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Leone D’Ambrosio, Teorema elementare, di Tito Cauchi, pag

LEONE D’AMBROSIO

TEOREMA ELEMENTARE

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di Tito Cauchi

LEONE D’Ambrosio poeta di Latina (nato in Francia, a Marsiglia nel 1957), non passa inosservato; la critica a firma di nomi illustri e i premi di concorsi acquisiti, ne sono una prova. Teorema elementare è recente raccolta che apre con il componimento eponimo; sulla sua copertina figura il componimento ‘Hic verbum caro factum est’ [“Questo verbo si è fatto carne”, unico titolo in latino] che, in un certo senso, fa sintesi della sua poetica. In esergo citazioni di Alfonso Gatto, Brianna Carafa, Elio Pecora.

Elio Pecora avverte della presenza costante dei genitori, defunti, anzi possiamo dire che il motivo ricorrente del Poeta è la morte, come conclusione della vita; perciò ritorna nei luoghi vissuti come quelli del Circeo e descrive gli oggetti che animarono quei luoghi, la poesia si anima di artisti famosi da lui amati. La sua poesia, dice il Critico, ha il sapore sabiano “come espressione onesta del sentire e dello stare nella vita”. Carmine Chiodo rafforza la figura del Nostro rilevando che a questi temi si sovrappongono immagini che trasudano di aspetti umani interiori in cui il Poeta ritrova sé stesso, con un linguaggio privo di retorica, una poesia “non per nulla cerebrale o scontata”.

Il componimento eponimo incipitario, è di una profondità e di una vastità, il cui commento richiederebbe pagine intere. Intanto il titolo si presenta all’apparenza in senso scolastico come prerequisito per affrontare il resto, sottintendendo il riferimento alla “vita”, che non è per tutti uguale. “Portami un cesto di parole/ quando verrai a trovarmi, / una brace di sole/ e una carezza di mare/ del mio paese, un frammento/ di luna che squarcia la notte. / […] // Ma la sera, non so perché/ il mio pensiero torna a te, / al dubbio dell’eterno/e a questo mondo/ che non è dei morti”.

La percezione è che Leone D’Ambrosio abbia superato un travaglio esistenziale di macerazione; ma sa che la realtà maturata, pur mutabile, da individuo a individuo e in ogni “stagione”, ha confini incerti, come le “forme dell’acqua”. Pressante è il senso della morte che accompagna il corso della vita, come quando la morte è sopraggiunta in “un mattino di maggio” (portandogli il padre). È necessario inquadrare i singoli componimenti in un contesto più ampio che è quello del poema autobiografico, che si appalesa chiaramente: “Il padre di mia madre era/ un pescatore con sei figlie/ […] / La madre di mia madre/ portava in equilibrio sulla testa/ una grossa cannata d’acqua/ […] Parla d’infanzia questa casa/ ormai sbiadita e mai perduta, / invecchiano con me le sue stanze/ mentre il resto del mondo tace.” (p. 29).

Abbiamo interlocutori silenziosi; la seconda persona pronominale prende corpo, soprattutto, nel nome di suo padre: “Ovunque tu sia, padre mio, / in qualunque altro cielo, io/ ti cerco seguendo le orme, / […] / Eppure

tutte le tue cose/ sono nella vecchia casa/ che non è più nostra,” (p. 14), il cui posto a tavola è rimasto vuoto “da dieci anni e più” (p. 33). Destinataria è anche la genitrice: “obliquo è il tuo silenzio, /per sempre lieve il tuo soffio/ fin da quando ci lasciasti, madre mia,” (p. 15). Ci fa sapere che suo figlio “Sazio di giovinezza ha dichiarato guerra al mondo” (p. 16) e che “si laurea in cinema con Riso amaro” (p. 27), film di cui cita gli interpreti Silvana Mangano e Vittorio Gassman. E suo fratello che, da ragazzo, si divertiva ad acchiappare le lucertole. Per marcare il tempo delle composizioni, si sofferma sulla “quarantena” e sul “lockdown”, venuti alla ribalta a causa della nota pandemia (Covid 19); senza dimenticare le atrocità e differenze sociali, come in Afghanistan (le donne picchiate a Kabul).

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Abbiamo componimenti dedicati a personaggi della cultura (scrittori) colti entro una cornice geografica (generalmente Centro Italia) che ne è il luogo dell’anima e sono caratterizzati dalla specifica forma d’arte o di una circostanza; quasi tutti passati a miglior vita, come si vuol dire. Ma a Elio Pecora, che gode buona salute, dice che a Sant’Arsenio [Salerno] viene visitato da Erato “con il capo coronato di mirti e di rose”.

Valentino Zeichen [poeta triestino, per scelta] viveva a Roma sotto un tetto in eternit nel timore delle ruspe. Nelo Risi, felice nel ricordo della spiaggia di Sperlonga (Latina), viveva (mi pare di capire) dalle parti di via del Babuino (a Roma); sofferente, a fatica, rispondeva al Poeta su esortazione di Edith [Bruck, moglie, scrittrice ungherese, naturalizzata italiana, tuttora testimone della shoah]. Severino Gazzelloni: “il soffio magico del suo flauto” è rimasto fra le valli ciociare. Paolo Borsellino: “Quel giorno in via D’Amelio” la strada si è “ingozzata di morte”; inutile ogni commento. Pietro Vitelli, scrittore delle parti dei Monti Lepini [tra Frosinone e Latina], ascolta “Il dolore forma la vita, /l’acqua scorre sonnolenta/ come il dialetto contadino/ del padre e della madre”. Ennio Morricone, lo ricorda ascoltandone la musica. Cesare Pavese: “la morte ha avuto i tuoi occhi”. Domenico Rea è scrittore che guarda “l’infinito mare/ che bagna da lontano Napoli”. Mario Luzi è “malinconico come sempre”. Tina Modotti, di lei, tenendone fra le mani una fotografia, commenta: “L’anima è nell’ombra/ raggrinzita di un albero”. Eugenio Montale, ricordato nell’abitazione di via Bigli con Gina (la governante) che risponde al telefono. Guillaume Chpaltine ne “Il Beatnik di Parigi”, a lui ricorda: “Mentre mio padre e mia madre/ partivano per nuove frontiere/ tu dicevi addio all’incanto della rive gauche […] / Ora è settembre ci siamo ritrovati/ a riammucchiare la nostra memoria”, (p. 78).

Uno sguardo al mondo classico della Grecia, con la poesia dal titolo “La scuola di Atene”; un brano recita: “Si va alla ricerca di un mondo/ invisibile in un perimetro/ definito da confini e da altri testi del passato”; suppongo si riferisca al celebre affresco di Raffaele Sanzio in cui sono rappresentati gli antichi filosofi e matematici greci. Come pure a Cadmo e Armonia, personaggi mitologici greci, uniti da un grande amore, costretti ad allontanarsi da Tebe portandosi una condanna.

La morte sempre presente, come da Teorema elementare, diventa un postulato, perciò abbiamo la notizia di cronaca sul ritrovamento di un reperto archeologico romano a Fondi [Latina], al tempo dell’arresto di due brigatisti dell’agguato in via Fani tristemente nota a Roma, con la strage della scorta dell’onorevole Moro. La morte del genitore non può restare isolata, pertanto la sua figura torna negli intermezzi ora attraverso “una camicia consumata/ al collo di mio padre”; oppure sottinteso, ma vale per tutti: “ti chiamo per nome/ e tu non arrivi”; o anche “da quando hai lasciato questa casa”.

Leone D’Ambrosio ha metabolizzato in modo robusto i suoi sentimenti affettivi e li ha rielaborati, usando un lessico chiaro, onesto e per nulla cerebrale, confermando quanto indicato nella prefazione e nella postfazione.

Inevitabili sono le figure retoriche, praticamente a ogni piè sospinto come le metafore che, fra l’altro, tradiscono i moti interiori, come è naturale che sia; che ci restituiscono un Poeta in pieno delle sue emozioni. Così: cesto di parole, cespo d’acqua, forme d’acqua, ombra, obliquo, curva, geometria, traducono il senso di incertezza, l’essere in bilico; mentre l’uso delle voci relative agli elementi naturalistici come alberi e frutti, prugnolo, luna e sole, stelle e mare, albe e tramonti, ecc., traducono l’attaccamento alle sue radici, in una esplosione poetica. Allo stesso modo le località descritte o nominate come il Circeo e il suo Sud (quello francese della Provenza dove è nato in Marsiglia; e quello in Italia a Latina dove vive e dintorni).

La sofferenza è nel destino dei poeti. Un Poeta sente che per ognuno che si congeda dalla vita, muore una parte di sé stesso; perciò egli muore mille volte e mille volte rinasce grazie al miracolo della poesia. E Leone D’Ambrosio, nel desiderio di avere qualcuno che gli parli di loro, dialoga con i trapassati, supera lo steccato invalicabile della morte, e tenta di restituire loro un lembo di vita.

Tuttavia la sua è poesia colta e i componimenti rischiano di essere selettivi dei lettori, in quanto non si può pretendere che tutti conoscano personaggi e circostanze che si riscontrano, ciò può costituire un limite per la comprensione. Mi piace concludere con i seguenti versi che sembrano giustificarne i contenuti: “Torniamo a volte nel luogo dove siamo stati felici/ fissando negli occhi quella che è stata la nostra vita, / le persone e le cose che abbiamo amato. / Ma qui non odo più la tua voce/ e nessuno ti nomina più,” (p. 76). Un insegnamento che non possiamo eludere. D’altronde la poesia va meditata e vissuta, compenetrata e amata, se la si vuole comprendere; ed io spero di avervi contributo.

Tito Cauchi Leone D’Ambrosio: Teorema elementare,

Ensemble, Roma 2022, Pagg. 86, €12, Prefazione di Elio Pecora, Postfazione di Carmine Chiodo. Inoltre: Leone D’Ambrosio: Non è ancora l’addio, Ed. Azimut, Roma 2010, Pagg. 80, € 10,00, al Premio Nazionale Poesia Edita, Leandro Polverini in Anzio, ha ottenuto il 1° posto assoluto con la seguente motivazione: Poesia essenziale, lapidaria quella di Leone D’Ambrosio che denota un attento studio della struttura formale dei versi e anche un notevole patrimonio limbico. La raccolta è esente dai pericoli e dalle tentazioni rugginose della retorica e riscatta con la misura il contenimento dell’intensità espressiva che, nei momenti più intensi dei suoi versi (e non sono pochi quelli permeati di lirica effusiva), si condensa in parole definitive come quell’addio nell’ultimo verso di pagina 67 del libro. (Recensione e motivazione inserite nel volume TITO CAUCHI, Profili Critici 2011, Editrice Totem, Lavinio Lido (Roma) 2015, Pagg. 164+10, € 20,00).

VOLENTIERI

Mi nascondo per non apparire al mondo nel vello frugale d’ipocrite presunzioni.

So di essere soltanto un gomitolo di carne ed ossa in guscio di latta.

Scalzatemi se volete, qui, nella grotta, c’è angolo di pace, ricettacolo d’amore.

Odo anche voci remote da fuscelli rinati e scorgo rosee figure, svettate, da campi di grano.

Graziano Giudetti

Da: Profondo Jonio, Edizioni Il Croco/Pomezia-Notizie, 1996.

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