativo attraverso cui i partecipanti creano o ricreano dei typeface. Unico mezzo consentito: la creatività. Il risultato? Lettere. Apparentemente semplicissime lettere. Quel che le caratterizza è la loro realizzazione: si creano infatti accostando oggetti, come ad esempio carrelli della spesa, fiori, bottiglie. Altre invece si proiettano attraverso ombre provenienti da oggetti sospesi. E così via, l’immaginazione non manca. Ogni creazione è raccolta, conservata e trasferita in un software che le trasforma in font veri e propri. Come raccontato dai workshopper del sito typeworkshop.com, un laboratorio di successo si ha quando le persone sono stimolate ed incuriosite dal progetto stesso. Se non fosse così, che senso avrebbe lavorarci? / AL

In alto a destra e nella pagina a fianco, copertine di pieghevoli, Giovanni Pintori, 1953-1956.


Quando il lettering è parte del film

“Se il colore di un manifesto o la forma di una macchina sono, come sono, una proposta al riguardante e all’utente, quei colori e quelle forme debbono fare appello alla lucidità, alla razionale responsabilità e capacità di scelta”. (R. Musatti, L. Bigiaretti, G. Soavi)

la rivista periodica di cultura e politica (la mitica Comunità), i documentari. In tutto il mondo le maggiori riviste di architettura e di disegno industriale dedicano saggi e studi all’azienda italiana. La grafica e il disegno industriale firmati Olivetti conoscono un successo internazionale, da New York a Berlino fino a Parigi. Nel 1950 Olivetti riceve la Palma d’Oro per la pubblicità. Tra gli artisti chiamati a dare il loro contributo creativo ci sono Egidio Bonfante e Giovanni Pintori, pittore e designer. Il primo, nel 1948, viene incaricato da Adriano Olivetti, figlio di Camillo e presidente della Olivetti dal 1938, di studiare la veste grafica della rivista Comunità e, in seguito, di Notizie Olivetti e Urbanistica. Con disegni originali e insoliti, segni, simboli, immagini e dipinti murali Bonfante diventa uno dei protagonisti dello sviluppo grafico nella pubblicità Olivetti. Non è da meno Giovanni Pintori, che inizia a collaborare con Olivetti nel 1950 come direttore artistico nell’Ufficio Tecnico Pubblicità e si dedica alla progettazione di manifesti, pagine pubblicitarie, copertine, insegne e stand. I suoi lavori per l’azienda di Ivrea vengono presentati al prestigioso MoMA di New York nel 1952, in una mostra intitolata, in modo significativo,

Design in Industry. Nel 1955 il designer espone al Louvre di Parigi, dove dedica una sala alle opere per Olivetti. Le illustrazioni di Pintori realizzano sfondi eccentrici, talvolta esilaranti, per i messaggi dell’azienda, inaugurando una poetica nuova, ricercata nelle forme e nelle associazioni, stravagante tanto da essere considerata una novità davvero unica, adatta a un mondo in continua evoluzione. Le lettere creano composizioni che assumono un valore estetico fresco e divertente, ma sofisticato allo stesso tempo. I colori catturano l’attenzione e riflettono la fantasia creativa degli sguardi. I messaggi pubblicitari della Olivetti entrano nelle menti degli osservatori, i prodotti nelle case dei consumatori. Per l’azienda la pubblicità diventa un servizio e la parte relativa all’estetica una responsabilità. “Se il colore di un manifesto o la forma di una macchina sono, come sono, una proposta al riguardante e all’utente, quei colori e quelle forme debbono fare appello alla lucidità, alla razionale responsabilità e capacità di scelta” (R. Musatti – L. Bigiaretti – G. Soavi, Olivetti 1908-1958, Tiefdruckanstalt Imago, Zurigo, 1958). L’inchiostro della penna è sostituito da quello di una macchina soltanto per semplificare il lavoro. Ciò che conta è il pensiero.

Kyle Cooper – designer dei credits per il film Seven di David Fincher – dice: “Di solito mi piace pensare a una metafora legata al senso del film che possa essere esplicitata dal carattere tipografico”. Il suo segno stilistico si sviluppa in Seven nell’uso di lettere che si sdoppiano e che si spezzano. Maurice Binder, designer dei film su James Bond, è colui che ha inventato la famosa scena in cui Bond è inquadrato in macro all’interno della canna di una pistola. Brownjohn renderà i titoli di testa ondeggianti proiettandoli direttamente sul corpo di una modella. I credits più importanti della nostra cinematografia sono di Luigi Lardani, designer dei titoli per Il buono, il brutto e il cattivo di Sergio Leone. Colori a tinte piatte, silhouettes, macchie rosse, un pennello che colora il fondo e poi il volto di Clint Eastwood. Fra i titoli di coda infine, di gran voga è il montaggio di scene tagliate durante la produzione oppure inquadrature brevi dopo i titoli, come vediamo ad esempio nel recente Django Unchained. / LC


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Joseph Rossi, 53 anni, una vita da graphic designer e un bellissimo studio in una villa del ‘600 a Thiene. Una grande convinzione: tutto nasce dalla brand identity. Lavorare sul carattere e la personalità di un marchio è lo stile professionale a cui Joseph Rossi si è sempre mantenuto fedele. E che ha coltivato lavorando per Diesel tra la fine degli anni ’80 e la metà degli anni ’90. In questa intervista ci racconta la sua esperienza.

DIESEL,

le origini di un mito a cura di alberto sola

Quando è cominciata la tua collaborazione con Diesel? La mia storia con Diesel comincia nel 1988, con l’agenzia di Vicenza di cui ero socio fondatore. Due anni dopo diventavo consulente, in esclusiva, con competenze molto più ampie. Al mio arrivo l’ufficio comunicazione Diesel era letteralmente inesistente, al contrario della divisione stile già ben strutturata. A occuparsi di grafica per il prodotto c’era una persona sola. In poco tempo, a quattro mani con il collega inglese Brian Badermann, ho dato vita a un ufficio specifico, che ho diretto fino al 1995. Com’era il linguaggio Diesel in quel periodo? Erano ancora gli anni in cui il brand cominciava, sporadicamente, ad apparire sui media e già all’epoca il linguaggio sconfinava dai canoni consueti. Ricordo una campagna stampa, forse la prima, curata da un’agenzia francese, che

mostrava una quantità di spermatozoi, i quali “puntavano” tutti al marchio Diesel. La headline, in francese, annunciava: “Il più forte vestirà Diesel”. Una provocazione... Più che di provocazione parlerei di ironia. Era divertente, sfoggiava la leggerezza di chi non si prende troppo sul serio, pur facendo le cose molto seriamente. La recente campagna “Be Stupid” riprende appieno quel tipo di linguaggio. Come avveniva la ricerca? Ci muoveva la sete di novità: cercavamo in continuazione materiali da cui prendere spunto. Solo che, a quel tempo, era piuttosto difficile trovarne. Ricordo con tenerezza, un pacco di fotocopie con “esempi” di lettering che un’amica aveva raccolto per me negli Stati Uniti. Si trattava di riproduzioni al quinto, sesto passaggio.


Ma, considerando che allora la fotocomposizione in Italia lavorava con ben pochi caratteri, quei fogli “volanti” per noi costituivano una miniera preziosissima e inesauribile. Poi abbiamo cominciato a viaggiare: Parigi, Londra, Stoccolma e negli USA a New York, Los Angeles, San Francisco, per cercare e trovare maggiori opportunità di confronto e di ricerca. Acquistavamo riviste degli anni Quaranta, Cinquanta, Sessanta come Life, Fortune, Good Housekeeping, dalle quali trarre ispirazione. Le guardavi, le riguardavi e le assorbivi, fino ad acquisirne il linguaggio. A quali linguaggi, a quali universi di significato si rifaceva Diesel? Tutti i linguaggi che percorrevamo seguivano una traccia comune: il recupero e la rappresentazione di mondi lontani nel tempo e nello spazio. Saperne cogliere i segni, quindi interpretarli, infine estrarne un codice nuovo, riconoscibile. Cambiavano – e continuano a mutare – a ogni nuova stagione, con periodiche

incursioni in terreni vergini e fertili, dai quali gli stilisti prendevano spunto e che attraverso la grafica venivano svelati e resi espliciti. Per esempio il riferimento alla semantica e al mondo dello street-style, sviluppato da Diesel in un certo periodo: due cool-hunter, che facevano ricerca per l’azienda, avevano colto come stesse nascendo un nuovo fenomeno. Quello è diventato poi un vero e proprio stile codificato. All’inizio si guardava al mito americano, ai pionieri, alla frontiera. I riferimenti storici erano Lee, Wrangler e Levi’s. Il secondo passo fu la reinterpretazione: un’evoluzione – o meglio uno spostamento – verso il denim preferito dai lavoratori d’Oltreoceano, dalle sterminate praterie centrali fino ai cantieri verticali delle nascenti metropoli e alle miniere dorate della West Coast e dello Yukon (Diesel_Jeans and Workwear). Più che il prodotto, desideravamo far emergere il life-style. continua >

Linotype: dal piombo al digitale Molte fonderie storiche come Nebiolo e Reggiani hanno dovuto chiudere i battenti e arrendersi ai crolli del mercato. Esistono invece alcune realtà che hanno trovato il giusto antidoto alla crisi e sopravvivono tuttora a testa alta. Parliamo di Linotype: ex fonderia di caratteri in piombo passata dal 1990 al digitale. Nell’e-commerce dedicato del sito Linotype.com è possibile acquistare sia i font antichi che hanno origine dai vecchi caratteri di piombo, sia quelli prodotti negli ultimi anni, quindi esclusivamente tramite lavorazione digitale. Recentemente è stato inoltre annunciato il rebrand della fonderia da Linotype a Monotype. Per celebrare l’evento, l’azienda ha deciso di regalare on line due prestigiosissimi set di caratteri. Caso analogo è quello di Emigre: nata già come fonderia digitale, Emigre è diventata popolare tra il 1984 e il 2005 grazie alla pubblicazione dell’omonima rivista. Il magazine, i cui numeri sono sold out, trattava interessanti argomenti di grafica, scrittura, fotografia, arte e creatività in generale. Storia affine quella di MyFonts, nata sul web, il cui punto di forza sta nella possibilità di vendere al sito un font di propria creazione. / AL


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Realizzavamo grafiche con lettering fatti a mano, che mantenevano il calore del lavoro manuale, in un periodo in cui il computer stava prendendo il sopravvento su tutto. Anche ora, del resto, si avverte di nuovo la necessità di tornare a linguaggi più caldi. Oggi riconosco che, in effetti, avevamo dato vita a un vero e proprio nuovo stile, recuperando le tecniche di stampa dei vecchi magazine americani, riproponendone le carte grezze, i “fuori registro”, le retinature grossolane, piegando e stropicciando la carta. La parola contava di più come traccia grafica o come spunto per sviluppare una narrazione? All’epoca non si seguivano rigide regole di applicazione del marchio, era tutto meno istituzionalizzato. Si poteva giocare su un’ampia libertà di adattarlo, cambiandone lettering e forme, al tipo di linguaggio richiesto dalle scelte tematiche dell’ufficio stile. Il senso della parola molte volte passava in secondo piano. Contava maggiormente il suo aspetto seduttivo e narrativo, la sua forma, la sua capacità di riportare a contesti precisi. Vedere la parola contava più che leggerla (allora più che oggi l’inglese non era patrimonio comune, in Italia). Definendosi meglio, il linguaggio Diesel si è mano a mano arricchito con l’ironia, spinta a volte fino al divertente non-sense. La memorizzazione era delegata alla

frequenza di esposizione della parola Diesel, più che al logo. Qual è il tuo rapporto con l’Arte? Bruno Munari insegnava che la creatività è il processo di elaborazione di ciò che si conosce, attraverso il quale si crea qualcosa di nuovo. La creatività è anche una questione di allenamento, di consuetudine mentale a un approccio diverso – sempre diverso – alle cose. Di sensibilità, di tempo e, a volte, di duro lavoro. Considero fondamentale conoscere e assimilare più cose possibili e l’arte, di sicuro, si rivela una fonte generosa e inesauribile di stimoli. Molti progetti altro non sono che l’elaborazione di spunti assimilati nel corso degli anni, rimasti per lungo tempo sotto traccia, che a un certo punto emergono chiaramente. Potrei portare a esempio la realizzazione di alcuni allestimenti fieristici. Come nel caso del bugnato esterno di Palazzo dei Diamanti di Ferrara (progetto “Skin” per Berti_pavimentazioni in legno) o dei “Lavatoi di Bombay” di Plessi (“Lighting Womb” per Interpool_ azienda di abbigliamento). Vige un dialogo reciproco tra i due mondi, arte e comunicazione, basti pensare alla Pop Art, a Andy Wharol che recupera le scatole del detersivo “Brillo” o i barattoli della zuppa “Campbell” e li trasforma in opere d’arte. Ma è sicuramente l’arte che nutre tutto il resto.


Marco Monsellato, Elena Caneva

L’occhio vede La metne intreperta

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INFO o GRAFICA? daniele sbalchiero

Trasformare il dato in un segno. bang! La missione impossibile dell’infografica. BANG! gasp. GULP. mumble Guardare le parole, oltre a leggerle: è questo ciò che rende la lettura di un fumetto un’esperienza multisensoriale. Non si tratta solo di capire il senso di una frase, ma di associare sensazioni diverse a immagini e forme diverse. Eseguito dall’autore stesso o da un letterista, il lettering è ancora oggi realizzato a mano da alcune case editrici, come ad esempio l’italiana Bonelli. Nella maggior parte dei casi, l’handmade viene invece sostituito da font digitali realizzati ad hoc e inseriti nei classici balloon che tutti conosciamo. Carattere distintivo dei fumetti sono le onomatopee visive: il “boom” che suggerisce un’esplosione o lo “smack” che richiama il suono di un bacio. Assieme alla forma e alla posizione del lettering, queste guidano i lettori a immaginare suoni, rumori, atmosfere e timbri vocali. / AL

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l rapporto tra grafica e parola è spesso conflittuale. Entrambi i segni ambiscono a esaurire in se stessi tutto il significato. A impadronirsene. La comunicazione, per essere efficace, deve trovare il modo di farli convivere in modo equilibrato. Altrimenti rischia di essere incomprensibile. La necessità di bilanciare la “forma” parola e la “forma” grafica è per certi versi aumentata con l’avvento dell’era digitale. Il nuovo modo di consumare e decodificare i contenuti, infatti, ha influito profondamente sulle tecniche di comunicazione visiva. La tendenza a leggere o a cogliere le informazioni non più in maniera sequenziale ma per blocchi, a salti, ha obbligato a ripensare forme, strutture, elementi del graphic design. Si isola il dato, la parola, l’informazione e si cerca di renderli visibili trasformandoli quasi in un segno grafico, in competizione e nello stesso tempo in coordinazione con altri.

Si va, per così dire, verso una parola “visualizzata”, cioè trattata, innanzitutto, nel suo potenziale grafico e visivo. Si tratta di un fenomeno generale, che interessa qualunque mezzo e contesto comunicativo, cartaceo o digitale: siti, applicazioni, giornali, testi scolastici, oggetti multimediali ma anche, più semplicemente, le slide usate per una presentazione aziendale. Comunicare e trasmettere informazioni richiede una progettazione capace di facilitare e assecondare il nuovo modo di guardare, di percepire, di leggere. È evidente che, con la visualizzazione della parola, la grafica assume una funzione predominante. Ciò non significa che debba assimilare l’elemento verbale, ma piuttosto cercare nuovi equilibri. In questo percorso di ristrutturazione e di riassetto delle forme, l’infografica è un caso esemplare. Concepita per aiutare a scansionare i dati, a renderli


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Gotham: un carattere presidenziale Nasce nel 2000 dal type designer americano Tobias Frere-Jones, al quale era stato commissionato dalla rivista GQ un carattere sans-serif di struttura geometrica, fresco e versatile. Il designer si ispirò a cartelloni, insegne e locali delle avenue newyorkesi. Otto anni dopo, Barack Obama si candida alla presidenza degli Stati Uniti. Era quindi necessario sviluppare una campagna politica e il relativo branding assicurandosi di rispecchiare i valori del candidato.

agosto luglio giugno immediatamente comprensibili allo sguardo che salta e seleziona, è finita per diventare un puro oggetto grafico, in cui molte volte non si riesce più ad afferrare il senso dei dati rappresentati. Nella sua accezione più propria, il termine infografica designa qualunque configurazione grafica utilizzata per rappresentare i dati. Istogrammi, mappe, tabelle, torte, diagrammi a flusso sono solo alcuni esempi. Ma, negli ultimi anni, l’infografica ha finito per diventare una disciplina e una forma comunicativa a sé, con un linguaggio e una creatività specifica, che qualcuno ha tentato anche di studiare e codificare. Non c’è dubbio che infografiche ben fatte, con un elevato appeal estetico, aumentino l’efficacia dell’informazione. Si fanno notare e, nello stesso tempo, si fanno leggere. In generale si può dire che un’infografica ben fatta è quella che condensa l’attenzione in un numero estremamente ridotto di punti focali. È

sopra 40 anni 30-40 anni sotto 30 anni

essenziale, semplice e viene organizzata attorno a pochi dati da rappresentare. Di contro, c’è una tendenza sempre più diffusa a trasformare l’infografica in un contenitore in cui sintetizzare un intero argomento. Più che il dato statistico, interessa lo sviluppo narrativo o, comunque, una dimensione in cui far convergere e raccontare cose diverse. Si prende ad esempio “la storia della bicicletta” e la si trasforma in una specie di microcosmo in cui si comprimono e si concentrano, come geroglifici inestricabili, icone, foto, immagini, simboli, tabelle, numeri, date e, qua e là, qualche parola. Non solo. Si tenta di ridurre tutto questo universo di contenuti in segni, in veri e propri ideogrammi. Invece di scrivere, sempre a titolo di esempio, “persone che hanno la bicicletta da corsa”, si disegna un simbolo, un’icona, che di norma può essere compresa solo da chi l’ha disegnata. L’unico risultato, alla fine, è di aumentare il grado di incomunicabilità.

Obama era una figura nuova che portava con sé una forte idea di speranza, cambiamento e positività per il paese. Per questo l’operazione richiedeva un carattere moderno, semplice e deciso. La maggioranza dei font tuttora in uso sono di origine europea ma, visto il contesto, si decise di optare per un font che non solo avesse alcune particolari caratteristiche ma che fosse soprattutto americano. Il Gotham fu la risposta. Da allora, è diventato sempre più popolare, infatti viene spesso nominato the Obama Type. La sua illimitata fama è dovuta alle forme perfette e all’estesa famiglia di glifi che possiede. / SEV


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<title>La tipografia nel web</title> daniela paccanaro

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l web è diventato il mezzo principale attraverso cui si diffonde la scrittura e, nello stesso tempo, ha completamente rivoluzionato il modo in cui si fruiscono i contenuti. Da monodirezionale, la comunicazione diventa bidirezionale. Tra emittente e destinatario si instaura, cioè, un dialogo. Anche le abitudini di lettura sono diverse. Mentre nella stampa un documento viene letto, nel web il più delle volte viene solo scansionato.

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L’architettura di un sito deve quindi essere organica e reticolare, distribuire i contenuti secondo la logica della piramide rovesciata: informazione generale in prima battuta, seguita a più livelli dai vari approfondimenti.

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A favorire una pratica di lettura veloce è sicuramente un corretto e attento uso della tipografia. Il che non significa scegliere un font e piazzare in qualche modo il testo nella pagina. Una buona tipografia richiede proporzionalità, razionalità, coerenza. Solo su queste basi può nascere un progetto di qualità anche dal punto di vista grafico ed estetico. Analizziamo l’homepage del sito blakeallendesign.com, dove la tipografia è sicuramente predominante.

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Parole parole parole

Da mero simbolo dell’identità aziendale, il logo diventa un vero e proprio elemento grafico che dà personalità alla pagina. 2 Di carattere Questa pagina è in Helvetica. In realtà Google Web Fonts permette di incorporare font no-standard in un progetto web. Si può scegliere tra più di 600 font open source, evitando così di usare quelle a pagamento.

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La classe è acca

Nel web la gerarchia delle intestazioni è definita da specifici tag, in ordine decrescente da h1 a h6, a cui possono essere associate proprietà differenti nel foglio di stile. Con questi tag ottengo una naturale relazione tra gli elementi, rendendo armoniosa la tipografia del sito e facilitandone la fruizione. 4 Al 150% L’interlinea, valore spesso sottovalutato, in realtà è determinante per la leggibilità e l’aspetto generale del testo. La prassi è applicare il 150% rispetto alla misura del font usato, moltiplicandone quindi il corpo per 1.5.

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Passi da gigante

Non è più solo una scelta fra graziati e bastoni. La combinazione di testi molto grandi e testi molto piccoli favorisce una più rapida scansione delle informazioni.

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A misura di pixel

Nel web l’unità di misura di riferimento per i testi è il pixel, non il punto.

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A grandi linee

Per una lettura ottimale, si devono contare dai 52 ai 78 caratteri per riga spazi inclusi, corrispondenti a circa 500-600 pixel. Per progetti a colonna singola, l’ideale è di 65 caratteri. Metodo di Robert Bringhurst: moltiplicare il corpo del carattere per 30. Esempio: corpo 16 px, massima lunghezza del testo 480 px. 8 Uscire dalla massa Differenziare una parola, senza interrompere il ritmo del testo, è importante. Il grassetto è lo standard attuale, da preferire al corsivo perché più difficile da leggere. Si può usare il cambio di colore, come in questo caso, per le voci cliccabili. Altre forme, come il maiuscolo, sono da riservare per titoli e menu.

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Pensa responsivo

Ormai la responsività è un must. In sintesi, si tratta di un modo di progettare grazie al quale la corretta visualizzazione del sito è indipendente dal device usato. In un progetto responsivo, la tipografia – come tutti gli altri contenuti – viene ridimensionata a seconda dello schermo di visualizzazione e la leggibilità del testo risulta ottimizzata. Chissà se blakeallendesign leggerà L’INK® e prenderà nota.

SPUNTI DAL WEB //www.webtypography.net: guida molto dettagliata sulle regole da rispettare riguardo la tipografia nel web. //www.typetester.org: consente di comparare font web-safe e di calcolarne gli ingombri a monitor. //www.dailymotion.com/video/xwji8u_advanced-typesetting-for-web-bymarko-dugonjiy_tech: video con spunti utili sul tema.

Interrogazioni di classe‽ Martin Speckter era il capo di un’agenzia pubblicitaria di New York, editore della rivista bimensile Type Talks che esplorava l’uso della tipografia all’interno della pubblicità. Frustrato dalla crescente tendenza giornalistica di combinare il punto esclamativo e interrogativo decise di creare, nel 1962, un nuovo segno che comprendeva entrambi: il cosiddetto interrobang. Annunciato da un articolo su Type Talks, il punto esclarrogativo (così tradotto in italiano), ricevette dal pubblico risposte entusiaste, tanto da essere riportato in numerose e importanti testate locali. Quattro anni dopo la creazione del carattere, il graphic designer Richard Isabelle inserì per la prima volta nel suo font Americana anche il carattere speciale interrobang. Due anni più tardi la Remington produsse una macchina da scrivere che comprendeva il segno, reo di descrivere l’incredibilità della vita moderna. Forse per la sua difficile chiave di lettura, l’interrobang non ha avuto la fortuna che meritava, cadendo in disuso. È compreso però in molte famiglie di font attuali, sebbene sia ufficialmente considerato un semplice simbolo decorativo. / AL


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Manifesti d’arte natalia sassella / lucia comiotto

l manifesto comincia a imporsi dal 1874, nell’atelier di Nadar, grazie anche allo sviluppo del movimento impressionista, che lo sceglie come uno dei suoi più tipici mezzi espressivi. Il suo successo è immediato. La semplicità e la convenienza economica del procedimento litografico permettono al manifesto di ottenere eccellenti risultati. Grandi artisti come Daumier, Manet, Gavarni, Toulouse-Lautrec sono affascinati dalle sue potenzialità creative. Ben presto sui muri delle città appaiono manifesti con soluzioni anti-prospettiche e la stesura piatta del colore propria degli impressionisti e dei post-impressionisti. Grande protagonista è la vita metropolitana ottocentesca, rappresentata attraverso immagini che esaltano il prodotto e creano il desiderio d’acquisto. Dopo l’impressionismo, il manifesto conquista anche l’arte Liberty, uno stile che si declina in diverse varianti nazionali, prendendo di volta in volta il nome di Secessione, Jugendstil, Floreale. L’Art Nouveau, come si chiama in Francia, si caratterizza per il suo

decorativismo raffinato che idealizza la natura e ne stilizza gli elementi attraverso forme dinamiche, curvilinee, ondulate. Due sono gli artisti che più contribuiscono a rivoluzionare il rapporto tra il pubblico e l’affiche: Jules Chéret e Henri de Toulouse-Lautrec. Il primo segue la moda floreale del tempo mentre il secondo, più vicino alla sensibilità impressionista, diventa il maestro del manifesto dalle tinte piatte e i rapporti cromatici accesi, quasi esaltanti. Chéret realizza uno dei suoi primi manifesti già nel 1858, per l’Orfeo all’Inferno di Offenbach. L’immagine di Chéret rimane sostanzialmente accademica, ma è innovativo il modo in cui realizza la distorsione dei testi, mettendoli in rapporto dialettico con le immagini. Semplifica le forme per dare risalto a un’unica grande immagine, utilizza colori brillanti e limita al minimo il testo che, nella sua idea, deve fondersi in qualche modo con l’immagine, non come supporto, ma come elemento parallelo e inscindibile. La grande novità portata da Toulouse-Lautrec consiste, invece, nella funzione metaforica che l’immagine riveste in rapporto al testo. Toulouse-Lautrec la carica di particolari allusivi e emblematici e inventa un nuovo modo di raccontare: Divan Japonais (1895) ne è uno splendido esempio. Nella costruzione di questo percorso,

Ideogrammarsi Ad affascinarci stavolta è l’azienda giapponese Morisawa, produttrice di typeface e professionista nel settore dell’editoria. Attraverso il sito fontpark.morisawa.co.jp è infatti possibile realizzare disegni in stile manga assemblando, trascinando, ingrandendo e scomponendo le lettere degli alfabeti giapponesi e latino. Una volta completata l’opera, il sito in flash registra tutte le azioni effettuate, trasformandole poi in una divertente animazione che possiamo rinominare e condividere attraverso i social network e siti web. Tutti i lavori salvati vengono inseriti automaticamente in una galleria virtuale presente nella home del sito, dove possono tra l’altro essere valutati dai visitatori. / AL


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Tosca, Hohenstein, 1899

lontano dal mondo accademico, sono fondamentali l’incontro con la tradizione xilografica giapponese e l’influenza degli impressionisti e dei post-impressionisti. L’Art Nouveau s’impadronisce dell’arte del manifesto seguendo la strada tracciata da Jules Chéret. Artisti come Willette, Ibels, Grasset, Caran D’Ache, Forain, Cazalz e, soprattutto, Alphonse Mucha, cercano di fare dell’affiche un’unione di forma, colore e tipografia, una totalità estetica che finisce per caratterizzare la pubblicità dell’epoca. Mucha entra di diritto nella storia dell’Art Nouveau con il manifesto “Imprimerie Cassan Fils”, per quanto lui amasse dire: “L’espressione Art Nouveau non ha senso. Essendo eterna, l’arte non può essere nuova”. Mucha riprende da Chéret anche l’idea di usare la figura della donna come elemento centrale del manifesto. In Olanda il gruppo Jugend ha in Henri Van de Velde uno dei suoi massimi rappresentanti. Il suo manifesto del latte Tropon ha un impatto rivoluzionario, perché rovescia il rapporto testo-immagine: mentre quest’ultima diventa solo allusiva, il testo è talmente esplicito da diventare quasi un marchio. La storia e l’esperienza del manifesto Liberty italiano si identificano con il sodalizio tra le Officine Grafiche Ricordi e gli artisti, come Adolf Hohenstein, che lavorano per la ditta Mele. Le loro opere esaltano tutti i particolari del lettering, che nasce dalla progettazione di nuovi caratteri tipografici, e traggono ispirazione dalle ricerche sulla natura e sugli stili più espressivi del passato. Uno dei più importanti manifesti di Hohenstein è Tosca, caratterizzato dai giochi di luce e ombra, ma soprattutto dal testo tipicamente Liberty.

“L’espressione Art Nouveau non ha senso. Essendo eterna, l’arte non può essere nuova”. (A. Mucha)


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osa accomuna Italia e Russia fra gli anni dieci e venti del Novecento? Forme rivoluzionarie, opere eclettiche, artisti che oltrepassano il limite.

In breve: il Futurismo. Quadri, manifesti e scritti esibiscono il tono acceso, lirico e aggressivo di questi artisti. È un’arte veloce, in rivolta. È l’espressione di una società che vive intensamente il suo percorso verso il futuro. Il mondo cambia e l’artista traccia nelle sue opere il rinnovamento culturale, sociale e politico della sua epoca. Disegno e poesia convivono nei manifesti e nelle riviste, la forma della parola diventa espressione simbolica di una visione del mondo, di un pensiero che trascende il classicismo artistico. Si inerpica nella stravaganza e scavalca i limiti delle regole imposte.

Manifesto, Maksim Michajlovič Litvak, 1925 Manifesto, Ignoto, ‘900 Bozzetto di locandina, Fortunato Depero, 1928 Les mots en liberté futuristes, Filippo Tommaso Marinetti, 1919

La parola vive, le lettere si mettono in gioco, la prosa scrive trattati di una nuova disciplina autoimposta, che stimola la pura vivacità della mente. L’obiettivo dei futuristi è la creazione di una letteratura che esca dagli schemi del passato: urlare non è maleducato, ma un’azione che crea, diverte, minaccia e distrugge. Le nuove frontiere della scrittura futurista sono le parole in libertà, il verso libero


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La forma delle parole decostruite “Non confondere la leggibilità con la comunicazione” (David Carson) Durante gli anni ‘90, con l’avvento delle tecnologie digitali, giovani designer sperimentano attraverso la tipografia espressiva soluzioni decostruzioniste. Uno dei personaggi più significativi di questo periodo è David Carson che in quegli anni, in California, realizza la rivista Beach Culture.

e l’automatismo di Filippo Tommaso Marinetti, l’onomalingua di Fortunato Depero, le tavole parolibere. Depero elabora l’onomalingua tra il 1914 e il 1915, nel tentativo di creare una forma di linguaggio sperimentale, che diventa segno, pittura, visione. Le serate futuriste esplodono anche in Russia. La rivoluzione sovietica del 1917 attiva negli artisti energie nuove. Lo spazio pittorico si trasforma, la dissonanza artistica anima le opere e diffonde nuove forme e concetti fuori dall’ordinario. Il modello industriale, la politica e l’economia si impongono come i riferimenti del costruttivismo. Sentimenti, modernità, rabbia, urlo, libertà, anima, emozione, forza, spazio, disperazione, ribellione, canto, segno, pericolo, energia, temerarietà, audacia, innovazione… Il Futurismo ha consegnato al nostro tempo la fluidità dei concetti e dei valori, della sintassi, della poesia e della letteratura. Come dice Depero: “L’artista è chimico, fisico, architetto. Soldato, pazzo…” martina guglielmi

Amato, odiato, criticato e copiato, David Carson è uno dei genitori del disegno tipografico così come lo conosciamo oggi. La sua estetica ha contribuito a definire la cosiddetta epoca grunge infrangendo le regole della grafica editoriale ortodossa e reinterpretando con stile anarchico la tipografia redazionale. “The End of Print”, il suo libro di graphic design più venduto è chiamato non per niente anche il “colpo di grazia alla tipografia gutemberghiana”. Presenta uno stile caotico e sperimentale che sconvolge i canoni della grafica sovrapponendo tra loro forme e figure ritagliate. Secondo Carson, se qualcosa è leggibile non per forza comunica. Questa è la teoria che regge tutto il suo operato nella tipografia espressiva. Portando alta la bandiera di questo “credo”, ha fondato una scuola di imitatori tra i grafici di tutto il mondo e ha contribuito tra l’altro a educare la cosiddetta MTV generation. / AS



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“Dal potere di controllo al lavaggio!”, Ketty La Rocca, 1965

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iamo negli anni ‘60. Tra riforme politiche e sociali, psicoanalisi di massa, innovazione delle tecniche di riproduzione culturale, è il periodo in cui l’arte muta nella sua essenza, nei valori e nelle rappresentazioni. L’artista, consapevole dei cambiamenti avvenuti nella sua epoca, decide di sfidare il nuovo mondo. In questo clima di sperimentazione, dove la neoavanguardia apre nuove strade formali, nasce la poesia visiva. Il rapporto del poeta con il mondo è problematico e mira a cercare il senso e le contraddizioni di una vita frenetica. La poesia visiva vuole restituire all’osservatore l’espressione dello spazio e del tempo senza frontiere e, per questo, dà alla parola una rappresentazione raffigurativa. È un’arte letteraria, visuale, che prende forma, respira, conquista lo spazio, diviene corpo sfruttando anima e pagina. Sgretola sintassi e semantica, sperimenta una forma di comunicazione polisensoriale che attrae a sé lo spettatore.

L’erotismo della composizione e l’energia di una grammatica elementare plasmano una poesia fisica, con una sua dimensione e un suo aspetto. La tipografia è il suo cuore pulsante, la grafica è la sua mente libera e creativa. L’occhio si muove in libertà nella pagina, associando termini e realizzando figure. La trasposizione mentale sullo spazio crea un’opera che coinvolge l’osservatore nell’interpretazione del segno. Il metadiscorso che governa questa poetica è la consapevole e motivata critica ai media di massa, la riflessione sul loro linguaggio. “La poesia fonda ora un tempo di percezione e contemplazione di sé non dissimile da quello della pittura […] non prevede più una temporalità che sgocciola lungo la dimensione verticale del verso, ma semmai si contrae nell’attimo della dispersione orizzontale di segni sulla pagina” (Achille Bonito Oliva). Con la poesia visiva l’arte si fa sentire, esprime la sua esistenza, costruisce la parola. martina guglielmi

Letture parallele Il libro d’artista: un libro, un’opera d’arte. Per sua stessa natura sfugge alle categorie estetiche tradizionali, le sue caratteristiche inducono all’equivoco, ad un’incerta classificazione nella categoria del libro o del catalogo. Dagli anni Sessanta il libro d’artista rappresenta un’alternativa all’esposizione in gallerie e musei, una nuova pratica espressiva che attrae molti artisti. Con Twentysix Gasoline Station, Ed Ruscha si afferma nel 1962 capostipite del genere, raccogliendo 26 fotografie in bianco e nero delle stazioni lungo la Route 66 tra Los Angeles e Oklahoma. Determinanti per lo sviluppo dell’Arte Concettuale, le opere sono formate da immagini e testi, segni e materiali differenti. I libri sono distribuiti per posta o con lo scambio, spesso sono prodotti con il ciclostile o la neonata stampa in offset, in copia unica o in tiratura limitata. Il rapporto con il libro concettuale raggiunge il massimo grado di rarefazione con il libro d’artista di Giulio Paolini, Post Scriptum, del 1974: 3 fogli bianchi con pochi frammenti dattiloscritti dentro una griglia, come una pratica da archiviare. Vedere per leggere. / MG & MZ

“Ciò che si può dire”, Corrado d’Ottavi, 1974 in alto a sinistra: “Il volto”, Eugenio Miccini, 1965


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È nato dalla passione e dal fiuto per l’arte. È cresciuto grazie al contatto diretto con gli artisti, i critici, i galleristi e il pubblico. È un’esposizione di oltre 1000 opere di 700 artisti. È luogo d’incontro delle arti visive del ‘900: Arte Informale, Transavanguardia, Pop Art, Arte Programmata, Nouveau Realisme, Minimal Art, Body Art, Arte Povera, Graffitismo, Arte Concettuale, Neo Espressionismo e altre correnti. È Casabianca, dal 1978 museo della grafica d’arte.

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“Se non ci credi, non puoi capire l’arte”, così inizia il suo racconto Giobatta Meneguzzo, collezionista vicentino e artefice del museo. Egli ha preferito raccogliere opere di dimensioni ridotte perché, dice, “l’opera grande è dominante, mentre osservando una piccola è come stare a tu per tu con l’arte”. Giobatta nacque nel 1928 a Priabona. Nel 1926 convinse sua madre a portare a casa una tela ad olio, che chiudeva il camino della casa di un parente pittore. La passione per l’arte visiva è una predisposizione, nasce dal bisogno biologico dell’individuo, è una continua spinta verso il futuro. Nel 1959 Giobatta acquistò il suo primo

quadro, un dipinto del maladense Gueri da Santomio. Nel 1975 ebbe l’idea di utilizzare la Casabianca come contenitore culturale e nel 1978 inaugurò il museo. “Cerco di cogliere tutto dal fondo del subconscio, lo estrapolo dalla cultura della quale sono intriso e mi nutro, dalle persone che ho conosciuto, dalle curiosità che ho sperimentato”. L’opera d’arte non è soltanto un oggetto artistico, ma un elemento di partecipazione, una storia, un’esperienza che non si cancella mai nella vita, si rielabora. E la collezione è una forma d’arte. Le opere del museo sono per Meneguzzo come i Lego per i bambini: il collezionista

Una città di piombo L’artista coreano Hong Seon Jang ha di recente costruito un’intera città in miniatura utilizzando dei vecchi caratteri tipografici in piombo. L’installazione, esposta alla David B. Smith Gallery, ha il nome, dal significato esplicito, di Type City. Alcuni critici hanno visto in quest’opera un ponte tra passato e futuro. Ma, al di là di questo, Type City resta sicuramente un ottimo esempio di come sia possibile riutilizzare degli oggetti, che altrimenti sarebbero finiti nei rifiuti, e trasformarli in opere d’arte. Nel realizzare questo progetto, Hong Seon Jang è stato in grado, grazie a un attento rispetto delle proporzioni e alla credibilità della disposizione, di ricreare un modello di città che può essere tranquillamente scambiato per la riproduzione in scala di una città reale. / LP


43 costruisce composizioni nelle stanze della sua casa. Egli crea pareti che sembrano alberi. Lo spettatore si trova nel terreno tra le radici, i mobili all’apparenza insignificanti sono il tronco, i quadri sono la chioma. Lo stile preferito che Giobatta ci confida è l’Informale Astratto Espressionista, l’artista è Christo. “L’amore che resta è quello delle piccole esperienze che racchiudono le opere. Questo amore non finisce, l’essenza rimane per sempre”. Parole di collezionista. martina guglielmi

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Grasset,

la tipografia come opera totale natalia sassella / lucia comiotto

c Prestampa Nell’epoca che precede l’avvento della stampa tipografica, il compito di tramandare la cultura scritta è affidato per lo più alla Chiesa. Fino al XIII secolo sono i monasteri i veri centri culturali della società medievale. Al loro interno amanuensi e miniatori lavorano alla stesura e copiatura dei testi religiosi e laici. Vivendo in una società strettamente legata alla visione del mondo cristiana, nei loro manoscritti parole ed immagini cooperano per divenire una metafora del mondo trascendente. A partire dal Duecento, con lo sviluppo delle Università, compaiono nelle città europee vere e proprie botteghe nelle quali la copiatura e la decorazione dei manoscritti diventa un mestiere specializzato. Nei secoli successivi la richiesta e la conseguente produzione di testi continuano ad aumentare, rendendo il miniatore una figura professionale sempre più importante all’interno della società dell’epoca. / LP

Eugène Grasset (1845-1917)

è un pittore, incisore e grafico francese. Considerato tra i pionieri del movimento Liberty, svolge diverse attività legate alle arti applicate. Nel 1898 realizza una serie completa di caratteri tipografici che, per la loro adattabilità, vengono largamente utilizzati nei settori commerciali. Prendendo spunto da una leggenda medievale, nel 1883 pubblica Historie des Quatre Fils Aymon, la sua prima opera “totale” dal punto di vista tipografico, che fonde decorazioni e illustrazioni con il testo. Grasset impiega due anni per realizzarla. La miniatura e l’incisione celtica, insieme al mito del Giappone, ispirano Grasset nel disegno di contorni, colori piatti e margini ornati. Le sottolineature vigorose e i profili fluenti richiamano le vetrate delle chiese medievali. Grasset diventa uno dei più apprezzati illustratori di manifesti Art Nouveau, a partire dagli anni Novanta, quando il suo stile inconfondibile si sviluppa, trovando la consacrazione definitiva con la mostra personale del 1894. Sono di quel periodo l’opera per Jeanne D’Arc, uno dei suoi manifesti più importanti, l’affiche per l’Opéra National e per l’Encre L. Marquet. Il tema prediletto di Grasset è la figura femminile, prodotto di influenze date dal Rinascimento italiano, dal simbolismo e dai preraffaeliti inglesi.

Salon des Cent, 1898


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Tag cloud Nome: “tag cloud”. Significato letterale: “nuvola di etichette”. Aspetto: insieme di keyword utilizzate in un sito web, la cui importanza è evidenziata dal corpo maggiore del font e/o dal suo colore. Segni particolari: una tag cloud può ospitare sia parole chiave sia categorie e sottocategorie, predisponendosi come elemento di supporto alla navigazione oltre che come strumento di analisi per la Search Engine Optimization. In rete si trovano molti esempi di tag cloud, le cui forme hanno gerarchie e stili di volta in volta differenti. Tuttavia, tra le varie voci, è importante mantenere una coerenza formale tra maiuscole e minuscole, singolare e plurale e non abusare dei colori. La cura per questi dettagli permette all’utente di cogliere subito la distribuzione dei pesi delle etichette, raggiungendo con l’occhio le informazioni più rilevanti. Questo tipo di rappresentazione visiva caratterizzò i primi siti e blog del web 2.0 a partire dal primo decennio del 21° secolo. Fu Flickr a vantare la prima tag cloud su un sito high-profile. Esistono diversi siti generatori di tag cloud. Eccone alcuni: http://www.wordle.net/ http://www.tag-cloud.de/ http://www.imagechef.com/ic/ word_mosaic/ http://tagcrowd.com/ http://tagul.com/ /DP

giada massignani

I

l writing è un trend sociale, culturale e artistico diffuso in tutto il mondo. Spinge a esprimere la propria creatività tramite interventi pittorici sul tessuto urbano, in particolare muri, facciate di edifici, viadotti, ma anche treni. Generalmente i writer più sensibili ad un lavoro di ricerca artistica tendono ad esprimersi in spazi protetti, a loro dedicati. Nonostante ciò il fenomeno viene spesso associato ad atti di vandalismo, perché talvolta sono utilizzati come supporto espressivo mezzi pubblici o edifici di interesse storico. Ma, in ogni caso, la differenza tra atti di vandalismo e writing è evidente, in quanto nessun tipo di atto puramente vandalico si propone come opera artistica, mentre il writing lo è.

Ogni writer cerca di sviluppare un proprio stile, in modo tale da far distinguere i propri lavori da quelli degli altri ed essere, così, notato maggiormente. Dietro alle forme e alla mutazione delle lettere di ogni opera, c’è spesso un lungo studio fatto di bozze preparatorie, che trova ispirazione dall’ambiente in cui il writer stesso vive. Per questo ogni nazione e ogni città ha scuole e stili diversi. Il Wild Style newyorkese, il più famoso, si caratterizza per le lettere sottili, intrecciate tra loro o fortemente accostate. Lo stile brasiliano o quello romano, al contrario, si presentano con lettere molto tondeggianti, che tendono al bomb-style e al throw up.


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CREATIVITÀ RICICLATA martina guglielmi

Trasformare una bicicletta in oggetti di design: è la sfida lanciata da Reclò, un concorso di idee che vuole promuovere il valore del riciclo. Reclò è nato su iniziativa di Samarcanda, la Cooperativa Sociale che gestisce il centro di pronta accoglienza Casa Bakhita. Il concorso propone di realizzare una collezione di articoli e complementi d’arredo per casa e ufficio usando pezzi di bicicletta. Un’idea originale, che non è nata per caso. Tra le attività della Cooperativa, infatti, c’è anche un laboratorio per la riparazione e la

costruzione di biciclette. Invece di buttare via il materiale di scarto o in esubero, si è pensato di riciclarlo per fabbricare nuovi oggetti. Il riciclo è un tema sempre più attuale, un credo per molte persone e un sollievo per il nostro pianeta. Reclò vuole renderlo anche un’azione creativa. Per il lancio del concorso la Cooperativa Samarcanda ha chiesto un contributo ai ragazzi di Diskos: un logo e un’immagine coordinata basati sull’essenzialità del design. Le idee e le proposte dei diskoli sono arrivate puntuali.

Design di Giada Massignani

Design di Lucia Comiotto

Design di Martina Guglielmi

Design di Sara Elisa Verona

Design di Natalia Sassella

Design di Alberto Sola

Design di Alberto Lucchin

Design di Daniela Paccanaro


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UN LOGO A PEZZI martina guglielmi

Il logo di Natalia nasce da una riscrittura del nome Reclò, utilizzando vari font. La ricerca sui logotipi di aziende e marche di biciclette ha portato l’ideatrice a percorrere la strada giusta. Natalia, infatti, si è ispirata a un logo già esistente, l’ha interpretato, rielaborato e, alla fine, è nato il “suo” Reclò. Il font scelto è il Cycle D. Il segno grafico segue le forme dei vari pezzi che compongono una bicicletta stilizzata: dal telaio nasce la lettera L, grazie alla sella spunta l’accento sulla O, dalla forma della ruota gira la O.

Design di Natalia Sassella

Le lettere C, L e O sono la bicicletta, ma se osserviamo la composizione della C e della L percepiamo un orologio, oggetto di design. Proprio così: il logo deve rappresentare due concetti, il riciclo e il design, senza dimenticare le origini, la Ciclofficina. Per quanto riguarda i colori, i committenti avevano espresso la preferenza per quelli ossido-terrosi. Ne sono stati scelti due, derivanti dalle tonalità dell’ossidazione del rame. Bravi, committenti: ottima scelta!

“Cancello le parole così le notate maggiormente: il fatto che siano cancellate fa si che vi venga voglia di leggerle”. Jean-Michel Basquiat è stato un artista americano (New Yorkshire 1960-1988) che negli anni ‘80 ha lasciato un segno incisivo e particolare all’interno di quel movimento caratterizzato da un ritorno postmoderno alla pittura figurativa. Celebrato come una rockstar e amato come un leader, Basquiat rimarrà l’uomo simbolo dello stile di vita degli anni Ottanta. Pittore di origine haitiana, nel giro di dieci anni conquistò critici e galleristi con le sue opere dove si impastano parole e colori. Quando a diciassette anni arriva a Manhattan trova l’avanguardia artistica newyorkese in pieno fermento, inizia subito a esprimersi attraverso i graffiti. La sua impronta confusa e colorata è fatta di quattro lettere: SAMO, “Same old shit”, la solita vecchia merda. Il suo tag, accompagnato dal simbolo del copyright e schizzato su muri, vagoni della metropolitana, cartoline e magliette gli porta il successo che merita. Dai muri inizia a passare a tele dai colori densi e spessi, ispirate a temi e protagonisti della musica contemporanea, una delle sue grandi passioni. Pittore raffinato e insieme ingenuo, fa convivere nelle sue tele registri linguistici spesso divergenti: cultura urbana e retaggio accademico, ritmo metropolitano e fissità tribale, semplicità iconografica e stratificazione lessicale. La sua opera trasmette un’energia vitale contagiosa – forme che pullulano senza sosta, apparizioni, invenzioni, riferimenti che si stratificano in associazioni libere e poetiche – e anche, paradossalmente, una forma di ineffabile e malinconica solitudine. Scomparso all’età di 27 anni è la risposta della pittura a Jimi Hendrix e Charlie Parker. / MZ


1740-1813 Incisore, stampatore e tipografo italiano

Typography art di Sara Elisa Verona

GIAMBATTISTA BODONI



L’INK® è una pubblicazione di Diskos – Discipline della Comunicazione Schio maggio 2013 – numero 14 Coordinamento editoriale e grafico mariella rossi, milena zanotelli, daniele sbalchiero, giulia segalla. Ai progetti didattici 2012-2013 hanno partecipato i docenti lorenzo carrer, graziano dal maso, diego illetterati, simon lee cox-hazelton, daniele monarca, luca olivotto, fabio perin, matteo pretto, daniele sbalchiero, fiorenzo zancan, milena zanotelli, fabio zoratti. Alla rivista hanno collaborato lucia comiotto, martina guglielmi, alberto lucchin, giada massignani, daniela paccanaro, lorenzo poggiani, natalia sassella, alberto sola, sara elisa verona. Le promozioni diskos sono di irene andreello, martina antoni, francesca baggio, elena bertoldi, edoardo boschiero, elena caneva, francesco castegnaro, mattia chimento, filippo dalla fina, giulia fongaro, valentina massignan, marco monsellato, valentina sandri, veronica simioni, lara veronese. La copertina è di Lucia Comiotto, le copertine interne sono di Martina Guglielmi e Natalia Sassella. Un grazie speciale a susanna serena, grande timoniera della nostra segreteria, per la sua efficienza, la sua disponibilità e la sua intramontabile pazienza. La rivista L’INK® è stampata su ON OFFSET, una carta naturale di qualità superiore senza legno prodotta con fibre vergini di eucalipto. I font utilizzati, Source Sans Pro, Linux Libertine e Playfair Display sono caratteri open source che sostengono la condivisione della conoscenza. Stampa Printaly. Tutti noi dedichiamo questo numero a mariella rossi. Fondatrice, amministratore delegato, direttore didattico e docente di Diskos, amica e impeccabile esempio d’intelligenza, creatività e talento.

Diskos è una scuola biennale post diploma di grafica, web design, marketing e comunicazione. Piani di apprendimento concepiti in collaborazione con agenzie pubblicitarie, studi grafici e imprese. Strategie di insegnamento innovative studiate attraverso attività pratiche di laboratorio. Simulazioni professionali basate sull’edizione annuale della rivista L’INK® e incarichi di enti e aziende che forniscono utili occasioni di sperimentazione. Materie di studio Computer graphics Multimedia Video Fotografia Copywriting Inglese Psicosociologia dei consumi Comunicazione d’impresa Teorie dell’immagine Specializzazioni mirate e su misura destinate a laureati e professionisti del settore comunicativo, addetti aziendali e persone del pubblico impiego. Scrivici, contattaci e vieni a trovarci per assistere alle lezioni in real time! via Vecellio, 24 • 36015 Schio (VI) 0445 511190 diskos@diskos.it

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