Luigi Taglienti
Io, istintivo e razionale
Carla Milone - Bassorilievo a Persepoli
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Editoriale
Feeling, passioni e
Kate Moss
A
lex Bilmes è uno dei miei giornalisti preferiti da quando, due anni fa, scrisse il più bell’articolo che avevo mai letto su una donna. Il modo nel quale descrisse Kate Moss mi affascinò oltre ogni immaginazione: le sue parole su Esquire mi sono rimaste ancora imprese. Piccolo estratto: “Ora, a quarant’anni, è più felina e meno angelica. E’ femmina femmina, con delle curve da donna e non da modella. I suoi movimenti sono più languidi e meno nervosi. E’ rimasto intatto il suo potere di sedurre. Sa essere elegante e subito dopo stracciona. Rara e squisita. Umana e divina. Poderosa e vulnerabile. Glamour e terrena. Ofelia e Lady Macbeth. Una modella multimilionaria e la fidanzata più bella del mondo. Moglie ed esibizionista. Dominatrix e beach babe. Socialite e amica. E’ l’unica che piace ai maschi stupidi e a quelli intelligenti, ai tamarri e ai gentleman, ai belli e ai brutti. Sa le buone maniere e ha dei cattivi comportamenti. Chi ha lavorato con lei sostiene che nessuna fotografia le rende giustizia, perché di persona è molto più passionale e sconcertante che nei video e le immagini che ammiriamo in tv e sui giornali. I grandi della macchina fotografica sostengono che ogni qualvolta hanno avuto l’occasione di posarla si sono trovati davanti una Kate Moss diversa. Icona di stile, icona del grunge, pin up, marchio”. Continua, Alex: “A 40 anni
è più bella, popolare e famosa che mai. Non sappiamo mai nulla di lei. Non ha twitter, Facebook, Istangram, non rilascia interviste. Never complain, never explain, frase imparata dal suo ex fidanzato Johnny Depp. Lo studioso Kevin Kopelson ha sentenziato che nella storia ci sono soltanto due donne che incarnano tutte le contraddizioni appena elencate: Kate e Mona Lisa”. Ovvio che uno che scrive così lo segui sempre. E quando si mette a tessere le lodi di un ristorante pendi dalle sue parole: il locale in causa è il londinese Corbin and King. Colpiscono alcune frasi dove più o meno spiega cosa rende grandioso un ristorante: “Non sono le materie prime, non la clientela, non la location e il maitre. Sono le vibrazioni, il ronzio piacevole, il trambusto, il feeling e il modo nel quale ti fanno sentire”. Ecco: perché alcuni posti sono freddi, asettici, impersonali e spersonalizzati, nonostante ingenti investimenti? Semplice: manca la gente che sa toccarti l’anima. Manca la passione, il coinvolgimento, la voglia di stupire. Ci sono cose che si possono imparare e insegnare, altre invece no. E la passione non si insegna a scuola, non c’è formazione che tenga. Alcuni chef, pasticcieri ristoratori sanno trasmetterti certe sensazioni e quel feeling che serve per farti sognare e tornare. Parte di loro sono al Taste of Milan. GOOD LIFE è la loro casa.
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di Dominique Antognoni
Sommario
Good Life Food is art
Luigi Taglienti Io, come Allenò pag. 06
Wicky Priyan L’arte del kaiseki pag. 08
Felice Lo Basso Immagina. Puoi pag. 10
David Chang Un genio a NY pag. 12
Andrea Asoli Sognando Uliassi pag. 16
Camilla Baresani Sbafatori americani pag. 20
Sono Berton. Andrea Berton pag. 22
Joe Bastianich Lezione di marketing pag. 32
Andrea Illy Stellati, ma non solo pag. 36
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Silvia Dorigo Taste, What else?
Q
uando penso a Taste, continua a tornarmi in mente la primissima edizione di Taste of London nel 2004: eravamo giovanissimi, temerari e con l’idea di creare un nuovo modo di far vivere l’alta cucina a tutti e allo stesso modo di sdoganare i grandi chef rendendoli finalmente accessibili. Che meravigliosa esperienza fu, pur con tutte le problematiche di una prima edizione! Poi mi torna in mente, come se fosse ieri, la prima edizione di Taste of Milano, a Parco Sempione: eravamo in quattro, sempre pazzi, giovani e temerari ed in sei mesi abbiamo lanciato un evento strepitoso ed unico, che fece tanto parlare di se. Certo aveva i suoi difetti, certo la prima sera i due terzi dei ristoranti hanno finito le porzioni dopo un’ora e siamo rimasti tutti a lavorare di notte per sistemare ed essere pronti il giorno dopo, ma che emozioni! E’ stato come andare sulle montagne russe: gli chef e le migliaia di visitatori per la prima volta si erano ritrovati insieme nel cuore verde della città. Quest’anno siamo alla settima edizione e mi ritrovo come una mamma che guarda il suo piccolo e non le sembra vero sia già così cresciuto. Il piccolo ogni anno cambia un pò e quest’anno si tratta davvero di un grande cambiamento: una nuova casa che ci ha offerto la chance di
ripensare il layout dell’evento e renderlo più accogliente; tanti nuovi partner che hanno deciso di credere nell’evento e sostenere le nostre idee: da Esselunga che ci consente di creare il charity restaurant con chef come Claudio Sadler, Norbert Niederkofler, Filippo la Mantia e Ernst Knam ed il cui ricavato andrà a beneficiare 4 onlus impegnate nel campo della malnutrizione, a Etihad che ci porterà in un ideale giro del mondo con i propri chef di bordo. Pane e pizza di qualità, per ritornare a mangiare bene dalle basi, sono anche due trend del momento e, grazie al Molino Vigevano, sarà possibile mettere le mani in pasta nel Laboratorio – già mi sembra di sentire il profumo che invade l’evento! Con il nostro storico main partner Electrolux abbiamo studiato una bakery che sarà gestita proprio dal re del cioccolato Knam e dove tutti potranno farsi un selfie con il proprio dolce preferito. Con Ferrarelle una grande tavolo conviviale dove abbinare pizza gourmet e grandi chef e con gli esperti fratelli Trimani non potremo fare a meno di assaporare grandi vini a prezzi accessibili e di scoprire nuovi produttori dalle storie e passioni impagabili. MI sono scordata qualcosa? Ah sì, i ristoranti ed i loro menù! Non si possono vedere senza
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che il battito cardiaco parta a mille! Ma quando ci capita nel resto dell’anno di poter mescolare a piacere 80 piatti di questo livello e a questo prezzo? Lo spirito per venire a Taste e goderne appieno è quello di raccogliere amici e famigliari che amino minimamente mangiar bene, portarsi dietro i figli, se uno ne ha, perché è giusto cominciare da piccoli ad apprezzare la qualità ed il gusto buono, mollare la dieta, studiarsi i menu prima scaricandoli dal sito ma poi lasciarsi abbandonare ai sensi, seguire il naso e gli occhi e provare di tutto, condividendo ogni piatto per assaggiarne il più possibile. Gli chef ed i loro team sono presenti e super disponibili e quindi è bello parlare con loro, chiedere consiglio, fare domande su quello che hanno preparato e perché: scoprire quanta passione e lavoro mettono dietro ogni ricetta e quanta disciplina c’è nelle loro cucine per offrire a noi piccoli attimi di piacere. Per una sera o un pomeriggio consiglio di lasciare alle spalle i propri problemi e abbandonarsi all’esperienza culinaria, alla convivialità, alle attività ludiche e alle scoperte…il mondo la fuori sarà sempre li ad aspettarci, sempre uguale, ma noi lo affronteremo con un senso di appagamento diverso! Buon Taste of Milano a tutti!
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Luigi Taglienti L
Io, come Allenò
’apertura del suo nuovo ristorante, Lume, in Via Watt al 37, laddove prima c’era Richard Ginori, è il grande evento della prima parte dell’anno. Per la verità l’attesa si sta protraendo oltre le previsioni, tanto da far diventare spasmodico l’interesse per il nuovo ristorante di Luigi Taglienti, ex chef prodigio, oggi chiamato a confermare il suo gran talento. La clientela, soprattutto quella femminile, è impaziente al massimo: perché sì, lo chef ligure fa sospirare, e tanto, le donne milanesi e non solo. Non è facile parlare con lui di questi tempi: tenta di tenere nascosto il menù, il suo nuovo mondo, perfino il giorno dell’apertura. Dice e non dice (“si tornerà alle basi, si cucinerà con le mani”, l’unica concessione, oltre ad un piatto che però non possiamo scriverlo nemmeno sotto tortura), racconta mordendosi la lingua, si trattiene sempre sul più bello. Siamo riusciti a strappare poche nozioni, con la promessa di averne di più ad apertura avvenuta. Chef, ci contiamo. Intanto, ecco i concetti del Taglienti pensiero. E’ ancora innamorato dal profumo delle foglie di limone? Sempre. E poi, dieci anni addietro, quando cucinavo senza sale e con il limone, mi prendevano per pazzo, non mi capivano. Cos’ha fatto in questo ultimo periodo, da quando è sparito dal radar? Tantissimi eventi per i miei clienti, mi sono tenuto in contatto con loro, organizzando cene private e pubbliche. Poi, con la compagnia statunitense MB America, che in pratica gestisce anche il progetto Watt 37 e il ristorante Lume, sono stato a Miami, per una serie di serate nella ex proprietà di Al Capone, sulla Biscayne Bay, ora trasformata, proprio dalla MB America, in una location di lusso che si chiama Palm 93. Non è stato tentato di rimanere lì, a Miami, magari aprendo un ristorante? Sarei rimasto per la vita notturna della città, non per la cucina. La mia vita professionale è a Milano, assieme al gruppo MB. Lei che tipo di ruolo copre, all’interno della società? Ho un ruolo manageriale, assieme ai miei collaboratori gestisco le attività legate al mondo del food: ristoranti, eventi, catering. Non possiamo parlare del menù, però in due parole come possiamo
caratterizzare il mondo Lume? Uno spazio creativo, dove tutto nasce. Traducendo, un concept esportabile e replicabile? No, perché la mia cucina non è replicabile. Bottura è ancora il suo punto di riferimento? Stravedo per Yannich Allenò, per la sua visione manageriale del mondo della ristorazione, per come parla con la gente e per come esprime i suoi concetti. Ha una capacità straordinaria di interagire con i clienti, un’umiltà pazzesca: ha tre stelle Michelin, eppure non se la tira. Lui è il futuro, perché sa interpretare al meglio il ruolo di cuoco-manager. Quando è venuto a Milano mi ha regalato un’intera giornata, ci siamo confrontati su una infinità di aspetti. Una volte disse che la sua cucina è istintiva e razionale, allo stesso tempo. Se conosci le regole, puoi annullarle, creando dei sapori inediti, in pratica ti prendi dei rischi calcolati. Nelle interviste lei parla spesso della tradizione. Parlo del patrimonio, che è diverso. E’ quello che tu ti porti dietro, i sapori che hai codificato nella memoria, in base a questo puoi mescolare antichità e modernità. Una volta ha detto che fare lo spaghetto al pomodoro è una specie di esame di maturità. Confermo, aggiungendo che è un piatto sempre più difficile da farlo bene. A me piace da morire, così come il trafilato di pasta con un filo d’olio. Certi piatti proposti ai tempi di Trussardi alla Scala forse erano un tantino troppo avanti. Diciamo che non mi dispiace essere avanti. E poi veniva la gente da tutte le parti, solo per i miei piatti. Quando lasciò Trussardi disse che avrebbe voluto avere la possibilità di incidere di più sulle scelte, sulla sala, su tutto. A cosa si riferiva? Mi sarebbe piaciuta una visione più manageriale e internazionale, ovvero quello che stiamo facendo adesso con la compagnia americana. Anni fa si vantava di non avere un account twitter, pagina Facebook: ora si è “evoluto”? Si, si, ho perfino instagram, che uso come specchietto, sono diventato un grande fan. Mi piace comunicare, non postare dei piatti. Chef, ha un moto nella vita? Rinnovarsi continuamente e non avere mai la paura di ricominciare.
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Wicky Priyan L’arte del kaiseki
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l problema più spinoso è raccontare cosa e come si mangia da lui. La risposta, l’unica possibile, è che Wicky è Wicky. D’altronde come potreste raccontare le magie di Messi? O di Kobe Bryant e dei Pink Floyd? I Pink Floyd sono i Pink Floyd, punto. Il ragionamento vale anche per lo chef asiatico più ammirato e apprezzato, uno che lascia a bocca aperta e che ti fa sognare per davvero, nel senso che vai a letto ancora ebbro di piacere e ti svegli con il desiderio di ricordare le pietanze mistiche della sera prima. Ogni volta che si cena da lui ti tornano in mente le parole di Ruth Reichl, la più famosa critica gastronomica di sempre: “Senti un fremito in tutto il corpo, come se prima fossi stata congelata e ora il ghiaccio si stesse sciogliendo”. Diventa un problema anche definire e inquadrare la sua filosofia, perché giapponese è riduttivo (guai a dirglielo), asiatico è troppo vago: in una parola il termine giusto sarebbe kaiseki, che rimane l’espressione più alta e raffinata della cucina nipponica. Certo, non è necessario provare a incasellare la sua filosofia, è un esercizio per addetti ai lavori, un esercizio che finisce appena entri da lui, abbandonandoti alla seduzione, gustando i suoi aromi unici, irriproducibili, i suoi piatti inebrianti, autentiche esplosioni di profumi che provocano forti raffiche di brividi e sensazioni
frenetiche. Sublimi frivolezze che provocano turbamenti, con il sangue che ti romba nelle vene, esperienza esplosiva, avventura eccitante, vertigini di piacere, sibili di piacere feroce e tumultuoso che percorre tutto il corpo: Wicky provoca reazioni del genere, ogni volta che si va da lui. Ha una padronanza dei fondamentali che viene da lontano, sulla quale si innesta la capacità di variare e andare oltre, molto oltre. Spesso usiamo iperbole per creare un mondo fantasmagorico, ma nel suo caso si esagera per difetto: dopo un paio di piatti hai davvero una folle voglia di divorare il mondo, perché solo a guardare i piatti ti senti invaso dal desiderio di osare e andare alla conquista del mondo. Tecniche antiche e presentazioni moderne, Wicky vive con il culto delle materie prime, vive per far felice la gente, per superare le frontiere gustative, crea piatti per gente dal gusto sicuro, che colpiscono tanto il palato quanto la mente, piatti di una delicatezza vibrante. Accarezza le materie prime, le sue cotture sono da scienziato, ogni morso lascia senza fiato. E’ un mondo di piaceri che ti riempiono gli occhi, un mondo dove vivi momenti di piacere assoluto e profondo grazie alla sua cucina pittorica, perfetta, che a tratti ti stordisce e inonda la tua testa. La ventresca di tonno, burrosa, pare esalare l’ul-
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timo respiro mentre veniva adagiata davanti a te. L’angus scozzese con la salsa di soia e aceto di champagne canta, il foie gras marinato per venti giorni va oltre l’immaginabile, il tonno sembra seta, come il maialino cotto a bassa temperatura per sedici ore. Visti gli aggettivi utilizzati non sappiamo cosa e come descrivere la ricciola giapponese e la mille foglie di capasanta, lo scampo sardo con la pelle di yuzu, leggermente piccante. Se lo ascolti è tutto facile, usa antiche tecniche giapponesi e ingredienti italiani. Elementare anche il suo mantra, “Non sbagliare, non tradire”. Confessa senza problemi che per ideare e rifinire un piatto ci vogliono due, tre anni, sa che ha un compito che va ben oltre il mangiare divinamente: ha in mente un progetto culturale a lunga scadenza, vuole avvicinare la gente alla vera cucina kaiseki, consapevole del fatto che in Italia si spargono per giapponese piatti inesistenti dalle sue parti. Inutile chiedergli la classifica dei veri e migliori ristoranti nipponici in giro per il mondo, riesci a strappare due nomi, Umu e Nishimura, il primo a Londra, il secondo a Kyoto. Se vi aspettate molto, le vostre aspettative saranno interamente soddisfatte. E se volete passare una serata indimenticabile, andate da lui: uscirete con il corpo inondato di sensazioni e la promessa di tornare al più presto, magari il giorno seguente.
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Felice Lo Basso Immagina. Puoi
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hiudete gli occhi. L’estate si avvicina, le giornate si allungano, all’ora dell’aperitivo la luce è calda, morbida, vi trovate in pieno centro e avete la voglia matta di un posto da mille e una notte, quasi nascosto, intimo, un luogo raffinato e per pochi, lontano dal rumore metropolitano. Avete
un paio d’ore solo per voi, per pensare e mettere a fuoco le priorità, progettando le mosse future e accarezzando il presente radioso. Guardate l’orologio, sono quasi le 19 e sognate di sorseggiare una coppa di champagne ghiacciato, oppure un cocktail intrigante, forte, seducente, che pungola il desiderio amoroso, qualche
Cozze nere con finta maionese
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finger food elegante, che ti regali la felicità immediata. Arrivate in Piazza Duomo, prendete l’ascensore fino all’ultimo piano e come per incanto vi trovate davanti la più bella cartolina della città meneghina. Il ristorante Felix Lo Basso vi accoglie e vi ammalia, vi conquista e vi affascina fin dal primo istante: a destra si
Croccante di scampi, patata al basilico e gel di pomodoro
stanno preparando per la cena, a sinistra c’è il terrazzo vista piazza. Vi sedete sul divano, il bartender scelto personalmente dallo chef mescola il vostro drink, tirate fuori un sigaro, dietro di voi vedete il sole che inizia a calare. E’ un momento che aspettavate da tanto e ora ve lo gustate appieno. Life is now, la vita vi sorride, sentite il piacere come cresce in voi, un desiderio incandescente vi avvolge. Il silenzio è totale, guardate l’orologio: ancora pochi minuti e arriverà anche lei, con il suo sorriso unico e gli zigomi assassini, i movimenti felpati e leggeri, la bocca deliziosa come un mango maturo. E’ un sogno interminabile che proseguirà con la cena stellata, sempre lì. Felix è pronto ad accogliervi con i suoi giochi pirotecnici ed i piatti peccaminosi che puntano diritti alla lussuria. Lei è più bella che mai, con i seni morbidi come il velluto scuro, diritti e con la punta purpurea, la bocca arroventata e le labbra di seta, ebbre di piacere, il riso leggero che ti accarezza i sensi. Il menu sa di poesia, è in continua evoluzione, niente rewind ma tanta purezza e solarità italiana. Ogni morso lascia senza fiato, il primo boccone è un’emozione violenta, i gusti sono pieni, il foie gras è quello di sempre, saporito come un bacio, appena lo assaggi ti si schiudono territori sconosciuti. Poi via via tutte le sue diavolerie, il croccante di scampi, le cozze nere con il loro scoppiettio appena morsicate, l’astice in fondo al mare, ti sembra di assorbirne gli odori con la pelle. Inspirate a fondo, per godervi appieno
la poesia dei suoi piatti, il sangue vi romba nelle vene, la notte sta per iniziare. Ora potete aprire gli occhi. E se volete passare una serata indimenticabile, simile al racconto appena letto, sappiate dove andare: ristorante Felix Lo Basso, al quinto piano della Galleria Vittorio Emanuele.
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David Chang Un genio a NY
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ime lo ha incoronato già da tempo. Il titolo era forte, qualcosa del tipo lo chef che ha rotto le regole. Ed è vero, per molti motivi. Certo, il ragazzo è un genio, altrimenti la più famosa rivista americana non si sarebbe disturbata nel dedicargli tanto spazio e metterlo addirittura in copertina, accanto a Renè Redzepi e Alex Atala. Nella storia di David c’è tutta l’essenza della storia e del sogno americano, dalle origini alle ambizioni. In una frase potremmo sintetizzare così, la vita di Chang: un ragazzo di campagna che il padre coreano voleva diventasse golfista e invece, dopo una laurea in teologia, eccolo conquistare New York con i suoi piatti. “Amarlo, odiarlo, il fatto è che oggi è il cuoco più importante d’America”, dice Anthony Bourdain. Proviamo a fare un po’ di odine prima di fermarci sulle pietanze. Nato a Vienna, piccolo comune al confine fra Virginia e Maryland, ha passato l’adolescenza cercando di diventare un golfista professionista. Era il sogno dei padre e onestamente ci stava, perché se fai uno più uno allora il ragazzo aveva tutte le carte in regole per sfondare e portare a casa una montagna di soldi (perché si, gli americani sono ambiziosi e puntano diritto al danaro). Le origini asiatiche erano la garanzia dell’applicazione ferrea per raggiungere la perfezione, la vita negli States portava quella fame feroce di vittorie e successi. Probabilmente ad un certo punto si è reso conto di non avere il talento necessario, nonostante la voglia e la pazienza di migliorarsi, così che ha abbandonato i sogni di gloria, virando verso studi assai pittoreschi, ovvero la teologia al Trinity College di Hartford. Non è dato sapere come mai abbia passato da un’estremo all’altro, fatto sta che si è trasferito a Londra, forse consapevole di essersi un po’ troppo impapinato nella propria vita. Qui, in cerca di ispirazione per il futuro, fra lavori in studi finanziari (la teologia già dimenticata e archiviata), scopre la bellezza dell’arte culinaria, frequentando Wagamama, un noodles bar: morale della favola, il padre, ex cuoco, gli sconsiglia di imboccare la strada della cucina. Lascia anche la capitale inglese, partendo per il Giappone dove, altro cambiamento bizzaro, inizia a dare lezioni di inglese a Izumi Tottori, vicino Osaka: solitamente lo fanno i coloro che non trovano la strada giusta, aspettando il momento della grande ispirazione. Ed eccola: diventa amico di un gestore di un ramen e, giorno dopo giorno, si rende conto di essere vicino all’illuminazione. Si, aveva capito che stare in cucina sarebbe la sua vita. Il padre accetta, dopo inutili sforzi per dissuaderlo, pagando gli studi di David alla French Culinary Institute di New York (domanda, ma il figlio viveva con la paghetta del papà, come un milanese qualsiasi?). Nel 2000 eccolo diplomato e come primo lavoro viene ingaggiato al Mercer Kitchen, ristorante di Jean Georges Vongerichten. Segue al Craft (il ristorante di Tom Colicchio, nel Manhattan, dove inizialmente faceva il centralinista), poi si perdono le sue traccia. Difatti lascia New York per tornare in Giappone e da lì va a casa, in Virginia: al capolinea la sua vita in cucina? No, perché,
sempre grazie ai soldi del padre (130.000 dollari), apre un suo locale, un noodle bar nell’East Village: Momofuku, ovvero la pesca fortunata. Piccola parentesi: i noodles sono da sempre la passione degli Chang, il padre lo portava spesso in un noto ristorante coreano ad Alexandria, New York è forse l’unica città che faceva per lui, una metropoli dove si mescolano tanti stili, gusti e sfumature e senza una cucina caratteristica, ovvero un luogo dove pui importi se riesci a mettere assieme le tante anime di una città che ama la velocità e chi sa essere sempre un passo avanti. Aveva studiato tutte le tecniche dei noodles però il suo piccolo locale diventa famoso per una specie di panino, Pork Bun, in pratica il pane cinese cotto al vapore con pancia di maiale marinata. Detta così pare di sminuirlo, però la voce si è sparsa velocemente (siamo a New York, non dimentichiamolo) ed è
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diventato un must perfino per i turisti. La critica lo ha spesso accusato di avere dei comportamenti isterici e violenti (strano per un asiatico, ma le leggi della cucina si vede che valgono ovunque). Chi ha assistito alle sue sfuriate le descrive come “spaventose”, “prossime alla catalessi”. “Questi episodi”, scrive Anthony Bourdain, “culminano spesso con ammaccature lasciate dai pugni di Chang sui muri della sua cucina, così numerose da essere scherzosamente definite dai suoi cuochi innovazioni di design”. però il cibo viene apprezzatissimo. Come logica conseguenza David apre un altro locale, Momofuku Ssam Bar: conquista i critici e anche la gente, anche perché aperto fino alle 2.30 del mattino. “A chef e cuochi piaceva l’idea che esistesse un luogo dove poter mangiare un piatto di spaghetti preparato da un pazzo, burbero coreano-americano oberato di lavoro. Provavano gioia nel vederlo
insultare i clienti: lì deliziava che, dopo aver ricevuto lamentele sulla scarsità di opzioni vegetariane, reagisse mettendo carne di maiale in quasi tutti i piatti”, annotta Bourdain in “Al Sangue”.
Forse tutto questo vi pare assai lontano dal target di Good Life, però ora arriva il bello: nel 2008 apre il terzo ristorante, Momofuku Ko (in coreano Ko significa “figlio di”), solo 12 posti e la impossibilità di trovare uno
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posto libero (menu degustazione a 175 dollari, 14 portate). La gente impazisce, i giornali paragonano il posto all’Atelier di Robuchon per via dell’impostazione, ovvero un’isola centrale dove c’è la cucina e una dozzina di sgabelli attorno. Risultato? In due anni arriva ad avere due stelle Michelin: roba da non credere. L’espansione continua, quasi contro ogni immaginazione: nel 2010 apre Ma Peche nel cuore di Manhattan. Cucina franco-vietnamita, tutto pieno all’ora di pranzo. Da qui una infinita serie di premi e aperture, un successo continuo. Quello che a noi interessa maggiormente sono i suoi piatti, sempre più innovativi e geniali, da qui la sua fama di chef che riesce a interpretare al meglio la cultura newtorkese. Un esempio? Il foie gras grattugiato (si, grattugiato) sopra i lychee con la gelatina di Riesling e pinoli. In ogni piatto sono presenti almeno tre continenti, un misto straordinario di tecniche e materie prime che, messe insieme in maniera sapiente, creano un risultato impossibile da inquadrare: a meno che non consideriamo tutto questo cucina newyorkese. Facciamone un altro, di esempio: cannocchia nord americana con basilico e ananas. A onor del vero, la nuova linea è stata messa in piedi assieme a Sean Gray, suo executive chef dal 2014. Nei suoi confronti si percepisce una invidia palese: i motivi sono semplici. Non ha fatto una gran gavetta, non si è fatto le ossa in cucine a lavare insalate e ricci, non ha dovuto aspettare anni fino alla sua grande occasione. Idiozie inutili, alla fine della serata, come dice uno dei suoi ammiratori, David McMillan: “Non avrà un gran cv, ma alla fine della giornata sa rendere tutto delizioso”. e con i suoi piatti racconta la frenetica essenza newyorchese meglio di qualsiasi guida o reportage. Nell’arco degli anni trova il supporto di un altro cuoco che dal 2014 diventerà addirittura executive chef, Sean Gray, e con lui mette a punto una linea di cucina in grado di sintetizzare le mille influenze che la rendono massimo esempio di “newyorchesità”.
Enrico Cerea e Roberto Conti
Un mondo
U
perfetto
no prova sempre a immedesimarsi. Immaginate un giovane calciatore che passa un pomeriggio con Messi che gli insegna i trucchi delle punizioni. Oppure un giocatore di basket che per un giorno guarda da vicino come si allena Kobe Bryant. Ecco, mentre vedevo Roberto Conti in cucina assieme a Enrico Cerea pensavo proprio a questo, al paradiso toccato con un dito quando sei accanto al tuo idolo. L’occasione è stata una cena a quattro mani al Trussardi alla Scala: serata di piacere assoluto, sensazioni frenetiche, vertigini di piacere, onde di desiderio ardente, tripudio della gola, piatti peccaminosi, amorosi, profumi che rotolavano sulla pelle. Ti sentivi in vetta al mondo e Roberto, conoscendolo, ancor di più, perché ambisce alla gloria e ai riconoscimenti totali, assoluti di Enrico: giusto così, è giovane, ha una fame insaziabile di fare, La triglia di Roberto Conti
creare, sorprendere, arde in lui il desiderio di stupire. Ognuno dei due ha portato in tavola tre piatti del proprio repertorio: si è aperto con la pizza liquida di Roberto. Ne abbiamo parlato così tante volte che ormai la si conosce a memoria e la si vorrebbe assaggiare in ogni momento della giornata. Tocca l’anima, forse proprio per la sua semplicità. Poi è arrivato il turno dello shabu shabu di scampo di Sicilia e granita al lime, uno dei must assoluti quando si va Da Vittorio: inutile, impossibile aggiungere altro. Due piatti e la serata andava già di diritto nella classifica delle migliori dell’anno. Ma sarebbe stato solo l’inizio: perché subito dopo è arrivata l’insalata di coniglio alla pantesca, creazione sorprendente di Roberto, sorprendente per via della sua eleganza e raffinatezza. Poi, la gemma: il risotto con crema di cipolle, tar-
tare di gambero rosso e aria di crostacei, uno dei piatti cult della famiglia. Il risotto di Enrico è l’immagine che più si avvicina alla schiena arcuata di una giovane donna con la pelle vellutata, lucente, che brilla come il raso: si trasforma in una crema e poi si riesce ad avvertire in bocca la compattezza di ogni singolo chicco. Leggero come se fosse panna montana, si scioglie in tutto il corpo, induce alla lentezza: per un momento temi di perdere i sensi. E’ passionale, seduttore, elegante, un piatto non migliorabile né dall’uomo né da Dio. E’ stato talmente buono che il suo ricordo ci ha accompagnati per gran parte della serata, conclusa con una soffice triglia di scoglio con salsa livornese, lattuga di mare e pane nero. Piaceri sconosciuti, ebbrezza misteriosa: forse il paradiso non esiste, ma la serata di ieri è la sensazione che gli si avvicina di più. Il risotto di Cerea
Andrea Asoli Sognando Uliassi
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0 dicembre 2015, cerimonia dell’assegnazione delle stelle Michelin. Per la prima volta nella storia, la guida assegna il riconoscimento a quattro chef che lavorano insieme, al Venissa, ristorante della famiglia Bisol, sull’isola di Mazzorbo. A Milano si presenta solo uno di loro, Andrea Asoli: il ragazzo, 26 anni, pare davvero emozionato. Fra l’altro, è uno dei più giovani della storia ad aver conquistato la stella. 14 febbraio 2016, centro di Milano, hotel Chateau Monfort: apre l’era del Venissa, laddove prima c’era un ristorante triste, tristissimo, Rubacuori. In cucina ti ritrovi lo stesso chef un po’ timido che hai conosciuto poche settimana prima.
Vai ad assaggiare il suo menu e la sensazioni sono contrastanti, perché ci sono delle incongruenze, alcune forti, fra la cucina di Andrea, coreografica e di sostanza, positiva, ottimista, fantasiosa e un ambiente leggermente fuori tempo, una sala demodé, arredata in modo antico, non in linea con la filosofia del giovane cuoco. Stridono soprattutto alcuni piatti che ti trovi davanti, sulle pareti: de gustibus. Pian piano però sta cambiando tutto: Oscar Cavallera, noto personaggio del mondo della ristorazione nonché manager del Venissa, sta già provvedendo, rendendo il posto più in linea con i piatti freschi proposti da Andrea. Dal canto suo lo chef va diritto per la sua strada:
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arde in lui la voglia di incendiarti i sensi, di dimostrare il suo talento. Non ha un attimo di tempo, lo vedi provato e allo stesso tempo felice: ha rivoltato la cucina, cambiando uomini e regole, imponendo il suo rigore. Fra una portata e altra riesce a sedersi e raccontarci qualcosa su di lui, la sua ascesa, le esperienze ed i sogni: “A 15 anni lavoravo in pizzeria, a 17 da Antonello Colonna, poi mi sono spostato a Punta Ala per far parte della brigata di Andrea Ribaldone. Finita l’esperienza lì, rieccomi a Roma, al Radisson e infine il grande salto, al Metropole, due stelle Michelin. Sono ambizioso, penso in grande, mi sono innamorato del nuovo ristorante fin dal primo
giorno. I miei modelli e idoli? Bottura e Uliassi, più il secondo. La mia filosofia la definirei alta cucina popolare. So che a Milano le aspettative sono altissime, non ho alcuna paura, anzi, so che riuscirò a prenderli per la gola con le mie tagliatelle di seppia e sorbetto di buccia di limone, oppure con gli gnocchi di rape in tre consistenze e il risotto Milano-Venezia”. A dire il vero, i piatti degni di nota sono molti di più, a partire dalla patata viola con la capasanta e la maionese del corallo della stessa capasanta, da gustare assolutamente con un Cartizze Private Venissa: il consiglio viene dal fido sommelier Fernando, i due abitano insieme e parlano di
abbinamenti fino a notte fonda. Nasce così anche l’accoppiamento fra il risotto MilanoVenezia, ovvero seppie di Barena e zafferano da sorseggiare con un vino bianco strutturato, un Cervaro Della Sala, Fiori di Uva Mariza. Il merluzzo in salsa bernese pare un piatto elaborato di Berton (tradotto, è un gran bel piatto), mentre l’amuse bouche, cioccolato bianco con gorgonzola, promette davvero bene. Il menu primavera è ultimato, pronto per l’esame della platea milanese: “I gnudi di baccalà mantecato con brodo di recupero di tutte le verdure sono un piatto nel quale mi riconosco molto. Vale anche per lo scampo bianco e rosso, piatto realizzato in onore di Bisol: non a caso ho aggiunto la gelatina di prosecco e le fragole. Da
Ivy
Cocktail d’autore
I
rapporti umani, si sa, sono complicati. A volte manca il tempo, a volte la motivazione, a volte si trovano altri motivi, veri o presunti. Anyway, un drink aiuta sempre, aumenta il calore, disinibisce quel tanto che basta, allontana gli ultimi scrupoli. Se poi è un primo incontro, allora c’è da festeggiare. E quindi Champagne, ma che sia quello buono, per esempio il Cuvée Desir, di Marguerite Guyot, un 100% pinot meunier che ha riposato tre anni in cantina. Il desiderio va accompagnato,
e allora una aggiunta di kiwi donerà vitamine e sapore, oltre che un bel colore verde. Il liquore di pesca conclude in dolcezza i sapori, in modo che sia gradevole a più pallati. Il naso poi, avrà una piacevole sorpresa, data dagli olii essenziali di gelsomino vaporizzati. Quel gelsomino che è consigliato in casi di calo della libido, anche se si spera che non sia questo il caso, ma che è soprattutto Afrodisiaco, se inalato, stimola la fantasia erotica e aiuta ravvivare la sensualità, le emozioni, l’amore. Bon soirée
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abbinare con Fior d’Arancio, vino dell’azienda Maeli, praticamente parte dello stesso gruppo Bisol”. E’ uno da giochi pirotecnici, con la mano salda, decisa e la personalità ben delineante: man mano che arrivano i piatti senti il piacere che cresce dentro di te, la sua cucina è moderna, italiana, riconoscibile. I piatti sono freschi, vivi, vigorosi, piaceri inebrianti che ti riempiono gli occhi. La sensazione è che il nuovo ristorante dell’albergo possa essere come un purosangue, una volta lanciato al galoppo diventerà travolgente. Proprio quando esce il numero che state sfogliando, dovrebbe essere già tirato a lucido, come voleva Andrea. Quello che lui chiede, Oscar esegue.
Il Liberty
La roulette dei sapori
L
ife is now complete. O meglio, #lifeisnowcomplete. Un hashtag fantastico, trovato mentre si cercava di caricare su Instagram lo scatto di un piatto semplicemente favoloso, ovvero i cappelletti di Andrea. Ne parleremo più avanti, raccontando in dettaglio la portata, perché ne vale la pena, eccome, soffermarsi su tale bellezza. Ora proviamo a farvi capire di chi stiamo parlando: intanto è uno dei pochi ad essere il patron del proprio ristorante. Già questo lo distingue e lo mette in una posizione privilegiata rispetto a tanti altri, troppo interessati a monetizzare qualsiasi situazione, a qualsiasi costo, non importa dove, come e con chi. Perché, non bisogna mai dimenticarlo, un ristorante è prima di tutto un esercizio commerciale. Le frasi di Joe Bastianich inquadrano perfettamente il mondo e la filosofia di Andrea: “Noi, i ristoratori, compriamo la merce, la lavoriamo e la vendiamo per profitto”. Certo, Il Liberty è molto di più, la gente torna perché questo posto ha una anima e trasuda passione, voglia di farti star bene. L’uomo sa il fatto suo, sa stare al mondo e soprattutto in cucina, tiene a insegnare il mestiere e non fa il duro, sa toccare le corde giuste per far passare il messaggio ai suoi. La clientela premia tutto questo, eccome: c’è tanta gente perfino a pranzo, quando solitamente si predilige un pasto più veloce e forse più economico nelle vicinanze (la sera invece è sempre pieno).
E’ riuscito ad attirare e fidelizzare un “pubblico” trasversale, dal grande dirigente di una multinazionale alla modella, dall’ufficiale al politico, dal gourmand alla giovane coppia. “Però la più grande soddisfazione è vedere tornare persone che venivano con i genitori e ora entrano da me con la fidanzata, oppure la moglie. E’ semplicemente fantastico”, racconta fiero. A novembre festeggerà 14 anni passati qui, in Via MonteGrappa, pochi passi dalle Varesine e da Corso Como: ha superato la grande crisi, le mode, è ancora qui perché semplicemente i suoi piatti sono straordinari. Qualche mese addietro avevamo assaggiato alcune pietanze: la serata era assai movimentata, eppure ricordiamo ancora una cotoletta formidabile, ai livelli della tanto acclamata che fanno Al Nuovo Macello: alta, succosa, croccante, rosea, un gioiello (si può dire che la cotoletta è un gioiello? Si, si può). Il tiramisù cantava, sapeva di poesia. Stavolta siamo venuti con molta calma ed i migliori propositi, sicuri che ci saremo esaltati. Errore: è stato molto di più. Perché i cappelletti ripieni di carbonara, con crema di piselli al wasabi e gamberi rossi di Mazzara sono un piatto antologico, che vale da solo una serata. “Per chi cerca un attimo che possa valere una vita”, suonava uno slogan pubblicitario, qualche anno addietro: parafrasando, potremmo sostituire attimo con piatto. Piatto strabiliante, generoso, che impedisce la conversazione, richiede lumi di candela,
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è da cena in veranda, oppure da gustarselo guardando il tramonto, insomma va bene ovunque con chiunque, a tutte le ore. I cappelletti sono morbidi come cuscini, ispiri a fondo per goderti la poesia del ripieno che si scioglie in tutto il corpo, i gusti ti avvolgono come una sinfonia, ti sembra di assorbirli con la pelle, il primo morso è una violenta emozione. Piace a tutti, piace anche a lui, anche se nella classifica dei più riusciti lo mette alla pari di altri, come il carciofo croccante, il vitello tonnato, la tarte tatin di pomodoro, la sella di coniglio con scampi, zucchine e pinoli e la parmigiana di melanzane, piatto che ha portato l’anno scorso al Taste e che riscuote sempre un gran successo, è un evergreen. “Non è buona perché strana, è buona perché è parmigiana”, lo dicevo allora e lo ripeto ora, quasi come un mantra. “Lavoro molto sulla struttura del piatto, meno sullo stupore, non punto sull’estetica, cucino per piacere e non per stupire. Sono un istintivo ai fornelli, però poi è la clientela a decidere cosa rimane nel menù, se alcune portate le abbiamo da anni, qualcosa vorrà dire. Certo, rispetto a dieci anni fa ora lo stesso piatto è migliorato grazie alle nuove tecniche, ma l’idea resta la stessa”. La sua cucina è marina e terrena, piena di contrasti, ti sembra di essere sulle montagne russe, trovi il caldo e il freddo, il dolce e il salato nello stesso piatto: qualsiasi portata pare ideale per accompagnarla con una bollicina, perché c’è tanta allegria nel suo mondo culinario.
E’ uno con un gran fiuto, capisce al volo cosa va e cosa no, cosa piace e cosa un po’ meno. Ama andare in giro e regalarsi cene dai più illustri, gli piaceva molto il primo Cracco (d’altronde il vero Carlo si è fermato a quel periodo), il primo Sadler e il Vissani dei primi anni novanta, “quando era davvero geniale”. Al Taste porta dei mondeghili di vitello magro e mortadella: se saranno geniali, se varranno una vita, lo saprete solo assaggiandoli.
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Il Principe
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Buffolino
olitamente i contrasti sono eccitanti e intriganti al massimo. Spiazzano e incuriosiscono, spesso però alzano barriere, creando diffidenza: sono le sensazioni provate ad Acanto, il ristorante dell’albergo più famoso di Milano, Principe di Savoia, una specie di monumento milanese, forse troppo. E’ così carico di storia da incutere timore e tenere lontano le nuove generazioni, il che, per una qualsiasi attività commerciale, può costituire un problema non da poco. Perché non bastano i marmi e le materie prime, una carta vini eccezionale e un servizio impeccabile: per riempire un ristorante ci vuole molto di più, ci vuole gente che miagola per il piacere e che torna sognante, ci vuole quella carica emotiva, quel coinvolgimento e ronzio tipici della felicità. The chatter, the clatter, the hum, direbbero gli inglesi. Qualcosa sta cambiando, anzi, il cambiamento c’è ed è una specie di choc, perché l’arrivo di Alessandro Buffolino muterà per sempre le carte in tavola. L’intenzione, la sfida è di rivoluzionare, seppur in maniera elegante e felpata, la percezione che si ha del ristorante. Finora mancava di quelle vibrazioni, di quel feeling necessario per invogliare la clientela meneghina; era freddo ed esigente, assai ingessato, seppur raffinato al massimo. Dura dare un tocco di modernità ad un pezzo di storia è un po’ come vedere la regina Elisabetta postare le sue foto su Instagram, però, se un ristorante vuole fare dei numeri ed avere successo, si deve osare. E soprattutto crederci. Alessandro Buffolino è l’uomo giusto, non c’è dubbio: 31 anni, campano di Benevento, un’esperienza notevole e il piglio del leader. Mano decisa, idee forti, sapori avvolgenti, intensissimi, piatti carichi e un entusiasmo da far tremare i polsi. Inganna il suo viso da ragazzo timido: in cucina si fa sentire, spartisce indicazioni e impone regole, non a caso il suo motto è “Ordine. Precisione. Pulizia”. Sulla giacca da chef ha inciso le tre delizie che predilige: mojito, cacio e pepe, babà. Non ha inciso il pacchero con il sugo dell’osso buco, il suo piatto più rappresentativo, il più carico di gusti e profumi: “E’ la mia storia, la mia vita. Racchiude tutta l’Italia, il nord e il sud, perché il pacchero ti porta con il pensieri alla mia Campania, mentre l’osso buco è tipicamente lombardo. Il sugo è pieno di segreti, dalla buccia di arancia a quella di limone”. Segreti anche nella marinatura del foie gras, altra pietanza da novanta ad intensità massima: “Zucchero, sale, pepe e una cottura sottovuoto a 38 gradi, sta tutto nell’equilibrio degli ingredienti”. Sarà, però hai la sensazione che abbia accarezzato il fegato d’oca e che gli abbia parlato, tanto è cremoso e gustoso. La carne è tenerezza allo stato puro e i dolci non sono da meno, anche se qui gran parte del merito va a Beniamino
Passannante: “L’ho voluto io, a tutti i costi. Ci conosciamo da tempo, lavoriamo benissimo insieme, spesso io suggerisco e lui come per magia crea. Nasce così il gelatino alla pastiera napoletana, invece il babà è fatto con la ricetta di mia madre, sono i migliori al mondo”. Farà strada, e tanta. D’altronde viene da esperienze strepitose, come la Terrazza dell’Eden di Roma, Il Quirinale a Londra (“qui ho imparato la velocità del servizio”), poi da Alfonso Iaccarino (“fantastico il suo culto per le materie prime”) e soprattutto gli anni a Lione assieme a Michel Guerard, tre stelle Michelin da una vita. “In Francia ho affinato
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le tecniche di cottura e molto altro, Michel è stato il primo a chiedersi il perché di ogni operazione eseguita in cucina. Per la cronaca, sono solamente tre gli italiani che hanno avuto l’onore di lavorare con lui: Massimiliano Alajmo, Pierfranco Ferrara e io”. Tanti chef pluristellati, lui invece non ne fa una malattia: “Ho un’idea tutta mia sul mondo delle stelle. Per me la prima la ottieni quando la gente si alza felice dal tuo tavolo. La seconda, quando il ristorante è pieno. La terza, quando ti viene assegnata quella vera e propria”. La prima, possiamo confermarlo, l’ha già ottenuta.
Carpaccio di manzo, parmigiano, polvere d’olio, avocado, pomodoro e fragola
Stendhal Antica Osteria
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abato sera, ore 22, centro di Milano, inizia a piovere forte, la temperatura cala, entro nel primo ristorante che conosco. E’ pieno, come sempre. La clientela pare quella abituale, è la gente che sta bene da generazioni. Si sentono a casa loro, sono rilassati, c’è quel ronzio tipico di quando passi una serata piacevole, con gli amici e la famiglia. E’ un posto che rilassa e rallegra, disinibisce, gran parte del merito va alla nuova direttrice,Aura Anghelescu, qui da un anno e mezzo: è riuscita a far tornare gran parte della clientela di una
volta, milanesi che amano spendere bene il proprio tempo. La cucina è classica, ghiotta, matrice schietta, golosità calde e fredde, gusti pieni, profumi nitidi, i sapori sono semplici e puri. Il risotto è cremoso, il pesce tenero e soffice. Semplicemente, i piatti escono fumanti dalla cucina, niente avanguardia e niente fronzoli. Accanto a me una donna oscura, carnale, ha la voce ruvida. Sta quasi sempre con la bocca socchiusa, deliziosa, morbida e sensuale, le labbra di seta.
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Ha appena finito il dessert, molto lentamente, leccava il gelato con la delicatezza di un gatto. E’ ipnotica, gli occhi sono scuri e umidi, il seno ricco e maturo, la bocca le diventa sempre più avida, pare un sogno interminabile e difatti spero di svegliarmi domani con la voglia di ricordare ogni istante. Se ne va prima di me, faccio solo in tempo ad ammirare la sua pelle piena di luce e il corpo felino. Morale, cercate di catturare i piaceri, è da lì che arriva il brivido. Ristorante Stendhal, Brera. Un posto con un’anima
Sono Berton.
Andrea Berton
E
’ uno dei Marchesi Boy’s, quella brigata pazzesca di venticinque anni fa: lui, Cracco, Knam, Oldani, Lopriore. Ne ha fatta di strada, eccome: stelle ovunque, una visione solida e cosmopolita della cucina, uno spirito imprenditoriale “rubato” da Alain Ducasse. Ora sogna di aprire un ristorante a New York, convinto di poter primeggiare pure lì. Progetti, segreti, idee e concetti di uno chef che non si ferma mai, in una intervista realizzata nel suo locale alle Varesine. Le fotografie sono di Monica Cordiviola, i capi di abbigliamento portano la firma Eleventy, mentre al polso indossa un modello IWC, altro suo sponsor, così come la BMW. Perché, oggi, i grandi chef sono molto più che semplici cuochi, sono testimonial perfetti, più dei calciatori e degli attori americani. - Ha superato la quarantina e nonostante questo viene ancora considerato come uno dei Marchesi boys: l’etichetta le sta stretta?
- Per nulla, anzi, basta ricordare chi erano i boys, o chi eravamo: Carlo Cracco, Davide Oldani, Paolo Lo Priore, Ernst Knam ed io. Mica male, come brigata: forse la migliore che l’Italia abbia mai avuto. - Lei era il più giovane... - Fu il mio primo lavoro in assoluto, nel ristorante milanese di Via Bonvesin De la Riva: avevo 19 anni, il più “anziano” era Lo Priore. Sono rimasto con il maestro per tanti anni: dal 1989 fino al 1992, poi all’Albereta, fra il 1995 e il 1997 e dal 2001 al 2004, come executive chef. - Cosa ha imparato da lui? - Una miriade di segreti e principi: come rispettare la materia prima, come non rovinarla e come capire il senso del prodotto. E soprattutto la tecnica dei risotti. - Perché ha scelto di diventare uno chef ? - A quei tempi era una mestiere affascinante, creativo, pareva molto interessante, dava la possibilità di conoscere tanta gente. - Si ricorda la prima stella Michelin?
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- Ovviamente: a quei tempi non c’erano le mail ed i cellulari, ti chiamavano dalla guida informandoti di averla presa, non c’era nemmeno una cerimonia come adesso. Ricordo poi di aver ricevuto un fax con la conferma dell’assegnazione della stella. - Lavorava alla Taverna di Coloredo di Monte Albano: oltre la stella, cosa ricorda di quel periodo? - Davvero poco. Sorvoliamo. - E invece no. - Io e la proprietà avevamo visioni e ambizioni diverse sulla ristorazione, sul futuro. Andiamo avanti. - Ok. Cosa significa la stella per uno chef ? - E’ la dimostrazione che hai svolto bene il tuo lavoro, ti dà credibilità e ti fa imporre all’estero, dove altrimenti il tuo nome rimane sconosciuto ai più. - I ‘rosiconi’ sostengono che Michelin e le stelle non sono poi la verità assoluta. - Hanno saputo creare una guida che tutti
considerano la Bibbia del settore, altro che storie. - Ad un certo punto della sua carriera ha scelto l’avventura londinese, al Mossiman. - Una grandissima delusione. Mi incuriosiva molto, arrivato lì scoprii metodi di lavoro approssimativi, prodotti di scarso livello. - Poi, dopo una parentesi all’Enoteca Pinchiorri, andò da Ducasse. - Tutt’altra storia, la sua cucina era gustosa, mediterranea, pulita, con delle materie prime eccezionali, lontana dai classici piatti francesi. - L’impatto com’è stato? - Durissimo, per il primo mese non ho fatto altro che pulire insalata, però avevo capito fin dall’inizio che l’ambiente mi piaceva. Ero il terzo italiano arrivato alla corte di Alain, dopo Cracco e Oldani, ma la fiducia nei miei confronti pareva assai scarsa per via del paese di provenienza: i pregiudizi nei nostri confronti erano tostissimi, a quei tempi. Poi si infortunò lo chef di partita e mi proposi di sostituirlo: Ducasse non si fidava, chiesi una settimana di tempo per convincerlo. Il risultato? Sono rimasto per quattro anni. - Di Alain cosa ricorda? - Il suo piglio imprenditoriale fuori dal comune. - Capitolo Trussardi, com’è arrivato alla corte del Levriero? - Lavoravo da Marchesi, all’Albereta, volevo confrontarmi con la realtà di Milano. Beatrice Trussardi cercava uno chef e ha chiesto un consiglio a Cracco, dall’altra parte pure Davide Rampello aveva suggerito il mio nome.
- E’ rimasto otto anni, conquistando due stelle, nel 2008 e 2009. - Avrei preso perfino la terza, se fossi rimasto: lo scriva, io non me ne sarei mai andato via da Trussardi. Fra l’altro, in piena crisi, nel 2011, abbiamo fatturato l’impensabile, delle cifre da capogiro. Peccato. - Con la seconda stella cosa cambia, nella vita di uno chef e di un ristorante? - Cambia radicalmente la clientela, ti arriva gente più esperta, esigente, preparata. - Ora lo chef è Roberto Conti. - L’ho portato io, al Trussardi. Farà tanta strada, è preparato, ha entusiasmo, conosce bene il mestiere, è umile: gli consiglierei di fare un’esperienza importante all’estero, tappa fondamentale per il salto definitivo. Già che ci siamo: una menzione speciale per Luca Cinacchi, persona di una competenza straordinaria, sa gestire la macchina del ristorante come nessuno. Lo scriva: l’ho portato io, pure lui. - I giovani sembrano innamorati dal mestiere di chef, in tanti desiderano aprire dei ristoranti: vuole trasmettere loro un messaggio? - Si fa una grandissima fatica, non ripagata. Devi lavorare tanto e spesso non basta, perché i conti non sempre tornano. Ogni cinque anni, se non fai dei miglioramenti, ti trovi il ristorante sfasciato, servono soldi in continuazione per sostituire tavoli, sedie, posate, bicchieri. Per guadagnare ti devi creare delle nuove situazioni: consulenze, catering e via discorrendo. - Lei lo ha fatto aprendo Dry e Pisacco.
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- Dry è stata un’intuizione geniale: un ristorante che proponesse cocktail, pizze e gelati. Assieme ai miei soci Giovanni, Diego e Tiziano ci siamo messi in gioco ed è andata subito bene. E’ un concept innovativo, da esportare, probabilmente lo faremo. Pisacco invece è un bistrot dove trovi dei vini e una cucina di un certo tenore, un must be. - Ha viaggiato tanto e ovunque: ha mai pensato “avrei voluto inventare io questo piatto”? - Si, appena mi sono seduto da Adrià ricordo di aver pensato che l’utilizzo del sifone in cucina fosse una genialata pazzesca: prima serviva per montare la panna e basta. - Domanda marzulliana: Andrea Berton ha un desiderio, professionalmente parlando? - Aprire un ristorante a New York: città tostissima, esigente al massimo, quasi come Milano. - E’ andato a vedere il film con Bradley Cooper, Il sapore del successo? - Le pare che possa trovare il tempo? - Ad un certo punto si racconta dei metodi degli ispettori Michelin: si narra di una forchetta posata a terra per capire se il personale sia all’altezza. Si può perdere la stella per una forchetta non vista? - Se dopo tre ore il personale non la vede, l’organizzazione di sicuro non è all’altezza della stella. - Da Berton si potrebbero verificare episodi del genere? - Le pare?
Bob Noto Scatti d’autore
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ognare e far sognare, sedurre, emozionare, toccare l’anima. E’ il mantra degli chef, ora anche la fissazione dei fotografi di food: il loro desiderio è quello di riuscire a trasmettere delle sensazioni ai coloro che non hanno avuto la fortuna di assaggiare il piatto che si
stanno godendo con gli occhi. E’ sicuramente il trend del momento, un nuovo genere che sta conquistando le pagine dei giornali e le librerie. La qualità delle immagini va di pari passo con la bellezza e la coreografia proposta dai cuochi, si è sviluppato tutto negli ultimi anni, anzi,
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stiamo assistendo ad una vera e propria esplosione di pubblicazioni e fotografi di gran talento. Va detto fin dall’inizio che la fotografia gastronomica è assai difficile: i motivi sono tanti, a cominciare dal fatto che non esistono maestri e ancor meno una tradizione.
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Si è iniziato relativamente tardi, il primo ad aver dato un senso ai piatti fu Johann Willsberge, che nel 1986 ha fondato la rivista Gourmet, inventando la moderna foto gastronomica. Bob Noto se lo ricorda bene: “E’ stato il mio idolo. Come ho iniziato? Amavo la fotografia fin da ragazzo, poi mi sono appassionato alla cucina: facendo uno più uno, eccomi a scattare il food. Evidente che oggi c’è una maggior attenzione per l’architettura del piatto, ma alla fine degli anni settanta Gualtiero Marchesi già creava il suo riso foglia d’oro. Dieci anni fa ho realizzato per la
casa editrice Cucina e Vini un libro che vende tanto ancora oggi, si intitola Sei. Abbiamo scelto, appunto, sei cuochi che secondo noi sarebbero diventati famosi e posso vantarmi di aver visto giusto: Carlo Cracco, Paolo Lo Priore, Davide Scabin, Moreno Cedroni, Massimo Bottura, Enrico Crippa, a quei tempi fu quasi un libro all’avanguardia. In assoluto, i piatti più difficili da fotografare sono i risotti e le zuppe, mentre mi esalto tantissimo scattare gli spaghetti: hanno qualcosa di perverso, di proibito, quasi di trasgressivo. Fra i colleghi tenete d’occhio Sergio Coimbra, tecnicamente il migliore e la
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francese Amelie Lombard”. Per onor di cronaca dobbiamo vantarci di aver visto Bob all’opera: a guardarlo pare tutto tremendamente semplice. Con dei modi scanzonati, fra una storiella e un mezzo sigaro, scatta assai veloce: un giochino da niente. Non si porta dietro attrezzature pompose, solo il minimo indispensabile: il resto è arte pura. Qui accanto, un piatto di Piergiorgio Parini. In alto, Fermentazioni di Massimo Bottura. Sulla pagina successiva, Dripping di pesce di Gualtiero Marchesi e un piatto di Carlo Cracco, realizzato per Expo.
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Lido Vannucchi Il narratore
La Pastry chef Loretta Fanella
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a parte sua Lido Vannucchi ha un percorso leggermente diverso: “Facevo fotografia erotica, scher zando dico sempre che sono passato dalla gnocca al gnocco. Poi, grazie anche al consiglio di Maki Galimberti ho iniziato a interessarmi al mondo della ristorazione, facendo perfino il corso per sommelier. Non mi piace vantarmi, però sono uno dei pochi, assieme a Bob Noto, a essere qualcosa di più di un fotografo di food: difatti scatto ritratti di chef, faccio reportage. Per la cronaca,
siamo anche dei grandi mangiatori. Io parto dall’idea che un fotografo deve narrare una storia, per cui prima di scattare deve sedersi a tavola con lo chef, conoscerlo, capirlo. Solo così i piatti potranno avere un’anima, altrimenti rimane uno still life qualsiasi, senza vita. Se non assaggi, come potrai capire la filosofia dello chef, come si può creare l’empatia? Mi piace moltissimo lavorare con Massimo Bottura ed Enrico Crippa, dei veri esteti e autentici testimonial del proprio territorio, perché loro, gli chef,
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sono i baluardi dei territori. Fra i giovani cito Valentino Cassanelli, allievo di Cracco, fa faville a Forte dei Marmi. Poi Cristian Tomei, un grande personaggio, uno show man con un modo di comunicare nuovo, non ha un menù. Mi piacerebbe foto grafare i piatti di Ferran Adrià e Rene Redzepi, c’è tempo: nel frattempo insegno all’Alma, ormai la fotografia di food è una vera esigenza, anche i cuochi se ne sono accorti della sua importanza, perché hanno bisogno per la propria immagine”.
Piatto di Cristiano Tomei
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Barbara Santoro Amore viscerale
Emanuele Pollini, zuppa di radici e le loro foglie con amaranto
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e Lido Vannucchi insegna all’Alma, Barbara Santoro dà lezioni al Gambero Rosso: l’abbiamo conosciuta per via del libro che ha realizzato qualche mese fa, “Il pranzo gourmet” di Felice Lo Basso, un libro a dir poco strepitoso. Già nell’ultimo numero ci raccontava il suo mondo: “La fotografia di food va a gusti, ma prima di tutto devi amare visceralmente il cibo. A me per esempio piace la pulizia, mentre dal punto di vista tecnico preferisco la luce che arriva dal davanti. E’ problematico fotografare i carpacci ed il salmone,
perché sono stesi, sottili e allora devi scattare da sopra, per forza di cose. I piatti sviluppati e costruiti puoi fotografarli a 45 gradi, però va detto che i ragionamenti li devi fare molto veloce, in massimo due minuti. I più difficili da fotografare sono i dolci”. E’ molto richiesta ultimamente, ovunque: se la contendono chef e ristoranti, alberghi e case editrici. Instancabile, ha una visione molto positiva sulla cucina ed i piatti. Scegliere tre scatti soltanto è impresa ardua: solo sfogliando il libro di Felice ne prenderesti una ventina.
Emanuele Pollini, cefalo bufala alghe e quinoa
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Chef Arnaud Bignon, Greenhouse Restaurant, Londra
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Joe Bastianich Lezione di marketing
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e parole di Joe sono a dir poco straordinarie. Non possiamo che condividerle con voi, sperando di prenderle come oro colato: perché lo sono. Se non avete letto Restaurant Man, qui alcuni passaggi: memorabili. “Quando si tratta di organizzare la sala, il nostro coinvolgimento è totale. Blocchiamo i tavoli della prima serata, decidiamo quale tavolo assegnare, a chi e a che ora, ed è così che costruiamo la miscela. Non c’è un piano strategico: la regola è ricompensare la gente che fa bene al ristorante. Quella che apprezza l’esperienza dà un apporto al locale e migliora l’ambiente. Ci sono un sacco di persone famose e cool di una stronzaggine unica, alle quali importa poco dei ristoranti. Loro non entrano. A qualcuno potrà sembrare arrogante o snob, ma il realtà non lo è. Vuol dire dare una mano alla propria buona stella. La gente di successo vuol essere circondata da gente di successo in altri campi. Contribuisce alla loro esperienza e alla loro importanza nella società. Perciò, quando organizziamo la sala inseguendo quest’ottica, stiamo accrescendo il loro piacere e così facendo incrementiamo il nostro successo. In definitiva, abbiamo il compito di agevolare, di tessere una certa parte della tela della finanza, dell’arte, della creatività, del potere: tutto quello che costituisce New York, insomma. Ma da Babbo non c’è nessuna attenzione preferenziale per le celebrità e i vip, una volta che siete seduti. Da noi il trattamento è uguale per tutti, e questo è un elemento fondamentale, perché sappiamo che, indipendentemente da chi sei, quando vieni da noi vuoi essere circondato da una miscela eclettica di gente cool. Cerchiamo di creare l’avventura migliore per ciascun cliente orchestrando la giusta atmosfera. Vogliamo gente che apprezzi l’arte della ristorazione, la cucina e l’esperienza, gente che restituisca qualcosa e non intendo gente che semplicemente spenda
molto, lasci una bella mancia, e basta. Noi offriamo loro qualcosa di personale e loro ci restituiscono qualcosa di personale. Tutto si basa sul dare e avere, anche quando si tratta di una transazione finanziaria. Perciò quello che sto facendo è chiedere ai clienti paganti di aprirsi all’esperienza ed entrare a far parte dell’ambiente. Di interagire con il maitre. Di impegnare il cameriere, di fornire una risposta, di parlare del cibo e
del vino. Di parlare delle loro aspettative rispetto al menu. E’ vero: sto chiedendo un atteggiamento attivo. Se volete godere appieno dell’avventura, dovete essere disposti a dare un contributo, a farvi coinvolgere intimamente nell’esperimento. E’ questo
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a creare la magia. Altrimenti significa che cercate un’esperienza voyeuristica, e allora dovete andare da un’altra parte. Guardate un’immagine sul menu, la indicate, ve la portano, mangiate, e poi ve ne andate. La vecchia scuola è composta da gente che pensa che i ristoranti siano lì per servire i clienti, perciò tutti quelli che lavorano nel ristorante si trovano su un piano più basso. Quella è gente stronza e la teniamo alla larga. Di solito, se sei un grande egocentrico, facilmente sarai un pessimo cliente. La gente famosa che in definitiva soffre di insicurezza si sente minacciata da quello che noi chiediamo, e non otterrà mai il meglio di quello che facciamo. Chi è drogato di moda fa schifo. A un sacco di gente che ho conosciuto nell’ambiente della moda non frega un cazzo di quello che facciamo. E comunque, non mangiano mai. Con quelli della moda non si affronta mai quello che facciamo noi: l’attenzione è tutta su di loro, su chi l accompagna, e i nostri ristoranti non sono quel genere di locale. Se non ti lasci coinvolgere dal cibo, dall’avventura, dall’ospitalità e dal vino, se quello che ti interessa è solo star seduto lì insieme alla consapevolezza di quanto sei “favoloso”, allora forse sarà meglio che tu vada da un’altra parte. I ristoranti di alto livello garantiscono esperienze memorabili e ti cambiano le sorti della serata. I problemi nascono quando arrivano delle rockstar ubriache di ego, che credono di dover iniziare una competizione tra la loro celebrità e quella del ristorante. Dovresti avere la generosità e la libertà di spirito di concedere la tua celebrità e te stesso all’esperienza, perché l’intero è più importante della somma delle sue parti. Chi è così insicuro della propria celebrità o importanza, e cerca di competere con il potere del ristorante e della sala, quello si che è un vero perdente.
Griglia di Varrone Carni come la seta
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arebbe un esercizio inutile provare a stillare classifiche: il ristorante di Massimo Minutelli è di gran lunga il migliore in assoluto. Non c’è paragone che tenga, fra i locali con specialità carne: gli argentini hanno sì un fascino particolare, però propongono esclusivamente prodotti della Pampa, dove i vitellini pascolano felici e si gustano i pasti a base di erba. Ottima scelta, però limitata. Gli specialisti, gli amanti della carne lo sanno: i migliori morsi, i sapori più intensi e impensabili li trovi solo da Varrone, in Via Tocqueville a Milano, oppure a Lucca, dove tutto ebbe inizio. Massimo è oltre ogni immaginazione, molto oltre, delizia i suoi clienti con carni di livello assoluto: americane e australiane, fino alla galiziana, squisitezze succose, potenti, primitive che ti fanno pulsare dal desiderio. Quando leggi come viene adulato e idolatrato Dario Cecchini, il famoso macellaio toscano, quasi quasi la prendi sul personale e vorresti che tutti i complimenti ricevuti dal burbero personaggio venissero “dirottati” verso Massimo. Il quale non si scompone affatto: “Lì hanno la chianina, noi abbiamo carni da
tutto il mondo”, risponde sorridente (perché si, Minutelli è sempre sorridente). Ed è vero: carni intense e morbide come la seta, profumi che ti stordiscono, chiudi gli occhi e respiri profondamente, assimilando le fragranze vigorose del tbone e del ribeye. Da lui sparisce perfino quel leggero senso di colpa che alcuni (pochi, pochissimi) provano nei confronti degli animali sacrificati: al massimo ti possano venire in mente le parole di Heston Blumentahl, il quale, onore a lui, ha sempre esaltato la buona carne. Lo ripete spesso: “Ok, stiamo mangiando una mucca. Non c’è niente di male in questo, a patto che l’animale abbia condotto una vita sana e che sia stato ucciso con rispetto. La qualità della carne dipende direttamente dalla qualità della vita dell’animale”. Ad ogni boccone assaggiato qui puoi solo immaginare le migliori condizioni possibili, altrimenti non si spiegherebbe la morbidezza. Da una citazione all’altra, dopo un maialino iberico hai davanti agli occhi le frasi di Bourdain: “L’affare del secolo. Sono momenti impagabili, in cui dare sfogo ai propri desideri. E’ come fare sesso al volante di una Austin
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Martin con due escort da cinquemila dollari a notte”. Perché una cena da Varrone è così. Il kobe è ormai un classico, nel senso che la gente lo ordina, se lo gusta ampiamente, apprezza, però spesso preferisce altro, perché certe carni che propone Massimo sono infinitamente più saporite e gustose della tanto celebrata materia prima giapponese, che ovviamente rimane straordinaria. Carni straordinarie e anche un ambiente all’altezza, perché una delle chiavi del successo della ristorazione sta nell’estetica e l’organizzazione: Varrone brilla, è nuovo, sa di successo. Poi c’è lui, uomo astuto e istrionico, sa farti sentire parte integrante della vita là dentro, ti vuole vedere felice e contento, vive per questo, lo vedi e lo capisci subito. C’è poco da dire, la passione la si percepisce subito in un posto, in una persona: se la gente torna da lui, è proprio per questo, oltre che per la qualità pazzesca delle sue carni. Se pensate di conoscere bene la carne e poi provate quella di Massimo, vorrete solo piangere sulla tragedia che è stata la vostra vita fino ad oggi.
Tenute Pacelli
Terre antiche, nobili sapori Una tenuta raccontata dai suoi proprietari. Che sono due donne, per di più giornaliste. Laura scrive da anni per GQ, occupandosene soprattutto di ristoranti e, ovviamente, vini. E’ brava, decisa, molto smart e, ahimè, vegetariana. Carla invece ama la carne ed è una nota blogger. Insieme hanno scritto l’articolo che trovate qui sotto, raccontando, a quattro mani, la propria azienda. “Un gioiello raro”, dicono. “E un bed and breakfast chic, fra le vigne”. Cosa volere di più?
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uando l’avvocato napoletano Francesco Pacelli decise di prendere in mano i 20 ettari di tenuta in Calabria ereditati dallo zio, il barone Gaetano La Costa, non solo non immaginava quanti sforzi, quanto tempo e quanta dedizione avrebbe impiegato per rendere le vigne della proprietà una realtà competitiva sul mercato, ma era
paradossalmente, se non astemio, alquanto riluttante ad abbandonarsi ai piaceri di Bacco. Dopo vent’anni, passati a combattere contro i pregiudizi contadini di un luogo sperduto nel mezzo della campagna dell’alto cosentino, trascorsi a rinnovare le tecnologie di vinificazione, a impiantare nuovi vigneti e a cercare un enologo che riuscisse a comprendere la sua
Le ex stalle della tenuta
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idea di vino, ora l’avvocato non rinuncerebbe mai al suo bicchiere a pranzo e a cena. Adesso, però, Tenute Pacelli è un gioiello raro: dove un tempo c’erano vigne abbandonate e ruderi fatiscenti, ora ci sono vigneti rigogliosi e sani, curati e allevati secondo un rigido credo biologico, una cantina all’avanguardia e un casolare restaurato e arredato con pezzi d’antiqua-
I filari della tenuta
riato che raccontano la storia dei La Costa e dei Pacelli: un nuovo bed&breakfast “country chic” tra le vigne, un vero e proprio rifugio nel verde e nella quiete di Rose, la contrada dove sorge la Tenuta, dove riposare lo sguardo sulla vallata circostante, rinfrescati dalle brezze del Pollino e dai profumi dei ciliegi in fiore. Dietro un grande uomo... Ad accompagnare, se non a guidare, l’opera dell’avvocato Pacelli, sua moglie Clara, che in prima persona cura l’intera tenuta, infondendole il suo gusto, la sua visione d’equilibrio ed eleganza, di mano e animo gentile, ma al tempo stesso ferreo, indole probabilmente mutuata dalle sue origini istriane. La visione dell’avvocato ha permesso di raggiungere riforme spesso impensabili per il territorio, a partire dalla costruzione di pannelli solari per arrivare alla decisione del biologico certificato, dalle scelte originali, come allevare il Riesling al sud e, per di più di vinificarlo anche come Metodo Classico, a quella di preservare la “vigna vecchia” per produrre una barbera calabrese da viti di oltre 40 anni di età. La forza di Clara, d’altro canto, ha fatto sì che i sogni di suo marito riuscissero a concretizzarsi, ha dato linfa e vigore a un luogo che prima pareva arido e che oggi è pieno di vita, di progetti e bellezza. Tanta fatica per raggiungere un livello qualitativo molto alto ma tenendo sempre presente un’idea che forse racchiude la filosofia dell’intera azienda: tutti hanno diritto a bere bene, tutti hanno diritto a poter gustare un calice di vino nato dall’impegno e dalla creatività di persone che vivono per far sì che ogni esperienza di degustazione sia indimenticabile, cercando di produrre vini che restino impressi nella memoria, che non si perdano nelle mode e che non assomiglino a nessun altro.
E siccome il seme di solito non cade molto lontano dalla pianta, a seguire e a sostenere il sogno e la fatica di Clara e Francesco, adesso ci sono anche le loro due figlie, Carla e Laura, che ne portano avanti la visione in maniera forse più prosaica ma non per questo meno passionale. Le due sorelle, infatti, da Milano si occupano di ciò che comunemente viene definito marketing e comunicazione, ma che per loro è portare avanti la filosofia e l’impegno dei propri genitori. Credere in un territorio troppo spesso bistrattato dall’enologia, come quello calabrese, credere nella forza dei vini prodotti, assaggiati e
Carla e Laura Pacelli.
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studiati, amati e portati in giro per l’Italia e per il mondo, significa non solo credere nel sogno di una madre e di un padre, ma viverlo ogni giorno, tutti i giorni, sacrificando a volte la propria carriera o il proprio tempo con la famiglia. Ma chi fa Vino, chi lo comunica e chi lo vive, sa che ne vale e ne varrà, sempre, la pena. Il Pauciuri riserva e il Passito
Andrea Illy
Stellati, ma non solo
Le Bernardin, New York
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l personaggio è di prim ordine, quello che dice va preso come legge, oro colato. Già il cognome impone rispetto, e tanto: il suo ruolo nell’azienda, ancor di più. Sa pesare le situazioni, sbaglia poco o nulla, capisce e intuisce al volo se un ristorante possa aver successo, oppure se da lì a breve se la passerà male. E’ attento a ogni dettaglio, inquadra con precisione chirurgica pregi e difetti di un qualsiasi locale. Viaggiando tanto, per forza di cose mangia spesso fuori, il che aiuta ad avere un punto di vista totale sulla realtà ristorativa. Eccolo, brevemente. La prima cosa che guarda e osserva appena entra in un locale. L’estetica. Poi ovvio che mi lascio condurre e sedure dalle nuove ricette, dai nuovi gusti e prodotti. Cosa le dà fastidio in un ristorante? La sciatteria, la mancanza di passione. Mi piace vedere un luogo organizzato, con un standard di servizio alto, mentre vado poco d’accordo con i locali dove c’è tanta improvvisazione: la si nota subito.
Le piace cenare in un ristorante stellato? Si, perché spesso si va sul sicuro, sai già quello che troverai, dall’attenzione ai dettagli alle materie prime. Però va detto che ultimamente assistiamo ad un fenomeno molto interessante, si fa alta gastronomia a dei prezzi bassi in posti non stellati, vedi alcuni bistrot. E’ molto migliorata la qualità dei ristoranti che non vivono con l’ossessione di essere presenti nella guida. Da un punto di vista strettamente commerciale ci si guadagna di più proponendo l’eccellenza senza avere le stelle. In Italia c’è uno chef che le piace in maniera particolare? Ne cito due: Nico Romito: da lui mi piace tutto, a cominciare dalla location: un ex convento, domina la valle. Poi l’ambiente è straordinario, la sala è bellissima, la distanza fra i tavoli giustissima. Il secondo, Andrea Berton, è ossessionato dalla qualità. E all’estero? Senza dubbio Le Bernardin a New York. Poi Guy Martin a Parigi.
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Predilige i menu degustazione, si lascia condurre nelle scelte? Solitamente ordino a là carte. Capitolo vini, come si comporta? Metà dei vini che trovo in carta non li conosco, vado per i grandi classici, che possono essere il Brunello, il Barolo, oppure i grandi vini francesi. Quando sono negli Stati Uniti prediligo i vini californiani, anche se mi piacciono leggermente meno di quelli europei, perché troppo fruttati. Tolte le esperienze stellate, nella vita quotidiana cosa ordina al ristorante? Sono un fan delle verdure, ho ridotto la carne, mangio tanto pesce. A casa invece mi affido alla cucina della mia moglie, che è bravissima. Non amo i sughi. Ha mai pensato di aprire un ristorante o di essere socio? No, io sono un industriale e la penso in un modo diverso. In più, un ristoratore non ha vita privata, lavori per 17 ore, se non sei presente le cose non vanno mai. Per non parlare del fatto che fai formazione al
personale e dopo pochi mesi se ne va altrove: vale anche per lo chef. Siamo arrivati al caffè: quali sono i negozi Illy che gli piacciono di più? Quello di San Francisco nella Union Street, di Londra al Regent Street e quello milanese in Piazza Gae Aulenti.
Piccolo passo indietro, com’è andata all’Expo, che tipo di giudizio finale possiamo trarre? E’ stata la più grande celebrazione di caffè, abbiamo avuto un ritorno d’immagine straordinario, con 13 milioni di visitatori. Siamo riusciti a sviluppare dei contenuti,
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intesi come libri, film e vari progetti. E poi abbiamo imparato a gestire orde di pubblico, perché, forse a qualcuno è sfuggito, servivamo 8.500 caffè al giorno. Domanda classica e demodé, però sempre attuale: progetti per il futuro? Aumentare la leadership.
Calvisius Addicted
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ewind. Fine ottobre, sono gli ultimi giorni dell’Expo. Ci sono ancora delle code interminabili, pare la fine del mondo. Fuori inizia a far freddo, la gente però continua a fare la fila, sempre, comunque e ovunque. C’è un solo posto dove ti senti al riparo di tutto questo: il temporary restaurant dell’Identità Golose. E c’è solo una serata che ci è rimasta in mente, a mesi di distanza: l’evento Calvisius. Certo, non siamo proprio oggettivi, siamo dei fan dell’azienda bresciana, però sfidiamo qualsiasi amante del caviale, del buon vivre e della qualità a non esserlo. Siamo Calvisius addicted, insomma. E ce ne vantiamo. Da quella sera, ancor di più: perché il menu proposto da Andrea Ribaldone fu a dir poco strepitoso. Vi piace vincere facile, potreste obbiettare. E invece no, la semplice presenza di un caviale di qualità garantisce, appunto, la qualità, non emozioni e sensazioni straordinarie. Ci vuole anche altro, per far sì che una serata rimanga ben impressa: quella sera ci furono tutti gli ingredienti.
Andrea, che da lì a poco avrebbe guadagnato la stella Michelin con il suo ristorante alessandrino, I due buoi, creò un menù strabiliante, degno di un tempio di alta cucina. Chef riflessivo, con una visione della cucina solida e colta, riuscì a farci innamorare tutti del mondo già ricco di fantasie e promesse che è il mondo Calvisius. La tartare, morbida e sensuale, quasi cremosa, il profumo profondo della carne e lo scoppiettio delicato delle palline del caviale, il tutto accompagnato da bollicine croccanti: un miraggio. Poi ci fu la mozzarella con sopra l’oro nero: piattino amoroso, sensuale. Piaceri inebrianti, chiudevi gli occhi e respiravi profondamente, assimilando la fragranza vigorosa del caviale, ti sembrava di assorbire gli odori con la pelle. Il mondo Calvisius aveva colpito e conquistato ancora, dandoci la sensazione, anzi, la certezza, che il primato mondiale non è una forzatura del marketing, bensì una verità sacrosanta. Un’ulteriore conferma viene dall’ingresso dell’azienda nel mondo Altagamma, la Fondazione che dal 1992 riunisce le imprese dell’alta indu-
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stria culturale e creativa italiana che promuovono nel mondo la vera e la più pura eccellenza italiana. Abbiamo scelto di pubblicare e di dedicare due parole in più per la Tradition, che è stato l’apripista del grande successo dell’azienda bresciana. Viene prodotto fin dagli inizi, dal 1992: oltre a essere il primo caviale sostenibile al mondo, viene realizzato esclusivamente grazie alle uova dello storione bianco. Bisogna aspettare dodici anni per arrivare a vedere le preziose perle nere, le caratteristiche della selezione Tradition rappresentano ancor oggi il punto di riferimento nell’universo del caviale fresco. Il caviale, dai grani di grandi dimensione (tra i 2,7 mm ed i 3 mm), di un colore che varia dal grigio scuro alla tonalità di ambra, si presenta con una texture omogenea e compatta, sprigionando il suo gusto leggermente fruttato, accompagnato da una lieve nota di nocciola. In più, il basso contenuto di sale permette di assaporare la delicatezza del prodotto. Tradition è stato il primo, poi sono seguiti gli altri. Altre gemme, da andare pazzo. Anzi, addicted.
Il caviale secondo Amelie Lombard
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Castello del Nero
Magia nel Chianti
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er chi insegue l’attimo perfetto, per chi cerca un attimo che possa valere una vita, per chi ama il tramonto e la malinconia, i mattini e la serenità . Immagini da cartolina, oppure instapic, per stare ai tempi, file di cipressi, stanze favolose, una spa da mille e una notti e un ristorante stellato. Rifugio romantico sulla via del Chianti, intrigo sentimentale nella Toscana profonda, scenario da film hollywoodiano, atmosfere d’altri tempi, un luogo che induce alla lentezza e ti proietta in una sorta di nirvana. Un silenzio monastico, delle colline dolci attorno, un luogo che restituisce la passione alle anime stanche, che pungola il desiderio amoroso e sprigiona seduzione.
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Il ristorante La Torre
Benvenuti al Castello del Nero, ideale per chi sogna bearsi della solitudine e pensare altrove. Chiudi gli occhi e senti il crepitare del fuoco nel cammino, la nebbia che avvolge le colline: certo, per essere romantici si deve aver coraggio, per le avventure si deve avere la tempra di provare, ma qui tutto può accadere, tutto può avere inizio. E’ come nelle favole, manca solo la principessa con la bacchetta magica o forse c’è anche lei da qualche parte, magari in una delle tante stanze fiabesche, stanze che sembrano un misto fra una bomboniera e una camera sfarzosa dei castelli di una volta. Prima ancora di salire e accomodarsi nelle suite puoi regalarti attimi di autentica felicità, sorseggiando un cocktail, oppure una coppa di champagne, fumando un sigaro e sfogliando il giornale in terrazzo. Qui gli scenari diventano infiniti, nei film i momenti del genere sono il preludio di qualcosa di straordinario, di emozioni forti, di polaroid che ti rimarranno per sempre nella mente. In base al temperamento e alla fantasia di ognuno di noi si può svariare da un paio di giornate in totale solitudine, per caricarsi di energia positiva o per scaricare e dimenticare esperienze spiacevoli, si può andare con i
pensieri ad un torbido intervallo di tempo per ingegnare una vendetta o più prosaicamente si vola più lontano, sognando l’arrivo di lei e l’inizio di un weekend passionale, una fuga d’amore segreta, aspettata da anni, forse da sempre, uno di quei momenti che ti rovesciano la vita. Il castello si presta a favole e incontri proibiti, a compleanni e anniversari, intimi oppure per dei gruppi di persone che arrivano per nascondersi o per rilassarsi, per perdersi o per ritrovarsi. E’ il momento ideale dell’anno per scoprirlo e per riempirsi di benessere, perché oltre alle stanze deliziose c’è anche la spa, mentre per gli amanti dell’alta cucina c’è il ristorante La Torre, dove lo chef Giovanni Luca Di Pirro, una stella conquistata proprio qui due anni addietro, sa il fatto suo, andando spedito verso la consacrazione. Arrivato qui cinque anni addietro, ha cambiato abitudini e menu, puntando sulla fantasia, forse ispirato e ammaliato dai paesaggi, perché la Toscana è prima di tutto uno stato d’animo. E’ rimasto colpito anche Sergio Lovrinovich, il gran capo della guida Michelin, venuto personalmente per informarsi e per assaggiare le delizie di Giovanni, prima di dare il suo placet
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per l’assegnazione della stella. “Alla fine della cena si è presentato, complimentandosi per l’uovo croccante e la tarte tatin di pomodoro”. Nella carta troverete quasi sempre il risotto con le lumache, uno dei piatti più amati dalla clientela e anche dallo chef, uno che predilige la cucina classica, legata al territorio, con dei tocchi contemporanei. Troverete spesso piatti a base di tartufo, perché quello bianco lo si trova nei pressi, a Morellato, venti chilometri di distanza. Grande amante della cacciagione, Di Pirro ha un culto per Bottura, Bocuse e Marchesi: “Mi trovo benissimo qui, resterei per sempre, ogni mattina arrivo con l’adrenalina a mille. Abbiamo il nuovo orto, c’è una attenzione infinita per la qualità, migliorata ulteriormente dall’arrivo del nuovo general manager, Fabio Datteroni, autentico intenditore e grandissimo gourmand”, ci racconta. Per la cronaca, è sempre lui a curare la colazione e, va detto, si tratta della migliore assaggiata negli ultimi anni: completa, quasi tutto preparato al momento, croissant, torte e pane compresi. Intensa, totale, un piacere assoluto. Come ogni attimo passato qui, a Tavarnelle, ad un’ora da Firenze. Life is now.
Una delle tante suite del resort Due anni fa, il ristorante ha ottenuto la sua prima stella Michelin
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Gabriele Pasini
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i piace molto l’azienda marchigiana: negli anni ha saputo tenere il passo con le mode, non sono ancorati nel passato e non cercano il colpo ad effetto, a tutti i costi: in maniera felpata ed elegante riescono ad individuare la strada giusta, attenti ai cambiamenti della società e allo stesso tempo rimanendo fedeli ai propri valori e standard qualitativi. Non conosciamo le cifre ed i numeri dell’azienda, però come idea, dall’esterno, la percepiamo
in continua ascesa, sia in Italia che all’estero. D’altronde, guardate le collezioni: come potrebbero non conquistare la clientela? I capi d’abbigliamento proposti da Lardini sono per gente elegante e colta, positiva, che viaggia molto: non è un caso che la nuova collezione autunnale di Gabriele Pasini, una costola dell’azienda madre, si ispiri ai paesaggi montani del Colorado e in particolare di Aspen con la sua tradizione iconografica inimitabile. Lo stile d’alta quota si mescola al dna piena-
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mente british dando vita a un look tanto rough quanto contemporaneo. Gli abiti formali vengono proposti con le stampe ormai caratteristiche del marchio che vanno dal principe di Galles all’occhio di pernice e sono anche interpretati attraverso tessuti che si ispirano al mondo della cavalleria esaltati da materiali come flanelle elasticizzare e micro bouclé. Difatti nella foto sopra vi proponiamo un capo in tre pezzi in lana occhio di pernice ridisegnato proprio in trama bouclè.
Lardini
L
’uomo Lardini invece fa rivivere lo stile immortale della beat generation degli anni ’60 quando San Francisco (le cui cromie ruvide e autunnali sono parte integrante dei colori della collezione) faceva da scenografia a personaggi, scrittori, poeti e musicisti che facevano bandiera del proprio modo di
vestire pulito, essenziale ed elegantemente rilassato. La collezione si distingue per un approfondimento stilistico che caratterizza l’anima della collezione: l’ispirazione militare, aeronautica in alcuni casi, pervade alcuni capi iconici del guardaroba maschile. L’eleganza delle divise degli ufficiali, senza
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tempo e al tempo stesso dai connotati contemporanei sia nei dettagli che nei tessuti, è affrontata con una rivisitazione delle cromie che abbandonano i classici verdi per abbracciare tutte le nuance dell’azzurro: dall’immancabile Blue Navy all’azzurro polvere (detto anche Air Force Blue). Nell’immagine, abito in velluto blu.
Adolfo Valente C
Sognando Giulia
i sono persone che rendono la vita un miraggio, che regalano emozioni a raffica, che hanno una sensibilità diversa, una marcia in più. E poi ci sono quelle con un fascino innato, impossibile da raccontare: quando si incontrano, è la fine del mondo. Alla fin fine la vita è questa, un tripudio di sensazioni forti e momenti unici, vivi per assaporare la bellezza degli scatti di Adolfo e il corpo sensuale, camaleontico di Giulia. L’uomo ci piace molto, da sempre. Riesce a creare atmosfere straordinarie, che ti rubano l’occhio e il cuore. La prima volta l’avevamo notato per delle
fotografie che, guarda caso, pubblicò proprio su Treats!, rivista di cui siamo fan incalliti. Erano scatti favolosi, una ragazza con la pelle olivastra sdraiata pigramente sul letto: a volte torniamo ad ammirare quelle immagini, tanto siamo rimasti colpiti. Ora rieccolo sulle nostre pagine, dove ci propone Giulia Massara, ragazza varesina che vive per posare. “Di mestiere fa la truccatrice professionale, difatti è diplomata come Make Up Artist alla scuola Beauty centre Of Milan. Ama la bellezza, la perfezione ed è sempre alla ricerca di qualcosa di nuovo in cui possa esprimere la sua creatività e voglia di
fare. E’ una sognatrice, una viaggiatrice: adora la storia, l’architettura, i particolari di certe sculture. Non sopporta chi sottovaluta, chi dà poca importanza alle cose che fa. E’ anche molto ambiziosa, lotta per lasciare un proprio piccolo segno in tutto ciò che realizza. Le piace tutto ciò che esprime allegria, perché è questo che le colora le giornate, le piace stare in mezzo alle persone e ogni giorno imparare e scoprire qualcosa di nuovo. Molto simpatica, altruista, sta ancora cercando la propria felicità”, racconta Adolfo. Intanto ha regalato a noi, attimi di felicità. Assoluta.
Rebecca Rocchi La gastromodella
“S
ono una predestinata, a sette anni avevo già preparato una torta. Okei, è stato un disastro ben riuscito, ma il dado era tratto. Qualche anno più avanti frequentavo un ragazzo che faceva lo chef: mi ha portato al nostro primo appuntamento a pranzo in un ristorante stellato, grande inizio, peccato che l’ho mollato due settimane dopo”. Rebecca Rocchi ha tutto per diventare il volto più bello e dolce del panorama gourmet: è molto bella, ha una parlatina da sballo ed è soprattutto preparata, visto che si è appena laureata in tecnologie alimentari. “Proseguirò in questa direzione, magari studiando gastronomia o scegliendo il corso “ingredient functionality” presso l’università di Wageningen. Di preciso ancora non so se voglio fare ricerca per l’indu-
stria alimentare oppure declinare i miei studi in funzione della ristorazione, per ora non mi preoccupo: life is now, dice spesso qualcuno sulle pagine di Good Life”. Ho iniziato a fare la modella nel 2014 grazie ad Alessio Albi, un fotografo della mia città, Perugia. Poi ho conosciuto Marta Bevacqua, che mi ha ritrae nelle foto con i coriandoli. Questa estate invece partirò per un viaggio alle isole Far Oer insieme ad alcuni fotografi provenienti da tutta Europa così che avremo modo di coniugare la nostra passione per i viaggi con la fotografia. Mi piacerebbe molto pranzare presso “Imago” dell’hotel Hassler a Roma, ho visto un programma tv in cui lo chef Francesco Apreda preparava un favoloso risotto e da allora la sua cucina mi
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ha incuriosito specialmente per le interessanti contaminazioni orientali, inoltre mi piacerebbe mangiare da Misha Sukyas nel suo Spice. Fuori dall’Italia invece vorrei andare al Noma di Copenaghen. C’è un ristorante, o meglio c’era un ristorante dove avrei molto voluto mangiare: il 41° Experience a Barcellona ma purtroppo sono arrivata un po’ troppo tardi. Sono anche un’amante dello street food, se andassi a Parigi inoltre mi fermerei a mangiare al food truck “The italian street clan” del mio amico Vincenzo Paturno, chef che ha appena avviato questa attività cercando di unire la tradizione culinaria italiana con quella Il mio motto nella vita? Se vuoi qualcosa prenditelo”. Vale per il risotto come per uno chef stellato.
Angelo Inglese Opere d’arte
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i lui abbiamo scritto all’infinito. Continueremo a farlo, numero dopo numero. Per due motivi, fra tanti altri: è il miglior camiciaio al mondo, poi sa far emozionare come pochi, non a caso lo consideriamo a tutti gli effetti socio onorario del club di Good Life, un mondo di sognatori e romantici, gente che si sveglia e vive con un unico scopo, creare qualcosa di bello ogni giorno. Anni fa, lo ammettiamo, ci aveva regalato una camicia a righe, in un tessuto formidabile, un cotone Riva. Potrà sembrare strano, però ci piaceva toccarla leggermente, era una specie di passa tempo, di rifugio, di momento di immenso relax. Pareva seta, era fresca, appena la accarezzavi sentivi un fremito in tutto il corpo, ti pareva di essere rinfrescato da una brezza. Più o meno le stesse sensazioni di quando assaggi un piatto maestoso, perché si tratta dello stesso mondo. Lo abbiamo detto, ripetuto, ribadito mille volte: gli artigiani dei sapori e dei tessuti vivono allo stesso modo, non c’è differenza alcuna fra un nuovo menu e una nuova collezione. Scadenze e ossessioni identiche, preoccupazioni e problematiche uguali, tensioni e riflessioni tali quali. Negli ultimi anni, i piatti sono diventati delle vere e proprie opere d’arte e non parliamo solo dei piatti creati dai vari pluristellati: perfino i giovani ed i giovanissimi chef sprizzano entusiasmo e osano tanto, tantissimo. Quasi ovunque imperano i piatti disegnati, ognuno come se fosse un’opera d’arte. Certo, ci sarebbe anche l’altra faccia della medaglia, ovvero l’eccesivo affidamento all’estetica, a discapito della qualità e della sostanza. Però la strada è ormai tracciata, la cucina pittorica ha preso il sopravento, anche perché è cambiata la clientela, oggi sono tutti esigenti, preparati, non puoi deludere e sbagliare. Poi ci sono gli abbinamenti, solitamente fra piatti e vini, qui fra portate e capi della collezione di Angelo Inglese. Nella immagine che potete ammirare sopra, c’è un piatto che ha reso famoso Andrea Asoli (lo trovate anche alle pagine 16-17), ovvero gli gnocchi di rape rosse. In mezzo, un evergreen di Enrico Bartolini, il gambero mezzo fritto al tamarindo. Sotto, lo avrete già riconosciuto, il signature dish di Andrea Aprea, la caprese dolce salata. Per quello che riguarda le invenzioni di Angelo, ecco i braccialetti fatti a mano, una camicia in tessuto molto fine e una pochette, handmade of course.
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