Pomezia Notizie 2020_11

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50ISSN 2611-0954

mensile (fondato nel 1973) Direzione e amministrazione: Via Fratelli Bandiera, 6 - Tel. 06/91.12.113 - 00071 POMEZIA (Roma) - Fondatore e Direttore responsabile: DOMENICO DEFELICE – e-Mail: defelice.d@tiscali.it – Attività editoriale non commerciale (art. 4, D.P.R. 26.10.1972 n. 633 e successive modifiche) - Autorizzazione del Tribunale di Roma n. 213/93 del 23/5/1993 - La collaborazione, sempre gratuita, in parte è libera, in parte è per invito. Ogni autore si assume la responsabilità dei propri scritti - Manoscritti, fotografie e altro materiale, anche se non pubblicati, non vengono restituiti - É ammessa la riproduzione, purché se ne indichi la fonte. Per ogni controversia, foro competente è quello di Roma.

Anno 28 (Nuova Serie) – n. 11

- Novembre 2020 -

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CON

FRANCESCA SANDRINI A PASSEGGIO TRA PARMA E COLORNO di Ilia Pedrina

I

L Museo Glauco Lombardi, a Parma, è stato fortemente voluto dal suo ideatore, il prof. Glauco Lombardi, studioso, esperto collezionista, intelligente pungolo nel fianco di amministratori e di politici affinché fosse data alla cittadinanza una testimonianza concreta di cosa significhi essere mecenate dell'arte e della conservazione etico-estetica dei beni culturali patrimonio del territorio, le cui bellezze sono state sottoposte ad alterne sofferte vicende storiche. Francesca Sandrini è direttrice del Museo e ci parla volentieri di questo professore, sempre attento a far prevalere la giusta armonia tra il territorio, l'arte che ne rappresenta l'aspetto estetico con il timbro della committenza, le vicende storiche che fan cambiare destinazione d'uso fino a provocare espropriazioni e saccheggi nel corso dei secoli. I.P. Perché il professor Lombardi s'innamora di Maria Luigia d'Austria? Ricordo che egli ha scritto '… Maria Luigia, passando dal trono imperiale a quello


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All’interno: Liana Porro Andriuoli e la poesia di Bruno Rombi, di Francesco D’Episcopo, pag. 6 Nazim Hikmet, di Anna Vincitorio, pag. 8 Voci di donne, di Salvatore D’Ambrosio, pag. 11 Vincenzo Gasparro e i gabbiani, di Domenico Defelice, pag. 13 Il lavoro dello spirito di Massimo Cacciari, di Ilia Pedrina, pag. 15 Liang-Style Poetici Lines, di Domenico Defelice, pag. 19 Liliana Porro Andriuoli e la poesia di Bruno Rombi, di Tito Cauchi, pag. 22 Alessandro Poerio, di Leonardo Selvaggi, pag. 26 Dediche (8), a cura di Domenico Defelice, pag. 32 Notizie, pag. 48 Libri ricevuti, pag. 50 Tra le riviste, pag. 51 RECENSIONI di/per: Isabella Michela Affinito (Gabbiani, di Mariagina Bonciani, pag. 34); Elio Andriuoli (Una vita in lettere, di Domenico Camera, pag. 35); Tito Cauchi (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 36); Roberta Colazingari (Parole in pentagramma, di Aldo Ripert, pag. 37); Roberta Colazingari (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 37); Roberta Colazingari (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 38); Antonio Crecchia (Si chiamava Vincent Van Gogh, di Isabella Michela Affinito, pag. 38); Domenico Defelice (L’alba di un nuovo giorno, di Wilma Minotti Cerini, pag. 39); Domenico Defelice (Profili critici 2012, di Tito Cauchi, pag. 40); Elisabetta Di Iaconi (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 41); Elisabetta Di Iaconi (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 41); Maria Gargotta (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 42); Giovanna Li Volti Guzzardi (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 43); Manuela Mazzola (Profili critici 2012, di Tito Cauchi, pag. 44); Manuela Mazzola (Verso lontani orizzonti. L’itinerario lirico di Imperia Tognacci, di Marina Caracciolo, pag. 44); Maria Antonietta Mosele (Anima, di Francesco D’Episcopo, pag. 45); Maria Antonietta Mosele (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 45); Laura Pierdicchi (Sensazioni di una fanciulla, di Manuela Mazzola, pag. 46). Inoltre, poesie di: Mariagina Bonciani, Emilia Bisesti, Corrado Calabrò, Rocco Cambareri, Ada De Judicibus Lisena, Luigi De Rosa, Salvatore D’Ambrosio, Elisabetta Di Iaconi, Antonia Izzi Rufo, Mario Piccolo, Gianni Rescigno, Franco Saccà

ducale di Parma, assunse sempre, durante i suoi viaggi, il titolo di 'Contessa di Colorno' e questo spinse la prudenza dello Stendhal a non dare un rilievo apertamente romanzesco ad un luogo che era divenuto la residenza preferita e il rifugio sentimentale della più nobile vittima del naufragio napoleonico...” (da G. Lombardi, Colorno centro ideale della 'Certosa di Parma', Quaderni del Museo n. 12, pag. 512)

F.S. Le prime fasi del collezionismo di Glauco Lombardi non evidenziano una netta preferenza per la duchessa asburgica; i temi maggiormente cari al collezionista risultano al contrario legati al periodo risorgimentale e soprattutto alla sorte subita dalla reggia colornese, dai suoi arredi e al degrado manicomiale in cui versava in quei decenni. Non a caso il Museo, nel suo primo allestimento colornese, si chiamava “Museo della Corte


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parmense e del patrio Risorgimento”. Fu presumibilmente il rapporto con l’ultimo conte Sanvitale, Giovanni, discendente di Albertina Montenuovo figlia della duchessa, a orientare l’interesse di Lombardi verso la sovrana austriaca; l’acquisto fondamentale che egli fece presso il conte Sanvitale nel 1934 gli permise di entrare in possesso di un prezioso corpus di opere, oggetti, documenti, beni privati appartenuti alla sovrana e questo focalizzò sempre più il suo collezionismo sul periodo ottocentesco e su Maria Luigia in particolare. Il pensiero di Lombardi su questa figura storica non riuscì tuttavia a prendere forma in maniera definitiva e compiuta e non si trasformò mai, purtroppo, in pubblicazione organica; non mancano neppure forzature in certe sue affermazioni, tra cui proprio la citazione che lei ha fatto. L’amore incondizionato di Lombardi per Colorno gli faceva sostenere che la duchessa avesse in quel luogo la sua residenza più cara, dichiarazione in verità destituita di ogni fondamento storico, poiché non certo Colorno ma Sala Baganza con il suo casino era il luogo che più di ogni altro si deve identificare come la “residenza del cuore” della sovrana e fu in quella campagna appartata, lontano da occhi indiscreti, che si svolsero gli eventi privati più importanti della vita di Maria Luigia. I.P. Il Museo tra il recente periodo di chiusura forzata e la tanto attesa, attuale apertura al pubblico. Come incrementare le visite, l'interesse, la curiosità per questo grande mondo di documenti artistici unici ed assai particolari? F.S. Il recente e lunghissimo periodo di chiusura al pubblico del Museo Lombardi così come di tutti i luoghi di cultura ha messo a dura prova la tenuta di un settore debole che di base soffriva già di molti problemi. Per il Museo Lombardi le conseguenze sono state ancora più pesanti che in altre città, poiché nel 2020 Parma era (e in qualche modo è ancora fino al 2021) Capitale Italiana della Cultura. In virtù di tale riconoscimento si era deciso di potenziare fortemente l’offerta museale con iniziative ed eventi di varia natura e tipologia

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per l’intero anno 2020, mettendo in campo tutte le risorse disponibili e creando una rete di collaborazioni con soggetti diversi. Improvvisamente nell’arco di pochi giorni questo calendario è stato quasi totalmente annullato, rendendo vano il lavoro di oltre un anno e creando uno scenario veramente desolante. La situazione del tutto inattesa e imprevedibile causata dall’emergenza sanitaria ha infatti messo i musei nella condizione obbligata di vedere negata la loro stessa natura sociale, costringendoli a ripensare il loro rapporto con il visitatore. Oggi dobbiamo quindi tentare di rendere attrattivo un luogo che viveva principalmente di iniziative aggregative, di condivisione sociale e comunitaria, totalmente bandite nel momento attuale. Bisogna inoltre confrontarsi con tipologie di pubblico differenti rispetto a quelle alle quali eravamo abituati: sono infatti venuti meno quei bacini di utenti che rappresentavano la grossa parte del pubblico; si delinea pertanto sempre più forte la necessità di saper stimolare e attrarre il turismo individuale e famigliare. Se da un lato il potenziamento delle forme di fruizione individuale del Museo mediante supporti multimediali può essere una valida alternativa, occorre sottolineare che per poterli attivare servono investimenti e strumenti che realtà medio-piccole come la nostra non sempre possono permettersi. In parallelo questa modalità di visita solitaria e autonoma non può e non deve sostituire l’immediatezza e la valenza sociale e di condivisione/confronto personale e collettivo che una guida, in carne e ossa, può garantire durante una visita. Un altro elemento di cui occorre tenere conto è l’assenza di turismo sia straniero che nazionale di lungo raggio; il pubblico di riferimento in questa fase è e sarà rappresentato, probabilmente per molto tempo, solo da visitatori provenienti da vicina e media distanza, sostanzialmente un turismo di prossimità. Questo fattore determina la necessità primaria di una strategia comunicativa forte rivolta alla comunità locale e in partnership con i vari attori del territorio, ponendo in essere una


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promozione diffusa, continuativa e convincente, che riesca a veicolare nella forma più affascinante possibile il cuore e l’anima di realtà come il Museo Lombardi, musei non grandi ma che accolgono e trasmettono al loro interno storia e storie di uomini e donne che hanno creato la nostra identità attuale. Purtroppo il percorso che ci attende non sarà né facile né indolore. I.P. Con lei a passeggio tra Parma e Colorno, in onore del prof. Glauco Lombardi, per scoprire bellezze d'una storia d'Italia che pochi conoscono... F.S. Non si può parlare di Lombardi senza parlare di Colorno; se egli non fosse nato a Colorno, la sua vicenda di uomo e studioso sarebbe stata completamente diversa. Il suo legame con il paese natìo fu totale, viscerale e costante e a quel luogo pensava Lombardi come sede del suo Museo. Solo circostanze cogenti accompagnate da delusioni e incomprensioni determinarono l’apertura definitiva del Museo nel 1961 nel palazzo di Riserva a Parma, scelta che in verità si rivelò vincente, lungimirante e di assoluta coerenza rispetto alle opere da lui raccolte, poiché il prestigioso palazzo era stato sede ducale per secoli. Purtroppo proprio la speranza in lui mai sopita di aprire un secondo museo a Colorno fu alla base di quella decisione - che oggi possiamo vedere come sciagurata ma che all’epoca era l’estrema testimonianza del suo amore patrio - di mantenere presso la sua abitazione circa un terzo delle sue collezioni (oltre a parte dell’archivio) nella convinzione di poter costituire, prima o poi e proprio nella reggia di Colorno, un altro museo. Il suo auspicio non si realizzò e quelle testimonianze non confluirono mai nel museo parmense a lui intitolato, ma andarono divise tra i discendenti, disperse o vendute, causando una illogica diaspora di opere di grande rilievo e dividendo nuclei unitari e coerenti. Fortunatamente il Museo che oggi porta il suo nome sopravvive e prospera e, visitando le sue sale, bene si può cogliere il fascino della vita di corte parmense tra ‘700 e ‘800, restituita nella sua componente pubblica e privata.

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I.P. Cosa ha rappresentato per lei la stesura del grande volume GLAUCO LOMBARDI (1881-1970) molto più di un collezionista, il n. 12 de 'I quaderni del Museo'? F. S. Nel 2011 la ricorrenza rappresentata dai cinquant’anni di apertura del Museo Lombardi nella sede attuale, il demaniale palazzo di Riserva, ha fornito lo spunto per cercare di ripercorrere da un lato la storia del Museo stesso e le vicende (tante e difficoltose) che portarono alla sua consegna alla città di Parma, dall’altro è stata l’occasione per indagare la vicenda biografica e professionale di Glauco Lombardi, con particolare attenzione alle modalità e alle forme che determinarono la costituzione di una collezione storico-artistica di primaria importanza. Al di là della facile scusa che spesso gli anniversari forniscono, la motivazione più profonda che ci ha spinto a realizzare il volume nasceva dalla volontà di tributare un doveroso riconoscimento a una persona che in vita raccolse più delusioni e derisioni che soddisfazioni e riconoscimenti. Da molti etichettato semplicisticamente come “l’ultimo amante di Maria Luigia”, la figura del piccolo professore ha spesso rischiato di ridursi a una macchietta, unicamente votata al suo amore per la duchessa. Questa visione negli anni ha alterato la comune percezione del ruolo svolto da Lombardi e la missione civile al quale consacrò la sua vita, ovvero salvare, per quanto in suo potere, le testimonianze materiali (storiche, artistiche, archivistiche, culturali in genere) di un passato illustre che rischiava di disperdersi a seguito delle spogliazioni postunitarie. In definitiva questo libro ha voluto essere un omaggio postumo a una persona tenace e combattiva, che, vissuta in piena solitudine (di idee, obiettivi e affetti), non aveva ancora ottenuto una vera valorizzazione. Il volume vuole essere comunque un’opera aperta, pronta ad accogliere integrazioni e precisazioni. Non è stato infatti facile venire a capo di una mole enorme di materiale documentario, variamente disperso e che ancora oggi riemerge frammentario sul mercato antiquario. In una sorta di anamnesi storica e a


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ulteriore riprova di come fosse tenuta in poco conto l’opera di ricerca svolta da Lombardi, alla sua morte parte del suo archivio e della sua collezione che, come già accennato, non avevano trovato tutela in Museo, andarono dispersi in forma pressoché casuale e inopinata, determinando perdite ormai non più sanabili. Glauco Lombardi ha preso decisioni rivoluzionarie e ha messo in campo una capacità di lotta per raggiungere i propri obiettivi che ha sottomesso, nel corso degli Anni '40 del passato secolo, anche le forze d'occupazione prima tedesche poi americane, affinché tutto il patrimonio da lui raccolto e preservato, venisse protetto da saccheggi, furti, espropriazioni: allora, se non è possibile un'esperienza dal vivo che immerga in questo mondo unico d'inestimabile valore, suggerisco una passeggiata virtuale di concreto spessore storico, artistico ed etico ad un tempo. Ilia Pedrina

Cari Lettori, Cari Collaboratori! Il Natale è ormai vicino, purtroppo nell’angoscia della pandemia. Regalatevi e regalate - se avete amici e parenti che amino la lettura - i racconti del nostro Direttore DOMENICO DEFELICE

NON CIRCOLA L’ARIA in grado di alleviare, almeno per un momento, non Covid-19, col quale non ha niente a che fare, ma il “sentimento del soffoco” che tutti ci pervade; un testo scorrevole e pulito, che può stare nelle mani di giovani e anziani e, per certi brani, anche in quelle dell’infanzia. Genesi Editrice – via Nuoro 3 – 10137 Torino genesi@genesi.org; http://www.genesi.org

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SILVIA, CHE TROPPO GRANDI… Silvia, che troppo grandi apri alla notte gli occhi. Silvia che troppo grandi apri gli occhi al risveglio. Corrado Calabrò Roma

VINTA DALL’ARSURA Vinta dall’arsura, era sgusciata in quel momento dalla siepe, e stava per avvicinarsi alla gora quando la raggiunse la randellata che l’aveva uccisa. Poi, erano venuti i ragazzi ad inforcarla ad un legno e a portarla in giro, attirandosi il rimprovero della gente, così che abbandonata ai fianchi della strada, la serpe, ora, destava il raccapriccio, gli scongiuri dei viandanti. Ché nessuno aveva avuto il coraggio di seppellirla sotto un cumulo di pietre, nasconderla: il maleficio lo avrebbe inseguito ovunque ed i suoi sogni non avrebbero avuto più pace. Unico ad avere pietà della morta era, dunque, il sole. Che ora, avvolgendola di luce, faceva scintillare come un gioiello le squame del suo corpo, rifulgere di più il nero della sua pelle, rapprendere il filo di sangue che le colava dalla bocca, abbagliare i suoi occhi perché nessuno potesse vedere la pena che in essi navigava. Quasi per restituirle il vigore perduto, l’ebbrezza ed il calore che, inebriandola, la spingevano agli amori, là per le siepi, lungo i viottoli. Ed era come se un raggio d’oro si fosse posato su una innocua creatura: per addolcire il male che gli uomini le avevano fatto. Franco Saccà Da Uomini, solchi, nuvole, Editrice Liguria, Genova, 1955.


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LILIANA PORRO ANDRIUOLI POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN

BRUNO ROMBI di Francesco D’Episcopo

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I Bruno Rombi avevo letto il recente volume critico Mélakholé. Lezioni maltesi. La malinconia nella letteratura europea, pubblicato dall’editrice Venilia, a cui Rombi era particolarmente legato, avendo letto sulla bella rivista “La Tribuna Letteraria”, edita sempre da Venilia, interventi di e su di lui. Mi sono sempre occupato di “malinconia” letteraria e il volume di Rombi, con la sua dichiarata e intelligente interdisciplinarietà, ha mostrato la inevitabile estensione letteraria del tema, a livello europeo. Ora, l’instancabile Liliana Porro Andriuoli regala un volume sulla sua poesia, promesso a Rombi da tempo e purtroppo uscito dopo la sua morte, il quale aggiorna e amplia il volume della stessa autrice, pubblicato nel 1999; aggiornamento e ampliamento necessari, dal momento che Rombi, autore particolarmente prolifico, anche a livello internazionale, da quella data aveva pubblicato ben altre nove raccolte

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di versi. Il percorso della Liliana Porro Andriuoli è quanto mai lineare: da I primi poemetti a Otto tempi per un presagio, con incursioni nella biografia dell’autore, dall’amore vissuto con la sua donna a quello delle sue terre d’anima, la Sardegna e la Liguria, sino a un intervento chirurgico, mostrando come il passaggio dalla fase intimisticamente personale a quella civile comincia a farsi strada con Enigmi animi, “uno dei suoi libri più originali e più riusciti”, annota l’autrice, anche se il ritorno alla prima fase avviene con L’attesa del tempo, una lunga confessione, rivolta alla madre, appena scomparsa. Dopo otto anni di silenzio, appare Riti e miti, una silloge che specifica la scaltrita capacità del poeta di proiettare le forme e funzioni del proprio dolore su uno schermo, che coinvolge tutti. Un amore, “canzoniere in ‘morte’”, e L’arcano universo bene danno il senso di questo studio critico, che, necessariamente, ondeggia tra intenso intimismo e altrettanto intensa apertura al mondo, nella specificità di un’autocritica a volte spietata. E qui emergono con forza il significato e il valore di quella “melanconia”, alla quale si è fatto riferimento all’inizio. L’autrice offre un esempio rilevante di analisi semantica della silloge attraverso uno studio attento dei predicati auditivi e visivi. Il tal senso, è questa la silloge che, più delle altre, sembra esplicitare il contrapporsi e il congiungersi dei due aspetti della personalità del Rombi, evidenziati dal titolo. Otto tempi per un presagio sarà, comunque, la silloge, che consacrerà Rombi come poeta civile, nel nome di Dante ed Eliot, ma anche di Campana e Montale. Quale il presagio, dopo tanto vivere, viaggiare, amare, condannare? La speranza, in un mondo, che ritrovi la sua smarrita umanità, quella che egli si è sempre portata dentro, come retaggio di antichi padri e di nuovi profeti. Dopo tre anni di silenzio, Rombi, ancora una volta, come una fenice, risorge con due libri: A Costantino Niola, scultore conterraneo e mediterraneo, e Il battello fantasma, una silloge, dominata dal motivo conduttore del viaggio, che comprende i temi dell’amore e della meditazione filosofica sull’esistenza. Ma una sua


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caratteristica peculiare, come la Porro Andriuoli bene sottolinea, è il cromatismo che lo permea con i quattro colori, che egli invoca da pittori famosi per dare un senso “colorato” alla sua vita. Le bateau ivre di Rimbaud si trasforma in Il battello fantasma, perché il poeta avverte il bisogno, l’urgenza, da viaggiatore, avido e ardente, anche di sé stesso, di ripercorrere i fantasmi che hanno attraversato la sua vita, segnandola di stigmate indelebili. Ma il discorso, anche con un’opera così significativa della sua carriera poetica, non può finire e continua con Tsunami-Oratorio per voce solitaria e coro, in quattro lingue, che si immerge con passione e pietà in quel tragico evento, che sconvolse il mondo; con Come il sale / Precum sarea, che avrà anch’esso una favorevole sorte internazionale, in cui il mare riconquista la sua funzione centrale nella poesia di questo isolano-internazionale, il quale resta saldamente legato ai suoi valori personali e familiari, ma, ancora una volta, si apre alle tragedie, provocate da guerre che insanguinano il mondo. Fragments de lumière sono quaranta poesie scritte in francese; lingua che gli consente una fascinosa oracolarità, la quale perfettamente si congiunge con la sacralità della sua sardità. Nel 2012 Rombi compie ottant’anni e li festeggia con una silloge, che forse non poteva avere altro titolo, Il viaggio della vita, che raccoglie mezzo secolo di attività poetica, scegliendone il meglio, oltre una sezione di poesie inedite in volume, che confermano il rapporto intimistico e civile della sua poesia. Ancora una volta una raccolta, scritta tutta in francese, La saison des mystères (Mysterium tremendum), in cui il sentimento del poeta esplode in tutta la sua irruenza, congiunto però a una profonda pietas religiosa, che richiama elementi virgiliani nel rapporto padre-figlio, tema ricorrente in Rombi, non escludendo però, questa volta, la madre, la grande Madre mediterranea, luce di amore e di speranza, ma anche di femminilità, ostinata e paziente. Una nuova, ultima stagione si apre con Occasioni, di montaliana memoria, in cui Rombi sembra quasi scrivere un proprio testamento

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poetico, dal momento che il tema della morte conquista nella silloge uno spazio rilevante. Dopo avere dialogato, nella precedente raccolta, con i suoi morti, Rombi avverte ora l’esigenza di fare i conti con quella sua personale, la quale non può fare a meno di rifarsi ai miti e riti originari della sua vita: l’amore, irrinunciabile, per la sua terra; la poesia, onorata nei poeti che più ha amato, come Léopold Sédar Senghor, Saint-John Perse, César Vallejo, di cui egli prova a reinterpretare l’essenza poetica; l’umanità, ancora civilmente presente con la sua ubriacatura di coscienze e la sua maschera di apparenze. Alla fine, Rombi non può non chiedersi Quando muore un poeta? / Cand moare un poet? Un attraversamento del proprio essere stato al mondo, tra umiltà e arroganza, tra demenza e pietà. L’estrema silloge è La nostra follia suicida. Sinucigaşa Noastră Nebunie, da cui emerge un senso pessimistico del mondo, sempre riscattato però nella segreta speranza di una resurrezione. Bruno Rombi è stata una presenza consistente e costante nella letteratura, italiana ed europea (con le numerose traduzioni sue e degli altri,) del nostro tempo e, a ragione, Liliana Porro Andriuoli ha ritenuto di dovergli dedicare questa monografia, purtroppo uscita postuma, sulla sua poesia. Dalla sua Sardegna e altrove, il nostro poeta ha fatto risuonare le tempeste, le bonacce, le risacche di un mare, al quale siamo tutti visceralmente legati, quel Mediterraneo, che lo ha spinto a occuparsi di poeti, come quelli liguri, ad esso intimamente legati. Egli è riuscito a dare una voce internazionale alla nostra poesia, soprattutto in quella Romania, che ci è così vicina per la sua lingua neolatina. Ma molte sono state le sue patrie letterarie, anche se, alla fine, una domina su tutte, quella Sardegna, che parla anch’essa una lingua neolatina e che resterà la grande madre della sua poesia. Francesco D’Episcopo LILIANA PORRO ANDRIUOLI - POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN BRUNO ROMBI - Il Geko, Genova, 2020


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NAZIM HIKMET Poesie d’amore di Anna Vincitorio “Pioggia d’estate cade dentro di me… piccioni d’argento volano dai miei tetti la mia terra corre coi piedi nudi pioggia d’estate dentro di me senza rinfrescare la mia tristezza…” L’amore in questo poeta è il percorso del suo vivere. Canta non solo amore, ma battaglie, soprusi, lontananza, esilio, rifugio. In lui all’ estrema dolcezza orientale si fondono ritmi crudi legati all’occidente. I lunghi anni in carcere a Bursa (Anatolia) e la libertà passata da esule prevalentemente in Russia, creano una visione di assenza e nostalgia forti. Saggiare la dimensione del silenzio; assaporarne il fascino. Un silenzio non delimitato dai muri di una casa o di una cella ma puro e filtrato che rende consapevoli anche se non credenti del l’esistenza di qualcosa o qualcuno sopra di noi: un Dio Ittita, Assiro, Mussulmano o il Dio

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della Bibbia. Il poeta è un viandante e il suo cammino è lento perché volto alla ricerca di qualcosa d’indefinito. Nel suo esilio, vivo costantemente il ricordo delle acque cangianti del Bosforo, le distese di campi arati nel sole che muore, donne vestite di colori vivaci che lavorano questa terra immensa, la calura estiva e i gelidi inverni. Flauti in lontananza, tempi d’amore e di guerra. Ci possiamo chiedere quando e perché è sorta in Nazim Hikmet la necessità di scrivere poesia. In una lettera del 20 dicembre 1961 da Stoccolma all’amica Joyce Lussu sua traduttrice: “Mi domandi perché scrivo delle poesie? Sarebbe più giusta la domanda in altro modo. Perché e come ho cominciato a scrivere delle poesie. Cerco di ricordare”. L’infanzia a Istambul e per lui l’importanza di essere il nipote di un nonno poeta che apparteneva alla setta dei Mevlevé, dervisci vagabondi. Il loro nome derivava dal poeta Mevlana. Sicuramente in lui la poesia era nata come tradizione. Una casa colta, e nelle orecchie la voce della madre che recitava Baudelaire e Lamartine in francese; parole o, meglio, suoni nello scorrere del tempo che si addensavano in lui e che poi avrebbero assunto una forma propria. L’ascolto è importante perché si assimilano le emozioni costruendo fantasie che avrebbero poi assunto forma lirica. In casa venivano anche lette le poesie di un grande poeta turco: YaYa Kemal. Le sere si animavano di parole. Questo poeta forse innamorato della madre di Nazim, era anche suo professore all’Accademia navale. Crescere in un clima permeato di versi apriva una strada seducente tra fantasia e realtà. La prima poesia fu pubblicata a 17 anni; corretta da Yaya Kemal. Si presentava così: “Ho sentito un lamento sotto i cipressi mi sono chiesto, c’è qualcuno che piange qui? o è il vento che si ricorda di un amore passato in questo luogo solitario?” La musicalità di questi versi porta il pensiero a Lamartine. Le letture della madre nelle lunghe sere invernali, avevano lasciato un’impronta nella sensibilità poetica di Hikmet.


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“Ma perché riandare verso queste scene lontane? Lasciamo che il vento gema e che l’onda sussurri! Tornate, tornate, miei tristi pensieri. Voglio sognare, non voglio piangere!1” Lettere dal carcere a Munevvér Lunghi, lunghissimi anni e la parola e l’immaginazione che riempiono i giorni e le fantasie. Il più bello è il non ancora vissuto. Il pensare che anticipa le parole si addensa nel desiderio: “E quello/ che vorrei dirti di più bello/ non te l’ho ancora detto”. Amore che prevarica la fisicità; è avventura, audacia, lontananza: “amo in te l’impossibile ma non la disperazione”. Potrebbe definirsi un amore che dal rinserro di una prigione si libra alto e vede il cielo, l’erba, l’insetto, e le cicogne che volano. Amore, inteso come libertà; quella libertà da lui voluta e per la quale ha lottato. Il biondo poeta dagli occhi di cielo è uomo tra gli uomini. Non vi è alcuna scissione tra la passione per la sua donna e l’essere umano che lotta e la lotta è sembiante d’amore. Si dipanano lenti gli anni dal 1938 al 1950 e lui che immagina la sua donna nell’attesa: luce di speranza per i suoi giorni bui. Donna, la sua donna, ma lo è anche Istambul: “la voluttà della mia città nel tuo sguardo…”; moglie vista come sua sultana, signora; un bacio sulla sua guancia, un suo respiro è come respirare, baciare Istambul. Fisicità e corposità della città agognata come donna. Il poeta vorrebbe addormentarsi e svegliarsi tra cento anni. È triste ma anche bello vivere in un secolo “coraggioso grande ed eroico”. E non importa che “la sua terribile notte” sia “lacerata dai gridi dell’alba” perché il suo secolo, il ‘900 splenderà di sole come gli occhi della sua donna. Donna che gli appare come luna tra nuvole mentre il vento “non agita/ due volte lo stesso ramo”. È tutto lontano ma “il banchetto della miseria finirà”. L’importanza per Nazim Hikmet delle parole impregnate della presenza della moglie:

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Da Graziella di Lamartine

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madre, amore, amica; parole coraggiose, parole paragonate agli uomini. Per lui la donna amata ha gli occhi come le spighe di Antalya di maggio; occhi nudi e immensi “come gli occhi di un bimbo”; occhi del colore d’autunno come i castagneti di Bursa; ma quello che è più importante: vedere in un futuro gli uomini guardarsi fraternamente con gli occhi dai lampi verdi di Munnevér: “I tuoi occhi, i tuoi occhi, i tuoi occhi/ che tu venga all’ospedale o in prigione/ nei tuoi occhi porti sempre il sole”. Nel 1950 Nazim Hikmet viene rimesso in libertà dopo tredici lunghi anni. Inizia per lui una dimensione diversa di vita. È libertà ma lontano da Istambul. In esilio “Ed ecco ce ne andiamo come siamo venuti. Arrivederci fratello mare mi porto un po’ della tua ghiaia un po’ del tuo sale azzurro un po’ della tua infinità e un pochino della tua luce e della tua infelicità” (Varna 1951) Per lui una erranza dove è quasi sempre impossibile dormire: sono troppo le stelle in cielo “troppo lucide, troppo vicine…/ per via dei fantasmi/ venuti da Istambul/ sorti dal Bosforo/ che invadono la stanza…”. “Una barca passa davanti a Varna/ ohilà, figli d’argento del Mar Nero!/ una barca scivola verso il Bosforo./ Nazim dolcemente carezza la barca/ e si brucia le mani”. Le strade che percorre sono lunghe come il vento, e gli odori, i paesaggi non alleviano la sua tristezza. Giunge a Sophia, città natale di Munnevér; era un giorno di primavera e profumo di tigli. Ma lei non è accanto a lui e lui ricorda a Istambul a Scehsadebasci, la sera e le strade dove sciamanno donne, vecchi, giovani, bambini a braccetto. Ma sono tempi andati, fughe di anni. Lui, un giorno di primavera è entrato nella città natale della sua donna ma anche là non può scordare la sua casa perduta. “È


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un duro mestiere, l’esilio, un duro mestiere…”. Sarà Mosca la sua dimora e in lui “il tempo rimane/ come una rosa rossa odorosa/ che oggi sia venerdì domani sabato/ che il più di me sia passato che resti il meno/ non importa”. La tristezza grava sulle sue spalle: “è una camicia di tela da vela/ lavata dall’acqua di mare…”. Le notti sono diventate lunghe e senza stelle; non vede fine alla infinita separazione da un tempo che fu. “Nell’aria una melodia orientale come le acque del Bosforo./ Sono sulla collina/ e il mio cuore come una zattera/ si allontana…/ va oltre i ricordi/ fino al mare pesante senza stelle/ nelle tenebre fitte”. Alla speranza si alternano speranza, malinconia, nostalgia. Il suo cuore è sempre più debole per i passati infarti ma ricolmo di amore per la sua donna – Istambul. Niente più della lontananza accresce l’amore che diventa arsura incontrollabile. Lui è solo. Con lui la carta e la macchina da scrivere; nei suoi occhi, il sangue sui marciapiedi delle città dove lui è passato e le sue mani lasciano tracce di sangue sui muri… Invoca ormai la morte. La nostalgia è sua compagna, ombra a lui accanto nel buio. Sia che lui viaggi o che si fermi, nulla gli resta se non il rimpianto di bianche nevi. A Mosca sotto la pioggia ha veduto camminare la primavera “con i suoi piedi esili e lunghi…”. Il suo elettrocardiogramma pessimo. Il 3 giugno del 1963 verso le nove del mattino Nazim Hikmet muore solo. Lo trovano accasciato accanto alla porta che era socchiusa… “Il mio funerale partirà dal nostro cortile?… Il cortile sarà forse pieno di sole, di piccioni… i bambini giocheranno strillando forse sull’asfalto bagnato cadrà la pioggia…” (Il mio funerale – maggio 1963)

Ho visto i poveri comprare il mangime per nutrire i colombi. Sono stata ringraziata per un sorriso. Anna Vincitorio Firenze, 22 settembre 2020

La tua poesia Hikmet è solo amore, sublimata nella bruma di Istambul. Mi rivedo, in un tempo lontano, al crepuscolo su un battello che scivolava sul Bosforo. Dietro di me le isole dei Principi luccicavano in penombra. L’umanità tua e del tuo polo è viva e calda come il grano. – Allah Korusun (proteggici) forse, ti porterà lontano agli scalini del cielo.

Un numero, due cifre più non contano. Tu sei aureo calendario e corri verso zenit, vertice d’amore. Mai ti sconvolgano maree, sempre ti fioriscano stelle fra le dita. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.

BREVE NOTA BIOBIBLIOGRAFICA DI NAZIM HIKMET - Nasce a Salonicco nel 1902. Negli anni ‘20 visse in Russia aderendo alle avanguardie e in particolare a Majakovskij. Nel 1938 viene condannato a una lunga detenzione perché si opponeva ad Ataturk. Ottiene la libertà nel 1950. Si stabilisce a Mosca dove muore il 3 giugno del 1983 al n°6 della via Pesciànaya. Nome del figlio: Mehmet; della moglie Munevvér. Personalità poliedrica: poeta, autore di teatro, romanziere, saggista, giornalista. Il suo testo da me esaminato: Poesie d’Amore – Mondadori Editore gennaio 1999. Parti del testo: Rubaì – Istambul 1933; Lettere dal carcere a Munevvér; Fuori dal carcere; In esilio; Uno strano viaggio; Autobiografia 1962; Poemetti; Rubayat; Don Chisciotte; Alla vita; Poesie sulla morte.

VERSO ZENIT (Compleanno) Ancora si prolunga fanciullezza e il tempo delle favole. E giugno reca estate ai tuoi sogni, ti matura come grappolo perché in dono, promessa piena, io ti colga. Né granello di clessidra ti scalfisce: ogni anno ti rinvergini alla vita e solo una stagione per te canta.


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VOCI DI DONNE: DUE NOVITÀ LETTERARIE di Salvatore D’Ambrosio

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N questa caldissima e semi-claustrale estate, sono stato accompagnato da due interessanti omaggi letterari. Due volumetti, uno di poesie della Affinito e l’altro un saggio critico, di Marina Caracciolo, sulla poetica di Imperia Tognacci. Isabella Affinito con le sue cento pagine, edite dal Convivio, affronta in versi, come ormai suo stile, un percorso estetico e ispirativo. L’autrice questa volta immagina di scrivere delle lettere a personaggi della cultura mondiale, nelle quali lettere evidenzia di ciascuno di loro la genialità, la sofferenza, il carisma. In prevalenza sceglie personalità della storia dell’arte, che è il mondo più vicino alla storia della sua cultura, ma nella sua curiosità di leggere il mondo e se stessa, si incontra per lettera con la metafisica e ben altro. Scrive al corpo umano, per esempio, che per quanto bello e frutto di un sapiente dito che lo sollevò da insignificante argilla, alla fine si disintegrerà come la carta sulla quale sta scrivendo la lettera.

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Non lascia niente la Affinito: scrive ai pianeti che nel loro inabitato silenzio esaltano la voce del Grande Inivisibile, che rimane però inascoltata in questo mondo bieco. Scrive anche a se stessa non per egocentrismo, ma per proclamare che la sua solitudine è solamente apparente. Vive infatti costantemente in compagnia dei colori, della natura, della poesia che non le concedono un attimo di restare da sola. Lettere in versi nelle quali c’è una grande immedesimazione con la conseguente sofferenza anche per azioni non vissute in prima persona. Così in LETTERA DAL FRONTE: Sai madre,/ la guerra è una parola/corta ma lunga è sempre/stata la sua durata la fronte,/dove il fumo delle macerie/ e degli spari non ti fa vedere/gli occhi di chi muore. Cosa c’è da aggiungere dopo questi ultimi due versi. Ha uno sguardo profondo e lungo, la Affinito, proteso verso l’animo umano che soffre. E si fa sofferenza anche il suo esistere. Bella e positiva raccolta piena di versi ricercati ma semplici. Versi che dicono al cuore di fare ciò a cui è chiamato: gioire sempre, ma se è il caso anche di soffrire insieme a chi soffre, perché ciò fa molto bene a quell’argilla che è dotata anche di un’anima. Dalla Tognacci ricevo, invece, un saggio sulla sua poetica curato da Marina Caracciolo.


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Giunge questa lettura della poetica della Tognacci, dopo quello che le ha dedicato Francesco D’Episcopo. Secondo in ordine temporale, ma non di importanza. La Caracciolo con il suo stile pulito e chiaro esamina fin dalla prima raccolta di Imperia -Traiettoria di uno stelo-, i fili conduttori e i temi cari alla poetessa. Ovviamente anche la Caracciolo nota la presenza, l’influenza del Pascoli nella sua poetica, anche se Imperia è troppo giovane per avere avuto una conoscenza diretta. Anche la Caracciolo naturalmente continua la sua ricerca sulla Tognacci esaminando tutte le sue pubblicazioni in versi: La notte di Getsemani; Natale a Zollara; Odissea pascoliana e le altre che abbiamo imparato a conoscere. Il lavoro di 80 pagine edite da Bastogi nella collana Testimonianze, arricchisce ulteriormente le conoscenze che sono indispensabili per avere una lettura chiara e la più esplicativa possibile su questa scrittrice schiva e con una devota vocazione alla scrittura. A volte la vedo quasi come una Anna Banti, più nota come la moglie del critico d’arte Roberto Longhi, che credeva nel motto: ”Vivi nascosta, scrivi nascosta”. La copertina che riporta l’olio di Friedrich: Morgen im Riesengebirge, è un’apertura sull’ infinito che molto significativamente fa riferimento al pensiero artistico della Imperia Tognacci, che Marina Caracciolo con il suo scritto veicola egregiamente. Salvatore D’Ambrosio

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Due fili intrecciati siamo state per divorare con coraggio il guado del fiume. Quanti ostacoli abbiamo superato insieme con il calore della voce reciproca. Hai lottato fino alla fine per restare nel tuo corpo tornato fanciullo. La tua tremenda paura del trapasso oramai non c’è più…. Ora ti penso serena con i tuoi cari ma a me è rimasto un groppo in gola. Una luce accesa, una folata di vento, il profumo della cucina, sei ancora qui con me nonna; rasserena il mio animo e riscaldami eternamente col tuo amore immenso. Emilia Bisesti 2-10-2020, Pomezia (RM)

SETTEMBRE Sei sorta a vita nuova in settembre, in una calda giornata di un finto agosto. Mani nelle mani ci siamo strette al riparo di questa vita tortuosa e a volte dolorosa. Mi hai insegnato la forza nascosta sotto un velo di fragilità. Mi hai insegnato … e in mille gesti quotidiani rimbombano in me le tue parole nonna.

IL CROCO I Quaderni Letterari di

POMEZIA-NOTIZIE Il numero di questo mese è dedicato a: COLORI E STUPORI DELLA VITA E DELLA NATURA di Lina D’Incecco


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VINCENZO GASPARRO I GABBIANI NON CONOSCONO IL MALE di Domenico Defelice

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INCENZO Di Oronzo, introducendo i versi di Vincenzo Gasparro, scrive che i gabbiani sono uccelli “di musica e di vento”; lo stesso Gasparo, nel brano trentesimo di questa silloge, afferma che “I gabbiani non conoscono il male”, utilizzando il verso come titolo della stessa; l’indimenticabile nostro amico Geppo Tedeschi, che il grande grecista Lipparini diceva che, quando recitava, “aveva l’aspetto di un orante” e che Marinetti definiva “il re della sintesi!”, intitola una sua alata raccolta “È un gabbiano senza pace il vento” (1990). Non sono, loro, né i primi, né gli ultimi a essere ammaliati da questo elegantissimo uccello, fatto di vento per la sua leggerezza, in-

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nocente per natura, come lo sono tutti gli animali, che non hanno volontà né di uccidere né di essere efferati; eppure, il gabbiano non è soltanto un uccello pescatore, è anche opportunista e rapace, perciò, senza volerlo, crudele, se è vero che non disdegna le discariche e ruba e strazia i piccoli nei nidi di altri uccelli momentaneamente assenti perché in cerca di cibo per sé e per la nidiata. Diciamo, allora, che, seppure inconsapevole, il gabbiano non si discosta dalla” ferocia umana” del primo brano di questa silloge, tutta impregnata di socialità e di ottundimenti vari, attraverso i quali dimenticare, almeno per qualche istante, il niente che siamo: le ragazze che “sul sagrato danzano” “vestite di colori silenti come ombre/che domani saranno cibo dei vermi”. “Cibo di vermi” lo siamo tutti ed è inutile che i “viaggiatori si affannano sulle scale mobili”; la “notte (…) incombe/e nulla rimane del nostro vano correre”. L’ambiente milanese, affrescato a tinte fosche da Gasparro - come ogni altro ambiente - è simile a una bolgia infernale: il cielo minaccia sempre pioggia; gli esseri umani sono affaticati per il “prezzo del pane quotidiano”; il viavai è “frenetico e assurdo”; “Nella notte spadroneggiano le puttane”; le sirene hanno “sibili dolenti” e tutto è un “impazzimento forsennato”: “passavano avventurieri seduttive signore/spacciatori vu cumprà ricettatori/amanti assonnati sulle panchine di ferro/acrobati e musicisti per rimediare la cena”. La vita non è altro che crudeltà, osserva Gasparro; ci nutriamo della carne degli altri senza il pensiero della sofferenza che arrechiamo: “Nella pescheria ancora i pesci zampillavano/e nessuno pensava all’angoscia/che attraversava il loro corpo ferito”; la donna lascia l’innamorato senza un perché “tra la folla impazzita della metro/senza una ragione una spiegazione”. La verità è che ognuno vive nel proprio egoismo, senza curarsi, senza soffermarsi, neppure per un attimo, del proprio stato, senza leggersi dentro, cioè; ci lasciamo volentieri ingannare dal falso progresso, dalla


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tecnologia al servizio dei furbi e dei caimani: “non ci sono più maestri né sacerdoti./I nuovi padroni nascosti dietro la tastiera/iniettano veleni di disumanità/squali del capitalismo della sorveglianza”. Tutto è crudeltà, insomma, e solo i gabbiani non conoscono il male. In realtà, però, anche loro lo praticano – ripetiamo - nella loro naturale innocenza, almeno verso i pesci e gli altri animali dei quali si cibano. Forse sarebbe meglio dire che sono i colombi a non conoscere il male, perché si nutrono essenzialmente di semi e di ciò che l’uomo rifiuta (ma uccidono e mangiano anche vermi e insetti vari!). Gasparro ha ragione quando afferma che “Mi servirebbero le ali del colombo/per trovare riposo al mio sgomento”. Una tale visione della generale esistenza porta automaticamente all’assenza di Dio, al massimo “posteggiato nel garage/muto nell’ opacità delle cose” e con “le labbra cucite”; un Dio “incredulo per la crudeltà delle sue creature”. Dio, invece, è costantemente con noi perché dentro di noi; se tutto ci sembra falsità (“il prete (che) predica parole a cui non crede”, che ripete “le solite cazzate sul fine vita”) dipende solo da noi, che ci ostiniamo a serrare gli occhi per non vedere “l’orrore quotidiano sotto le mura grigie/dell’Occidente untuoso che boccheggia senza pietà”. Dio esiste, anche se, nei millenni, l’uomo, almeno in parte, se l’è modellato a suo uso e consumo. Non è possibile che tutto sia solo il frutto della chimica. E se anche lo fosse, chi è stato a piantare il primo seme? Siamo, perciò, con Pascal, il quale scommetteva nell’esistenza di Dio, perché, se esiste, si ottiene la salvezza e, se non esiste, a crederci non si è né guadagnato, né perso nulla; egli, inoltre, dà la spiegazione dell’apparente assenza di Dio: “Se Dio si manifestasse continuamente all’uomo non vi sarebbe merito alcuno nel credere in lui”. Pomezia, 7 ottobre 2020. Domenico Defelice VINCENZO GASPARRO - I GABBIANI NON CONOSCONO IL MALE - Street papers, 2020 – Pagg. 50, € 10,00.

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PER ROSA PINTO COSENTINO mia insegnante di pianoforte e carissima amica Ciao, Rosa. La farfalla è arrivata un po’ in ritardo questa volta. Da qualche ora già mi era giunta la notizia della tua improvvisa scomparsa. La farfalla che mi ha recato il tuo saluto ha indugiato a lungo ieri sul mio balcone, svolazzando con insistenza tra i fiori, quasi volesse cercare di entrare in casa. E se l’avessi lasciata entrare certamente si sarebbe diretta al pianoforte, ove tuttora riposa il libro degli autori russi, con un passo di Rachmaninoff, che ancora mi dovevi spiegare come eseguire. Ormai sarà per la prossima lezione, quando avremo tutto il tempo che qui ci è mancato. Mariagina Bonciani Milano

BAGNATA DA UN SOGNO Bagnata da un sogno l’anima nostra andava dietro la luna sole della notte colorato di latte. Ascoltava parole in viaggio su milioni di pensieri o tremule sillabe su migliaia di bocche. L’anima nostra sapeva. I poeti non muoiono. Sono dovunque trascinati dal sole della notte. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019.


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'IL LAVORO DELLO SPIRITO' DI MASSIMO CACCIARI TRA FATTI ED INTERPRETAZIONI di Ilia Pedrina

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ASSIMO Cacciari è filosofo, uomo politico e da anni maestro di orientamento del pensiero: si inserisce a pieno titolo tra gli studiosi che meritano grande attenzione perché il suo impegno è testimoniato, oltre che dalla carriera di docente universitario nel campo della Filosofia Estetica, dalla sua attività politica come sindaco per due mandati alla guida della città di Venezia, là dove è nato nel 1944 e là dove si è originata quell'attenzione particolare che il compositore Luigi Nono, il GiGi veneziano, sul quale sto ancora lavorando strenuamente, gli ha dimostrato con un'amicizia profonda. Eccolo ora presentare la sua più recente testimonianza intellettuale, IL LAVORO DELLO SPIRITO - Saggio su Max Weber, edito da Adelphi nella Collana Piccola Biblioteca Adelphi, in questo 2020 così particolare. Importante l'elenco delle opere che con questa Casa Editrice hanno segnato un percorso consequenziale e rigoroso del suo pensiero: Dallo Steinhof; Dell'Inizio; Della cosa ultima; Doppio ritratto; Geofilosofia dell'Europa; Hamletica; Icone della Legge; Il potere che frena; L'angelo necessario; L'Arcipelago; Labirinto filosofico; Tre icone, opere che potrei definire 'lavori dello spirito' con pieni effetti di figure e di stile per dimostrare, se ancora ce ne fosse bisogno, che Massimo Cacciari ama la scrittura come spessore stesso, forte e intenso, del suo pensiero: crede in essa come identità differente rispetto al pensiero, ma necessaria alla condivisione, quella che si offre all'altro in quanto fatto e fatto conoscitivo, culturale, politico, scientifico, filosofico, storico. Spesso, anche in questo testo su Max Weber, egli

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stesso vi fa riferimento, in modo acuto e puntuale, nelle note poste a conclusione dell'opera, indicando direttamente una chiara rivendicazione di continuità e compattezza del proprio operato intellettuale. Sottolineo che molti suoi più recenti lavori sono stati pubblicati solo all'estero: The Unpolitical (2009) e Europe and Empire (2016). Fino a che si dà un'occhiata all'Indice: I. Il lavoro dello spirito; II. Disincanti; III. Nuovi centauri; Doppio sogno; La fine (del fine) della storia, tutto va bene, perché se non si è avvezzi alla sua scrittura, a quel suo modo originalissimo di trattare il fatto politico, tecnico, scientifico, filosofico, ci si sforza di leggere e dunque di capire. Poi arriverà il duro lavoro di traduzione, di transfert, di trasferimento, nel proprio interpretare, in modalità più correnti e personali, quanto egli verrà analizzando del grande pensatore, filosofo, sociologo tedesco Max Weber. Cito, per far entrare nel clima del discorso, dall'apertura e dalla conclusione di questa sua composizione. In apertura: “Ad aprire a un mondo di illimitate potenzialità era chiamato il Sistema della scienza, il pensare filosofico dell'Occidente divenuto pensiero scientifico, capace cioè di comprehendere in sé lo stesso potere della scienza moderna nella sua indistricabile unità alla Tecnica. La realizzazione di un tale mondo - poiché per l'ethos della scienza deve apparire intollerabile non realizzare ciò che il suo pensiero ha pro-gettato – si presenta anch'essa ovviamente come un compito o una missione infiniti. Mondo non è più il kosmos classico, perfettamente in sé armonizzato, né il saeculum cristiano, del cui Fine si ha certa fede; mondo è ciò che la scienza fa, la meta che di volta in volta il suo operare raggiunge e supera...” (M. Cacciari, Il lavoro dello spirito, op. cit. pag. 11). Nella conclusione: “... Il 'lavoro dello spirito' è quello che in ogni crisi vede il segno della intrinseca infondatezza del dominio della continuità apeiron, senza misura, del divenire. Il 'lavoro dello spirito' abita il tempo alla luce dei fini che possono spezzarne la rete – e in tale


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luce può negare quelle potenze e quegli arconti che sull'indefinito divenire strutturano la propria Auctoritas. La fine (del fine) della storia non può perciò essere fatta coincidere con la fine della storia, poiché è dall'interno della sua stessa attuale configurazione che può maturare l'energia capace di imporre di nuovo un fine al divenire, capace cioè di interpretarlo e agirlo ek-staticamente. Chi non avverte questo ultimo possibile orizzonte nel disincanto weberiano appartiene inesorabilmente alla peggiore genia di incantati, quelli dei disincantati araldi del destino.” (M. Cacciari, ibid. pp. 94-95). A venirmi incontro, nel retro di copertina, l'indicazione preziosa intorno al territorio di ricerca che il prof. Cacciari si è scelto per articolare le sue riflessioni intorno alle problematiche che continuano a surriscaldare il nostro tempo: “Tra il 1917 e il 1919 Max Weber tenne due conferenze dal titolo Die geistige Arbeit als Beruf, che potremmo tradurre 'Il lavoro dello spirito come professione'. Formulazione quanto mai pregnante, perché rappresenta l'idea regolativa, il progetto e la speranza che avevano animato il mondo della grande cultura borghese tra Kant e Goethe, tra Romanticismo e Schiller, tra Fichte e Hegel, e avrebbero costituito il filo conduttore dello stesso pensiero rivoluzionario successivo, da Feuerbach a Marx. Il 'lavoro dello spirito' è il lavoro creativo, autonomo, il lavoro umano considerato in tutta la sua attuosa potenza, e volgersi alla sua affermazione significa liberazione di ogni attività dalla condizione di lavoro comandato, dipendente, e cioè alienato. Ma il suo dissolversi nella forma capitalistica di pro-

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duzione, nell'universale macchinismo, che fagocita quella Scienza che pure è l'autentico motore dello sviluppo, finisce col delegittimare la stessa autorità politica, che nella 'promessa di liberazione' trova il suo fondamento. La 'gabbia di acciaio' è destinata dunque a imprigionare anche quel 'lavoro dello spirito' che è la prassi politica? Lo spirito del capitalismo finirà col destrutturare completamente lo spazio del Politico, riducendolo alla forma del contratto? O tra Scienza e Politica sono ancora possibili relazioni che ci affranchino dal nostro 'debito' nei confronti del procedere senza mete né fini del sistema tecnico-economico? Sono le attuali domande che, un secolo fa, nessuno ha posto con la drammatica chiarezza di Max Weber – e con le quali, oggi, Massimo Cacciari si confronta.” (dal retro di copertina del testo di M. Cacciari, op. cit.). Esistono fatti, non solo interpretazioni e i fatti condizionano il pensiero in una tensione che porta sconvolgimento. Oltre a questo testo, tutto così caricato di note che resta aperto da sé, mi son andata a rinfrescar la memoria con il volumone di Carl Schmitt, che più volte ho citato sulle pagine di questa Rivista, Glossario, tradotto e curato da Petra Dal Santo e pubblicato dalla casa editrice Giuffrè a Milano nel 2001, sul quale ho cominciato a lavorare dal 2007 in modo assai costruttivo. Trovo una pagina piegata a metà e scopro che vi è proprio una parte che il prof. Cacciari cita alla nota 51 del suo testo: “51. 'Rifletto ancora su F. de Vitoria... Poi, per giorni interi, mi assale l'impazienza della giustizia; è questa la forma di disperazione che la mia professione di giurista comporta. Ma non voglio perire a causa sua, come il povero Max Weber, che vidi morire di disperazione nel 1920. Allora mi sembrava folle farsi consumare così, letteralmente svanendo. Adesso comprendo l'avviso, che nel frattempo è scaduto' (C. Schmitt, Glossario, ediz. it. a cura di Petra Dal Santo, Milano, 2001, p. 242). Se non si intende il dramma tra Nomos e Giustizia vissuto da questi grandi, sarà difficile interderne anche le parti 'scientifiche'. Vorrei rinviare al mio Destino di Dike nel recente volume M. Cacciari e N. Irti, con


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un saggio di W. Jaeger, Elogio del diritto, Milano, 2019.” (M. Cacciari, op. cit. pp. 114115). Il 23 gennaio 2009 su quella pagina del volume di C. Schmitt ho scritto: 'Tremenda condizione di IM-POTENZA: la Potenza è presente, è forte, è determinata ma è im-prigionata, appunto, serrata, blindata, chiusa verso l'esterno. È questa la forma della disperazione...' Tanti gli altri autori citati dal Cacciari in questo dotto e appassionato reclamo di attenzione ed essi hanno tutti un impatto non solo diretto, ma trasversale: Thomas Mann, Friedrich Nietzsche, Goethe, Schiller, Simmel, per il quale l'autore sostiene alla nota 26: “... Analoga la posizione di Simmel, la cui influenza sulla Weltanschauung weberiana meriterebbe particolare attenzione. Debbo rimandare alla mia Introduzione all'ediz. del Diario Postumo simmeliano da me curata, Torino, 2011 (M. Cacciari, op. cit. pag. 106).

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E poi Fichte, Hartmann, Heidegger, W, Benjamin, Emil Lask, Benedetto Croce e altri ancora, come Hofmannsthal, Cassirer e il nostro Asor Rosa, ma non solo. Effetti di figure che irradiano senso si intercettano nelle parole con lettera maiuscola, anche in lingua italiana come il Politico, lo Stato, la Scienza, l'Occidente e quant' altro, tutti contestualizzati in interessante intreccio problematico mentre risultanze di stile che agganciano questo ai lavori già pubblicati è interno all'uso del trattino '-' tra due termini, come ad esempio nel contesto della professione del Politico che intenda non essere solo burocrate: “... Il punto di vista della scienza risulta perciò fondamentale, in Weber, per la caratterizzazione attuale dello stesso Politico. Quale operazione qui, allora, si tenta? Convincere la professione, il lavoro professionale, al massimo inter-esse, attivo e consapevole, per la vittoria della politica come professione, e cioè di un Politico responsabile sul modello della responsabilità e dell'etica del dovere che nel lavoro professionale si sono storicamente incarnate. E, analogamente, convincere il Politico che potrà valere-potere in futuro soltanto assumendo in sé i tratti tecnico-burocratici, la capacità di misura e di calcolo, l'analisi realistica della situazione, che hanno già trovato nell'idea di Beruf il loro paradigma...” (M. Cacciari, op. cit. pag. 64). Il trattino '-' opera allora tra i due termini un collegamento forte e vincolante, amplificando la portata del loro significato e trasferendone il senso nella sfera dell'etica: tra loro si opera una fusione che mantiene attenta ed alta la loro con-fusione, così in quest'opera del Cacciari gli strati di senso si moltiplicano e si intercettano, intersecando temi e circostanze, sia del pensiero che della prassi. Anche questi sono effetti di figura e di stile, che egli ricerca con eleganza e originalità, talora presentando accenti appassionati e sinceri, come quando scrive: “... Sono i giovani che occorre richiamare con la massima energia, e anche con tutto il necessario pathos a un principio di realtà. La loro rovina, oltre la guerra, coinciderebbe con quella dell'intera cultura che egli intende


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rappresentare. Autentico, quanto inascoltato, pedagogo si rivela qui Max Weber, in qualche modo erede di quella voce (forse già al suo tempo ormai impotente) del Bildungsbürgertum che, il 29 dicembre 1830 Schelling aveva rappresentato, e nella stessa Monaco, di fronte agli studenti anche allora in rivolta: 'Controllate voi stessi...'. Facile comprendere il senso di questa missione che Weber sente pesare sul proprio lavoro scientifico, più arduo individuare origini e fondamenti della sua critica...” (M. Cacciari, op. cit. pag. 32). Il filosofo interpreta Max Weber nel contesto del suo dramma, quello spettacolo umano posto nel gioco imprevedibile della storia e nel contesto del destino, ultima parola del libro, e mostra come il disincanto spinge a produrre nuovi incantamenti nel fragile terreno della vita dei molti, là dove e quando la cultura viene blindata dal profitto e dalla sudditanza, annullando la vitalità del fare e del conoscere in quell'avventura che deve sempre rispettare il proprio mandato. Perché la cornice è ancora quella della teologia e della teologia politica. Max Weber, presente a Versailles, vivrà la sconfitta spirituale provocata da quelle situazioni storiche ben precise, come un riverbero soffocante che annulla le proprie intraprese intellettuali così ne rimarrà fiaccato per sempre. 'Beruf', la chiamata all'appello interiore, la vocazione; 'Geist', la forza che anima quanto l'essere umano è in grado di presentare come azione, come proprio volto, come intendimento di rivelazione: tra questi due termini si snoda l'esperienza viva, l'Arbeit su Max Weber che il prof. Cacciari in questo testo vuole offrire, con intensità di competenze, di figure e di stile. Ilia Pedrina

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deserte le strade. Neppure un cane o un gatto in giro. E che silenzio! Se, però, volgo in alto lo sguardo, vedo la luna, una falce di luna che, almeno, mi fa compagnia, mi dà un po' di coraggio, mi dice: <<Non sei proprio sola, ci sto io>>. Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS)

DUE RAGAZZI E LA CRISI So che minuscola è la boutique in Centro come uno scricciolo fra corvi affamati. So che precario per loro è il lavoro: la crisi minaccia, inquieta la quotidianità. Ma al mattino lei scende le scale quasi danzando, lui chiude la porta di casa canticchiando. Giù, al cancello, il casco la moto… e via sulla strada, in velocità. Insieme. Incontro a una dubbia giornata ma insieme armati di sé avvinti nell’impatto col vento come nel quadro di un pittore futurista due vittoriosi amanti.

LA SERA IN PAESE Com'è triste la sera in paese ! Tutto chiuso, anche l'unico bar. Vuota la piazza,

Dirimpettaia dietro le tendine li guardo ed è nostalgia. Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017


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LIANG-STYLE POETIC LINES di Domenico Defelice A traduzione da una lingua all’altra è sempre un azzardo; diviene un autentico problema, quasi un dramma, allorché, addirittura, si debba tradurre, non dall’originale, ma da un’altra traduzione. È quanto capita sovente a noi presentando poeti cinesi; non conoscendo il Cinese, siamo costretti a tradurre all’Inglese, con la crescita, così, delle difficoltà nel rendere chiaro il dettato in Italiano e quanto più possibile le idee e le immagini che il poeta, coi suoi versi, vuol rappresentare. Liang Shenglin è già poeta un po’ ostico per natura, sempre alla ricerca di fondere il “ritmo interno” del suo dettato col “ritmo esterno” della realtà, sicché a noi diviene letteralmente acrobatico riuscire a seguire, a volte, le sue evoluzioni. Ad accomunare questi tre elaborati è il pensiero o la figura della morte. La troviamo in “Scomparso per la terza volta”, sia nella metafora del seme nel grembo della terra – dilaniato dal desiderio di vita fino ad esplodere nell’albero che fiorisce -, sia nella

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morte del cane (“Perdere (…) un cane”); la troviamo, ancora, esplicitamente in “La tomba” e, infine, come ombra e, quindi, come intuizione, in “Cena”, allorché il poeta accenna alla “lunga separazione”, al lungo tempo trascorso senza gioire, al debito in eterno mai saldabile: lontane, labili evocazioni, giacché ogni separazione e ogni assoluto impedimento sono come una morte temporale o definitiva. “Cena” è la più chiara e lineare delle tre composizioni, la più movimentata, l’unica in cui spunta il tocco ironico (“Bacchette, scusate!”). Le Bacchette sono personificate, sono compagne, commensali, addirittura figli, verso i quali si ha “un debito che mai potrà essere saldato”. Ecco qui, di seguito, i tre brani nella traduzione Inglese di Zahng Zhizhong e nella nostra libera versione in Italiano.

Missing for the Third Time Used to miss and yearn for a tree It breaks the earth and I drop aground with the selfsame soil Ever supported each other, but it breaks in its bloom In spite of tricks and treachery of the world, it fails To degenerate into the accomplice of a rope To miss and yearn for a dog It accompanies my alias name with its adult name Our loyalty surpasses 99% of the world But our life can not accompany for ever The world lacks a friend of betrayal To miss and yearn for one two three four This life boasts some appreciative persons to whom we are thankful in our heart One missing from them means another Added to fill my life July 16, 2020


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The Tomb

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I owe you a debt, which can never be paid

The sky is the tomb of the soul The sanctity forbids the exposure of the eagle’s body Not even an inch is elevated Not even with the slightest rancidity to approach Not even people The fairest tomb in the world There is no distinction of noble and ignoble souls here Even the light is so quiet and low-profiled Each tomb is alive with a blade of star-like green grass Brightness, without barren years Look at the sky which is tomb of the soul Then look at patches after patches of tombs in the world And you come to know the difference heaven and earth

May 25, 2020 (Translated by ZAHNG Zhizhong)

About the author: Liang-Style Poetic Lines, original name Liang Shengling, is a famous poet in contemporary China. A native of Nanning, Guangxi, he is now a freelance writer, and some of his poems and poetry criticism have been published on some magazines. He has ever been invited to attend the academic meeting on literary language held at Zhejiang Normal University, and he has published several collections of poetry such as A Nail Is Advancing. His poems, by inheriting the artistic tradition of combining “image” and “musicality” and absorbing the poetic theory and writing method of “new free verse” advocated by Liu Yilin, have gradually taken on the form by fusing “internal rhythm” and “external rhythm”—“Liang-style poetic lines”.

July 15, 2020 SCOMPARSO PER LA TERZA VOLTA Supper Supper with chopsticks You are take it for granted the air is like breath No! Like meeting after a long separation Sometimes life forgets to offer the dish Arrange the round table A moment for chopsticks, then two or three dishes Family atmosphere thickens all of a sudden Chopsticks, sorry! The meal Not enjoyed together for how long I move the chopsticks and they get the cooked vegetable to my lips And I feel touched all of a sudden Chopsticks, you are my children When you cannot choose I choose you You owe me nothing! In my life

Stanco di germogliare e desiderandolo ardentemente, un albero Spezza la terra e io mi incaglio nello stesso suolo Sempre sostenuti l’un l’altro, ma egli esplode nel suo fiore Malgrado i trucchi e il tradimento del mondo, fallisce Degenerare complice una corda Perdere e desiderare un cane Accompagna altrimenti il mio nome col suo nome adulto La nostra lealtà supera il 99% del mondo Ma la nostra vita non può accompagnarci per sempre Il mondo manca di un amico del tradimento Scomparire e desiderare uno due tre quattro Questa vita vanta persone riconoscenti alle


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quali sinceramente siamo grati Uno di loro che scompare Significa un altro Che riempie la mia vita

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Non mi dovete niente! Nella mia vita Vi devo un debito che mai potrà essere saldato

La tomba più bella del mondo Non c’è distinzione tra anime nobili e ignobili qui Anche la luce è così silenziosa e di basso profilo Ogni tomba è animata da un filo d’erba verde simile a una stella Splendente, senza anni sterili

Liang-Style Poetic Lines – vero nome, Liang Shengling – è un famoso poeta della Cina contemporanea. Nato a Nanning, nel Guangxi, è uno scrittore freelance e alcune delle sue poesie e critiche sulla poesia sono state pubblicate su alcune riviste. È stato invitato a partecipare agli incontri accademici sul linguaggio letterario tenutisi presso la Zhejiang Normal University e ha pubblicato diverse raccolte di poesie come A Nail Is Advancing. Le sue poesie – proseguendo la tradizione artistica di combinare “immagine” e “musicalità” e assorbendo la teoria poetica e il metodo di scrittura di “nuovi versi liberi” sostenuti da Liu Yilin – hanno gradualmente assunto la forma di fondere “ritmo interno” e “ritmo esterno” - “Linea poetica in stile Liang”. Domenico Defelice

Guarda il cielo, la tomba dell’anima Quindi guarda la selva di tombe nel mondo E conoscerai la differenza tra cielo e terra

QUELLE DONNE CHIAMATE MADRI

LA TOMBA Il cielo è la tomba dell’anima La santità vieta l’esposizione del corpo dell’aquila Neppure un pollice è alzato Neppure con la minima rancidità da avvicinare Neppure le persone

CENA Cena con bacchette Dai per scontato che l’aria sia come il respiro No! È come incontrarsi dopo lunga separazione A volte la vita dimentica di offrire il piatto Sistemo la tavola rotonda Un momento per le bacchette, due o tre piatti L’atmosfera familiare si anima all’improvviso Bacchette, scusate! Il pasto Per tanto tempo non abbiamo gioito insieme Muovo le bacchette e mi portano alle labbra la verdura cotta Mi sento improvvisamente commosso Bacchette, siete i miei figli Quando non puoi scegliere io scelgo voi

… e poi, manca la voce che blocca i passi nel profumo del detersivo per i pavimenti … e quell’odore di cuoio della borsa delle violette della crema Nivea che ti porta nel suo mondo coi fotoromanzi letti di nascosto per vergogna di pensare ancora all’amore … madri sono quelle donne che tra le onde che s’infrangono intorno a te t’insegnano la calma del cuore le cose che servono e il momento giusto a un ragazzo per radersi la prima barba. Salvatore D’Ambrosio Caserta


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LILIANA PORRO ANDRIUOLI POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN

BRUNO ROMBI di Tito Cauchi

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ILIANA Porro Andriuoli, autrice milanese dalla multiforme attività letteraria, ha anche svolto lavori di ricerca scientifica essendosi laureata in Fisica all’Università di Napoli; ha insegnato negli Istituiti Tecnici Industriali a Genova, città di sua elezione, dove, presumo, avrà avuto modo di conoscere il poeta di cui ci occupiamo. In apertura informa della sopravvenuta morte a Genova il 27 aprile 2020 del Poeta, mentre era in corso la stampa di Poesia intimistica e civile in Bruno Rombi. Spiega che questo saggio è diviso in due parti, la prima è la riproposizione aggiornata di una edizione avente lo

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stesso titolo riguardante opere degli anni del Novecento e la seconda riguarda opere del nuovo Millennio. Bruno Rombi era nato a Calasetta (Cagliari, il 22 settembre 1931). Dopo la Licenza Elementare ha acquisito, da autodidatta, l’Abilitazione Magistrale. Ha insegnato nelle Elementari per trent’anni in Sardegna e a Genova, città questa, eletta a sua residenza. Impegnato in molte attività culturali e pittore; collaboratore di molte riviste; grazie alla conoscenza di varie lingue ha tradotto altri poeti ed egli stesso è stato tradotto e ha potuto fare la promozione diffondendo le proprie opere all’estero. Numerosi sono i suoi estimatori e i premi ottenuti. L’Autrice nell’introduzione evidenzia che ciò che connota la poesia di Bruno Rombi sono “la complessità tematica e la varietà stilistica” che richiedono più di una chiave di lettura. Tuttavia due sono le marche che contraddistinguono la sua poesia, quella intimistica e quella sociale che spiegano il titolo del saggio. Come possiamo osservare esse riguardano la visione di sé della confessione e la visione esterna della denuncia. La Nostra passa ad esaminare tutte le opere in senso cronologico richiamandole in successione, a volte preannuncia quelle successive facendo risaltare lo stretto legame fra le stesse, come un unico lungo discorso; e noi ne seguiamo le orme. In chiusura di ciascuna sezione abbiamo le bibliografie critiche essenziali per dodici pagine complessive che rimandano alle recensioni pubblicate sul poeta sardo-genovese. *** Liliana Porro Andriuoli precisa che Bruno Rombi era poco più che ventenne quando esordisce con la pubblicazione comprendente tre poemetti di carattere intimistico, scritti in prima persona singolare, con il titolo I poemi del silenzio (1956). La pubblicazione successiva comprende quattro poemetti, I poemi dell’anima (1962), ove passa alla terza persona; in cui l’interesse non è più esclusivo ma si sposta agli altri con una sorta di pessimismo, privo “di fiducia nell’


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esistenza e di speranza nel futuro dell’umanità”. L’interesse si amplia con Canti per un’isola (1965) nella quale riscontriamo una viva partecipazione, come possiamo intuire, marcatamente civile di denuncia dei problemi che affliggono la sua terra, la Sardegna, con una punta di polemica ad iniziare dall’emigrazione cui sono costretti i suoi abitanti, ivi segnalando Serrau (credo Achille, poeta sardo) che “dall’esilio” ne anelava il ritorno. Nel parziale ritorno alle pieghe della sua anima matura una sorta di sintesi in Oltre la memoria (1975) suddivisa in tre sezioni, presentandosi meditativo e autobiografico, in cui dichiara d’avere tratto ispirazione e forza dalla moglie, non manca il disappunto per i mali della società. Dopo l’esperienza dolorosa di un intervento chirurgico subito, vede la luce Forse qualcosa (1980) in cui coesistono le due tematiche (intimistica e civile) e come ebbe a dire Silvano Demarchi convivono il privato intimo e quello di tutti gli uomini. Mentre di stampo allegorico e metaforico si presenta Enigmi animi (1980), una delle più originali sillogi ove le forme espressive particolari, come le “deformazioni verbali”, costituiscono una sorta di mimetizzazione, come rilevava ancora Silvano Demarchi (Bolzano, “Il Cristallo”, n. l, 1982), del nostro modo di vivere fra i tanti contrasti; qui coesistono le due anime del Rombi, quella introversa e quella estroversa. Gli eventi luttuosi portano il Poeta a meditare su L’attesa del tempo (1983) ove si rivolge alla propria Madre da poco venuta a mancare, in una sorta di muto dialogo in cui si interroga tra sé e il non sé fin quando raggiunge un equilibrio interiore ricostruendo “la propria identità di figlio”, afferma Dante Maffia, tenendosi accanto al cordone ombelicale. Alcuni anni dopo nello smarrimento difficile da superare, per la morte della Moglie che gli dava forza, si rifugia nei Riti e miti (1991), silloge suddivisa in due sezioni; è opera prevalentemente intimistica. Il ricordo dell’adorata Rosalia si fa drammatico, per superare tale momento varca il mito, per esempio quello di Perseo, Orfeo, Crono, Pallante: eroi che sfidano la

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morte; nel caso specifico di Orfeo, strappare al regno dei morti la propria moglie. La lacerante perdita si riversa in Un amore (1992) nell’illusione di strappare la moglie all’oblio, la morte ne ha sublimato la memoria. Bruno Rombi, in conseguenza del nuovo stato psicologico in cui viene a trovarsi, pubblica L’arcano universo (1995); qui transitano le due tematiche, intimistica e civile, trovando posto la celebre frase di Hobbes: “homo homini lupus). Una “malinconia nostalgica” avvolge il Poeta, che enfatizza tale sentimento con l’iterazione di predicati adeguati. L’uso sapiente dei predicati svolge le funzioni auditive e visive (sonorità netta con assenza di mezzi toni” e colori decisi come ”riflessi che guizzano”), è ciò che “spiega il suo cammino umano e civile, inserendolo in una scelta che afferma la totalità della sua partecipazione di tipo civile ed esistenziale”, come afferma Emanuele Schembari (in Pomezia Notizie, novembre 1996). Seguono otto canti nettamente di carattere civile, in Otto tempi per un presagio (1998), nei quali accusa i mali della droga e la violenza estrema esercitata per l’egoismo esasperato. Troviamo riferimenti danteschi e ad Eliot nella denuncia dei valori perduti da parte della nostra società e l’auspicio di una rinnovata umanità. *** Liliana Porro Andriuoli passa alle opere del Terzo Millennio che si apre con A Costantino Nivola (2001), conterraneo di Bruno Rombi, scultore nato da famiglia umile, “esaltatore della Madre Mediterranea”, con il quale condivide il sentimento dello sradicamento dalla propria terra, come osserva nella prefazione Ugo Collu. Dieci anni dopo Oliver Friggieri scriverà che la Sardegna rappresenta per il Poeta la madre e l’amore. Allo Scultore, forse proviene dal padre muratore la manualità nel dare forma alla materia solida, divenendo noto all’estero così che negli USA ricevette incarichi di insegnamento in prestigiose Università. Opera contemporanea è Il battello fantasma


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(2001) il cui tema predominante è il viaggio in cui può contemplare a partire dalla sua infanzia ciò che dà un’impronta del senso della propria vita. Quale pittore, così come è capace con rapide pennellate di dare immagini nette, in maniera analoga è capace di trasportarci a visioni di bellezza della vita come sprazzi di pessimismo. Come in Arthur Rimbaud avviene nel Poeta una sorta di identificazione con il battello, rimasto alla fonda, in attesa di condizioni migliori. Vive fra il “rimorso per non avere saputo accettare gli errori commessi” e “la vergogna per non avere avuto il coraggio di confessarli”. Nell’immagine del fiume o del mare possiamo comprendere la mutevolezza della vita, quale fluido capace di assumere qualsiasi forma. Elio Andriuoli, all’indomani della pubblicazione, intravvede nell’opera “un viaggio nel segreto dell’io” per scoprirvi come il viaggio dell’Ulisse dantesco. Ma segna anche “la metafora della nostra esistenza”, come afferma Giancarlo Pardini. Il tema del viaggio è un topos della memoria, è il nostos come lo definisce Liana de Luca. Dal disastroso evento 26 dicembre 2004 che sconvolse l’isola di Sumatra e i Paesi che si affacciano sull’Oceano Indiano causando circa trecentomila vittime, prende le mosse Tsunami - Oratorio per voce solista e coro (2005), marcatamente civile. Evento che lascia tanti interrogativi sul perché della vita e della morte. Si presentano i temi sulla solidarietà; il coro è caratterizzato, come osserva Silvano Demarchi, dal plurilinguismo che vi affiora. Dal tragico evento di cui sopra passa alla Guerra del Golfo e il dolore per i molti morti innocenti si acuisce: Paesi ricchi contro Paesi poveri. Dalla voce assorta e contemplativa nasce Come il sale / Pecum sarea (2007), versi che il Poeta dice possono “svanire” nell’oceano che bagna le coste del Passo di Calais in Francia. Nell’alternarsi dei due temi si rivolge al figlio Luca cresciuto senza la madre sotto lo sguardo severo del padre, confessando d’aver agito in tal modo per temprarne il carattere. Adesso “Luca è divenuto adulto e il padre è invecchiato, e così ora è il figlio che deve proteggere il genitore”. Direttamente scritta in francese, pubblica

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la silloge Fragments de lumière (2010), di carattere prevalentemente intimistico; versi nei quali si alternano momenti di pensosità e frammenti di luce, di “abbandono al canto”. In occasione del compimento dei suoi ottanta anni, abbiamo Il viaggio della vita (2012), silloge che descrive un percorso di bilanci della sua esistenza tra allegria e tristezza. L’età segna una “profonda crisi esistenziale” che si riversa ne La saison des mystères (mysterium tremendum) (2013), in cui Rombi diventa l’alter ego dell’Angelo di Rilke. L’angelo che subisce la metamorfosi, trasformandosi in un giovane uomo che, scrive Rombi, “va in cerca della vita”; una sorta di novello Dante che parla con i morti, il proprio padre, i morti in Sardegna per causa delle esercitazioni militari in cui si usano ordigni radioattivi che mettono a rischio la salute dei residenti. Abbiamo perduto di vista il benessere dell’umanità sempre con la mira del proprio ego. Trae conforto dall’immagine della moglie Rosalia già morta. Il commiato dalla vita che sente approssimarsi risalta in Occasioni (2017) come “senso del congedo” estremo, affrontato


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con serena aspettazione, con la fede che ci assiste, ma anche con lo spettro della solitudine, cui oppone come antidoto l’amore per la natura, l’amore per coloro che soffrono, per la propria terra disattesa dalle autorità amministrative. Nei momenti di pensosità si chiede con la silloge Quando muore un poeta? / Cand moare un poet? (2018) per svegliarsi da un certo torpore. Si risponde che un poeta muore quando per lui il cielo non ha più colore, ma ovviamente sa che le alternanze attraversano la vita quotidiana di tutti gli esseri umani e sono perciò transitorie. Il motivo del viaggio è del resto comune a molti poeti, fra cui Giorgio Caproni che l’affronta con il treno attraverso il quale si assiste a un paesaggio mutevole. Infine, si può dire che all’alba dell’ultimo giorno, ci lascia la silloge La nostra follia suicida / Sinucigasa noastră nebunie (2019), consapevole di sentirsi vicino all’ultimo viaggio; ciò che, a bilancio in corso, lo trasforma in un fustigatore dei costumi deviati, il che genera una visione pessimistica della vita, una sorta di amaro in bocca. *** Penso che Liliana Porro Andriuoli ci abbia offerto un saggio da cui possiamo comprendere che l’itinerario poetico di Bruno Rombi ci conduce a capire come l’evoluzione dell’autore sia la logica conseguenza della maturazione di uomo e di poeta in modo lineare. Il Poeta, un uomo fattosi da sé, ha allargato le proprie conoscenze ad ampio raggio. Il linguaggio, cui Egli mostra molta cura, può servire come “chiave di lettura per guidarci nella poesia”. Già quanto premesso ne delinea il profilo, perciò abbiamo voluto seguire l’Autrice nella sua rassegna di cui si avverte la freschezza espositiva, segno che suggerisce tempi ravvicinati nell’esame delle opere del Rombi. Mi sono limitato nelle citazioni per non appesantire la presente relazione, ma molto di più ci sarebbe ancora da aggiungere. Purtroppo la stampa sbiadita del libro ha ritardato il piacere della

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lettura. Ancora due parole per comprendere il processo evolutivo nella poetica di Bruno Rombi. Teniamo presente, qualora ce ne fosse bisogno, che il saggio è sostenuto come una tesi, perciò le due anime di cui al titolo, Poesia intimistica e civile in Bruno Rombi, sono da considerarsi come prevalenti ma non esclusive. Interessante diviene osservare il suo percorso sotto l’aspetto psicologico; come spesso si verifica per tutti, il Poeta si guarda dentro (il proprio Io), poi vicino a sé (Lui), poi ancora si rivolge al suo prossimo lontano (Loro), poi ancora rivolge lo sguardo alla moltitudine planetaria (Tragedie come le calamità naturali e le Guerre). Gli eventi funesti lo fanno ritornare in sé e ascolta la voce interiore parlando alla Madre e alla Sposa che non ci sono più; e se prima si prendeva cura del Figlio adesso deve essere il figlio a prendersi cura di lui (salvo che mi sia sfuggita la presenza del padre di Bruno Rombi, mi sembra che tale figura costituisca una assenza). Infine, nell’alternarsi delle vicende umane personali e universali, l’idea della morte cristallizza l’ultimo pensiero del Poeta, che ne conclude l’esistenza, temo in solitudine. (Lavinio, agosto 2020) Tito Cauchi LILIANA PORRO ANDRIUOLI - POESIA INTIMISTICA E CIVILE IN BRUNO ROMBI Edizioni Il Geko, Genova 2020, pp. 144, € 12,00

CORRONO I GIORNI Corrono svelti i giorni, come quei viaggiatori preoccupati di giungere in orario al treno che li aspetta alla stazione. Hanno con sé bagagli pesanti di memorie e di dolore, ma il loro volto lieto rivela la speranza in un tragitto tranquillo e senza intralci. Elisabetta Di Iaconi Roma


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ALESSANDRO POERIO, GLORIOSO PATRIOTA E GRANDE POETA DEL ROMANTICISMO di Leonardo Selvaggi I APOLEONE quando aveva oltrepassato le Alpi ed era giunto in Italia sosteneva che gli Italiani erano poltroni, non era affatto vero. Erano anime forti, molto peso e stimolo avevano avuto sul costume e sulla maturazione del carattere dalla commedia di Carlo Goldoni, dalla satira di Parini e dalle tragedie di Vittorio Alfieri. Dopo la caduta di Napoleone ci si rivolge alla Russia vittoriosa chiedendo unione e indipendenza sotto i Savoia. Gioacchino Murat in un proclama da Rimini promette la costituzione. Arrivano consensi da Milano con il poeta nazionale Alessandro Manzoni. A Napoli c’è tutto un sommovimento liberale. La repubblica partenopea aveva evidenziato virtù civili e patriottiche, aspirazioni e fermenti; costituiva per gli anni futuri un’attestazione della nobiltà fattiva

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dell’anima italiana. Statisti austeri e patrioti hanno saputo affrontare il patibolo, considerato non luogo di dolore, ma di gloria. Si pensa alla Patria e alla libertà. Ricordiamo il sacrificio di tanti illustri, fra cui un grande della Basilicata Mario Pagano, giurista. Eleonora Fonseca-Pimentel impone al popolo di non plaudire al Re spergiuro. Tanti esempi di martiri che hanno preparato l’avvenire, trasmettendo ardimenti di vendetta e certezza di trionfo. In questa atmosfera di sacrifici e di speranza nasce a Napoli il 27 agosto 1802 Alessandro Poerio. Il padre Giuseppe, giurista di vasto ingegno aveva lottato con i liberali del ’99. Al ritorno dei Borboni viene arrestato e condannato a morte, graziato in seguito, ma seppellito nella fossa di Favignana, da cui viene tratto da uno degli indulti di Re Ferdinando. Fino al ’48 appare un leggendario capostipite di una famiglia di eroi. Con la reazione del ’15 covano i pensieri di libertà e di indipendenza e scoppiano con intenti costituzionali in Sicilia, a Napoli, in Piemonte, a Milano. L’Austria li soffoca. Dopo dieci anni nuove insurrezioni a Roma, nell’Umbria, nelle Marche, in Romagna, a Bologna, a Parma, a Modena e nel Piemonte. Sono ancora represse, nuovi patiboli si alzano per altre vittime. Gli insuccessi ammaestrano, stimolano. Mazzini e Gioberti coordinano tutti gli sforzi patriottici e avviano il popolo ai moti di libertà del ’48. Sempre troviamo in prima fila i Poerio. Nel ’15 Giuseppe partecipava alle aspirazioni unitarie di Murat di cui era stato fedele ministro. Dopo gli insuccessi deve esulare da Napoli a Firenze. Ritorna in Patria nel ’19, nel ’20 scoppia il moto insurrezionale, si ottiene la costituzione, viene eletto deputato. Esalta l’ardore della spedizione di Guglielmo Pepe contro l’Austria. Quando Re Ferdinando ritira il giuramento Giuseppe Poerio fieramente protesta, mantenendo l’orgoglio civile della rivoluzione. Il figlio Alessandro, abbandonato un ufficio acquistato al ministero degli Esteri, lo troviamo alla battaglia di Rieti con pochi soldati del generale Ruffo, respinge le cariche della cavalleria nemica e nella resistenza di Salerno salva il


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decoro militare della rivoluzione e più che altro difende l’onore. Tutti i liberali perseguitati, banditi da Napoli e da tutta l’Italia. Esuli nell’Austria, in Moravia. Giuseppe Poerio con i figli è a Gratz. Amnistiati tutti i fuoriusciti possono rientrare in Patria, ma non nel loro paese natale. I Poerio, dopo una breve dimora a Trieste, riescono a raggiungere Firenze nell’ottobre del ’23. Vi rimangono alcuni anni, più liberi e tranquilli. Mentre ai figli e alla moglie viene concesso il ritorno a Napoli, è negato a Giuseppe e ad Alessandro troppo temuto. Neppure possono rimanere a Firenze, sfrattati assieme al Giordani, dalla Toscana, dove si fa sentire l’assolutismo, riparano nel novembre a Parigi a godere le libertà costituzionali create dalla rivoluzione di luglio. Nel ’31, quando si hanno notizie di nuovi moti italiani, Alessandro Poerio d’accordo con il generale Pepe, volano a Marsiglia, si imbarcano e arrivano nel Modenese per sostenere quella rivolta che aveva concesso momenti di libertà all’Italia centrale, ma subito soppressi prima che essi giungessero. Alessandro è costretto a rimanere ancora a Parigi, solo nel ’35 ritorna a Napoli, ove è cospiratore anche il fratello Carlo, arrestato nel ’37 per aver partecipato ai movimenti insurrezionali di Siracusa e di Catania. Nel ’44 il moto di Cosenza che porta al sacrificio nel Vallon del Rovito i fratelli Bandiera lo fa ritornare in prigione. Liberato per poco, di nuovo arrestato per aver stimolato le sommosse di Reggio e Messina. Dolori ed entusiasmi si fanno fecondi di eroica abnegazione. I Poerio, volti tutti con spirito di sacrificio, con soavità, con umiltà e gioia alle idealità patriottiche più pure. Una grande famiglia, in mezzo alla quale domina e illumina l’arte e l’azione l’anima frenetica di Alessandro. II I moti rivoluzionari, le partecipazioni alle sommosse, alle spedizioni lo rendono sempre più stremato. I suoi mali hanno un aggravamento di giorno in giorno. Nell’esilio a Gratz le sue malattie si fanno più manifeste. Forte miopia, sofferenze agli orecchi, febbri frequenti accompagnate da agitazione nervosa e

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da depressioni. Sia lo stato di salute che le turbate condizioni politiche hanno influenzato sull’indirizzo degli studi di Alessandro Poerio. Le scuole in Napoli vivono nell’incertezza. Nel 1799 i migliori ingegni muoiono sul patibolo. L’attività letteraria che ferve nell’alta Italia a Napoli non arriva. Qui perdura una certa aria di decadenza, lasciata in forme lirico-musicali dal Tasso, Metastasio, Filicaia e dal Marino. Quando Gabriele Rossetti primeggia con la poesia patriottica e Basilio Puoti, sostenitore delle dottrine puristiche, risolleva l’ambiente letterario fondando una scuola di cui allievi sono il Settembrini e il De Sanctis, Alessandro Poerio si trova a Firenze in esilio, ove pensa da sé ad istruirsi secondo le proprie inclinazioni. Ingegno vivacissimo, meditativo, innamorato delle lingue classiche, della bellezza dell’antica poesia, della grandezza civile di Roma. Convinto che gli studi, le lettere, la poesia possono dare impulsi alla redenzione della Patria, cerca in ogni modo di offrire le proprie energie alla elevazione e all’incitamento del popolo oppresso. Come Pietro Colletta sostiene che la letteratura italiana ha bisogno di studi storici e di ideologia. Le antiche storie sono ricche di esempi ammonitori delle grandi azioni civili, gli ammaestramenti alla vita rinnovata dei popoli vengono dalle scienze giuridiche e sociali. Si avvicina direttamente ai documenti relativi alla Rivoluzione francese e alla Costituzione inglese con la conoscenza delle due lingue. A Napoli ha conosciuto il Monti, a Firenze con il padre ha sentito parlare dell’Alfieri dalla contessa d’Albany. L’azione lo fa vivere, dimentica le sofferenze fisiche partecipando alle rivolte. Due sono le vie che ha percorso per tutta la sua vita, la Patria e la poesia. Alessandro Poerio in esilio si dedica allo studio e nel ’23, quando torna in Italia, si dirige in Germania per maggiori istruzioni. Si dà alle ricerche filosofiche e filologiche, si ferma ad Heidelberg, a Monaco, a Limar dove conosce il Goethe che gli fa lusinghieri elogi per le sue traduzioni di “Ifigenia” e della “Sposa di Corinto”. Giovane ventenne così ha modo di venire a contatto con uomini di ingegno sia in Germania che a Parigi. Con i


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viaggi e l’amicizia di grandi e liberi spiriti cerca di accrescere il proprio pensiero. Considera vicine all’Italia la Grecia, la Polonia, nello stesso modo anelanti alla libertà e all’indipendenza. Nel ’26 si avvicina ai collaboratori dell’ “Antologia” in Firenze e frequenta con Pietro Colletta e Carlo Troja il Gabinetto di Vieusseux, ove conosce G.B. Niccolini, Leopardi, Capponi, Tommaseo, Manzoni, Giusti. Grandi artisti e protagonisti del rinnovamento civile d’Italia. Ha modo così di elevare i suoi ideali, di affinare la sua poesia. Ai tempi di Alessandro Poerio è finita la lotta fra classicisti e romantici, trionfa Alessandro Manzoni correlativamente con la nuova coscienza nazionale. Nei progressi della scienza si vede una rigenerazione dell’umanità intera contro il materialismo. La morale cristiana, l’idealismo trovano la base nei principi religiosi e patriottici. Isolato sta il pessimismo irreligioso di Leopardi, che per la grandezza artistica non si chiude in una corrente letteraria, è al di sopra di ogni differenziazione, la sua poesia sublime supera ogni confine. III Alessandro Poerio tra i più originali poeti del Romanticismo con liriche dalle profonde risonanze interiori e pervase da una sottile melanconia. Per la sua fervida ispirazione etica e cristianamente patriottica si è creato una propria individualità letteraria, educato agli antichi esempi di Atene e di Roma e influenzato durante i viaggi dalle idee contemporanee. La sua poesia è animata da fede e da patria carità, si accosta alla trasparente bellezza dei canti leopardiani, straordinari per i versi densi di fascino, in ascensione mirabile. Per le sue convinzioni e predilezioni è amico di due grandi nemici, Giacomo Leopardi e Nicolò Tommaseo. Il Poerio ammirava Leopardi già da molto, lo aveva conosciuto a Firenze nel ’27 e gli si era legato con affetto, al Tommaseo, conosciuto pure a Firenze, si unisce con stretta amicizia nel ’34 a Parigi. Poerio stimato per i suoi versi vigorosi ed eleganti, Tommaseo per le sue idee filosofiche e le idealità religiose e patriottiche. Il Leopardi per Tommaseo è uno

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scrittore d’arte, ma di natura gretta per il fatto che nega Dio e la bellezza del Cristianesimo. Il Poerio si rattrista tanto pensando alla reciproca avversione che intercorre fra due spiriti grandi per il profondo dissidio ideale che li separa. Si può dire che Alessandro Poerio nella sua opera poetica, meditata, piena di profondità e di dolcezza fonde gli aspetti contrastanti che risaltano dal confronto ideologico e artistico fra il Leopardi e il Tommaseo. Anche fra Leopardi e Poerio grande differenza di contenuti, per il primo il dolore è consolatore, ispira canti di suprema finezza e nel contempo angosciati, per l’altro, invece, conforto e orgoglio che divengono sentimento eroico. Le sofferenze fisiche per il Leopardi fanno la vita insopportabile, per il Poerio si dimenticano, come già detto, con l’azione di combattente. Tormentati tutti e due da un amore infelice, che per il Leopardi è disperazione, per il Poerio è incitamento a fare bene. Il Recanatese riempie la sua opera lirica di sé stesso, il Poerio non è individualista, per mezzo della poesia ama il progresso che mira alla elevazione dell’umanità, è poeta e uomo del Risorgimento, coopera con gli insorti, ama la Patria, esprime volontà ostinata, vede un avvenire di rinascita. Il Leopardi irride a “Le magnifiche sorti e progressive” del popolo, affermate dal Mamiani, non ha speranza quando parla del dolore nazionale nelle canzoni patriottiche. IV Il Poerio non raggiunge l’elevatezza poetica che desidera per mancanza di tranquillità, non ha tutte le energie, essendosi spinto con irruenza nelle battaglie contro il dispotico potere dell’Austria. La sua poesia non può essere definita solo patriottica, nonostante ci siano dei difetti di forma, riflette la vita, le sue ambizioni eroiche, il bisogno di un popolo in un momento storico. Mira alla vittoria. L’altezza del pensiero fa grandi le sue liriche. Per varietà fra i più noti romantici. Contenuto costante ed educatore il confronto fra le antiche glorie e le miserie d’Italia nel suo tempo, come per il Leopardi. Eloquenza poetica con idee politiche e filosofiche. Le poesie politiche hanno


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versi impetuosi, immediati, efficaci. L’espressione si rivela spesso dura, poiché nei primi anni si era dedicato più alle lingue straniere che all’italiano. In genere la sua poesia ha finezze intime, gentilezza, aristocrazia di affetti. C’è del misticismo e della religiosità. Le cose comuni non le stravaganti considera, l’originalità viene proprio da questo. Terenzio Mamiani dice che la poesia di Alessandro Poerio è proprio fatta per il popolo e la Patria. Stimata pure da Marco Minghetti. Al popolo piacciono le poesie espresse con minore soavità, ma con violenza. Le poesie più grandi quelle in cui l’influenza del Leopardi è più forte. Allora abbiamo infinita delicatezza, tenuità, diffusa malinconia. Emozione profonda e tanto movimento lirico notiamo nell’epicedio scritto per il poeta infelice. Dell’amico amato con sincero trasporto ammira la sublimità e vede, nella disperazione, nel dolore inconsolabile, nel senso della vanità del tutto, presente, come sottile luce, il sentimento patrio. Per Alessandro Poerio la missione del poeta consiste sempre nello stimolare la Patria a risorgere, nell’odio contro la tirannide. Ammira Arnaldo da Brescia, apostolo e profeta, avverso al potere temporale, causa di corruzione. Nel rifiorire degli studi, nelle tradizioni gloriose, nella poesia di Dante gli stimoli animatori del Risorgimento. Un’illuminazione di tutto il glorioso passato: Petrarca, Andrea Doria, Tommaso Campanella. Occorre insegnare agli Italiani a conquistare il loro diritto, adempiendo ai doveri cui richiama la storia. Il Poerio come Vittorio Alfieri ed Ugo Foscolo si ispira a Santa Croce per le grandi gesta patriottiche. L’eroe e il poeta vanno insieme, come l’intelletto e il cuore, non si può separare lo scrittore dall’uomo. Il Poerio continua gli studi a Napoli, nel ’35 impara il sanscrito e mantiene l’amicizia con i compagni di fede e di esilio. Si riprendono le agitazioni liberali con il fratello Carlo, che esercita l’avvocatura con il padre, mentre è agguerrito esponente del movimento costituzionalista napoletano. V Alessandro con la sua franca parola è temuto

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dalla polizia che lo sorveglia, ma senza riuscire a reprimere i suoi impeti. Uno dei patrioti più importanti della sua città. Siamo negli anni in cui Leopardi è in fin di vita alle falde del Vesuvio. Poerio quando non è impegnato nelle armi ritorna alla poesia. Pensa di continuo all’avvenire della Patria, incontra il poeta lucano Nicola Sole e tanti giovani che erano stati educati dal Puoti ad amare l’Italia, seguendo le sue lezioni. Il comune ideal fermenta con esaltazione. Nel ’48 nella sua casa tutti i patrioti amici si riuniscono per chiedere la costituzione del ’20 considerata sospesa, dopo la rinnegazione del Re. Si ha il governo costituzionale quando giunge a Napoli la notizia della carcerazione a Venezia di Nicolò Tommaseo. Dopo Napoli costituzionali sono Roma e il Piemonte. Milano e Venezia sono libere. Tutta la penisola insorge contro lo stesso nemico. Alessandro Poerio parte per la guerra con Guglielmo Pepe, mentre il fratello Carlo fa parte del governo di Napoli. Suo padre Giuseppe è morto. Anche lo zio e il cugino prendono le armi. La madre Carolina si trova sola, senza famiglia, ma sempre serena e orgogliosa dei Poerio, tutti dediti all’amore della Patria. Gli animi nobili presi in uno stesso afflato di idealità, Italiani e stranieri si trovano legati insieme. Attorno ad Alessandro Poerio c’è l’Italia intera e i paesi europei che vivono oppressi frementi di libertà. Come un’irradiazione da diversi focolai, gli insorti inneggiano con uguali slanci alle idee sublimi dell’indipendenza. Salpa a bordo dello “Stromboli” seguito dalle benedizioni della madre, cui poco dopo scrive per consolarla e per raccomandarle di spedirgli una sua piccola edizione dei classici italiani e un bel Tacito in elzeviro, che aveva dimenticati al momento della partenza. Li vuole avere come compagni durante la guerra. Intanto il Borbone il 15 maggio nega la costituzione, richiamando a Napoli Guglielmo Pepe che, dimessosi da generale borbonico, disubbidisce al Re traditore, giurando di combattere per la causa italiana. Poerio e Pepe giungono a Venezia con un migliaio di uomini, provenienti da ogni parte d’Italia, oltre che da Napoli, festeggiati, pronti per scontrarsi contro


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l’Austria. Il 7 luglio il colonnello Ulloa è al forte di Cavanella d’Adige occupato dagli austriaci, il Poerio si apposta nel luogo più pericoloso, gli si dice di allontanarsi, ma lui è entusiasta di stare nel punto più vivo del combattimento. Subentra un periodo di indugio. Si aspettano le decisioni della diplomazia europea. I Veneziani si sentono isolati, si preme sul governo per prendere l’iniziativa delle offese. Ordinata una piccola sortita dal forte di Treporti per scacciare gli austriaci che vi erano trincerati. Il colonnello Ulloa e il capitano Cosenz partono senza avvertire Poerio, molto infermo. Il poeta è preso sempre dal fervore di agire per non sentire i suoi mali: ha quarantasei anni, miope e sordo, le sue malattie e gli intimi dolori di infelice passione amorosa tenuti nascosti. Si sente amareggiato, sdegnato piange davanti al generale Pepe. Non si fa convincere, insofferente e fremente, raggiunge la spedizione, correndo in mezzo alla nebbia, cade nel fiume lì vicino sempre per la corta vista, viene tratto a fatica. Poerio è felice.

VI Nella notte del ‘27 ottobre l’esercito italiano di Venezia, costituito da veneti. lombardi, napoletani, romani, bolognesi, ungheresi e polacchi si dirige verso Mestre, sede del quartier generale austriaco. Il Pepe dà ordine di attaccare, accorre l’Ulloa che slancia i battaglioni all’assalto alla baionetta. Il combattimento si fa ostinato e disperato. Il nemico è costretto alla fuga. Si rinnova la battaglia per le vie di Mestre, con lotta terribile, corpo a corpo, per snidare gli austriaci di casa in casa. Si combatte strenuamente contro i Croati, disputando il terreno palmo a palmo. Molti soldati del nostro esercito vengono uccisi. Gli Austriaci si ritirano nella piazza. La colonna di Ulloa attacca di nuovo, il nemico fugge verso Treviso. Mestre è occupata dai Nostri. Suonano a festa le campane della città e dei villaggi vicini. Anche il cielo si schiarisce, il sole apparso dalla nebbia quasi esulta incoronando la vittoria italiana. Alessandro Poerio è in estasi per aver partecipato alla battaglia, lo vediamo immerso

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nel suo sangue, colpito al ginocchio. La cronaca diventa epopea. Era con Ulloa andato all’assalto della stazione, subito una palla lo raggiunge. Ha paura di doversi fermare, ma quando vede che dalla ferita non esce sangue, continua ad avanzare. Si fa animatore con i compagni all’attacco più feroce. Con ardore, infiammato dal suo ideale, non si accorge di andare a finire in un gruppo di nemici, tenta di lottare, ma altri colpi di fucile gli schiantano il cuore. Grida vittorioso, un austriaco gli strappa la spada e con questa stessa lo batte al capo. In una casa vicina gli viene amputata la gamba. Con intima soddisfazione, con eroismo segue l’operazione, continua legato a cavallo con una sola gamba a combattere. Il 3 novembre muore senza leggere la soave parola consolatrice della madre, neppure lo scritto che il Tommaseo gli ha mandato da Parigi, l’amico, il maestro, il compagno d’arte e d’amor patrio. La sua morte è un lutto immenso di tutta Venezia. I funerali del poeta, guerriero e martire, celebrati sotto le volte d’oro di San Marco. Tutti vicini a Lui, Daniele Manin, Enrico Cosenz, Ulloa, Pepe. Le donne veneziane lo cospargono di lacrime e di fiori. Accolto da Pier Alessandro Paravia per fraternità letteraria e patriottica, è sepolto nella tomba di sua famiglia nel cimitero di San Michele. Sul sepolcro del poeta-soldato inciso l’epitaffio di Luigi Carrer. Di lì a poco il Municipio ha eretto a Lui morto a Venezia e ai fratelli Bandiera giustiziati a Cosenza un monumento presso la piazza di San Marco. A Napoli gli amici di Alessandro partecipano al dolore della madre, Francesco Saverio Arabia con furore patriottico e Nicola Sole cantano in dolci versi il caduto eroe. Non è stato dedicato nessun monumento alla sua gloria, nonostante le proteste di Vittorio Imbriani, dal Re borbonico ritornato alla tirannide. La libertà è fiamma che sfolgora da tanti animi, tutti uniti, spiritualità che aleggia invisibile, ma persistente e immutabile nella sua purezza in ogni luogo, forza immane che travolge tutte le barriere, che crea la storia e illumina per l’eternità il tempo infinito dell’Umanità. Sul sepolcro dentro cui adagiata nelle ossa e nella carne


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sempre fervide di azione e di poesia troviamo la figura immacolata, serena, rifulgente di Alessandro Poerio, il salice piange la sua scomparsa e i cipressi alti e solenni nel cielo intonano inni alla sua gloria. Sentiamo più dolci e di delicata trama come fatta di trine i suoi versi canori, romantici, pieni di rima risonanti diffondersi alati, diafani, indistruttibili voci per l’atmosfera infinita. Leonardo Selvaggi

TEPORE NOTTURNO Oh il tepore del corpo che ancora odora del notturno abbandono… Bellezza fuggitiva, giovane colma di linfe, occhi di fata. Opime e pingue mi dormirai in cuore -petalo, dedalo, corallo. Rocco Cambareri Da Versi scelti, Guido Miano Editore, 1983.

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E sappi, Tony, che oggi come ieri e come sempre resti nel mio cuore. Mariagina Bonciani Milano

VERSO LA FOCE Tranquilli, amici, non c’è fretta, né ansia, tanto andiamo tutti, inevitabilmente, chi prima, chi dopo, verso la foce. Il fiume della vita può fluire a volte più pesantemente, e per troppe dolorose sventure si può anche intorbidire. Ma alla fine tornerà trasparente come filo gelato di sorgente quando si fonderà con un mare aperto e profondo, senza più il limite, laggiù, di un orizzonte. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013

SEMPRE, SEMPRE … QUELLO, Sì… Adesso sei tu che nel sogno mi cerchi e mi chiedi se ancora io sono di te innamorata. Per questo lungo mio silenzio, Tony, non credere che ti abbia io scordato. Il vecchio mondo, Tony, che hai lasciato si è fatto ormai convulso e più complesso, e la senilità, che il tuo trapasso precoce ti ha purtroppo risparmiato, rendendomi più lenta mi ha impegnato più a lungo negli affanni quotidiani e del tranquillo poetar, privato. Ma nonostante ciò è sempre viva la tua memoria in me, ed il mio amore.

Ero bambina e non amavo la neve, stupore del mio paese, strade fatate, palme misteriose, gelato di vincotto nel bicchiere… Oggi ancora non amo la bella neve che tradisce le gemme, i randagi, i passeri neri. Ma il soffice gelato di mia madre tutta rossa di balcone, mia madre danzante e giovane come la neve, quello, sì, lo vorrei ancora! Ada De Judicibus Lisena Da Omaggio a Molfetta, Edizioni Nuova Mezzina, 2017


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“UNA VERA ARTE” (Matteo Collura) -8-

DEDICHE a cura di Domenico Defelice “Al carissimo Domenico Defelice/OMAGGIO/con tanta stima/e immensa riconoscenza./Roma, Natale 1983/Ettore Alvaro” (suo volume: Patannostru e Avi Maria Libera interpretazione e commento in dialetto calabrese, Centro Studi e Divulgazione “Luigi Capuana”, Roma, 1983). *** “A/Domenico/amico indimenticabile/RoccoC./Vibo - Marzo ‘84” (volume: Rocco Cambareri - Pensieri del sabato, Carello Ed., 1983). *** “Affinché il Sacrificio/dei bambini e dei giovani/vittime innocenti/degli errori d’ogni tempo/costituisca/monito d’amore/e non di odio,/di pace/e non di guerra/Piero Ocello/A Mimmo De Felice/con affetto/certo che raccoglierà/questo grido d’amore/e di (parola non chiara)/P. Ocello/-12.4.85” (volume: Pino Ocello - …Di la furca a lu palu! di Antonio Martino, Ed. EDI-CIPS). *** “A Domenico Defelice/con amicizia/Gioia Tauro 16/2/1986/Antonio Orso” (suo volume: Maria di Magdala, Centro Studi Medmei, 1985).

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*** “A Domenico Defelice/con stima./Gioia Tauro 16/2/1986/Antonio Orso” (suo volume: Madrigale, Centro Studi Medmei, 1985). *** “A Domenico Defelice/con simpatia./Gioia Tauro 16/2/1986/Antonio Orso” (suo volume: Le ultime ore di Giacomo Leopardi, Centro Studi Medmei, 1986). *** “A Domenico Defelice/con simpatia e stima./Gioia Tauro 16/2/1986/Antonio Orso” (suo volume: Il Poverello di Assisi, Centro Studi Medmei, 1986). *** A Domenico Defelice/con stima ed amicizia./Gioia Tauro 21.3.1986/Antonio Orso” (suo volume: Gesù di Nazareth, Calabria Letteraria Editrice, 1986). *** “Al dott. Domenico Defelice/con tanta cordialità./Gioia Tauro 14.9.1986/Antonio Orso” (suo volume: Nel mare delle sirene Amore e morte di un pesce spada, poemetto, Centro Strudi Medmei). *** “Al chiarissimo/prof. Domenico Defelice,/fondatore e Direttore di “Pomezia-Notizie”/con tanta stima e cordialità./Giffone 7.11.1986/Corrado Ettore Alvaro” (suo volume: Hjàcca l’arba, Ed. Centro Studi Medmei, 1986). *** “Al carissimo Amico/Domenico Defelice/con tanta stima,/affetto e riconoscenza/offro - con gioia -/queste mie ricerche/linguistiche della/nostra terra -/Roma, 15 giugno 1988/Ettore Alvaro” (suo volume: Fiori, piante, animali, oggetti e mestieri nella terminologia della provincia di Reggio Calabria, Ed. Brenner, 1988). *** “A Domenico De Felice/con ammirazione e stima/Gioia Tauro 15.XI.1988/Antonio Orso” (suo volume: Giuseppe Lomoro pluridecorato al V. M., Edito Bieffe, 1988). *** “Al carissimo Amico/Domenico Defelice/che


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con tanto amore/mi segue nel cammino/della poesia - questi/miei canti - omaggio/alla “mia Galatro”/Affettuosamente -/Roma, luglio 89/ Ettore Alvaro/E’ possibile una piccola recensione? Grazie! EA” (suo volume: Galatru mia!, Ed. Cimento, 1979). *** “Al caro Defelice/plaudendo alla sua costanza/e alla sua forza di volontà/che gli hanno consentito/di sempre più progredire/sul sentiero dell’arte poetica/e della critica -/Con tanto affetto e stima/ricordando un lontano passato -/FFiumara/Reggio Cal./Capodanno 1990” (volume: Francesco Fiumara - Le voci della notte, La Procellaria, 1989). *** “Al caro Defelice/questo Mazzini,/di cui già nel passato/ha avuto conoscenza/e tanta ammirazione/Con calda amicizia/e tanti ricordi./ FFiumara/Reggio Cal./Capodanno 1990” (volume: Francesco Fiumara: Mazzini tra le brume di Londra Unione operai italiani - Apostolato popolare - Scuola elementare gratuita, Ed. La Procellaria, 1987). *** “Al carissimo/amico Domenico Defelice/con tanta stima/e affetto./Ettore Alvaro/Roma, 12/ 11/1991” (suo volume: Salmi in dialetto calabrese con traduzione letterale in lingua, 1991). *** “All’amico carissimo/Domenico Defelice/offro - con gioia -/questo mio lavoretto -/con la stima e l’affetto/di sempre - Grato di recensione/(se è possibile) -/Ettore/Roma, 11/9/ 992” (volume: Ettore Alvaro - Cu su’ jeu Versi dialettali calabresi, Carello Editore, 1992). *** “Al sensibile poeta/e coraggioso editore/Domenico De Felice/perché, sia pure per/pochi istanti, torni/col pensiero alle radici./Con stima/Umberto Di Stilo/Galatro, 2.5.1992” (suo volume: Il tempo, A.C.R.E., 1992). *** “Omaggio al poeta Defelice/mio conterraneo/che ama la Calabria e la onora/con la sua attività di poeta/e di organizzatore culturale./Con molto affetto e stima./(E ricordando

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tempi lontani!)/FFiumara/7/luglio 1992” (volume: Francesco Fiumara - Risvolti romantici di storia calabrese e saggi vari, La Procellaria Ed., 1992). *** “Al poeta e critico/Domenico De Felice/con sincera stima/ed amicizia./Umberto Di Stilo” (suo volume: I vizi capitali nei proverbi, detti, massime popolari, aforismi e modi di dire dialettali calabresi, A.C.R.E. Mongiana, 1993). *** “All’amico/Domenico Defelice/affettuosamente/e sperando di leggere/una sua recensione./22 - 6 - 1993/Mario Sergio” (suo volume: Il verde della memoria, La Procellaria, 1993). *** “Roma 7.7.93/Il fratello del poeta Geppo/al poeta Domenico Defelice/con ammirazione/ ed affetto calabrese/Giacomo Tedeschi” (volume: Geppo Tedeschi - Epigrafiche, Ed. Bresciane, 1992). *** “Dono dell’Autore a/Domenico Defelice, con/(parola non chiara) amicizia e per/ogni prova creativa di/collaborazione poetica e/culturale/Cordiali saluti/Pasquale Montalto” (suo volume: Amicizia e amore, Pubbliscoop Edizioni, 1993). *** “Dono dell’Autore/a Domenico Defelice/con l’augurio di scambi/sempre più creativi./Se vorrai scriverci qualcosa/e passare la copia di più a/qualche tuo amico interessato/ti sarò grato/Cordiali saluti/Pasquale/Acri 26/4/’94” (volume: Pasquale Montalto - Il tabù dell’incesto, Pubbliscoop Edizioni, 1994). *** “Al Prof. Domenico Defelice/con affetto e stima/Galatro, Maggio 1994 Di Stilo” (volume: Francesco Di Stilo - Spighe d’oro, Litografia Galluccio). Invitiamo lettori e collaboratori a inviarci le dediche, indicando con chiarezza, però, nome e cognome degli autori, titoli dei libri sui quali sono state vergate, casa editrice e anno di pubblicazione. Grazie!


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Recensioni MARIAGINA BONCIANI GABBIANI Il Convivio Editore di Catania, Anno 2019, Euro 8,00, pagg. 47 Se nel noto dramma di Anton Pavlovič Čechov, del 1895, il gabbiano rappresentò lo spazio del momento dove s’assapora la mera felicità parimenti all’animo leggero del suo volo sulla superficie marina, dopodiché segue la cocente delusione e fine dei sogni tinti delle possibili sfumature d’azzurro, ebbene, nella silloge poetica dell’autrice milanese, Mariagina Bonciani, l’emblema dei suoi Gabbiani resiste ad ogni genere di disinganno fino al raggiungimento delle coste de L’isola senza tempo, luogo ameno fuori degli schemi in cui siamo abituati a vivere in nome della civiltà. «[…] In tutti questi anni/ nulla è cambiato e forse/ nulla mai cambierà perché quest’isola/ parva e pietrosa proprio non consente/ che sia fatto un oltraggio al suo ambiente./ E fra tanti anni ancora/ così la troverò, con le sue piccole/ case di pietra, sempre priva/ di cemento e del rombo di un motore/ perché l’oggi è come l’ieri/ in quest’isola del Lago Maggiore,/ Isola Minore (o Superiore)/ dei Pescatori, che nei miei pensieri/ resta così, isola senza tempo.» (Pag. 32). Anche l’uccello della famiglia dei Laridi, il gabbiano, col suo richiamo rauco che si perde tra le onde dall’Asia all’Atlantico passando per il Mediterraneo, continua ad essere un simbolo senza tempo di libertà nel voler raggiungere gli angoli più nascosti della distesa pelagica, abbandonandosi alle correnti d’aria che lo spingono dove la sua curiosità è più stimolata.

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Nel vederlo volare anche noi veniamo presi da una gioia, seppure fugace in riferimento all’opera teatrale cechoviana, che sa di estate infinita di chissà quale ambiente marino esistente nella nostra fantasia e la poetessa Bonciani non ha fatto misteri circa il suo privilegiato posto abitato dai candidi volatili dal capo bruno in estate, bianco d’inverno e dal becco rosso. «Le bianche ali tese/ un gruppo di gabbiani/ si dondola leggero/ volteggiando sul Naviglio./ All’improvviso/ s’innalza/ e contro il cielo/ bianco grigiastro dell’inverno/ ammiro/ il volo planante dei gabbiani./ Per un istante/ lascio Milano e mi ritrovo/ chissà dove, lontano,/ su una spiaggia deserta/ fra gli scogli/ della Bretagna./ Quasi sento/ l’odore pungente del mare.// Per un istante/ si può quasi volare/ con un gruppo ondeggiante di gabbiani.» (Poesia d’apertura della silloge, pag. 7). Ecco, nominando la Bretagna c’è tutta una sequela di vedute di mare agitato e scogliere appuntite rimaste impresse nella storia dell’arte universale grazie al pittore francese impressionista Claude Monet, che visitò in lungo e largo la costa bretone proprio per la realizzazione dei suoi dipinti seriali, nel senso che di un soggetto ne faceva più repliche dipingendolo nelle differenti ore della giornata per cui non era mai il medesimo. Ma l’animo libero del gabbiano sembra sia appartenuto da sempre all’interiorità di Mariagina Bonciani, che ha ‘sorvolato’ mari e montagne stranieri non dimenticando mai di versificare la loro bellezza frammista alle emozioni catturate durante i suoi tantissimi viaggi che, a distanza di decine di anni, rifrangono splendidi flash di ricordanze. «[…] I giardini di Kensington a Londra,/ dai viali di terra battuta/ percorsa dai cavallerizzi,/ le aiuole fiorite, i passerotti/ saltellanti qua e là senza timore, in tutta/ tranquillità, le barche nel Round Pond,/ i vasti prati, il monumento a Peter Pan,/ l’Albert Memorial con agli angoli/ le statue dei quattro continenti, oggetto/ di innumerevoli foto dei turisti,/ e l’Albert Hall coi suoi concerti…// Qui passeggiavo spesso, qui venivo/ ogni anno per l’ultimo saluto/ prima della partenza, al termine/ delle mie ferie d’agosto.// Ritornerò a vedervi un giorno e allora/ sarò felice e triste insieme/ come lo è la musica del Lago/ dei Cigni di Ciaikowsky.» (Pag. 24). Nel leggere le poesie piumate della Bonciani effettivamente si ha la percezione di compiere un intero giro attorno al mondo, osservandolo dall’alto con gli occhi sempre pronti a catturare qualcosa, un volto conosciuto, un angolo naturale o urbanistico legato alla memoria del passato, i colori dei fiori che interrompono l’ombra della cementificazione, i suoni della classicità che resistono agli assalti della cultura del presente e così Beethoven lo si scoprirà «[…]


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senza timore, perché so/ dove mi condurrà/ la meravigliosa onda musicale./ Ecco: ora giunge l’adagio,/ con le dolci note del pianoforte,/ ora morbide, ora cristalline,/ e allora/ torna la calma,/ e poi gioisco immersa nell’allegro/ finale e mi ritrovo/ fatta nuova, quasi purificata,/ su questa terra,/ in questa sala di concerti.// La serata è finita, ma rimane/ nell’aria e in me tanta serenità.» (Pag. 30). Quanta storia personale è riuscita a raccontare l’autrice in poesia e noi con lei presi dalle correnti dei suoi numerosi spostamenti siamo stati gabbiani di commedie e di drammi, di oceani e di mari circoscritti, della stagione calda e di quella che ci fa chiudere in noi stessi, di posti che ha plasmato la natura e di quelli che l’uomo ha edificato, «[…] E subito/ la notte si fa giorno/ e ricomincia/ il lavoro di scrivere il pensato,/ oppure/ si fa giorno il mattino/ e ricomincia/ la vita.» (Pag. 45). Isabella Michela Affinito

DOMENICO CAMERA UNA VITA IN LETTERE (Canneto Editore, Genova, 2020 € 13,00) La storia della propria avventura letteraria, narrata attraverso le lettere ricevute negli anni da poeti, critici, uomini di varia cultura, è ciò che Domenico Camera ha voluto realizzare con un libro di 194 pagine intitolato Una vita in lettere, apparso nelle Edizioni Il Canneto di Genova, nell’estate 2020. Il libro si rivela subito di molto interesse, per il numero rilevante di notizie che l’autore ci offre circa l’ambiente letterario ligure del Novecento e i primi due decenni del Duemila, sempre fervido di opere e ricco di iniziative culturali, specie nel campo della poesia. Sin dalle prime pagine di questo volume emergono infatti le figure di insigni uomini di Lettere che sono vissuti a Genova, come Adriano Guerrini, poeta e critico di vaglia, nonché creatore e direttore di pregevoli riviste letterarie, quali “Diogene” e “Resine”; Arrigo Buggiani, inventore dei Libretti di Mal’aria, formati da fogli piegati in quattro, contenenti nelle loro pagine così formate poesie ed pere grafiche di notevole pregio artistico e letterario; Silvio Sabatelli, editore e Direttore del Centro di Cultura Liguria, sito in Via Cairoli di Genova; Fra’ Gherardo Del Colle, finissimo poeta e critico; ecc. In quest’ambiente Domenico Camera compì la sua formazione letteraria e maturò la sua poesia, che ebbe inizio con la silloge Su questa terra (1970), accolta con parecchi consensi da parte di poeti e scrittori quali Domenico Astengo, Vittorio

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G. Rossi, Carlo Repetti, Camilla Salvago Raggi, Vico Faggi, ecc. Fu quello un buon inizio e Camera ne ha conservato la testimonianza racchiusa nelle lettere inviategli da costoro e da altri. Venne poi il suo secondo libro di versi, La stessa strada (1971), che confermò le sue doti di poeta e che diede luogo a numerosi autorevoli consensi, quali quelli di Nino Palunbo, Giuseppe Cassinelli, Andrea Zanzotto, Franco Contorbia, Alberto Frattini, Giorgio Bárberi Squarotti e molti altri. Frecce di carta (1981), il terzo libro di Domenico Camera, apparve presso la Casa Editrice San Marco dei Giustiniani di Genova e segnò una tappa importante dell’itinerario poetico di questo autore. Emergeva, tra le altre di questa raccolta, una lunga poesia, La città vecchia e il ragazzo, che fu specialmente ammirata dai lettori del libro, tra i quali troviamo, oltre allo Squarotti, Elio Gioanola e Franco Contorbia. Numerose sono qui le notizie che Camera ci dà dell’attività culturale genovese, tra le quali vi è quella della nascita della Casa Editrice San Marco dei Giustiniani, da lui stesso favorita attraverso l’incontro tra Adriano Guerrini e Giorgio Devoto. Egli ci informa poi del successo del suo nuovo libro Qualche segno (1989), del quale Elio Gioanola ebbe a lodare “la limpidezza del dettato, l’essenzialità e l’asciutta cadenza espressiva” in una lettera a lui indirizzata. È da notare a questo punto che Domenico Camera inserisce in Una vita in lettere molte delle sue poesie già pubblicate in volume, così da offrirci una compiuta panoramica antologica della sua poesia. Tra le informazioni che questo libro ci offre vi è anche quella della creazione da parte di Domenico Camera nel 1995 dei Foglietti del Bestiario, simili ai Foglietti di Mal’Aria di Arrigo Buggiani e così chiamati perché ispirati di volta in volta da un diverso animale. A questa collana parteciparono parecchi validi poeti, che diedero valore all’iniziativa, particolarmente lodata da Paolo Zoboli e da Maria Novaro, presidente della Fondazione Mario Novaro di Genova. Cronaca di un passaggio, la successiva raccolta di poesie di Camera è del 2002 e anch’essa ebbe al suo apparire molto successo, determinando anche l’invito del nostro poeta a partecipare, insieme ad altri poeti viventi in Liguria, al Festival della poesia “Genovantasei”. In seguito a questa sua nuova pubblicazione Camera ricevette molte lettere di consenso da parte di autorevoli personalità letterarie, tra le quali sono da segnalare Gina Lagorio, Minnie Alzona e Stefania Martini. Altre lettere di consenso per la sua attività letteraria Camera le ricevette in questi anni da


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Franco Croce, Adriano Sansa, Salvatore Arcidiacono, Giovanni Meriana e da parecchi altri. Tra le poesie di questa raccolta figurano qui, oltre alla poesia eponima, Il nemico, testo di notevole efficacia per la sua resa stilistica e La guida. Il 2005 è un anno che contiene un evento importante nella vita di Domenico Camera: quello dell’acquisto di un rustico a Deiva Marina, dove trascorrere l’estate. Da quell’anno in poi così il nostro poeta andrà in vacanza nel Levante, mentre passerà l’inverno nel suo appartamento genovese: il che offrirà nuovi spunti alla sua poesia. Fitta si mantiene anche in questo periodo la sua corrispondenza con diversi uomini di Lettere, quali Renzo Gherardini, Silvio Ramat, Davide Puccini, Giorgio Bárberi Squarotti, corrispondenza che qui viene ampiamente documentata. Del 2009 è la silloge La pietra e le nuvole, che reca la prefazione di Paolo Zoboli e la postfazione di Franco Contorbia. È questa una raccolta molto valida, in favore della quale si sono espressi Pino Boero, Guido Zavanone, Massimo Fanfani e molti altri critici e scrittori. Tra i più recenti libri di Domenico Camera sono ricordati in questo libro gli Scritti d’arte (2016), che raccoglie le sue note critiche su numerosi pittori, apparse negli anni e Le poche prose, una plaquette del 2018. Un libro che riassume, attraverso le missive ricevute, il lavoro letterario di un’intera esistenza questo Una vita in lettere di Domenico Camera; ma anche un libro che fa conoscere efficacemente un ambiente fervido di interessi culturali, quale è stato quello della Liguria nella seconda metà del Secolo scorso e nei primi due decenni del nuovo Millennio. Elio Andriuoli

MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Mädchenempfindungen Parte seconda - Il Croco, I quaderni letterari di Pomezia-Notizie, Settembre 2020 Manuela Mazzola, romana classe 1972, di formazione letteraria e con la passione grafica, pubblica Sensazioni di una fanciulla, raccolta di 22 componimenti poetici nella doppia versione italiana e tedesca, quest’ultima nella traduzione di Marina Caracciolo, la quale a sua volta, ne fa la presentazione. La silloge comprende poesie, generalmente brevi, tutte con data che va dal 1986 al 1992, ed è distinta come “parte seconda”; in tal modo potrebbe fare pensare ad un seguito di tipo cronologico. Tuttavia essendomi occupato della

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“prima parte”, ho verificato che il periodo temporale è lo stesso, perciò immagino, si tratti di un aspetto particolare della propria esperienza tanto più che le poesie sono raggruppate in quattro sezioni. La Critica definisce la Poetessa “una giovane donna, però con il cuore già segnato dalle ferite dei disinganni”, come lo era nella prima parte; e indica il componimento ‘Quel luogo speciale’ come la più ‘persuasiva’ a mostrare il proprio coraggio e la comprensione verso il dolore del mondo. E Domenico Defelice, in chiusura, confermando quanto detto nella presentazione, esprime il proprio pensiero nell’assunto seguente: “Ansie e dolori d’una creatura nella nostra società difficile”. A fior di pelle e con una riflessione più puntuale direi che se la prima parte poteva essere intesa come insieme di frammenti pessimistici, questa seconda parte può essere intesa come tentativo razionale di ordinare le proprie sensazioni a seconda della profondità, al fine di superare la propria amaritudine (Inermi come foglie, Attimi, E quando un giorno, I poeti sono filtri). Manuele Mazzola apre con una immagine assolata e deserta con “il catrame fumoso, quasi fuso. / (…) // Alcuni dormono su un ricordo.”, ascolta rumori dell’autostrada e tutt’intorno esprime solitudine: un paesaggio infiacchito che torna ad animarsi nei ricordi offuscati di un amore durato quanto una bolla di sapone. La Poetessa si rifugia in un mondo parallelo del suo sogno dove tutto il mondo è più sereno, senza dolore, anche se Lei continua a percepirlo e trova sollievo immaginando “le spiagge dell’antica / e misteriosa Sicilia.” L’ombra della morte è assillante “le macchine che corrono verso la morte, / le mamme che gridano il loro ruolo / e i bambini che piangono l’infanzia. / Il vento bussa alla mia porta”. Non so se la fanciulla si ribelli, ma credo ad un sussulto che l’età rivendica: “Io la stella più bella.” E però il dolore è di casa, le fa da pelle e lei non rimane indifferente. Si affaccia la seconda persona pronominale mimetizzata in una sorta di dialogo lieto, rivolta a “lui” o forse a se stessa, come forma di presa coscienza. Di una poesia e del suo autore, in questo caso di Manuela Mazzola, non si può commentare tutto, i sommovimenti interiori, le Sensazioni di una fanciulla, non sono unidirezionali, e la chiusura della silloge fa bene sperare nel superamento della visione amara. Mi piace concludere con l’immagine che adesso (nel 1992) è donna di vent’anni che si sente rinata: “Come un fiore / che sboccia all’improvviso. / Come un fiore / che si volta verso il sole.”, sì che l’ombra della morte si rivela come diritto alla vita. Tito Cauchi


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ALDO RIPERT PAROLE IN PENTAGRAMMA Prefazione di Marcello Falletti di Villafalletto, Anscarichae Domus, Accademia Collegio de’ Nobili 2019, pp. 64, € 10,00 Per il romano Aldo Ripert la poesia è “parole in pentagramma per orchestra senza strumenti”. In effetti le sue liriche “suonano” da sole; parole in rima che creano un’orchestra che non ha necessità di strumenti perché gli strumenti sono le parole stesse, che creano musicalità prese da sole o nell’insieme. Contribuiscono a raccontarci la sinfonia della vita, con i suoi alti e bassi, con le sue gioie e dolori, con il suo scorrere veloce o lento. Sono circa quaranta le liriche contenute nella sua pubblicazione “Parole in Pentagramma”, parole, rime che ripercorrono il passato ma sono sempre legati all’attualità. “Le Betulle” ad esempio, riportano alla mente l’orrore dei campi di concentramento e dello sterminio nazista: “…e la memoria, in viaggio a ritroso velocemente approda alle brume invernali di Polonia, ove spirò la vita al soffio della morte e l’acre odore dell’umanità urla e bestemmia ancora alla pietà. Supera in volo le complici betulle che alla vita ascosero dei cremator l’infamia…”. Ed ancora Ripert sottolinea l’importanza della cultura e della lettura con la lirica “Amico libro”: “Libro che vivi nel tempo fino a chiamarti antico…Mirabile strumento di memoria, tesoro di saggezza, d’arte e cultura e di genialità…Scuola di vita, sei, mio libro amico, albero di virtù e di conoscenza”. All’umanità che soggiace sotto il tiranno sono invece dedicati i versi de “Il gregge”, in cui il poeta paragona il gregge che bruca a testa bassa alla folla che tace e non si ribella ai soprusi: “…china la testa, basso lo sguardo, l’uno de sbruca, l’altra se ignora…gode il pastore a vedere il suo gregge, ride il potente se il volgo ignorante non legge. Il belato dell’uno s’ode lontano…l’uno ai lupi fa spia, l’altro, al tiranno assicura la via”. Ma ci sono omaggi anche alle bellezze artistiche del nostro amato paese, ricco di storia e di cultura, su tutte spicca “Diva Fiorenza”, descritta come madre feconda di artisti di grande fama, sia nel passato che nel presente. Qui il Ripert confida che “…se scegliere potessi il mio destino, terra toscana vorrei e vita in Fiore, estro d’artista, mecenate acceso, poter sognar alfin che sia compreso nel novero dei Grandi…il nome mio”. Insomma i versi/parole in pentagramma riescono ad affascinare il lettore, lo cullano in una musicalità infinita anche quando ricordano momenti non

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proprio felici della vita dell’umanità. Roberta Colazingari FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020 I versi, le poesie per Francesco D’Episcopo arrivano da sole…direttamente dall’anima, che è sempre sotto sollecitazione, arrivano dal mondo che ci circonda, da un refolo di vento, dalla curiosità della natura umana, sempre in continua ricerca di qualcosa. Versi liberi, catturati dal suo animo, come farfalle con il retino e lasciate impresse sui fogli di carta, affinché a loro volta “volino” in cerca dell’attenzione del lettore. In fondo, lo dice anche lui, la poesia è una scommessa verso tutto ciò che c’è di superfluo e scontato nella vita. È un modo per evadere, un anticorpo a tutti i virus, alle solitudini, alle sofferenze, ai dubbi, alle domande. La poesia è un barlume di luce, che rischiara il nostro percorso in terra, certo non può svelarci tutte le soluzioni (sarebbe troppo facile e la vita sarebbe veramente noiosa), ma ci dà comunque un piccolo aiuto su come barcamenarci nei vari avvenimenti. Anche D’Episcopo, come tutti, è in cerca di qualcosa come il “…prete che recita le sue preghiere, io


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le mie poesie, quando ne scrivo una ne sono felice…”. Il poeta vorrebbe essere libero “…di non pensare a niente…Lasciatemi essere ciò che sono, non costringetemi ai lacci di una prigione, che non mi appartiene”; vorrebbe vivere la sua vita “…nell’illusione che tutto fosse eterno”. Egli diventa tutto questo grazie ai suoi versi, che riescono a metterlo a nudo semplicemente, senza dover ricorrere alle maschere che, anche senza volerlo, spesso nella vita quotidiana siamo costretti ad indossare. Roberta Colazingari

MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA (parte seconda) – Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020 Continua a poetare Manuela Mazzola e mette in rima la seconda parte di “Sensazioni di una fanciulla”. Questa volta le liriche sono tutte scritte tra i 14 e i 20 anni, quindi un’adolescente che sta crescendo e sta diventando donna. Un percorso non sempre facile, i cui traumi e domande la poetessa riporta proprio attraverso i versi, che sembrano ancora scritti quasi di getto. È come se nello scrivere, cercasse di scappare da quella che è la realtà, dove nemmeno la fede sembra darle conforto; lo stesso Dio è visto da lei come tanti buchi neri nell’universo: cosa non positiva, perché questo sta a significare che la nostra vita è fagocitata nei vortici bui e non c’è speranza di luce. Rispetto alla pubblicazione precedente, in cui i versi erano scritti da una 14enne, si nota certamente un’ansia e una paura ancora più forte, per un’adolescente che si scontra con il cambiamento del suo corpo, con la realtà che la circonda e con quello che in un primo momento le era sembrato l’amore vero, finito però troppo presto. Anche le liriche di questa seconda pubblicazione sono sempre scritte in due lingue, quella italiana e quella tedesca, come se la durezza della lingua tedesca riesca a descrivere meglio la durezza della vita di tutti i giorni. La Mazzola è come se si rifiutasse di vivere questa realtà, per lei troppo violenta, una realtà che le buca l’anima, la tormenta. Così cerca rifugio in un luogo speciale che solo lei conosce: “…il mio mondo guarda con gli occhi del sogno, vede solo alcune cose…non vede i bimbi piangere, non sente le donne che urlano, non ode il dolore e la morte. In questo tempio…io vedo senza vedere, io sento senza sentire”.

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Certo sarebbe bello vivere in un mondo ideale, dove non c’è violenza, dove non ci sono soprusi e bruttezze, in cui si è isolati da qualsiasi cattiveria, ma purtroppo la realtà è ben diversa. Ognuno di noi deve cercare di affrontare la vita e la realtà nel migliore dei modi possibili, mantenendo sicuramente il fanciullo che è nascosto in noi e in cui ogni tanto necessitiamo di rifugiarsi. La Mazzola ha il suo fanciullo nella poesia che, alla fine, le fa comunque vedere un barlume di positività, la fa finalmente vedere donna in un’immagine riflessa: “…perché una donna è come un pensiero leggero un sorriso nascosto. Come un fiore che sboccia all’improvviso. Come un fiore che si volta verso il sole”. Roberta Colazingari

ISABELLA MICHELA AFFINITO SI CHIAMAVA VINCENT VAN GOGH Accademia Internazionale dei Micenei - Reggio Calabria, 2004 Un libretto di limitato spessore contenutistico, ma elegante e appariscente questo di Isabella Michela


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Affinito, interamente dedicato al grande pittore olandese Vincent Van Gogh. Attrae la copertina (opera dell’Affinito), impreziosita da un vaso di fiori, che vuol essere una variazione/imitazione e un chiaro richiamo alla tecnica coloristica profusa in Iris da V. Gogh, ma anche una dimostrazione del possesso degli strumenti artistici cognitivi/operativi che permettono alla Nostra di affiancarsi, con l’abilità e la maestria dei grandi, senza tema di sfigurare, accanto ai mostri sacri dell’arte pittorica. Una straordinaria e quasi naturale capacità di “riproduzione/ricreazione” realistica di quanto osservato e studiato nei dettagli compositivi delle tele di grandi artisti, presenti e passati. Isabella Michela Affinito credo viva nell’Arte e per l’Arte; ha il dono di entrare in consonanza con l’anima ardente e appassionata di artisti della penna, del pennello, dello scalpello, dei geni della musica, del canto, della recitazione, della regia cinematografica; un mondo reale e ideale, il suo, desideroso di alimenti sublimi, di idealità trascendentali che sappiano coniugarsi con le intenzioni e le azioni delle contingenze quotidiane, in cui l’estro e la fantasia sono ali aperti per voli senza confini. In “Si chiamava Vincent Van Gogh”, plaquette di poesie risalente a sedici anni fa, è ravvisabile l’epifania di un’Artista con gli occhi e la mente aperti alle meraviglie naturali e artificiali che generano suggestioni, emozioni e sentimenti che hanno affinità con la luminosa estetica apollinea, della bellezza assoluta, dell’armonia dell’anima nella poetica dei sensi appagati dall’incontro con l’anima grande “dell’altro”. Un ‘Altro’ che ti conquista con le sue virtù creative, rappresentative di un mondo esteriore e/o interiore vissuto nell’ebbrezza del “momento” irradiato dalla luce dell’ispirazione. Pittura e poesia a confronto. Il silenzio eloquente e la parola viva. Il fascino del colore e la vibrazione dell’anima lirica. La stupefacente espressione di motivi naturali e la fiamma ardente d’un cuore che si fa coscienza dei cupi ardori d’una vita vissuta nella miseria e nell’incomprensione, nella follia e nel dolore e che si riscatta con la donazione di sé, del suo genio creatore, della sua individualità tragica e combattiva al mondo cieco e sordo dell’umanità. “Il pittore della / malinconia dipinta,/ dell’umiltà elevata,/ dei fiori forti, /degli autoritratti / profondi, dei campi / coltivati fino a sera / quando i toni freddi / imperversavano sulla / sua tela” e la poetessa del sorriso appena abbozzato, della pensosità turbata, che vive la sua stagione terrena nel conforto dell’intelligenza e dell’aspirazione a crescere culturalmente e spiritualmente, al servizio di un ideale non vagheggiato ma reale, che appare sempre più a portata di mano. Una

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raffinata simbiosi di arte visiva e di espressione lirica, una corrispondenza d’amore per la bellezza senza tempo, una risposta concreta ed esaltante al richiamo dolce e imperioso della musa… Si chiamava Vincent Van Gogh, “l’artista / rattrappito nell’animo / senza il sole didentro” che dipingeva “quei fiori pieni di vita” (Girasoli, pag. 4). Si chiama Isabella Michela Affinito la poetessa che traduce in versi di sereno e caldo respiro i quadri dell’artista, le immagini di un tempo perduto, scandito dalla solitudine e dall’incomprensione, dall’ eroica volontà di accogliere e lievitare in sé il Logos, la Ragione d’essere al mondo per una vita d’eternità. Il mondo “scuro” di Van Gogh, con i suoi “personaggi” scottati dal sole, abituati al “lavoro di ogni / giorno sulla terra / da coltivare”; i suoi “autoritratti con lo / sfondo agitato da / un cromatismo interiore”, prodotti dall’“energia pura dell’inventiva”; i suoi brividi di freddo quando “dipingeva / sotto la neve”; i suoi drammi interiori taciuti per eccesso di difesa della propria intimità; l’impegno serio, profondo della sua rocciosa personalità di artista che si riscatta pienamente dal “vuoto dell’esistere”, sono temi fortemente evidenziati dal calore della parola poetica che si affianca teneramente all’opera pittorica e accoglie in sé il flusso di una stagione artistica breve, attraversata da un pittore dalle dimensioni creative senza confini. Un grazie, dunque, alla Poetessa Isabella Michela Affinito, che sa regalare al lettore il piacere di momenti istruttivi e riflessivi sui campioni dell’arte creativa che hanno lasciato una traccia indelebile nel loro inquieto e tormentato cammino terreno. Antonio Crecchia

WILMA MINOTTI CERINI L’ALBA DI UN NUOVO GIORNO Poesie – In copertina, a colori, “Spiritus intus alit”, del pittore Mario Braciliano. Presentazioni di Mons. Franco Buzzi, Francesco Di Ciacca, Marco Travaglini – Eugraphia, 2020 – Pagg. 260, € 16,00. La bella rivista Palomar, nel numero 19 di settembre 2020, tra i tanti e tutti interessanti articoli, annuncia l’imminente uscita, per le edizioni “Il Foglio Letterario”, di un corposo volume, di Wilma Minotti Cerini, dedicato alla vasta opera del poeta inglese Peter Russell, vissuto a lungo in Italia. Della poetessa milanese, che attualmente vive a Pallanza, è uscito pure, di recente, un grosso volume di poesie, suddiviso in sette sezioni: “Amore e amare”, “Sentimento del tempo”, “Guerre-carestietribolazioni-tsunami-migrazione”, “La natura con-


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forta le pene”, “Dubbi e rimpianti”, “Dediche”, “Invocazioni”. “Amore e amare” è uno splendido poemetto – ogni brano, una lassa – dedicato dalla poetessa al suo indimenticabile Livio, in vita e in morte. C’è la splendida vita di coppia; c’è il sostegno reciproco, specie nel bisogno, pilastro di una serena esistenza; ci sono le estasi; c’è l’imbronciarsi magari “per un nonnulla”; e c’è l’ironia, giacché entrambi, pur riconoscendo l’inutilità del contendere, si piccano a sostenere le reciproche tesi e rendendosi “per un momento nemici/troncando la (loro) solita confidenza”. Il brano “Pensiero senza tempo” ha tutta la felice cadenza di una ballata del trecento, pure nell’espressione: “Va pensiero senza tempo/va da colui che prese possesso/ed incendiò la mia anima/con morbide dita di medusa”…; l’unica differenza è che, al posto della voce “ballata”, abbiamo il Pensiero, al quale sempre è rivolto il comando: “Va, cavalca il tramonto/che si dirama nel rosso.//Attendi quando il buio accende/tutte le luci del possibile/scegli quella che al tuo arrivo/pulsa la sua emozione”. Suggestivo è il brano che presenta la coppia accanto al camino - le “sedie con braccioli”, i “Tronchi seccati”, tizzoni scoppiettanti -, entrambi col proprio libro: “Di fronte l’uno all’altro/col tuo libro, con il mio/argomenti differenti/ogni tanto un sorriso/una sosta per mettere altri tronchi”. Ma anche le gite in barca, le passeggiate all’aperto, nello splendore e negli odori della Natura, specialmente nelle stagioni propizie, come la primavera. Tutti i brani sono affascinanti e hanno un sottofondo di tenero amore, di dolce intimità. Francesco Di Ciaccia, nel suo saggio introduttivo “Il dramma e la possibilità dell’impossibile”, considera le varie parti del volume ognuna come una silloge individuale. Perché l’Autrice le abbia già edite separatamente prima di raccoglierle in questo volume? Noi non sappiamo e preferiamo ritenerle solo brani di un’unica, affascinante opera, con temi diversi, perché gli interessi della Minotti Cerini non si esauriscono nell’amore. Le sue relazioni umane lievitano tutti i suoi versi, come i contrasti, le rappacificazioni (“E allora pensai ad una nostra forte litigata”; “Ma poi ti guardai meglio:/il bene spazzò via ogni cosa”); come il richiamo alla Natura – che, spesso, è imprevedibile e procura immani disastri -, al suo fascino (“il mare abbrunito”; “Il vento (che) rimodella le dune”; il “profumo di mammole/(che) alita soavità e respiro”; le “camelie ormai quasi sfiorite”); come la sua buona droga, la dipendenza, cioè, dalla cultura in genere, dalla lettura appassionata e continua, con riferimenti a opere che hanno catturato anche noi negli anni della nostra infanzia

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(“Tre uomini in barca (per non dir del cane)” di Jerome K. Jerome). Donna dai molteplici interessi, insomma, Wilma Minotti Cerini, e perciò tutto la fermenta e la stimola: l’amore, soprattutto, universale e non soltanto verso il suo uomo; la follia umana; l’uso sconsiderato delle armi; l’odio; gli attentati; la diffidenza; l’emigrazione; gli innumerevoli drammi e dolori; lo strazio dell’infanzia; il tempo e il suo mistero (“Qual è veramente/il tempo/per vivere/la ragione del tempo?”), il suo significato, quello tragico e maestro del giovane Tesfalida Tesfom; i genitori (il padre ucciso giovanissimo dalle SS; la madre morta pure in giovane età a causa del dolore, lasciando quattro bambine, la maggiore di appena nove anni, e alle quali, a far loro da seconda mamma, fu l’adorata zia Maria); la fede in Dio, infine, il riconoscersi sua creatura come tutto al mondo e nell’universo: “Non c’è nulla/neppure nella preghiera a Te/che non provenga da Te”. Domenico Defelice

TITO CAUCHI PROFILI CRITICI 2012 Editrice Totem, 2020 – Pagg. 230, € 25 Accogliendo l’invito dell’esergo in prima pagina, tratto da una lettera di Ugo Foscolo, secondo il quale “Chi riceve lodi eccedenti è degno di perdere quelli ch’ei merita veramente”, ci limitiamo ad affermare che queste belle e sintetiche schede, assai calibrate, inquadrano perfettamente le opere premiate all’edizione del 2012 del Premio Nazionale di Poesia edita Leandro Polverini, che Gianfranco Cotronei conduce ormai da anni e del quale Tito Cauchi è stato Presidente. Se si dà la giusta attenzione a queste semplici, lineari e chiare recensioni, ci si rende conto che Cauchi, di questo Premio, è stato anche anima e cuore. Sono recensioni calibrate, per lo più di una sola pagina – quelle più lunghe, meno di trentacinque su centosessantatré – e danno di ogni opera contenuto e stile; ognuna, inoltre, reca in, calce, l’indicazione del Premio ricevuto e la motivazione. Tra i tanti autori, troviamo anche amici e collaboratori del nostro mensile, come Silvana Andrenacci Maldini, Sandro Angelucci, Lorella Borgiani, Colombo Conti (che è anche narratore e validissimo artista disegnatore), Luigi De Rosa, Elisabetta Di Iaconi, Gabriella Frenna, Filomena Iovinella eccetera; troviamo Rodolfo Vettorello, il quale, nel 2014, ha vinto il Città di Pomezia da noi allora organizzato e gestito; troviamo Brina Maurer, che, in “Metastasi di rosa”, ricorda la cara e indimenticabile amica poetessa Maria Grazia Lenisa, anch’ella vincitrice del


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Città di Pomezia con “La ragazza di Arthur” nel 1990. La Maurer scrive che la Lenisa “ha inventato il suo alterego maschile, di nome Max Bender, con il quale ha realizzato un canzoniere di forte carica erotica” e si dà il caso che l’invenzione sia avvenuta proprio attraverso Pomezia-Notizie e che quel “Canzoniere bifronte” (Max Bender – Maria Grazia Lenisa”) sia apparso nel marzo del 2004 in un Quaderno Il Croco, con introduzione di Pietre Visser (per quanto ci risulta, anche lui personaggio inventato; nativo di Amsterdam, faceva di professione il viaggiatore ed era figlio di un commerciante di diamanti!). Leggere tante recensioni, una di seguito all’altra, non sempre è piacevole e neppure sempre interessante, vista l’abitudine, tra i critici, di usare fumogeni e di arrampicarsi sugli specchi; Tito Cauchi, per fortuna, disdegna gli uni e gli altri. Domenico Defelice FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Poesie, 1° Premio Il Croco 2020 – Ed. Il Croco – I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, agosto 2020 Nel prologo che precede la silloge l’autore, il colto professo Francesco D’Episcopo (il cui curriculum di docente universitario, di critico e di scrittore è esemplare) spiega ai fruitori il suo concetto di poesia. “La poesia è una scommessa, una sfida a tutto ciò che di scontato e superficiale appare nella vita”. Cita i suoi maestri: Parmenide, Vico, Leopardi, per poi concludere che “siamo esseri inquieti e insoddisfatti, che cercano disperatamente un orizzonte in cui acquietarsi”. Queste parole agevolano la lettura delle liriche. Le prime, dal dettato semplice e dal tono diaristico, pongono l’accento sull’inevitabile termine della vita e sui momenti “non goduti, non vissuti”. Poi l’itinerario si sposta sulla parola (anche in dialetto partenopeo) e si fa pensosa, come nella bella e significativa “Oracolo”. Attraverso l’elogio della libertà, della vecchiaia, dell’Eros e della lentezza, il discorso si precisa: “Mi piace,/ ormai,/ assaporare la vita,/ lentamente,/ trattenerla dentro/ il più possibile,/ perché il sapore non scompaia/ ma resti per sempre”. Il poeta isola “momenti eterni”, “cerca il cielo”, si rassegna a non capire “ciò che alla ragione sfugge”, ma si rende conto che esiste l’anima. “Anima è quel soffio di vento,/ che ti scompiglia i capelli.../ quell’ aria/ d’infinito che porta con sé”. Verso la conclusione della raccolta, D’Episcopo si

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confessa in modo più preciso, invocando Gesù, lodando la poesia “che cerca la verità,/ senza però trovarla”. Disprezza i “perversi progetti di potere”, esalta i suoi “sogni di carta”, invoca il sole. Come afferma Domenico Defelice nella postfazione, i versi sono “belli nella semplicità e nella essenzialità” e afferma: “siamo in presenza di una poesia matura e saggia”. Elisabetta Di Iaconi

MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA (Parte seconda) - Il Croco – I quaderni letterari di POMEZIA-NOTIZIE, 2020 Le poesie giovanili di Manuela Mazzola (che abbracciano un periodo compreso tra i 14 e i 20 anni) sono esemplarmente presentate da Marina Caracciolo, che ha anche curato la traduzione in tedesco di ogni lirica. I testi creano nel lettore un’atmosfera di tristezza, quasi di allucinazione. La fanciulla quattordicenne descrive un mondo “di costumi e vizi”, col desiderio “di volar via”. Anche Dio è un’immagine tragica: ha le lentiggini, “grandi e profondi buchi neri/ che avvolgono le stelle/ al punto tale di mangiarle”. Il percorso della scrittrice è solitario, evanescente; l’aria che respira “profuma d’angoscia”. Anche gli incontri d’amore si sono rivelati “una bolla di sapone”.


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Un senso di mistero avvolge il luogo dove si trova: rari gli accenni ad un paesaggio reale (come nella lirica “Il mare”). A poco a poco, col crescere dell’età, il tono si fa più sicuro (“La stella più bella”), anche se la fanciulla si dibatte nel grigiore “contro un’enorme nuvola di fango”. La città per l’autrice è una prigione, fatta di caverne, dove vive in una condizione confusa, tra infanzia e lo sbocciare di una più matura personalità. Amori infelici costellano il suo tragitto di fanciulla che si scopre donna, “come un fiore che sboccia all’improvviso”. Quest’opera è un esemplare, franto diario, dei sentimenti che si provano nella complessa età adolescenziale. Ci sembra di leggere uno spartito musicale che alterna dolore, pessimismo, nichilismo ad una marcia incoraggiante e movimentata, forse il preludio ad una serena accettazione della vita. Elisabetta Di Iaconi FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Ed, Il Croco/Pomezia-Notizie 2020 E ancora una volta Francesco D’Episcopo, nella inedita, ma non più imprevista, veste poetica, si racconta e ci racconta la vita, così come si presenta quotidianamente, nella concretezza di una realtà, spesso trascurata, nella vaghezza dei sogni, che altrettanto spesso all’alba dimentichiamo. Non siamo più dinanzi all’imprevedibilità, che è comunque nelle corde del D’Episcopo, mio docente di una ormai lontana stagione universitaria, perché siamo già alla sua quarta pubblicazione poetica, dopo Vita (Genesi Editrice), Sulla soglia del domani (Edizioni Il Convivio, 2019) e Tempo (Terebinto Edizioni, 2020) tutte, compresa questa ultima, dal titolo suggestivo di Anima, frutto di premi conseguiti e salutati dal nostro critico con felice sorpresa. In verità, a chi, come la scrivente, che alla Salerno, alla Napoli e al Molise del suo maestro ha dedicato ben tre testi metodologici, ha costantemente evidenziato non solo la poeticità con cui il D’Episcopo si è sempre accostato agli autori studiati e più amati, ma anche la poesia insita nella sua stessa scrittura critica, non risultano sorprendenti i meritati riconoscimenti e la conseguente pubblicazione anche di questa quarta raccolta. Anima, dunque, un titolo più introspettivo rispetto ai precedenti, anche se i temi attraversati sono pur sempre quelli più amati e interessanti per l’occhio vigile e curioso del poeta, riguardante ogni aspetto, anche minimo, ignorato dai più, della poliedrica esistenza, che sa vestirsi di tanti colori e di impreviste

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sfumature. Una poesia, quella del D’Episcopo, che mi richiama alla memoria un pavone della mia infanzia, collocato a Portici sulla discesa del lido Aurora: all’apparenza, e a coda chiusa, un uccello normale, come qualsiasi altro, ma maestoso e regale all’apertura della famosa coda ampia e variopinta. Ad una prima impressione, la scrittura colloquiale, in certi casi quasi prosastica, scevra di ricercatezze sofisticate e parole preziose, può talvolta trarre in inganno, ma man mano che ci si addentra nella lettura e soprattutto nel finale si scopre la coda del pavone, sorprendente nella sua semplicità e suggestiva nella sua profondità. Nel Prologo, dello stesso D’Episcopo, è già fornita la chiave di lettura per entrare nel suo universo poetico in quell’Essere, di parmenidea memoria, “in cui è riposta la radice della nostra vita e la ragione (se ragione c’è) della poesia, che da essa scaturisce come da una sorgente purissima”, che non ama le ambiguità intellettualistiche, poco naturali e poco vere; insomma, una poesia che rifugge da “contorcimenti estetici e falsi sofismi etici”. Di qui la semplicità, la chiarezza (non mi troverebbe d’accordo una visione ermetica di questa poesia), la naturalezza, a tratti quasi disarmante, quasi fanciullesca, nella sorpresa e nella meraviglia del miracoloso vivere quotidiano. L’occhio del poeta, insomma “sbriciolando le scorie dell’apparire”, che sempre più spesso invadono e affogano la nostra vita, “raggiunge, faticosa-


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mente, felicemente, il nucleo delle questioni”, secondo un procedimento, uno scavo, che porta il lettore all’essenza e alla bellezza della verità. Sulla scia di Nietzsche, e della sua idea di profondità della superficie, spesso citata dal Nostro, e di Michelangelo, che amava il “non finito”, come necessariamente è il nostro incompiuto vivere, l’occhio “perforante” del poeta, convinto della “laica sacralità” della parola poetica, sa recare la luce, sia pure una fioca “lanterna” nella “oscura selva dantesca”. Il poeta può, perché consapevole del segreto che “l’importante è aver vissuto / nell’illusione che tutto fosse eterno” (Vita incompiuta), portare alla luce della consapevolezza le oscurità abbandonate da volute o involontarie distrazioni. E, cosa ancora più sorprendente, tale consapevolezza appare direttamente proporzionale all’avanzare della stagione autunnale, detestata dai più, ma tanto amata dal poeta, in essa più “vigile”, perché “ogni cosa / ha un altro sapore, / un altro valore (Vecchiaia). Mai come in questa silloge l’incompiuto, nel sogno “che ama il rosso e cerca il cielo” o magari su una “pagina bianca”, può esprimere il mistero di una compiutezza, che appartiene all’infinito, di cui il poeta è “oracolo / che non si spende, / se non richiesto”, perché egli stesso “foglia d’infinito” (Oracolo). In questa sacralità profetica, tutta laica, anche se non mancano riferimenti religiosi, la “pietra”, la “lava”, il “tufo”, che intridono l’anima meridionale, “‘e bullette” (le bollette da pagare) ed altra materia apparentemente insignificante e magari indegna di essere versificata, si animano ed entrano a pieno diritto nell’alveo di una poesia, trasfigurante la vita anche nei suoi aspetti considerati minori, eppure tanto incisivi in una quotidianità, che altrimenti rischierebbe di ingrigire ogni respiro, ogni energia. Dunque, la poesia, magicamente ma naturalmente, come acqua di sorgente, giunge, con quella prescienza, di vichiana memoria, dove non giunge la tanto osannata ragione, a quell’Essere, che la filosofia di un filosofo-poeta, come Parmenide, proclama e che una poesia, come quella del nostro criticopoeta canta. Qualcuno ha detto che non c’è nulla di nuovo sotto il sole e che tutto è già stato detto. I nostri poeti, di alta, sublime, tradizione hanno raccontato la vita e la morte, l’effimero e l’eterno e Francesco D’Episcopo, docente appassionato e appassionante di letteratura italiana per una vita, ben conosce il loro canto e di esso ha fatto tesoro in quel bagaglio pesantemente leggero, per usare uno di quegli ossimori da lui tanto amati, che è diventato sangue anche della

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sua poesia, ma ogni poeta ha una sua voce, sfumature inedite e colori nuovi, perché la parola, il verbum, può creare tutto; e allora, la parola, che per il D’Episcopo non ha segreti, nelle suggestioni del nostro bellissimo italiano, nell’eleganza del francese (La vie) nell’efficacia melodiosa del napoletano (Me so’ scucciato; Niente ‘ncuollo; ‘O bollettino ‘e guerra), lingua, è il caso di dirlo, della nostra anima, sa creare l’incanto dell’essenza, l’avventura inimitabile di Anima, che, come bene afferma Domenico Defelice, è “metafora” della Poesia, perché “la Poesia è Anima”. Sia concessa un’ultima osservazione a chi, come chi scrive, ha seguito con affettuosa dedizione il respiro critico e poetico, oltre che didattico, dell’ Autore: la sua poesia è la lucida, ma ispirata, espressione di una filosofia di vita, che ha fatto della “libertà” (a cui dedica una lirica) e dell’”innocenza” incantata ragioni vive e istintive di felicità. Maria Gargotta

MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Madchempfindungen- Parte seconda. Olio su tela in prima di copertina e disegni all’interno dell’Autrice. Traduzione in tedesco di Marina Caracciolo. Postfazione di Domenico Defelice. Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020 L’Autrice, Manuela Mazzola, col cuore in mano, ci presenta il suo secondo capolavoro; con tanta tenerezza, avvolge di grande tristezza i suoi delicati versi i quali ci comunicano sentimenti che, durante il tempo che passa, rimangono sempre impressi nel cuore, ma possono volteggiare tra il cielo buio e l’aria pesante che circola viziosa nelle caverne. Ed ecco che la nostra Autrice è colma di malinconia, si abbandona tra le braccia del buio, imprigionata dal dolore e dalla disperazione. Le sue poesie ci riempiono d’ansia coi suoi tristi presentimenti. La nostra simpatica Manuela Mazzola è una bravissima Dottoressa, laureata in lettere, che splende come una stella: ‘brillo di luce immensa/ e meravigliosamente intensa./ Io la stella più bella!’ Sono poesie intrise di sospiri e dolori, sempre presenti nella vita di ogni giorno. Ma ‘Come un fiore/ che sboccia all’improvviso./ Come un fiore/ che si volta verso il sole.’ La nostra Manuela, tra tanta tristezza e malinconia, diventa una donna, dimentica l’indifferenza dei giorni bui e risorge nel sole e diventa la stella più bella, o un fiore che sboccia nel sole.


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Leggere queste bellissime poesie ci fa rinascere alla vita, dopo avere attraversato tanti bui sentieri. Complimenti vivissimi di vero cuore alla nostra stupenda e meravigliosa Autrice. Aspettiamo, con tanta ansia, la parte terza delle sue belle poesie, nel nostro prezioso Quaderno IL CROCO. Giovanna Li Volti Guzzardi Melbourne, Australia

TITO CAUCHI PROFILI CRITICI 2012 Editrice Totem 2020, Pagg. 214, € 25,00 Con la consueta professionalità, Tito Cauchi ci presenta il suo ultimo lavoro “Profili critici 2012”, completo di tutte le opere che hanno partecipato al Premio Nazionale Poesia Edita Leandro Polverini di Anzio. Sono centosessantatré le recensioni che il professore redige con l’intento di rendere noti tutti gli autori: ottantacinque poetesse e settantotto poeti. Nella prefazione afferma: “Scrivere poesia e leggerla vogliono significare nutrimento dell’anima; quanto meno educano ai sentimenti, purché si legga o si scriva con sincerità e animo aperto”. Il professore dice, in modo diretto e chiaro, che le case editrici non diffondono facilmente gli autori che sono sconosciuti e che, spesso, quest’ultimi si avvalgono di critici per avere una presentazione dell’opera, quando serve solo camminare con i propri piedi e che, inoltre, la poesia non andrebbe spiegata poiché è emozione allo stato puro. I poeti, sia quelli famosi, sia quelli esordienti, meritano di essere diffusi e dunque di essere conosciuti. L’arte deve circolare poiché è un bene prezioso, di tutti e ogni essere umano deve poterne usufruire. L’arte abbevera il nostro animo che sia una poesia, che sia un racconto, che sia un dipinto. Cauchi ha svolto diverse attività, tra le quali quella di insegnante negli Istituti Superiori; le sue opere sono incluse in alcune antologie poetiche e in volumi di Storia della Letteratura; collabora con molte riviste letterarie, ha pubblicato negli anni molte sillogi e tantissimi saggi di critica letteraria. Nel 2010 e nel 2013 gli è stato assegnato il diploma I.W.A (International Writers and Artists Association). Significativa è l’immagine di copertina, ossia la “Nascita di Venere”. La dea è sopra la valva di una conchiglia, bella come una perla. Venere che è simbolo di amore e di bellezza, in questo caso può rappresentare la nascita di una delle più belle arti, ossia la poesia che, come la dea della bellezza, fa risplendere l’animo di chi la compone e di chi la legge. Manuela Mazzola

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MARINA CARACCIOLO VERSO LONTANI ORIZZONTI L’itinerario lirico di Imperia Tognacci BastogiLibri Editore, 2020, Pagg 80, € 10,00 Il suo è un vivo desiderio di tralasciare ripetutamente l’abitudinaria quotidianità nell’ intento di superare ogni frontiera, di oltrepassare i visibili orizzonti. Non solo la poetessa, ma anche i lettori sono accompagnati in questo viaggio, cominciando dal dipinto pubblicato in copertina. L’olio su tela “Morgan im Riesengebirge” di Caspar David Friedrich si trasforma in un portale che apre spiragli alla fantasia del lettore e anche un varco spaziotemporale, mediante il quale avviene l’accesso privilegiato al mondo lirico di Imperia Tognacci. È un viaggio che mette in evidenza la dimensione poetica del tempo, ossia dell’attesa e della memoria, dello spazio astratto, ma nello stesso tempo concreto. Lo stile delicato e leggero e il linguaggio chiaro e preciso, impreziosiscono la poesia della Tognacci limpida, serena e suggestiva, insieme a “quell’ andare senza sosta, quel vagare perenne che sembra creato da un vento misterioso e trasportato lontano da un fiume invisibile; un moto che mirabilmente si esprime nei versi”. La creazione poetica della poetessa, profonda, fantastica, a volte visionaria, si sposa con la scrittura della Caracciolo che è equilibrata, sensibile, empatica e che giunge ad essere sensuale, nel senso che procede dai suoi sensi o dalle sue sensazioni fisiche. L’autrice ha esaminato undici opere seguendo l’ordine cronologico di pubblicazione. Marina Caracciolo, laureata con lode in Lettere, dopo aver insegnato nei licei, è diventata consulente di redazione. Ha pubblicato numerosi saggi e vinto altrettanti concorsi, tra cui il Premio Internazionale “Mario Pannunzio” per la saggistica nel 2002; “Premio alla Cultura della Presidenza del Consiglio dei Ministri” nel 2005 per la sua attività nel campo umanistico e per ultimo il Premio Editoriale Letterario “Il Croco” 2020 per il saggio critico “Palinodie di un mito: la figura di Elena”. Oltre al dipinto anche il titolo indica un movimento, cioè il moto della fantasia, del pensiero verso l’orizzonte, che è la linea che separa il cielo dalla terra e dal mare e rappresenta anche il limite dello sguardo umano e del suo senso. L’azione di guardare l’orizzonte può calmare l’animo, può rilassare, confortare, è una delle cose forse più istintive e anche una delle più antiche al mondo. Dal latino horizōn-ontis, che risale al greco horízōnontos, da horizon delimitare, dunque una sorta di


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cerchio che delimita. Ecco perché il titolo estremamente evocativo ci riporta al bisogno dell’uomo e della donna di andare oltre, non solo fisicamente, ma soprattutto mentalmente: varcare i limiti sempre di più, spingersi oltre, in questo caso attraverso le ali della fantasia e della ispirazione poetica. Manuela Mazzola

Egli ci ricorda pure che siamo fatti non solo di una vera anima, ma anche di un vero, sensibile ed espressivo corpo (vedi “Amplesso”, “Pietra”, “Eros”, “Innocenza”). Sono versi ricchi di riflessioni, pieni di verità. Davvero il Poeta ci ha aperto la sua anima! Maria Antonietta Mosele

FRANCESCO D’EPISCOPO ANIMA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020

MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Ed. Il Croco/Pomezia-Notizie, 2020

Ad illustrare la raccolta di poesie di Francesco d’Episcopo intitolata Anima e vincitrice del 1° Premio Il Croco 2020, è Domenico Defelice, con un affascinante volto di donna, dallo sguardo rivolto al cielo. Nel Prologo ispirato a Parmenide, l’Autore dice che la vera poesia scaturisce dal nostro vero Essere, dalla nostra vita integrale, “pensiero e sentimento congiunti carnalmente”. La poesia è una sfida misteriosa che vuole penetrare al nucleo delle cose cercando di capirle per intero. Egli fa riferimenti anche a Vico, Leopardi, Michelangelo e Nietzsche. Qui, troviamo tante riflessioni di un poeta, maturo come uomo e come scrittore, riguardanti il tempo che passa, la perdita di amici deceduti, e quindi la sua solitudine. Sono considerazioni su chi lo ricorderà dopo la sua vita fittamente impegnata, anche se “una vita incompiuta/ lascia sempre una scia,/ che non avrà forse seguito…” Egli, però, pensando anche in positivo, dice: “Questi ultimi anni/ li vorrei vivere da re…” prendendosi varie soddisfazioni, quali studiare, fare nuove amicizie, viaggiare, amare. Amare, sì, perché anche nell’anzianità “l’amore può avere/ altre forme, altre storie,/ senza che nulla cambi,/ se non la forza di esserci,/ di resistere all’usura del tempo.” Vorrebbe evadere, andare lontano, ancora sognare, sentirsi libero come il pensiero, come l’anima la quale non cerca le ricchezze materiali – le quali rappresentano “la povertà più infida e intollerabile” dell’anima di chi le desidera -, bensì gli affetti, la dolcezza, la verità, il cielo. Come detto all’inizio, la parola poetica è una misteriosa espressione dell’anima, che deve essere afferrata e fermata al volo, scritta, capita e condivisa da altri: “tornerà ad essere/ foglia d’infinito/ nel canto lontano/ di una presenza vicina” (qui il Poeta, indirettamente, ci fa venire alla mente che invece, gli oracoli della Sibilla Cumana, scritti su foglie, poi se ne volavano al vento, disperdendosi). L’anima è ”soffio di vento”, è “respirare quell’aria/ d’infinito che porta con sé”.

Il Croco – Quaderno letterario di Pomezia-Notizie - di settembre 2020, pubblica la Seconda Parte di “Sensazioni di una fanciulla”, silloge poetica scritta da Emanuela Mazzola (dal 1988 al 1992), presentata e tradotta in lingua tedesca dalla poetessa Marina Caracciolo. In chiusura, importanti riflessioni su queste liriche sono a firma di Domenico Defelice. In copertina, sullo sfondo di un’aurora luminosa e di un mare in movimento, primeggiano steli fioriti di lavanda, mentre all’interno, ad illustrare le varie Sezioni, ci sono artistici disegni a matita: tutte opere della medesima Manuela Mazzola. L’Autrice parla della propria adolescenza e di tutti i contrasti interiori che essa comporta. Il suo animo è inquieto, in un dissidio che si riflette anche all’esterno, per cui ella vede “sole ad ogni batter d’occhio” e “catrame fumoso” sulla strada deserta; e sente il “dolce suono delle auto”, mentre “le anime vagano nell’universo/ come fossero maledette”: infatti, lei stessa si sente quasi dispersa in questo mondo pieno di mali e di vizi, da cui vorrebbe evadere, ma che accetta per poter affrontare il mondo stesso. In questa sua situazione così triste, anche dai ricordi, che però le appaiono offuscati, vorrebbe trarre una lezione di vita, dare un senso all’esistenza che invece le appare troppo misteriosa e difficile. La delusione subìta dal suo primo grande amore, la fa rifugiare nella solitudine, nel silenzio, in cui però si sente vuota, priva anche di desideri, prigioniera del buio, senza una via di scampo. E riflette sull’incoerenza della vita che, come una rappresentazione teatrale, dapprima si presenta con entusiasmo per finire invece in tragedia di morte. A volte, ella si riprende d’animo, si sente una stella del cielo, anzi “la stella più bella”. E, se le parole di “lui” la feriscono, invece capisce che i suoi occhi cercano in lei disperatamente amore. L’adolescenza è risaputo essere un periodo pieno di insicurezze, di incertezze, ma anche di bei sogni e di speranze nel futuro, per poter diventare donna,


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finalmente: “Come un fiore/ che sboccia all’improvviso./ Come un fiore/ che si volta verso il sole.” Come in uno specchio, Manuela ha saputo chiaramente, magnificamente, esprimere in poesia le profonde “sensazioni di una fanciulla”, penso di ogni fanciulla. Le parole tradotte in tedesco, anche alla sola lettura e per la loro disposizione, donano una soffusa, affascinante musicalità ai versi (altro apprezzamento non sono all’altezza di dare). Maria Antonietta Mosele MANUELA MAZZOLA SENSAZIONI DI UNA FANCIULLA Parte seconda - Il Croco – I quaderni letterari di Pomezia Notizie, 2020 Ho avuto modo di parlare della silloge di Manuela Mazzola, Sensazioni di una fanciulla, apparsa nel dicembre 2019. Ora, sempre pubblicata nella Collana di Pomezia Notizie Il Croco, appare la parte seconda che porta lo stesso titolo. In queste nuove liriche troviamo l’ampliamento di un pensiero nato nell’età post adolescenziale. E’ un periodo di crescita e di cambiamento, nel quale una ragazza deve diventare donna e forse è uno dei momenti più critici della nostra esistenza. Senza dubbio, vi è una fragilità particolare, una visione del mondo con occhi ancora ingenui e una sensibilità molto accentuata. In questi ulteriori testi, infatti, si manifesta un malessere che si fa più acuto e che procura situazioni di sconforto e di amarezza. Manuela Mazzola cerca in ogni modo una via di fuga per non farsi sopraffare dal pessimismo, e l’unica via sicura è quella di addentrarsi nel sogno e nella poesia. Certi versi rivelano però un grido quasi disperato, vissuto in solitudine, e momenti intensi d’amore: “Solo nei tuoi occhi / nasceva il mio amore; / solo nel tuo cuore / moriva il mio dolore.”. Sono liriche ben strutturate, quasi tutte di breve respiro e certe quasi lapidarie. Rappresentano la sintesi del sentire di Mazzola, e per questo sono di notevole impatto. Dopo tanto tormento, arriva finalmente il giorno nel quale Manuela Mazzola si rende conto di essere cresciuta e fissando la sua immagine vede una giovane donna. E’ arrivato finalmente il tempo in cui il bruco può mettere le ali e per la poetessa si apre un nuovo percorso, dove si può scorgere anche un raggio di sole: “ Perché una donna è / come un pensiero leggero / un sorriso nascosto. / Come un fiore / che sboccia all’improvviso. / Come un fiore / che si volta verso il sole.”. Manuela Mazzola ci lascia con questa speranza e

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questa nuova consapevolezza. Un elogio pure a Marina Caracciolo che ha affiancato e avvalorato le liriche con la sua traduzione in tedesco. Senz’altro un connubio vincente. Laura Pierdicchi

AD ONELIA (1) Ti ricordo che conducevi al pascolo il gregge. Avevi in mano un vincastro, ma non percuotevi le pecorelle, le accarezzavi, per indurle a procedere. Salutavi le persone che incontravi, sussurravi parole gentili. I tuoi occhi (che non dimentico), azzurri come il cielo terso, contemplavano la natura, meno di loro meravigliosa, e sembrava dicessero: "Vogliamo vivere, andare lontano, nel futuro, realizzare i nostri sogni". Antonia Izzi Rufo (Castelnuovo IS) (1) Un brutto male l'ha stroncata in giovane età.

BUON INIZIO È mattino, c'è il sole; luce abbagliante dovunque. Osservo, dalla finestra spalancata, un uccellino, carino, il petto giallo, che saltella: da un sasso va sul ramo d'un albero, s'un cancello, su un'aiuola fiorita, poi sulla terra: scava col becco, alza la testa: ha trovato un cibo di suo gusto, buono. Ed io guardo, rapita, lo seguo e sorrido. Antonia Izzi Rufo Castelnuovo, IS


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NERO COME TE! Negro come te! No..., no.., no… Apro gli occhi e vedo: sono nero! Uomo di pelle nera e i miei occhi impazziscono. La mia pelle è nera e rivedo con terrore il sangue che cola dalla pelle nera. Sangue rosso su pelle nera. Ho visto come in un sogno uomini di pelle nera come la mia: tristi esangui sfiniti e poi… sangue sangue sangue che irrigava le piantagioni dell’uomo bianco. Allora mi son toccato la fronte fredda, i miei occhi sbarrati ed ho gridato: sogno sogno… non sono un negro! Non ho la pelle nera! Sono un uomo bianco che ha paura di avere la pelle nera. Stanotte ho sudato al pensiero di essere negro. Ma chi è questo negro? Chi è quest’uomo dalla pelle nera? Che cos’è quest’odio? Che cos’è questa frusta? Che cos’è questo mercato? Bianco perché non vuoi essere negro? Non è nera la terra che calpesti? Non è nera la terra che ti ghermisce? Tu sei bianco! Si. tu sei bianco! Hai bisogno di una morte bianca… hai bisogno di una terra bianca… Bianca è la tua lama che uccide; bianco è il tuo cavallo che corre; bianca è la tua anima nera; bianco è il tuo cuore di ghiaccio. Bianco, negro, bianco, negro… Tutti gli uomini hanno un’anima! Mario Piccolo L’ULTIMO TEMPO Tra veglia e sonno consumi l’ultimo tempo che ti è toccato. Vai ai giorni di mare, al fuoco che bruciava barche all’orizzonte. Tra veglia e sonno

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non riconosci più le ore. Ti è splendore la notte, oscurità l’arco del sole. In questo costante perderti non dimentichi il mio nome. So che mi chiami sempre negli stessi istanti, perciò io ti rispondo da lontano, e tu, che di me immagini la voce, beata continui a smarrirti nel passato, quando a sera si alzava dalle colline la luna e il mattino era raggio che improvvisamente ti destava. Gianni Rescigno Da Il vecchio e le nuvole, BastogiLibri, 2019

OCCHIALI NERI DA SOLE (Abbandonato in una Milano del dopoguerra)

Mi ricordo che prima piansi a lungo, sia di giorno che di notte. Poi, crescendo, ho reagito accanitamente, taciturno, deluso, mi sono immerso nello studio, fino alla laurea, all’abilitazione, fino ai concorsi, ed oltre. Mi sono ubriacato di lavoro, con determinazione d’acciaio ho voluto crearmi il più presto possibile una mia vita indipendente. La mia esistenza è rimasta, comunque, segnata indelebilmente dalla separazione dei miei genitori (quando ero nato, mia mamma – una ragazza bellissima – aveva solo sedici anni, e mio padre solo venti), separazione aspra in una Milano 1944 per me incomprensibile e ostile. Ecco perché, ancora oggi, il mio, talvolta, è un fluttuare lento in notturni silenzi senza fondo,


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parlando a fantasmi di cose umane. Mi rivedo bambino spaurito – tenuto nervosamente per mano da mio padre – offuscare di lacrime, in silenzio, i miei occhiali da sole soffocanti, mentre mia madre si allontana per sempre. Luigi De Rosa Da Fuga del tempo, Genesi Editrice, 2013

È in stampa - presso la Genesi Editrice – via Nuoro 3, 10137 Torino - il volume di racconti di DOMENICO DEFELICE NON CIRCOLA L’ARIA Il libro, di circa 200 pagine, prezzo di copertina 12 €, può essere prenotato anche via email: genesi@genesi.org Scrive l’Editore: “Ho letto i 21 racconti, brevi, ma incisivi, movimentati, pungenti, diversificati in un ampio repertorio di occasioni che riguardano sia la vita vissuta sia la storia passata sia il sogno e la fantasia, ma sempre scritti con garbo appropriato, anche se connotati da un ritmo incalzante e corsivo (o corrosivo?). Tutti insieme formano un ricco mosaico rappresentativo della personalità di un uomo alacre sognatore onesto e straordinariamente combattivo, ovviamente in senso positivo: dalla parte della giustizia, della libertà e dell’uguaglianza, nel tentativo quasi impossibile di fare circolare aria nuova, per poi scoprire che il sentimento del soffoco è per lo più un condizionamento psicologico che ci creiamo nella nostra mente. Addirittura un filare di rose, a seconda di chi lo impianta, può crearci un sentimento di claustrofobia oppure al contrario può indurci a gioire di più della vita quotidiana.” Sandro Gros-Pietro

D. Defelice: Il microfono (1960)

NOTIZIE IL NOBEL PER LA LETTERATURA 2020 A LOUISE GLÜK – L’Accademia Svedese ha assegnato il Premio Nobel per la letteratura di quest’anno – circa 960 mila euro - all’americana Louise Glük, che ha sempre trattato temi legati all’esistenza umana, in gran parte da lei stessa sperimentati, come anoressia, contrasti e difficoltà familiari, divorzi; un mondo personale innalzato a vicenda universale, ma anche terrorismo, paura, sofferenza, morte, la perdita, il rifiuto, il fallimento, le lacerazioni interiori, che travagliano da sempre la società mondiale e che, ai nostri giorni, si son fatti sempre più perniciosi. Louise Glük nasce a New York il 22 aprile 1943 e si laurea nel 1968 alla Columbia University School of Arts. Insegna nell’Università di Yale. Poetessa e saggista molto apprezzata in patria, nel 2003 è stata insignita del titolo di poeta laureato degli Stati Uniti. Tra i tanti Premi, ha vinto il Pulitzer nel 1993 e il National Book Award nel 2014. Tra i suoi saggi, ricordiamo: Proofs and Theories: Essays on Poetry


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(1994) e American Originality: Essays on Poetry (2017). Tra i volumi di poesia: Firstborn (1968), The House on Marshland (1975), Descending Figure (1980), The Triumph of Achilles (1985), Ararat (1990), The Wild Iris (1992, L'iris selvatico, traduzione di Massimo Bacigalupo, Varese, Giano, 2003), The First Four Books of Poems (1995), Meadowlands (1997), Vita Nova (1999), The Seven Ages (2001), Averno (2006, Averno, traduzione di Massimo Bacigalupo, postfazione di José Vicente Quirante Rives, Napoli, Libreria Dante & Descartes / Editorial Parténope, 2019), A Village Life (2009), Poems: 19622012 (2012), Faithful and Virtuous Night (2014). (D. Defelice) *** UN PARCO PER DON ANGELO ZANARDO – Alle dieci del 29 ottobre 2020, in Aprilia (Lt), nella parte nuova della città, è stato inaugurato un parco dedicato alla memora di don Angelo Zanardo, che è stato parroco per tanti anni e ha messo su e gestito un importante Centro di Formazione Professionale, che negli anni 70/80 del secolo scorso ha preparato migliaia di allievi e contribuendo, così, alla loro assunzione nelle fabbriche del territorio. Don Angelo Zanardo è morto il 14 maggio 2011 a Vittorio Veneto, presso l’Istituto San Raffaele di cui faceva parte. Era nato in quella città il 21 marzo 1922, ma per molto tempo è vissuto e ha operato nella pianura Pontina. È stato – ripetiamo - sacerdote e parroco in Aprilia (Lt) e dagli anni sessanta agli anni novanta ha diretto il Centro di Formazione Professionale ENAP San Giuseppe. Personalità energica e attivissima, don Angelo Za-

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nardo. Ha consumato la sua vita al servizio della comunità e particolarmente dei giovani. Prima nel vecchio Centro al centro di Aprilia e poi, quando la struttura si è resa inadeguata, in quello nuovo di via dell’Industria, ideato e costruito su suo progetto e con fondi racimolati presso gli industriali e i semplici cittadini, che di lui avevano grande stima e fiducia. In quel Centro, i cui corsi erano finanziati dalla Regione Lazio, abbiamo insegnato diritto del lavoro e legislazione sociale a partire da 1978 e fino al novembre del 1990. Era un Centro all’avanguardia: laboratori attrezzatissimi al piano terra; aule di teoria al piano superiore; la mensa, servita da un’ampia cucina e da personale dipendente dal Centro; un campo sportivo; una bella e grande piscina; un’ampia aula conferenze, spesso utilizzata dalle Industrie del territorio. Il contatto tra il Cento e le attività produttive


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era strettissimo, perché reciproco era l’interesse che tutto funzionasse a meraviglia. Sono stati migliaia e migliaia i giovani che, una volta usciti preparati in quella struttura, hanno trovato lavoro a tempo indeterminato. Sono stati effettuati corsi di meccanica, carpenteria, termoidraulica, saldocarpenteria, elettricisti, chimica, operatori su elaboratori elettronici, eccetera, tutti in sintonia con le richieste delle aziende del luogo; una perfetta sinergia, insomma, tra scuola e mondo del lavoro. Fiore all’occhiello del Centro è stato lo stage che gli allievi effettuavano ogni anno, prima della chiusura del Corsi, direttamente nelle unità aziendali dei vari settori, sicché, all’atto dell’assunzione, l’allievo lavoratore si sentiva perfettamente a suo agio. Don Angelo Zanardo era instancabile, non solo nel far funzionare la struttura come se fosse una efficientissima azienda (entrata alle otto di mattina al suono della sirena; pausa mensa a mezzogiorno, annunciata sempre dalla sirena; ripresa delle attività alle tredici e chiusura tra le sedici e le diciassette), ma nel tessere le relazioni col mondo delle attività produttive, del sindacato e della politica. L’aula delle conferenze era continuamente affollata per assemblee e convegni d’ogni genere e tanti sono stati gli esponenti del mondo produttivo e politico che, a vario titolo, sono stati ospiti nel corso degli anni. Ricordiamo, tra tutti, Giulio Andreotti. L’opera sociale, svolta nel territorio da don Angelo Zanardo e dal suo Centro di formazione professionale, è stata veramente enorme. Centinaia sono stati i giovani deviati o in difficoltà per motivazioni diverse (per esempio, per genitori in galera) che, attraverso la struttura e l’opera del suo direttore, hanno ritrovato il senso della vita e un lavoro stabile che ha permesso loro di farsi una famiglia. Per questo e per altro ancora, don Angelo Zanardo è stato stimato e voluto bene da tutti gli abitanti di Aprilia, dagli allievi e dal personale del Centro; doveroso, allora, l’intitolargli uno spazio verde, all’aperto, dove tutti possano sempre ricardarlo al contatto con la natura che egli amava, tanto è vero che anche il Centro che lui dirigeva era quasi un’oasi, con pini, eucalipti, siepi e prati verdi; vita e lavoro – egli ne era consapevole - si svolgono con ritmi più sereni se intorno ci sono erba ed alberi e meno cemento soffocante. Domenico Defelice Le immagine: 1) Aprilia, giugno 1980. Don Angelo Zanardo, tra il vescovo mons. Gaetano Bonicelli e l’onorevole Giulio Andreotti, in occasione della presentazione, agli industriali della città, del nuovo Centro di Formazione Professionale, sorto in via dell’Industria. Il primo a sinistra, in camicia bianca,

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Domenico Defelice, allora corrispondente del quotidiano Avvenire, testata che ha pubblicato un servizio sul numero del 29 giugno; 2) Aprilia, 30 giugno 1995: don Angelo Zanardo contornato dal suo personale. Il nostro direttore è a sinistra, con le braccia incrociate.

LIBRI RICEVUTI ISABELLA MICHELA AFFINITO – Lettera a… - Poesie, Prefazione di Giuseppe Manitta, Introduzione della stessa Autrice – Il Convivio Editore, 2020, pagg. 110, € 14,00. Isabella Michela AFFINITO è nata in Ciociaria nel 1967 e si sente donna del Sud. Ha frequentato e completato scuole artistiche anche a livello universitario, quale l’Accademia di Costume e di Moda a Roma negli anni 1987 1991, al termine della quale si è specializzata in Graphic Designer. Ha proseguito, poi, per suo conto, approfondendo la storia e la critica d’arte, letteraria e cinematografica, l’antiquariato, l’astrologia, la storia del teatro, la filosofia, l’egittologia, la storia in generale, la poesia e la saggistica. Nel 1997 ha iniziato a prendere parte ai concorsi artistico-letterari delle varie regioni italiane e in seguito ha partecipato anche a quelli fuori dei confini d’Italia, tra cui il Premio A.L.I.A.S. dell’Accademia Letteraria Italo-Australiana Scrittori di Melbourne. Ha reso edite quasi 60 raccolte di poesie e volumi di critiche letterarie, dove ha preso in esame opere di autori del nostro panorama contemporaneo culturale e sovente si è soffermata sul tema della donna, del suo ruolo nella società odierna e del passato, delle problematiche legate alla sua travagliata emancipazione. Con “Da Cassandra a Dora Maar” (2006) ripropone le infinite donne da lei ritratte nei versi per continuare un omaggio ad esse e a lei stessa. Inserita in moltissime antologie, tra cui l’ “Enciclopedia degli Autori Italiani” (2003), “Cristàlia” (2003), “8 Marzo” (2004), “Felicità di parole...” (2004), “Cluvium” (2004), “Il suono del silenzio” (2005) eccetera. Sempre sul tema della donna ha scritto un saggio sulla poetessa Emily Dickinson. Pluriaccademica, Senatrice dell’Accademia Internazionale dei Micenei di Reggio Calabria, collaboratrice di molte riviste, è presente in Internet con sue vetrine poetiche. Tra le sue recenti opere: “Insolite composizioni” - vol. VIII (2015), “Viaggio interiore” (2015), “Dalle radici alle foglie alla poesia” (2015), Una raccolta di stili (15° volume, 2015), “Percorsi di critica moderna - Autori contemporanei” (2016), Mi interrogarono le muse… (2018), “Luoghi Personali e Im-


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personali” (2018), “Autori contemporanei nella critica (Percorsi di critica moderna)” (2019), “Una raccolta di stili” (17° volume, 2019), “Una raccolta di stili (18° volume, 2020). ** ISABELLA MICHELA AFFINITO – Una raccolta di stili (18° Volume), Prefazione della stessa Autrice – Carta e Penna Editore, 2020 – Pagg. 84, e. f. c.. ** LILIANA PORRO ANDRIUOLI – Poesia intimista e civile in Bruno Rombi – Il Geko Edizioni, 2020, pagg. 144, € 12,00. Liliana PORRO ANDRIUOLI, nativa di Milano, si è laureata in Fisica all’Università di Napoli, città nella quale, dopo aver soggiornato per anni a Genova, è rientrata da poco. Si è sempre interessata di critica, privilegiando quella letteraria e, in particolare, di poeti contemporanei. Tra le tante sue opere, ricordiamo: Valori umani e cristiani nella poesia di Elena Bono (1999), Poesia intimistica e civile in Bruno Rombi (1999), La ricerca del trascendente nella poesia di Margherita Faustini (2000), Tredici poeti per il terzo Millennio (2003), L’itinerario poetico di Silvano Demarchi e le sue tematiche fondamentali (2005), La narrativa di Silvano Demarchi (2010). ** MAURIZIO de GIOVANNI – Febbre – Editori La Stampa e La Repubblica, supplemento del 10.10.2020, pagg. 48. Maurizio de GIOVANNI è nato a Napoli il 31 marzo 1958, ove vive. Scrittore, sceneggiatore, drammaturgo, autore di moltissimi romanzi gialli. Lunghissimo l’elenco delle sue opere, molte delle quali con protagonista il commissario Ricciardi, altri con l’ispettore Lojacono, altri con Sara. Ecco alcuni titoli: Le lacrime del pagliaccio (2006), La condanna del sangue. La primavera del commissario Ricciardi (2008), Il metodo del coccodrillo (2012), I Bastardi di Pizzofalcone (2013), Sara al tramonto (2018), Dodici rose a Settembre (2019), Il pianto dell’alba. Ultima ombra del commissario Ricciardi (2019), Nozze per i Bastardi di Pizzofalcone (2019), Troppo freddo a Settembre (2020), Una lettera per Sara (2020) eccetera. ** ANTONIO MANZINI – Castore e Polluce – Editori La Stampa e La Repubblica, supplemento dell’11.10.2020, pagg. 48. Antonio MANZINI è nato a Roma il 7 agosto 1964. Scrittore, attore, sceneggiatore, regista. Si è laureato all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio D’Amico. Numerosi i suoi libri, tra i quali: Pista nera (2013), La costola di Adamo (2014), Era di maggio (2015), Non è stagione (2015), Orfani bianchi (2016), 7 -7 – 2007 (2016), Cinque indagini romane per Rocco Schiavone (2016), Pulvis et umbra (2017), La giostra dei

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criceti (2017), Fate il vostro gioco (2018), L’anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone (2018), Rien ne va plus (2019), Ogni riferimento è puramente casuale (2019), Ah l’amore l’amore (2020), Gli ultimi giorni di quiete (2020) eccetera.

TRA LE RIVISTE L’ORTICA – Pagine di informazione culturale, direttore responsabile Davide Argnani – via Paradiso 4 – 47121 Forlì – E-mail: orticadonna@tiscali.it – Ecco il sommario del n. 126, aprile-giugno 2020: A proposito di: Pellegrino Artusi, di Anabela Ferreira; Rovistando riviste, a cura di Davide Argnani; Rubrica Tam Tam; Equipollente: Rosa Alice Branco, traduzioni di Valeria Tocco; Il Professore Todero, di Giovanni Spagnoli; Inediti dal Laboratorio di Scrittura creativa; Poeti e libri: Segni e segnali del nuovo millennio, a cura di Davide Argnani; L’altezza del gioco, di Giulio Stocchi (parte prima); L’istinto altrove: La poesia vera di Michela Zanarella, di Luciana Raggi; La poesia di Pierluigi Capello “Un prato in pendio”, di Davide Argnani; Concorsi. * FLORILÈGE – Rivista trimestrale di creazione letteraria e artistica, Presidente Stephen Blanchard – 19 Allée du Maconnais – 21000 Dijon (Francia) – email: aeropageblanchard@gmail.com – Impossibile riportare l’intero sommario. Da sottolineare, le splendide e ricercatissime pitture di prima e quarta di copertina, dovute a Michael Cheval, ma ce ne sono altre all’interno, sempre a colori, di Arfoll, Marc Andriot, Loui Jover, Cécile Cayla-Boucharel, Jean-Claude Bligny; tra le centinaia di poesie troviamo anche una di Béatrice Gaudy (che spesso appare anche sulle nostre pagine) e una di Ferruccio Brugnaro, tradotta dalla Gaudy; segnaliamo anche Irène Clara, della quale leggiamo, a pag. 27, una sua prosa (“Nostalgie”) e una sua poesia (“À l’orée de l’automme”). Una splendida rivista tutta da leggere e alla quale invitiamo i nostri lettori a collaborare. * RENDITION OF INTERNATIONAL POETRY, Quarterly multilingual (inglese – cinese), Direttore Zhang Zhi – P. O. Box 031, Guanyinqiao, Jiangbei District, Chongqing City 400020, P. R. China – email: iptrc@126.com – Riceviamo il Volume 99, numero 3, agosto 2020, la cui copertina a colori è dedicata a Choi Lai Sheung (Hong Kong), con poesie e biografia all’interno; seconda di copertina, a colori, foto e poesie di James Sutherland-Smith (Slovacchia); terza di copertina, a colori, foto e 4 pitture


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di Yuan Hongye, Cina; in quarta di copertina, foto a colori di: Liza Leyla (Belgio), Jiang Mo (Cina), Janina Osewska (Polonia), Iakovos Thiras Karamolegkos (Grecia), Liang Shengling (Cina, del quale, in questo stesso numero, pubblichiamo tre poesie), Tareq Samin (Bangladesh) Maki Starfield (Giappone), Lu Yanjiang (Cina): di tutti, poesie all’interno. Numerosi e validi i poeti cinesi. Invitiamo i nostri lettori a contattare il Dr. Zhang Zhi e collaborare. * L’ATTUALITÀ – mensile di società e cultura fondato e diretto da Cosimo Giacomo Sallustio Salvemini – via Lorenzo il Magnifico 25 – 00013 Fonte Nuova (Roma) – e-mail: lattualita@yahoo.it – Riceviamo il n. 9, settembre 2020. Tra le numerosissime firme, segnaliamo, a pag. 7, quella della nostra collaboratrice Elisabetta Di Iaconi, che recensisce “La libertà di amare”, di Roberto Croce e, a pag. 9, quella di Isabella Michela Affinito, pure nostra collaboratrice, che cura la rubrica “Io e i pianeti dello zodiaco”, interpretazione – in questa puntata - del tema natale di Giulietta Masina.

___________________________________ PRIMA COMUNIONE DI RICCARDO – Il primo nipote del nostro direttore, Riccardo

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Carnevalini Milano, ha ricevuto la prima Comunione domenica 18 ottobre 2020 nella chiesa parrocchiale di San Benedetto Abate, piazza Indipendenza, Pomezia, presenti pochi intimi (genitori, nonni, zie e zii, cuginetti), causa restrizioni Covid 19. A Officiare, il parroco don Giuseppe Billi. Dopo, hanno tutti festeggiato presso un ristorante in agroturismo in zona Campo del Fico, nei pressi di Aprilia (lt).

AI COLLABORATORI Inviare i testi (prodotti con i più comuni programmi di scrittura e NON sottoposti ad impaginazione) preferibilmente attraverso E-Mail: defelice.d@tiscali.it. Mantenersi, al massimo, entro le tre cartelle (per cartella si intende un foglio battuto a macchina da 30 righe per 60 battute per riga, per un totale di 1.800 battute). Per ogni materiale così pubblicato è gradito un contributo volontario da inviare intestato a: Domenico Defelice - via Fratelli Bandiera 6 - 00071 Pomezia (RM). Codice IBAN: IT37 N076 0103 2000 0004 3585 009 Codice BIC/SWIFT: BPPIITRRXXX Per quelli più lunghi, prendere accordi con la direzione. I libri, per recensione, vanno inviati in duplice copia. Il mensile è disponibile sul sito www.issuu.com al link: http://issuu.com/domenicoww/docs/ ___________________________________ POMEZIA-NOTIZIE Direttore responsabile: Domenico Defelice Redattore Capo e impaginatore: Luca Defelice Segretaria di redazione: Gabriella Defelice Responsabile Posta Elettronica: Stefano Defelice ________________________________________ Per gli U.S.A.: IWA - Teresinka Pereira - 2204 Talmadge Rd. - Ottawa Hills - Toledo, OH 43606 - 2529 USA Per l’AUSTRALIA: A.L.I.A.S. - Giovanna Li Volti Guzzardi - 29 Ridley Ave - Avondale Heights VIC 3034 - Melbourne - AUSTRALIA


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