GOOD LIFE. I love you, chef

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Davide Callegari Angelo Inglese

Lorenzo Cogo The Gigi Angelo Galasso Wicky Pryan Berkeley International

I love you, chef

Foto: Monica Cordiviola

Rene Redzepi Matteo Torretta Gordon Ramsey


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Sommario

Good Life

La vita é una magia

Chef is now

Matteo Torretta

Angelo Galasso

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Pag. 10

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Lorenzo Cogo

Davide Callegari

Adolfo Valente

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Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it

René Redzepi

Wicky

House of cards

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Editoriale

Alta moda.

Alta ristorazione.

Alta cucina.

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’anno scorso Cigar Aficionado ha compiuto vent’anni. E’ la mia rivista di riferimento; ogni mattina, ma proprio ogni mattina, sfoglio una quarantina di pagine, spesso anche di un numero del passato. Se vi capita di trovarla in edicola acquistatela, ve ne innamorerete fin dalla copertina. Mi piace così tanto da leggere perfino la posta del direttore. Ecco, è proprio qui che volevo arrivare: un lettore scrive che appena arriva la rivista gli tremano le mani per l’emozione e la voglia di gustarsi ogni pagina, per poi sfogliarla lentamente, magari mentre assaggia un cubano. E’ stupenda, una specie di bibbia, se non qualcosa di più, per gli amanti dei sigari e del bien vivre. Gli editori sono gli stessi dell’ancor più famoso Wine Spectator, per distacco la miglior rivista sul mondo dei vini e affini. E’ per via di Cigar Aficionado che Good Life ora sta cambiando, avviandosi a diventare un mensile sbilanciato su chef stellati e ristoranti di alto livello. E’ la moda del momento, non vi è dubbio, ma si tratta anche del fenomeno più interessante del futuro. A Milano ogni settimana si assiste all’apertura di un ristorante di grido, o di un bistrot chic; si legge di fondi di investimento interessati a supportare chef stellati che vogliano intraprendere nuove avventure, griffe dell’abbigliamento entrano con forza nel settore, imprenditori e gente della finanza fanno altrettanto per diversificare. Milano è la capitale del business gourmet: sarà l’effetto Expo o l’esplosione dei sognatori del gusto, ma la sensazione è che stiamo vivendo tempi leggendari per la ristorazione, che oltre a essere un piacere significa anche cultura. Si avverte un effetto benefico in tutto questo. Enrico Crippa, tre stelle Michelin con il suo Piazza Duomo, non ha dubbi: “In Italia non si è mai mangiato meglio che in questo momento”. Va anche detto che dieci anni fa sarebbe stato impensabile un abbinamento del genere, chef stellati e moda, celebrato nel numero che dedichiamo al Pitti. Però Gordon Ramsey prima, Carlo Cracco e Joe Bastianich poi, hanno cambiato radicalmente le abitudini, i gusti e le priorità nella classifica dei piaceri e dell’audience. La tv americana ha il grande merito di aver trasformato i propri chef in star planetarie, da copertina. Poi gli altri, italiani compresi, hanno copiato pari pari i vari Masterchef e Hell’s Kitchen ed eccoci qui. Su Sky è possibile spaziare tra una dozzina di programmi di cucina di alto livello ed è qui il grande cambiamento: si è passati dai programmi tediosi per casalinghe baldanzose, agli show per intenditori. Gli americani sono esperti nel creare mondi patinati ed esaltare i personaggi vincenti: strano, la cucina è italiana ma la tv no. Sarebbe stato forse più ovvio vedere le reti statunitensi copiare e migliorare programmi ideati da noi, ma sono loro i maestri del marketing e del capitalismo, inutile fare paragoni. L’unica certezza è che da oggi, anche in Italia, ci sarà una rivista patinata che racconterà il mondo affascinante degli chef.

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Storia di copertina Chef is now

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o avrete notato fin dalla copertina. Il cambiamento, anche notevole, è nell’aria. Il mondo degli chef affascina e, soprattutto, prende possesso delle nostre città e perfino delle televisioni: lo abbiamo già scritto nell’editoriale, non intendiamo ripeterci. Fatto sta che si aprono porte e scenari interessanti, perché, al di là della bravura in cucina e del saper catturare il pubblico televisivo, gli chef stanno diventando come calciatori. Hanno un seguito pazzesco, di conseguenza si organizzano e si muovono come star, con attorno tutto il codazzo da copione, un ufficio stampa (non è che ci rallegri, ma fa parte del pacchetto) e persino lo stylist. Ci sono aziende e maison che fanno a gara per vestirli, anche perché, la gran parte di questi maghi della cucina, sono giovani, attraenti e sexy. Consegnato alla storia il modello di cuoco paciarotto e festoso, ora è tempo di chef che assomigliano ad atleti, più che a gente avvezza al cibo. Piccola nota: alcuni sono teatralmente cupi e filosofeg-

giano un po’ troppo, come se il peso dell’umanità fosse tutto sulle loro spalle (rilassatevi, diamine). L’abbiamo presa alla larga per giustificare e raccontare per benino la storia di copertina e della copertina. Una modella che indossa una divisa da chef non sarà una novità assoluta, lo è il fatto che la divisa sia fatta interamente a mano, come se fosse una camicia vera e propria, oppure una giacca. La realizza Angelo Inglese, presente all’interno del numero che state sfogliando per raccontare le sue creazioni, diventate ormai un cult. La sua idea sarebbe quella di vestire la gran parte dei chef di grido. In copertina non troverete uno chef, bensì una modella: esagera per essere creduto, ci diceva anni fa un saggio (mica tanto saggio, era un pirla simpatico, ma volevamo sembrare seri e con conoscenze di livello). Si chiama Francesca, per il resto lasciamo la parola a lei: “Ho 24 anni, scappata di casa a 18, nata in una piccola città nella provincia di Foggia. Studio danza dall’età di 13 anni, l’ho studiata da professionista, ho ballato in al-

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cune compagnie, tra cui L’Ajkun Ballet di New York. Artista di strada per 3 anni, ho avuto modo di conoscere e appassionarmi a diverse forme d’arte. Attualmente vivo facendo la fotomodella e la burlesquer e la sera non mi piace uscire, ma stare a casa con la mia maestra di vita a ballare e cantare pezzi ormai datati anni 30”. Però. Non la conoscevamo prima, se non per via degli scatti che le ha dedicato Monica Cordiviola e che abbiamo visto su Facebook. Ecco. Non poteva che essere lei la fotografa, Monica Cordiviola. C’è qualcosa di profondamente dark e inquieto nei suoi scatti, nel suo mondo. Ma anche di pop e romantico, di ironico e sanguigno. E’ un misto di troppi elementi per poterla definire. Spiazza sempre, è carnale, rock e morbida. Le sue immagini trasmettono calore e sensualità, poi, dopo un attimo, ti ritrovi uno scatto di ghiaccio, funereo. Mai lineare, sempre sorprendente e sofisticata. Un godimento garantito, una classe innata. Come quella di Angelo Inglese.


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Foto: Monica Cordiviola


Lorenzo Cogo E

The Food Magician

’ l’italiano più giovane ad aver conquistato la stella. Aveva 25 anni, Lorenzo Cogo: badate bene, a quell’età era già il proprietario di El Coq e soprattutto poteva vantare un’esperienza come pochi in giro per il mondo. Iniziò in Australia, poi Giappone, Inghilterra, Danimarca e Spagna, sempre nei ristoranti più in voga del momento. Oggi di anni ne ha 27 e, come dicono gli anglo-sassoni, the best is yet to came. A sentirlo raccontare le sue esperienze, il suo mondo, scopri una persona molto più matura della sua età e soprattutto una persona con un’infinita, gigantesca sete di conoscenza. Il suo segreto forse è proprio questo, unito alla capacità di osservare, capire, imparare. Eccolo, il patron del ristorante El Coq. - Partiamo con la tua prima tappa, l’Australia. - Avevo 21 anni, l’idea era di allontanarmi il più possibile per poi pian piano riavvicinarmi. Lì sono rimasto impressionato dalle influenze della cucina asiatico-orientale. Il passo ulteriore è stato il Giappone dove ho imparato il rispetto per le materie prime e la precisione, grande lezione davvero. - In Inghilterra sei andato da Heston Blumenthal. - In pratica l’ho visto sì e no un paio di volte. Era sempre in giro, quando rientrava salutava veloce e ripartiva. Però nel suo ristorante, Fat Duck, ho messo a fuoco qualcosa di veramente fondamentale: il divertimento in cucina e l’umiltà. - Hai lavorato anche al Noma, ancora una volta eletto come miglior ristorante al mondo. - Da Rene Redzepi ho capito quanto fosse importante la gestione di un ristorante, da lui è tutto perfetto. - Poi sei andato nei Paesi Bassi, da Victor. - Fantastico: da lui ho scoperto nuove modalità per le cotture alla griglia e affumicature particolari. Il fuoco fa parte dei miei ricordi d’infanzia, svegliandomi accendevo la stufa, poi il fuoco è molto più vivo rispetto all’acqua, è diverso l’approccio di un alimento messo a cuocere oppure sul fuoco. - Nel 2012 la stella: come sei venuto a saperlo? - In maniera formale, tramite mail. So già qual è la prossima domanda, se e come mi ha cambiato la vita. Dico che no, nulla è cambiato, però ho notato che dal giorno successivo all’annuncio i clienti mi guardavano in maniera diversa, mi prendevano sul serio, non ero più il giovane pazzo bensì il nuovo fenomeno italiano. - Quando parli del tuo stile in cucina sostieni sempre di essere istintivo, cosa significa? - E’ un modo di approcciare la vita. Voglio sentirmi libero di poter preparare un piatto con 50 ingredienti e

poi proporre uno semplicissimo. Perdere la possibilità di scegliere, di agire in base al pensiero del momento, sarebbe un dolore immenso, per questo ho preferito di aprire il ristorante da solo, per non subire dei condizionamenti altrui. - Ecco, appunto, El Coq. - L’ho voluto vicino casa mia, a Marano Vicentino, perché qui nel Veneto abbiamo delle materie prime strepitose e volevo esaltarle, metterle in evidenza in una nuova luce. Certo sarebbe stato più facile aprirlo in centro a Milano, dove il passaggio è altissimo, però ho preferito

concentrarmi sui piatti e non sugli introiti. Il ristorante è semplice, voglio che la gente si senta a suo agio. - Vale la pena aprire un ristorante del genere in un paesino? - E’ molto stimolante perché si cerca di creare una forte identità, legare con i produttori locale. Certo che ci sono i pro ed i contro, come per esempio avere un bacino di utenza ridotto. Ogni tanto me lo chiedo se mi va di aprirne uno anche in una grande città: accadrà di sicuro. - Miglior piatto realizzato finora? - No, non esiste, perché se l’anno scorso mi esaltava un certo tipo di piatto, oggi mi concentro su altri aspetti, diciamo che ogni volta cerco di esaltare una piccola parte, un prodotto che mi piace. Poi va detto che ci sono delle differenze di approccio fra una materia prima e

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un’altra, una è la barbabietola, un’altra la melanzana che è più semplice. - C’è un piatto di un altro che ti ha colpito in maniera particolare? - Uno snack da Blumenthal. In pratica c’erano due gelatine, una color arancio e una rossa. Ti consigliano di iniziare con la gelatina di arancia per poi continuare con la barbabietola e tu, ovviamente, assaggi quella del colore del frutto: sorpresa, è esattamente il contrario. Molto interessante e accattivante, perché l’input che parte dal cervello ti dice una cosa, la realtà poi ti stravolge le certezze. Il gioco è fondamentale in cucina, mi piace molto, ci provo pure io. - Hai un idolo, fra i grandi chef? - Si, Ferran Adrià, ha rivoluzionato la cucina, l’ha fatta diventare un vero fenomeno, ha aperto le menti. Noi, gli chef, dobbiamo essergli grati, è un genio, sempre vent’anni avanti. - Cosa ne pensi delle trasmissioni di Ramsey e Bastianich, Cracco e gli altri? - Non sono molto favorevole, nel senso che si rivolgono ad un pubblico casalingo. Mi spiego: chi li guarda poi vuole riprodurre la cucina di Cracco a casa, non va da lui al ristorante. Forse una minima parte riesci a spostarla, ma non in linea di massima non credo siano delle trasmissioni benefiche per noi. Per non dire che in Italia uno guarda due puntate di Masterchef e pensa di aver capito tutto sulla cucina. - Miglior ristorante dove hai mangiato? - Ovviamente a El Bulli, da Adrià. Sono entrato con poche aspettative, pensavo fosse tanto fumo e poco arrosto, invece è stato tutto a dir poco straordinario. - In cucina sei un tipo aggressivo oppure… - Diciamo che ci sono dei momenti dove la tensione sale, ovvio che sia così. Però come idea mi piace insegnare, motivare e stimolare il mio team. - Da 1 a 10 quanto sei soddisfatto del percorso realizzato finora? - 6. - Cos’è per te l’alta ristorazione? - Vuol dire identità, sentire la presenza e l’impronta forte dello chef, alzarsi dal tavolo e dire “caspita, che esperienza”. - Nel futuro di Lorenzo Cogo cosa ci sarà? - Vorrei portare all’estero la cucina italiana, il nome del mio paese, le sue eccellenze, la sua raffinatezza. - Sarai più chef o più imprenditore? - I due aspetti sono molto legati. Voglio essere entrambe le cose, ai massimi livelli.


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René Redzepi The winner

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a cucina nordica batte ancora una volta la contemporaneità iberica. Detta e messa così la situazione suona troppo seria, alla fin fine parliamo di ristorazione, ovvero goduria, allegria e sapori, profumi e colori, anche se in tanti ne parlano come se fosse un trattato sulle condizioni del pianeta. Si sa, alcuni superano di gran lunga il limite del ridicolo, volendo dimostrarci quanto siano profondi, preparati e responsabili: poveri noi, anzi, poveri loro. Però. In dieci anni di attività ha portato a casa per quattro volte il titolo di miglior ristorante al mondo, tre di fila. Qualcuno storce il naso per il semplice motivo che il posto si trova a Copenhagen, non proprio una metà chic e trendy per i gourmet, nonostante un livello della vita altissimo. E poi la cucina di René Redzepi poco ha a che fare con i piatti solitamente esaltati e amati dai più. Per certi versi è come l’Oscar oppure il Nobel per la letteratura: si sceglie meno in base al glamour e più in base ad altri aspetti, oscuri ai più, oppure lo si loda perché è stato premiato e a quel punto saresti un ignorante se non lo apprezzassi. Il parallelo regge fino ad un certo punto, perché solitamente i premi su menzionati ormai

sanno di muffa progressista, mentre il ristorante di René è il top, sprizza felicità, in più stiamo parlando del ristorante più idealizzato in assoluto dai tempi dell’esplosione di Adrià. Oggi in pochi se lo ricordano però agli inizi veniva guardato con sdegno, lo chiamavano “seal fuckers”, tradotto in modo genuino “sarebbe quelli che trattano male le balene”. Insomma, ci siamo capiti, non c’è bisogno di un dizionario per rendere esplicita l’idea. Oggi vanta un primato quasi impossibile da raggiungere, tre successi di fila: Adrià non ci è riuscito, Robuchon nemmeno, idem Blumenthal o altri mostri sacri della cucina: fra l’altro solo quest’ultimo, con il suo Fat Duck, ha vinto per più di una volta (due successi). Ovviamente i riconoscimenti, i premi non sono altro che decisioni e scelte soggettive di alcuni giurati, ogni anno gli esclusi dai primi cinquanta parlano di lobby di potere (diamine, si tratta di ristorazione non di leggi anti fumo o altro, calmatevi), ma è difficile pensare che si possa sbagliare quando si arriva primi per quattro volte. Di sicuro la sua cucina non è proprio una di sostanza, per lo meno rispetto agli altri: si tratta di forme nuove e tecniche classiche, di sicuro

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fa pensare, incuriosire. Per certi aspetti a noi lascia freddini perché troppo impostata sull’aspetto ecologico, dando peso a temi boriosi e poco attraenti, per nulla sexy ma tanto in voga, vedi la sostenibilità, parola svuotata da ogni significato da quando le anime belle si riempiono la bocca. Se mangi bene ok, senno anche, ma lasciamo fuori dalle porte certe lotte. In poche parole da Noma si esalta poco la materia prima e molto il gesto in cucina, c’è poco fasto e tanta innovazione. Se ha vinto per quattro volte lo ha fatto per il nuovo concetto che esprime, per il modo moderno di gestire la sala e il servizio, per certi versi ha ridefinito alcuni parametri dell’alta ristorazione. I piatti sono tecnicamente ineccepibili, costruiti e architettati in odo perfetto, forse troppo impostati come uno snack, spesso freddo, in tanti hanno accusato il fatto di trovare poca empatia: vero. Abbondano i fiorellini d’estate, ok la tecnica ma la sostanza langue in alcuni piatti. Rene si difende spiegando che sono i valori portanti della sua filosofia: ok, perdonato (massì, tiriamocela un po’, facciamo gli snob, anche perché sennò sembriamo gente di poco conto, in grado di saper apprezzare solo l’amatriciana).


In pratica è un laboratorio sensoriale, un posto spartano aperto nel 2004 in un vecchio magazzino sull’isola artificiale di Christianshavn, in una palazzina di mattoncini all’angolo fra due canali, dove abbonda il legno bianco, i feltri, le pelli e dove dovresti divertirti nel senso largo della parola: giochi con le salse, mangi con le mani, inganni i sensi, per copiare pari pari una frase diventata cult, per quello che riguarda Noma. I camerieri sono vestiti di grigio, i cuochi di bianco, quasi tutti tatuati e modaioli. C’è chi ha parlato di una esperienza onirica, chi di una esibizione teatrale, chi di una prestazione autoreferenziale di René, qualcosa del tipo “guardami come sono bravo”: falso, perché lo chef danese è una persona umile, forse vuol far partecipare troppo il cliente al suo show, coinvolgerlo oltre misura. Il suo è un lavoro di costante ricerca sul territorio, di purezza e semplicità, la così detta new Nordic cuisine, una cucina dove trovi alghe e radici, licheni e germogli. Il menù segue le stagioni, d’estate è molto green, molto vegetale (esattamente il contrario del nostro modo di vedere la vita e la cucina), d’inverno invece diventa una roba seria, impostato sulla carne. Non si può ordinare, non si può scegliere, il cliente si siede e aspetta in religioso silenzio di essere servito, una opzione è fra un menù più lungo e uno più breve, comunque stiamo parlando di 21 portate più un numero infinito di aperitivi. Ovvio che non si possa piacere a tutti: la rivista americana Bon Appetit si è divertita a scovare alcune recensioni negative su Noma, al limite del trash. Leggete qui: “Il Noma ha sì cibo innovativo, ma condito da modi arroganti. Ci siamo sentiti rimproverare: “O mangiate, o ve ne andate!” i nostri 10 minuti di ritardo e la frugale telefonata di uno di noi (che ha lascia-

to il tavolo solo per qualche minuto) sembravano, infatti, aver disturbato il servizio. Non esiste che dei commensali ricevano un simile trattamento, a maggior ragione in un posto con la reputazione del Noma”. Beh, intanto arrivare in ritardo sa di maleducazione e la telefonata magari la si poteva fare in un altro momento. O no? Vai da Noma e te ne freghi di essere puntuale e per di più sei anche distratto: che dire, sei un vero gourmet. Tornando al nostro protagonista Phaidon sta per pubblicare un suo nuovo libro, un’edizione in tre volumi.

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Intitolato Work in Progress: Notes on Food, Cooking and Creativity by René Redzepi, è una pubblicazione divisa in tre parti ben distinte. Una collezione di più di 100 ricette del Noma nel primo volume, nel secondo le riflessioni dello chef su diversi temi, dalla creatività all’innovazione, al significato del successo. Il terzo volume è dedicato a una serie di fotografie scattate al Noma: un bello scorcio sul lavoro di una delle migliori cucine del mondo. Redzepi ha lavorato a Le Jardin Des Sens di Montpellier, da Ferran Adrià a El Bulli e al The French Laundry di Thomas Keller.


Matteo Torretta Il Ramsey italiano

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ulcanico. Estroso. Istintivo. Propongo una cucina internazionale, riconoscibile, onesta”. Firmato: Torretta. Matteo Torretta, il gigante buono che domina la città meneghina dall’alto della sua creazione, l’Asola, ristorante con cucina sartoriale (copyright Claudio Zaccardo, uno dei tre fratelli, i patron del palazzo Bryan Berry in Piazza San Babila angolo Via Durini, a Milano). E’ uno dei posti più chic del momento, lo dimostra il fatto che ci sono 70 posti all’interno più altri 45 fuori, eppure non bastano, perché la gente ha fame di curiosità, vuole essere stupita, vuole godere mentre assaggia i piatti di Matteo, vuole guardarlo e ammirarlo all’opera nella sua cucina a vista, copiata pari pari da quella vista al ristorante di Robuchon a Parigi, nel Sant Gemain, il famoso Atelier, in via Montalembert. All’ora di pranzo va per la maggiore il menù business,

che detto così suona un po’ triste, banale e scontato. Le proposte invece sono invitanti, ogni giorno tre nuove idee da non perdere, così come il menù sorpresa, cinque portate a mano libera dello chef e cinque calici di vino abbinati. E’istrionico, carismatico, in continuo movimento, è il Gordon Ramsey della penisola, sprizza entusiasmo ed energie infiniti, si agita, spiega, dirige, gestisce, si vede che si sente a casa sua. Ed è proprio da qui che cominciamo. - Chef, la sensazione è che Asola sia il suo habitat, la casa sua. - Assolutamente. E’ il mio progetto, è esattamente come lo sognavo, in più guardo Milano dall’alto, impossibile chiedere di più: l’architetto Luca Cuzzolin è stato straordinario. - Perché ha voluto un ristorante come quello di Ro-

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buchon? - Nel 2002, appena finito il militare, sono andato a Parigi, rimanendo a bocca aperta davanti al suo ristorante Atelier, è stato il primo ad abbattere le barriere fra chef e clientela. Da Asola ci si sente esattamente come là, la famiglia Zaccardo è venuta con me a Parigi, studiando in ogni dettaglio il locale di Robuchon. - Rimanendo al capitolo chef, la sua vita è stata marcata soprattutto dal periodo passato da Martin Berasategui. - Ci andai nel 2007. Ricordo come se fosse oggi: mi presentai alle undici di sera, vidi questa cucina enorme di 600 metri quadri, il servizio stava per finire, lui era lì assieme ai suoi 60 cuochi. Dissi “Ciao, sono Matteo Torretta”. Mi invitò a bere un gin tonic e poi mi fece dormire nella foresteria, dal giorno seguente ero alle sue dipendenze. Mi mise ad occuparmi dei secondi di


Foto: Paolo Picciotto

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Foto: Paolo Picciotto

pesce, il capo partita era un italiano che dopo tre mesi se ne andò a Tenerife e così diventai io il boss. Tempo un altro anno ed ero lo chef creativo. Lì ho imparato la metodologia del lavoro, l’importate dell’organizzazione; lui gestisce tutto con un carisma pazzesco; persona straordinaria, chef monumentale. - Qual è il così detto signature dish, ovvero il piatto che ti rappresenta in maniera totale? - Le linguine di Gragnano aglio olio e peperoncino su fonduta di parmigiano e zenzero, poi le capesante in nero, l’idea , e ovviamente i sapori, piacciono un mondo alla gente, così come i dolci dove i meriti van-

no tutti a Galileo Reposo, un pasticciere con i fiochi (provare la “cromologia di bianco” per credere, un dessert sublime). - Il complimento più bello che ti hanno fatto da quando avete aperto? - Gli applausi di Oscar Farinetti. - Andresti in televisione? - Ci sono già stato, mi sono divertito e vorrei tornare con un programma sulla street food. Ma solo alle mie condizioni, perché gli altri programmi hanno qualcosa di non definito, la gestione deve essere affidata ad uno chef, non ad un uomo della tv. Gordon Ramsey

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ha rotto i meccanismi della tivù classica, è uscito dagli schemi, gli altri invece no. - Una tendenza estera che ti piacerebbe riproporre e sviluppare in Italia? - La nuova bistronomia francese. - Un ristorante recentemente aperto che ti ha lasciato a bocca aperta? - 41 gradi, quello di Adrià, a Barcellona. - Il piatto migliore che hai mai assaggiato? - L’anguilla caramellata e il foie gras di Martin Berasategui. Poi il carciofo di Andoni Luiz Aduriz e il wafer di Mauro Uliassi.


Armando Sebastiani La leggenda

Il ristorante Peppino

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i è disturbato perfino Vogue, il che è tutto dire. D’altronde è la memoria vivente del mondo della ristorazione milanese. Armando Sebastiani ha attraversato più di mezzo secolo di storia, e che storia, passando dal Charlie Max al Saint Andrews e poi al Biffi Scala, fino a quando, vent’anni addietro, ha aperto, in Via Durini al 5 il ristorante Peppino, un nome, una garanzia. Ha conosciuto, è diventato amico e confidente di centinaia di grossi imprenditori, famiglie storiche meneghine, politici, artisti di calibro mondiale, avvocati, banchieri e alti prelati: Kissinger, Agnelli, Bulgari, Anne Wintour, Confalonieri, le grandi famiglie milanesi (Bonomi, Invernizzi, Moratti, Pirelli). Non a caso in tanti gli hanno proposto di scrivere le sue memorie. Lui ha sempre declinato l’invito con garbo ed eleganza, sostenendo che non tradirebbe mai la fiducia dei suoi clienti. E ci mancherebbe. Però rimane il dispiacere per un mondo che se ne va, un mondo fatto di cortesie e sottointesi, di parlar piano e saper trattare gli ospiti, un mondo del quale Armando era ed è un testimone straordinario. Per respirare quell’aria bohemienne, ricca e raffinata oggi si varca la

porta del suo santuario, uno dei pochi ristoranti storici rimasti a galla, di cui siamo dei fan sfegatati; l’atmosfera parigina anni trenta sa di mousse di paradiso e di crema di meraviglia. Tornando a Vogue, l’articolo narra in maniera sublime di quel mondo che fu al St.Andrews, quattrocento metri quadrati pieni di segreti e storie incredibili, dove Arman-

Kissinger, Agnelli, Bulgari, Anne Wintour, Confalonieri: tutti da Peppino do era il gran cerimoniere. Un club progettato da Gianfranco Frattini e inaugurato sul finire del gennaio 1964; aprì i battenti come sala da tè e American Bar, per poi trasformarsi progressivamente in un ristorante. Onore a Vogue, dunque: ha saputo ridare lustro, riaccendere i riflettori su un tempio della Milano da bere, forse

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uno, se non il più importante riferimento di una città opulenta e godereccia, piena di eleganza, raffinatezza, classe e voglia di divertirsi. “L’apertura del St.Andrews”, si legge nelle pagine di Vogue, “coincide con un momento di svolta nel disegno d’interni italiano e con la sua affermazione nel mondo quale sinonimo di gusto sofisticato e sperimentazione continua. I punti chiavi dell’intera configurazione erano essenzialmente due, entrambi di grande sapienza compositiva. Il primo, dovuto all’iniziale immagine di club più che di ristorante, consisteva nel sistema di tavoli quadrati posti come snodo per una doppia aggregazione di commensali e utilizzati quali appoggi centrali (con dotazione di telefoni per impellenti chiamate mondane o d’affari). Il secondo punto chiave era articolato attorno alle cappe-scaffale calate dal soffitto e fungenti al contempo da mascheratura per le bocche di aerazione, da diffusori di luce e di musica. “ Erano altri tempi, qualcuno li rimpiange, anche se si tratta di un esercizio inutile. Chi invece vuole rivivere le atmosfere del passato arricchite da un lieve ed elegante tocco del nuovo millennio, è invitato a prenotare da Peppino.


Davide Callegari

Foto:Monica Cordiviola

Il giramondo

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l Bistrot Les Gitanes c’è un problema. Fra l’altro impossibile da risolvere: il menù cambia troppo spesso e se non fai in fretta rischi di rimanere orfano dei piatti proposti dai due chef, Alessio Truddaiu e Davide Callegari. Non prendetela sul ridere e non veniteci a dire che i problemi sono altri, perché uno ci rimane davvero male, compresi coloro che hanno assaggiato il menù e non sono riusciti a ripetere l’esperienza. Qualche messe addietro ci hanno fatto sognare con il tentacolo di piovra alla griglia su crema di fave e velo di pecorino, poi la pluma di maiale iberico con salsa d’ostrica e spinaccio novello. Ora siamo letteralmente innamorati del langostino alla plancia con fegato grasso e gelatina di gin lemon, così come dai panzerotti di cacao e scorza di arancia con ragù bianco di agnello e fave. Aggiungiamo anche la stracciatella di baccalà con fave di cacao e sorbetto al passion fruit, concludendo con la stracciatella pugliese con polpo di riccio ed emulsione di basilico. Ma torniamo a concentrarci sul nostro personaggio, ovvero Davide, di Alessio parleremo nel prossimo numero. Ha iniziato come barman nel 2002, chef è diventato quasi per caso. Dopo aver studiato alla scuola alberghiera di Stresa ha vinto il trofeo Nino Cedrini per il miglior cocktail preparato, dietro di lui si classificò il figlio di Cipriani. Da lì sono arrivate le chiamate: andò da Sheraton Moorea in Polinesia poi al Melia Varadero per preparare dei cocktail ai festosi vacanzieri, dopo sette mesi si era già spostato in Honduras, al Black Pearl, sull’isola Roatan, paradiso vacanziero. Dopo tante immersioni, avventure e vita spensierata

torna in Italia e va da Heinz Beck: in pratica la carriera di chef inizia così. - Come definiresti l’alta cucina? - Arte e passione. - Come sei arrivato a Les Gitanes? - Per puro caso, una mia amica ci lavorava, mi disse

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che cercavano un barman, l’altro chef Alessio Truddaiu c’era già. Il ristorante aveva appena aperto, era tutto in evoluzione. - Com’è la clientela? - Ideale: si fida di te, dice “fai tu”, è tutta gente consapevole di quello che mangia, il target è trasversale ma come idea parliamo di quarantenni che amano il cibo


e la vita. - Un elemento che non manca mai nei tuoi menu? - Il baccalà, è un must. - Il piatto del quale sei più fiero? - Il carbotonno: dadini di tonno con aggiunta di whiskey torbato. - I tuoi idoli? - Moreno Cedroni e Ferran Adrià, perché ha reinventato il modo di mangiare. - I tuoi maestri? - Heinz Beck, lui non è uno chef bensì un matematico, una tale precisione in cucina non pensavo fosse mai possibile. Poi dipinge piatti, letteralmente fa sognare, magia pura. - Quali sono gli chef che ti piace seguire? - Ce ne sono: Oldani, Cracco, Cedroni, Uliassi, Berton e soprattutto Ramsey. - Hai mai copiato un loro piatto? - No, mai messo in tavola un piatto degli altri, però li studio, questo sì. - I migliori posti dove hai lavorato all’estero? - Al Setai di Miami dove facevo il susher barman e al Mapia Resort Manado, in Indonesia, un posto famoso per le immersioni subacque. - Il piatto più buono mai assaggiato altrove. - All’Antica Posteria dei Sabbioni, a pochi chilometri da Pavia, c’è uno chef giovanissimo, Gabriele Ciceri. Prepara delle tagliatelle di seppia sensazionali e un calamaro aperto da urlo. In più hanno una lista vini monumentale. - Gli chef sono ovunque, in tv, sui giornali: è il mestiere del futuro? - Io lo sconsiglio, perché è un mestiere devastante, faticoso, non hai tempo libero. - La soddisfazione più grande vissuta finora? - Al salone del mobile abbiamo lavorato come indemoniati. A fine serata siamo usciti dalla cucina e la sala ha cominciato ad applaudire.

Bistrot Breri Via Pontaccio 5

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a vera focaccia pugliese, croccantissima, autentica, nel cuore di Brera, in Via Pontaccio al civico 5: mozzarelle dalla Gioia del Colle, olive di Capuzzo e olio del Palo del Colle, vini di Tormaresca, poi taralli fatti a mano, focacce, panzerotti, spaghetti all’assassina, sfornati di melanzane e ovviamente la classiche e prelibate orecchiette con cime di rapa rigorosamente di Fasano. Angolo di paradiso pugliese al Breri dove i due giovani patron Andrea di Paola e Lorenzo Loseto volevano a tutti i costi riprodurre la vera focaccia barese in un ambiente giovanile con arredamento sorprendente, vedi

i tavolini in ferro e le sedie recuperate dai tempi della seconda guerra mondiale, 25 posti sempre occupati. Andrea di Paola doveva diventare avvocato, però ha preferito aprire un’azienda di occhiali a Los Angeles e poi un ristorante italiano sulla spiaggia a St.Barth, “L’Isola”. Lorenzo Loseto invece ha studiato economia e commercio per poi diventare un imprenditore edile di successo. Insieme hanno aperto un bistrot chicchissimo in Via Pontaccio, nel cuore del Brera: “E’ la culla del cibo pugliese a Milano, prima non esisteva uno come il nostro, con dei prodotti al cento per cento provenienti dalle nostre terre, idem per le

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ricette. La gente ne va pazza, alcuni entrano per comprare qualcosa e volo e tornano dopo cinque minuti per sedersi e gustarsi un altro piatto, stavolta con tutta calma. Nel pomeriggio fino a tarda sera propongono dei cocktail particolari come il Negramaro, molto apprezzato dai blogger fashion e dai hipster che bazzicano la zona, così come lo spritz fatto con Verdeca di Gravina, bollicine di altissima qualità, idem per i vini locali proposti a 4 euro al calice. Il format lo vogliono “esportare” a Londra e Ibiza, le aperture sono imminenti, intanto vi invitano in Brera.


Wicky

Alto godimento Wicky Pryian

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i sono dei ristoranti dove mangi divinamente. Altri dove l’endorfina supera il livello massimo. In alcuni ti senti al settimo cielo. E poi c’è Wicky, da dove esci con una certezza assoluta: il paradiso esiste. Anzi, esiste ogni volta che decidi di varcare la porta del suo locale in Via Calocero, piccola e quieta stradina dietro Via De Amicis. Salse a base di rari agrumi esotici, pomodorini datterini e decine di spezie, coriandolo e sesamo, paté di olive e yuzu: c’è profumo di Asia e di altri angoli del mondo, più infinite contaminazioni italiane.

Poi c’è l’angus all’aceto di champagne, il maialino siciliano messo a cuocere per 16 ore, la cernia tigre, mazzancolle pugliesi, pagello fragolino sardo, dentice rosa, capesante giapponesi, gamberi siciliani come anche i merluzzi, tutto marinato e cucinato con delle tecniche fenomenali, frutto di una mente geniale, di una persona che ama ripetere “io ho camminato il mondo”. Eccome se ha camminato. Così come i clienti camminano a tre metri da terra per la felicità. Wicky Priyan, il più grande di cinque fratelli, é nato e cresciuto in Sri Lanka fino a sette anni, facendo in

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tempo a carpire i primi segreti della cucina, visto che la madre lo aveva iniziato all’arte del cibo quando ne aveva soltanto cinque. Poi eccolo in Giappone, dove impara tutti i segreti possibili del mondo del cibo: fra l’altro ha lavorato anche al mercato del tonno, “quel” mercato del tonno, Tsukiji Maket, per poi spiazzare tutti e dedicarsi in maniera sorprendente al mondo della criminologia, alle arti marziali e alla cucina, culminando la sua avventura al Four Seasons di Bali. In Italia è arrivato nove anni addietro, per una lunga


giorno dalla Sicilia, addirittura dallo Sri Lanka e dal Giappone, ma l’85 per cento arriva dai nostri mari. Deve tutto, o quasi, ai suoi due maestri, Sushi Kan e Kaneki: ne parla con un rispetto tipicamente asiatico, non a caso sul podio dei valori mette prima la disciplina, poi appunto il rispetto e infine il coraggio. Quando non si trova nel suo ristorante (chiuso di domenica), si rilassa con un bel piatto di caciucco livornese con tanto pane mentre sogna nuove aperture, con Londra prima opzione, nella City: “Lì non ci vai con un ristorante normale, ma con qualcosa di unico”. Come il suo. Ci piace così tanto il mondo di Wicky, le storie e la sua cucina creativa giapponese da leggere spesso il menù, il che può sembrare alquanto bizzarro, folle ed esagerato però basta chiudere gli occhi e con il pensiero sei già lì, al banco, davanti a lui. Il banco, appunto: ci sono venti postazioni “con vista Wicky” e altri 50 posti a sedere.

Foto: Marco Varoli

vacanza gastronomica: difatti per sei mesi non ha fatto altro che viaggiare, studiare, osservare, assaggiare e mangiare, imparando a conoscere e gustando le materie prime e le delizie della Penisola. Ha cominciato con il Piemonte scendendo poi fino in Sicilia, dove si è innamorato del pescato locale; non a caso oggi viene considerato una specie di enciclopedia per quello che riguarda il mondo ittico. Quando si è sentito pronto ha intrapreso la strada più difficile, proponendo la sua cucina creativa e contaminata in un noto ristorante milanese, osando e marcando per sempre il modo di interpretare le pietanze giapponesi in Italia. Dato che si tratta di un’esperienza del passato conclusasi non in maniera idilliaca, preferisce che si sorvoli sul nome del posto. Accontentato. Poi il grande salto, inevitabile, l’apertura del suo ristorante, la sua gemma, Wicky, dove si cucina solo pesce pescato, niente da allevamento: se lo fa mandare ogni

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Assieme a lui l’inseparabile Nosomi, la moglie, squisita ragazza giapponese conosciuta, guarda caso, a Milano: insieme hanno una figlia, Lonka: il nome significa isola nella lingua sri lankese, paese d’origine di Wicky, mentre in giapponese vuol dire orchidea. Dovendo suggerire un paio di piatti vi consigliamo Sushi Kan e Natura, in alternativa gli scampi e le capesante, da molti considerato il piatto dell’anno. Per concludere, un dessert fiabesco, fatto con cioccolato Valrhona. Per chi mangia poco, Sushi Kan e un flute di champagne: magia. Pare superfluo raccontare che il ristorante è sempre pieno, pranzo e cena: pensate che alcuni prenotano ogni santo sabato, mentre la clientela abituale torna anche 3-4 volte la settimana: se non si tratta di un record, poco ci manca. Una volta abbiamo letto una frase che ormai abbiamo fatta nostra: quando mangi devi godere. Da Wicky, sicuramente.


Markus Holzer Pasta on the rocks

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n piccolo paesino di montagna, San Candido, con un grande ristorante, Jora. Il merito è di Markus Holzer, giovane cuoco altoatesino cresciuto alla scuola di Norbert Niederkofler. A proposito, sentite cosa ne pensa di lui proprio lo chef stellato di St.Hubertus Rosa Alpina: “Era riservato, ma appassionato, faceva raramente sentire la sua voce, però non si poteva fare a meno di notarlo ugualmente. Le sue gambe erano sempre coperte, infatti, da un coloratissimo grembiule( dal quale si poteva capire l’intero menu). Chi conosce noi altoatesini sa che siamo lavoratori estrosi e vivaci ma che parliamo solo se interrogati: quando Markus doveva rivolgermi la parola lo faceva in maniera intelligente, spigliata e con la massima educazione, sebbene non riuscisse a nascondere completamente il suo sorrisetto malizioso a trentadue denti. Poiché l’acqua cheta rovina i ponti, dopo alcuni stage si è dato una mossa, liberandosi anche dei suoi grembiuli colorati, costruendosi un

rifugio tutto per sé. Un ristorante che sembra venuto fuori da un libro di fiabe, come la sua pasta fatta in casa, un tripudio di colori. E’ proprio vero, il mondo ha bisogno di questi furfanti di successo”. Già: ora proviamo a conoscere meglio il “furfante”. - Come hai cominciato? - Da piccolo aiutavo i miei nella baita di montagna, poi ho seguito la scuola di Bressanone ed eccoci. Studiavo al liceo scientifico, ma ero attratto dalla cucina, gli inizi sono stati alquanto complicati, avevo una grande passione e voglia, mi mancava la tecnica, con il tempo invece sono migliorato, diciamo che lavorando ho imparato. - Come possiamo definire la tua cucina? - Molto tradizionale. Cerco di esaltare le materie prime della mia zona, secondo me ognuno deve cercare di preparare quello che ha attorno, nel senso che io, uomo di montagna, non preparerò mai il pesce di mare, non lo conosco. In compenso uso un olio toscano perché ho lavorato a Firenze, una birra tedesca perché sono

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stato per un po’ a Monaco di Baviera. Mi piace capire le materie, vado in giro fra i contadini, guardo le vacche, sì, le vacche e le scelgo, dico questa la prendo io. - Facciamo sognare i nostri lettori, come li stupisci nel tuo Jora? - Il posto, tanto per cominciare, è straordinario. In pratica si tratta di una baita sulla pista da sci, d’estate si arriva dopo una camminata piacevole di venti minuti, fra l’altro fa anche venire l’appetito. Dopo aver mangiato, al ritorno, la stessa camminata serve come digestivo. La sera invece andiamo noi a prenderli, giù nel paese, a San Candido. Proponiamo la pasta fatta in casa, carni locali, piatti molto gustosi e semplici, abbiamo 70 posti, la sera si spendono dai 40 ai 60 euro, a pranzo un po’ meno anche perché solitamente si mangia un solo piatto. La clientela è all’80 per cento italiana, mi piacerebbe ci fossero più stranieri. In cucina siamo due cuochi e un aiuto cuoco, in sala lavorano anche i miei genitori e la moglie, che ora invece aspetta il nostro secondo figlio e di con-


fagottini di barbabietole con ripieno di olive e camembert seguenza è più a casa, fra poche settimane partorirà. - Come mai ti sei specializzato nel fare la pasta? - Mi è sempre piaciuto farla a mano, in tutte le sue forme, poi è un piatto che mangiano tutti, avete mai sentito qualcuno che non la ami? Poi quando la prepari tu sai esattamente quali siano gli ingredienti: farro, frumento, grano, scegli tutto tu, puoi mettere oppure no l’uovo in

base alle intolleranze dei clienti, è fantastico. Mi diverte soprattutto fare i ravioli, però con la carne vado forte lo stesso. Come dicevo prima, le mucche sono la mia passione, anche se ultimamente noto che il capretto mi dà delle grosse soddisfazioni. - Ti piace andare a curiosare nei ristoranti altrui? - Certo. Mi piace da matti andare da Auener Hof, il

ravioli con carne di vitello, pomodori datterini e burro alla salvia

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ristorante stellato più in alta quota in Italia, 1622 metri, a Prati, nella Val Sarentino: Heinrich Schneider è un genio, sa utilizzare le erbe selvatiche come pochi. Mi ha colpito con delle cose semplici, semplicissime. - C’è un piatto che ti caratterizza in maniera totale o quasi? - Sì, i ravioli al pane nero, carne affumicata e tartufo. E’ un piatto che ho fatto assaggiare al Vinitaly, son stato invitato da Florence Guyot, ci siamo conosciuti su Facebook perché io sono amico di tutti gli chef stellati della zona, vedevo sempre le sue bottiglie e le sue serate, mi ha incuriosito. Così quando mi è stato proposto di cucinare qualcosa nel suo teatrino, sono andato subito. Esperienza bellissima, Flo riesce creare delle atmosfere straordinarie, non vedo l’ora di tornarci. - Se tu hai conosciuto Florence tramite Facebook noi ti abbiamo scoperto grazie al tuo libro di ricette, Pasta on the rocks, 310 pagine divertenti. - Avevo da tempo in testa di scriverne uno, però mi mancavano le basi, così ho seguito un corso di scrittura ed eccomi. Ho iniziato a scriverlo nel novembre del 2012, nell’agosto dell’anno seguente era pronto. Il libro vuole essere divertente e ironico, con delle foto bizzarre. Lo acquistano gli amanti dell’Alto Adige, i miei clienti e ospiti, per il resto dovrei trovare un distributore serio. - Il più grande complimento che ti hanno fatto? - Mi dicono che nei miei piatti si riconosce con facilità il gusto di ognuno degli ingredienti. Non mi piace mescolare, preferisco che le materie che uso, gli alimenti, siano complementari: te lo dicevo all’inizio, amo la cucina tradizionale e semplice, per niente quella molecolare. - Hai un idolo, fra i grandi chef? - Norbert Niederkofler, senza dubbio. Un mago, quando vado da lui alla Rosa Alpina impazzisco di gioia. - Anzi, di Jora.


Marco Parizzi Food concept man

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n giorno in Via Montenapoleone a Milano, l’altro in Via Repubblica a Parma. Il seguente magari a Hong Kong oppure Parigi per curiosare, carpire e, perché no, rubare qualche segreto e adattarlo al mondo della ristorazione italiana, per poi svilupparlo alla sua maniera. Marco Parizzi, una stella Michelin, è un fiume in piena, instancabile, vulcanico: si considera una persona innamorata dalla complessità, molto più di uno chef, anche se noi lo vediamo più come un filosofo prestato al mondo della ristorazione, un amante dell’architettura che lascia la sua impronta ovunque vada, ultima creazione la Drogheria Parini 1915, lo-

cation di prestigio riqualificata e ristrutturata proprio grazie alle sue idee e direttive. - Da dove cominciamo? - Dal mio primo capo, ovvero mio padre. Sono cresciuto in una famiglia di ristoratori, mio nonno aveva aperto un ristorante nelle ex stalle di un palazzo patrizio, nel centro di Parma, dove nel cinquecento alloggiavano i cavalli. In pratica era una osteria con dieci tavoli, fu lui a trasformarla in un vero e proprio ristorante, nel 1968. Pochi anni dopo era già un locale di primissimo piano, io ho iniziato nel 1992. A quei tempi lo chef era come l’elettricista di oggi, altro che star della tv e delle riviste patinate.

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- Ce l’ha con i vari Ramsey, Bastianich e gli altri? - No, solo che ormai si esagera, la figura dello chef super star è inflazionata, sovraesposta, detto questo io in cucina sono perfino più fumantino di Gordon. Spesso Ramsey litiga per fare lo show, io invece sono duro di carattere per davvero. - Cosa ci possiamo aspettare, varcando le porte del suo ristorante Parizzi? - Io amo la complessità, non mi fisso su un piatto solo, mi piace prendere un pezzo di carne “morta” e trasformarla, farla vivere. Non mi chieda il mio piatto migliore, un vero professionista della cucina non ne ha mai uno soltanto, ammesso che possa esistere un


creare il menù, ma per un concept: si sono fidati di me, mi hanno lasciato disegnare perfino le posate, i secchielli, il packaging e il banco dove si assaggeranno salumi pregiati e mozzarelle favolose. Poi, i prodotti: mia moglie e io li abbiamo scelti uno a uno. - E’ un modello esportabile? - Lo abbiamo pensato fin dal primo istante, anzi, deve essere esportabile: noi italiani abbiamo la moda e il cibo, sono il nostro biglietto da visita nel mondo, il nostro traino. - Intrigante. - Chi entra rimane a bocca aperta, è uno spazio con quattro sezioni: il wine bar, il ristorante, la drogheria e il delivering. E’ esportabile a pezzi oppure in toto, penso a Harrod’s e altri grandi store. - Possiamo paragonarla alla salumeria Rosi, che sta spopolando a New York? - Ci sta come paragone, ma solo in parte. Rosi lo conosco bene, ma noi siamo più concept, lui più trattoria. - Come ha conosciuto la famiglia Ferri, proprietaria della Drogheria Parini? - Tramite l’architetto Gio Pagani, un amico comune. Persone straordinarie, con immense capacità, molto pratiche e lungimiranti, se la meritano la fortuna, perché se la sono sudata. - Se la drogheria ha appena aperto, per cui sarebbe un po’ presto chiederle alcuni commenti dei commensali, ci dica una frase che le è rimasta impressa, un complimento che le hanno fatto al Parizzi. - Tornando a casa dopo una cena da me, due novelli sposi hanno concepito il loro figlio. Mentre un altro ha chiesto alla sua fidanzata di sposarlo.

signature dish. - Si narra che lei ami viaggiare per scoprire dei posti nuovi e sapori nuovi per poi trasformarli, adattarli, creare tendenze e idee. - Sono una persona curiosissima, ogni anno parto con mia moglie (Cristina, sommeliere proprio al Parizzi) per un paese diverso per capire cosa succede. Sono, siamo rimasti folgorati a Bangkok in un ristorante con due stelle Michelin: il locale era diviso in due, una parte stracolma che era wine bar, l’altra che era pura ristorazione ed era semi vuota. Lì avevamo capito che tutto sta cambiando, che si va verso un mondo con dei locali fruibili, il primo ad averlo capito, ai più alti livelli è stato Robuchon. In Francia e negli Stati Uniti è più facile, ti aiutano a valorizzare un’idea, in Italia è invece un incubo, le leggi e la gente te lo impediscono. - Capitolo Drogheria Parini, 600 metri quadri in Via Montenapoleone angolo Via Borgospesso, sotto le arcate della basilica di San Francesco di Paola: è lei il grande artefice della ristrutturazione, come la definirebbe? - E’ un locale moderno-vintage dove puoi andare per un caffè, un aperitivo, una cena o semplicemente per acquistare dei prodotti di primissima qualità. - Avete appena aperto, forse è presto per farsi un’idea sul target, però proviamo. - Vogliamo che La Drogheria sia fruibile a tutti, compresi i commessi delle maison che lavorano in Via Montenapoleone e dintorni. - I patron le hanno dato mano libera, in pratica è una sua creazione. - Gente fantastica. Non mi hanno ingaggiato solo per

Drogheria Parini Via Borgospesso 1

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a Drogheria Parini? E’ un locale dove puoi andare per un caffè, un aperitivo, per cenare o più semplicemente per acquistare dei prodotti di altissima qualità”. Parola di Marco Parizzi, figlio d’arte, che stellato e soprattutto una persona effervescente, un vero filosofo del cibo, amante dell’architettura, non a caso è stato chiamato per dare un’identità forte alla drogheria, per creare un concept store esportabile poi in tutto il mondo. Il patron Giuseppe Ferri, imprenditore edile (EdilFerri fattura 50 milioni l’anno), è davvero al settimo cielo e si gode appieno la sua creatura: “L’investimento finora è stato di 10 milioni di euro, è stato reso possibile anche grazie al sostegno delle banche”. Lo stesso Ferri aveva fondato nel 2011, assieme ad alcuni soci, La Compagnia della ristorazione, acquistando prima la pasticceria Taveggia e poi il bar Il Panino. Racconta, Ferri: “Stiamo lavorando a un progetto in cui crediamo fortemente. Il nostro intento è quello di offrire ai clienti solo prodotti di altissima qualità che selezioniamo minuziosamente sul territorio italiano, ma a un prezzo accessibile. Ricerchiamo il lusso e l’eccellenza nei sapori e per il palato, ma vogliamo che a goderne sia la più vasta clientela non solo milanese, nel totale rispetto di ciò che la Drogheria Parini ha sempre rappresentato in 100 anni di storia”. Sulle pareti dei locali, con i soffitti a volta e i mattoni a vista, completamente ristrutturati dall’architetto GioPagani, in eleganti scaffali sono esposti prodotti gastronomici eccellenti e selezionati in collaborazione con gli stessi fornitori, dalla pasta Verrigni al riso de Gli Aironi e naturalmente anche pregevoli etichette di vini e champagne. www.parini1915.it

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Pret a manger

I Salentini Via Solferino 44

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an Daniele di tonno. Bresaola di pesce spada. Mortadella di bottarga. Non si tratta di un errore: in Via Solferino a Milano, al civico 44, Antonio Ingrosso assieme alla moglie Francesca Micoccio, entrambi pugliesi doc, nati nei pressi di Gallipoli, propongono una salumeria ittica davvero unica nel suo genere, una cucina di rara bontà sia per le prelibatezze sia per la qualità delle materie prime. Oltre ai salumi di pesce c’è un elenco lunghissimo di bontà: i gamberi viola (di

Gallipoli, ovviamente), famosi per essere intensi e raffinati, la frisa salentina con pomodorini d’inverno, la trippa di pescatrice (morbide guance di pescatrice con sughetto di pomodoro profumato allo zenzero), il purè di fave bianche di Carpino e cicorie selvatiche. “ Volevamo creare un luogo salentino doc nel cuore di Milano”, raccontano, “per questo i nostri prodotti arrivano al cento per cento dalle nostre terre, ogni giorno. Il pane viene da Tuglie, i salumi di pesce da Torre Colimena,

Persé

Via Bertani 16

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orse è un record: a soli 27 anni Valerio Sità rischia tutto e dopo tre anni come sommelier da Claudio Sadler apre il suo ristorante, Persé, in Via Bertani, di fronte all’Arco della Pace. Haute cuisine, materie prime pregiatissime, un po’ di pazzia e dei piccoli produttori di vini, esclusivamente italiani: una bella scoperta, il bistrot aperto pochi mesi addietro, ideale per coppie romantiche e intenditori, . Ambiente easy, una trentina di posti e fra poco altri venti fuori, il pane fatto in casa, si comincia con la battuta di gamberi rossi di Sicilia con radicchio tardivo di Treviso saltato al rosmarino, in alternativa un millefoglie di spigola e foie gras con insalatina al balsamico, piatto letteralmente eccezionale. Come primi il tortello ripieno di

arringhe affumicate e patate su crema di broccoli e datteri, i tagliolini alla menta con triglie, su passatine di pomodoro, oppure il pacchero ripieno al ragù napoletano con balsamella: non male come inizio, vero? I secondi sono dei capolavori sulla scia dei primi: seppie alla griglia su passatina di ceci, con cime di rape e crema di caffè, agnellino di latte al vermentino , maialino croccante marinato nella senape oppure il rombo in crosta di timo su crema di melanzane. Si chiude in bellezza con dei babà strepitosi “creati” dallo chef Marco Badalucci, napoletano di Procida con esperienze da Marco Badalucci, poi alle Calandre di Padova e alla Casa de Campo nella Repubblica Dominicana prima di incontrare Valerio.

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dove una famiglia di pescatori li realizza in maniera artigianale solo per noi. L’olio Leucades viene da una cooperativa olearia di Sannicola, così come le paparine, verdure selvagge sfiziosissime. I dolci venono fatti in casa pure loro: vi consigliamo il classico pasticciotto salentino, un tortino di pasta frolla con ripieno di crema pasticcera, poi i ficchi mandorlati oppure lo spumone salentino, un gelato artigianale al cioccolato e nocciola con ripieno di meringa e granella di nocciole.


Pret a manger

L’angolo di casa Viale Piave 17

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ome definirei il nostro ristorante? Di alta ricerca, maniacale nel trovare e proporre le materie prime migliori”. Firmato: Marco Tavazzi e Angelo Rocavilla, i due patron de L’Angolo di casa, locale vietato ai coloro che mancano di appetito o che preferiscono i piatti sciatti. Qui c’è la giostra del gusto, dei sapori, dei profumi intensi, della voglia di stupire e far felice la clientela, indifferentemente se si tratta di Mateo Kovacic oppure Domenico Dolce. Leggendarie le padellate di scampi e gamberi, la passatina di fave con calamaretti saltati, la quenelle di baccalà, il black code cotto a bassa temperatura ed i paccheri alla polpa di riccio, paccheri rigorosamente trafilati in oro. Evidentemente, come detto all’inizio, le materie prime sono eccellenza pura, farne l’elenco diventa impossibile ma per farsi un’idea basta pensare

ai cavatori che portano direttamente il tartufo o ai viaggi che Marco fa senza soste su e giù per la penisola nella ricerca spasmodica della qualità. “Spesso parto sabato sera e la domenica, all’alba, carico la macchina di prelibatezze locali per arrivare al ristorante all’ora di pranzo. I cannoli siciliani con pistacchio di Bronte e ricotta appena fatta sanno di paradiso”, racconta Marco, fine intenditore di vini e affini. Qualche suggerimento? “Lo spumante Francesco Belei, davvero raro, molto meglio di tanti champagne. Poi come bianco il Valentini, come rosso il Bruno Rocco di Piemonte, un barbaresco simile al Gaja”. Florence Guyot, che a L’Angolo di casa non solo vende i champagne che portano il suo nome ma è anche una habitué come cliente, trova un’altra definizione: “Qui mi viziano come lo faceva mia nonna. Anzi, di più”.

Parma and co Via Delio Tessa 2

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ulatello del maiale nero, gnocco fritto fatto in casa, salame strolghino, parmigiani rari e vini tradizionali, prosciutti paragonabili al Patanegra senno addirittura superiori, tortelli e cappelletti fatti a mano: i sognatori del gusto sono pregati di andare, e di corsa, in Corso Garibaldi, da Parma and Co:senza dubbio qui si assaggia il culatello migliore al mondo e non si tratta di una esagerazione o di un parere soggettivo, bensì

di un premio vinto di recente. Il patron Camillo Carmigiani tira fuori dal cassetto la “patacca” dove si legge che il “suo” è stato eletto al primo posto dall’Eccellente Arcisodalizio per la ricerca del culatello supremo che si riunisce da decenni alla Rocca di Soragna per votare l’Imperatore dei Salumi. “Qui si mangia meglio che a Parma”, dice, “scelgo quasi sempre i prodotti di collina perché sono più autentici, l’idea è di esportare il format all’estero, sto cercando un posto

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chic a Londra, in quartiere high society”. Farà sfracelli se troverà uno spazio come a Milano, perché l’atmosfera alla “salumeria con cucina” è rural chic: le mura sono di quel color arancione tipico dei caseifici parmensi, i tavoli simili a quelli delle macellerie, il bancone acquistato da un artigiano americano, il profumo di rarità ovunque. La clientela è trasversale, va dai professionisti agli abitanti del quartiere


Cohiba Behike 56 Passione totale

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bbene sì. Esiste una categoria di persone, seppur esigua, che parte per Cuba anche varie volte l’anno senza il chiodo fisso della vacanza allegra e di rimorchiare a pochi soldi. Non che non siano sensibili alle bellezze locali, solo che nel paese devastato dal comunismo c’è del all’altro, molto più esaltante e sensuale: i sigari e le tante Casa del Habano. Appartengo a quella esigua minoranza. La polaroid dell’ultimo viaggio a Varadero ha poco a che fare con le donne che sorridono senza motivo (beh, un motivo c’è...) appena vedono un maschio straniero. Per noi Varadero significa la vista favolosa sul mare dall’alto della

club house del campo da golf, l’unico nella zona, mentre sorseggiamo un caffè e accendiamo un Behike 56, sigaro mostruoso per intensità e qualità, un top di gamma eccezionale, non a caso è il sigaro più costoso fra gli habanos (38 euro). Tonalità colorado, capa setosa, molto oleosa, testa chiusa a pig tail, il Cohiba Behike 56 presenta le dimensioni maggiori della linea che porta lo stesso nome, Behike. Appena lo tocchi ti senti in paradiso, tanto per tornare al paragone iniziale, con le bellezze locali. Il riempimento pare eseguito in modo perfetto, alcuna venatura percepibile, né al tatto né alla vista.

Tastando il sigaro, solo vicino alla testa vi è una venatura percepibile con le dita, ma non alla vista. Tiraggio lievemente aperto, per alcuni perfin troppo, sentori di spezie pregiate e legno, cacao e pepe rosa. Dopo il primo terzo ecco profumo di miele, un’eleganza infinita, tutto molto bilanciato. I super esperti raccontano anche di aromi di frutta secca, onestamente non ce ne siamo accorti, per noi impera il pepe rosa. Arrivando verso la metà del sigaro ecco punte di vaniglia, la forza diventa media, poi andando verso la fine la forza aumenta, in un crescendo rossiniano. La fumata diventa cremosa e densa, ricca e raffinata, elegante, la cenere è compatta.

Camacho Triple Maduro

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n Italia se ne parla poco, anche perché potendo scegliere si preferiscono spesso altri sigari. C’è anche il pregiudizio, soprattutto da parte dei puristi che amano solo l’arte tabacalera cubana, insomma Camacho non sfonderà mai qui da noi, non diventerà un best seller nonostante abbia una storia prestigiosa (Simon Camacho, cubano in esilio a Miami, fondò l’azienda nel 1961) e faccia parte del gruppo Davidoff (ma i sigari vengono realizzati in Honduras, a Danlì). Tutt’altra storia negli Stati Uniti, dove i Camacho si vendono in modo pesante, soprattutto la linea del Triple Maduro: capa ruvida, spessa e oleosa, sentori di cacao, erbe aromatiche balsamiche, spezie e pepe nero. Una linea di grande personalità e soprattutto un marchio diventato famoso ovunque per il calendario che regala ogni anno, un tripudio di emozioni, bellezze e sogni caraibici. Non ne perdiamo uno, fin dalla prima

Girls Power

edizione, nel 2008: le foto le potete ancora trovare cliccando il nome dell’azienda su Google. Camacho calandar, ed è fatta. Poi, i backstage: andate su You Tube, ogni altro commento ci pare superfluo, abbiamo guardato e riguardato i filmati decine di volte, il calendario del 2013 è stato un omaggio, e che omaggio, al mondo delle armi, ai soldati: Tasha Ford è straordinaria, Melanie Owen anche, la colonna sonora dei Led Zeppelin pure. Tornando ai sigari e al Triple Maduro, proviamo a riprendere il discorso senza farci distrarre dalle foto: avanzando nella fumata le spezie diventano man mano più marcate, con un retrogusto dominato sempre di più dal pepe nero. Un bouquet aromatico e corposo, poi nel terzo tercio note di cuoio ed aromi di cacao con una forza non indifferente. Fumo cremoso, cenere compatta, una buona paletta aromatica e in più le immagini dei calendari. Cosa volete di più?

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Angelo Inglese Il poeta di Ginosa

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iventa difficile. Davvero. Ne abbiamo parlato tante volte, troppe, praticamente sempre. D’altronde farne a meno sarebbe un delitto. Se per Pitti l’idea è di presentare, raccontare il meglio del meglio, non si potrà mai escludere Angelo Inglese. Lui inteso come azienda, perché anche nel lavoro lo affianca la moglie Graziana: sono dieci anni che ci conosciamo, la prima volta fu proprio al Pitti, quando esponevano fuori, al Baglioni. Dieci anni che li apprezziamo, idolatriamo, sosteniamo e applaudiamo. Ne hanno fatto di strada. La qualità era eccezionale allora come adesso, nulla è cambiato: tessuti straordinari, innumerevoli passaggi a mano, perché tutto si realizza in maniera artigianale, dal primo all’ultimo taglio, fino alla cucitura. Negli anni è rimasta intatta la maestria, sono diventati infiniti i riflettori accesi su di loro e sul loro operato: giusto così. In dieci anni abbiamo sentito storie straordinarie sulle loro opere d’arte, sulla loro ascesa. Andiamo fieri di aver creduto in tutto questo fin dalla prima ora. Adesso sono tutti saliti sul carro del vincitore, troppo facile. Troppo facili gli elogi ora, troppo scontate le liriche corali e la voglia di incensarlo; in molti oggi scodinzolano per interesse e opportunismo. La beffa è tuttavia

proprio qui: sono tutti a battere le mani tranne coloro che dovrebbero per davvero stare in prima fila, vedi i politicanti locali, incuranti dei danni che stanno provocando facendo finta di nulla. Si perché una frana ha praticamente arenato, forse in maniera definitiva, la costruzione del borgo che Angelo ha acquistato a Ginosa: i lavori sono fermi, la disperazione è evidente seppur ben celata dietro il suo sorriso da eterno ragazzo bonaccione del sud, la delusione è palpabile perché era ed è il suo sogno. Un borgo è simile al già famoso Solomeo, diventato casa, scuola, atelier e museo di Brunello Cucinelli. Non lo ammetterà mai, ma il dolore e il dispiacere lo lacerano quotidianamente, per non parlare dell’incertezza del domani legata alla fine dei lavori. Era quasi tutto pronto, ora chissà. Lasciamo da parte gli aspetti bui, tremendi e raccapriccianti di una storia tipicamente italiana popolata dai Taffazzi della Puglia, da mostri di indifferenza che si ergano a paladini del nulla assoluto condito da belle parole e null’altro. Torniamo alle sue camicie, alle sue creazioni artigianali, alle giacche fatte interamente a mano, robe dell’altro mondo, paragonabili ad un Gaia, Berluti, Ferrari, Patanegra, Cohiba, scegliete voi.

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Ormai a casa sua c’è un via vai continuo di celebrità, di gente che ama vestirsi in maniera sublime, mentre altri mandano a Ginosa Marina i loro emissari, vedi il primo ministro giapponese, poi il principe Harry e tantissimi altri. E’ venuta invece di persona Sofia Coppola, guardate la foto per credere, assieme al marito Thomas Mars, vero nome Thomas Pablo Croquet, musicista francese diventato famoso per via della sua rock band Phoenix. E’ poi arrivato soprattutto Francis Ford Coppola, il grande capo, il patriarca: ha ereditato a pochi chilometri di distanza un palazzo ottocentesco trasformato in dimora di lusso, Palazzo Margherita, dove, per inciso, si sono sposati Sofia e Thomas. Vittorio Sgarbi ormai è un affezionato, appena arriva chiama in vivavoce Berlusconi pregandolo di provare per una volta le camicie di Angelo, il Cavaliere (per noi sarà sempre il Cavaliere) invece declina con dispiacere perché fedele al suo camiciaio di fiducia. Vittorio Feltri le indossa sempre, Maurizio Belpietro anche. Ora ,seguendo un filo tra un’arte sublime e un’altra, si è arrivati alle divise da chef,anche queste ultime realizzate ovviamente a mano. A breve un lungo numero di stellati indosserà le divise di Angelo, il primo è Claudio Sadler.


Un classico deciso Montecristo n.2

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’ un sigaro sobrio, di altissima qualità, come l’intera gamma Montecristo (attualmente rappresenta quasi il cinquanta per cento di tutti i cubani esportati ogni anno). Il nome, lo si sa, viene dal famoso libro, si narra che ai tempi agli arrotolatori, agli torcederos veniva letta l’opera di Alexandre Dumas. Il primo Montecristo fu realizzato nel 1935 da Alonso Menendez e Pepe Garcia, entrambi asturiani. I due ci sapevano fare, non a caso in pochi anni sono riusciti ad acquistare un’altra azienda di prestigio, H. Upmann. Difatti agli inizi il nome del sigaro era “Selezione Montecristo di H.Upmann”, fu l’importatore

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nella Gran Bretagna ad abbreviarlo in Montecristo. Fu lo stesso distributore, John Hunter, a disegnare il logo e la scatola rossa e gialla con le spade incrociate triangolari. Purtroppo venne Fidel, il comunismo, il disastro rosso, così che Menendez e Garcia furono costretti a lasciare Cuba e trasferirsi alle Canarie. Fortuna volle che la fabbrica, nazionalizzata, riuscì a mantenere il livello qualitativo grazie soprattutto a Jose Maria Gonzales, conosciuto con il nome di masinguila, il massaggiatore, perché nessuno come lui sapeva toccare e arrotolare le foglie del tabacco. Fino al 1970 erano disponibili solo cinque qualità

di Montecristo: i numeri 4 e 5 sono ancora oggi i più diffusi. Tornando al Montecristo numero 2, è il più adatto ai così detti palati forti, avendo un gusto deciso. In apertura sentori di legno, aromi che continuano armoniosi per tutto il primo tercio. Nel secondo tercio fanno il loro ingresso le note tostate, poi inizia l’evoluzione vera e propria: emergono spezie pregiate e note di cuoio, completando così un ricchissimo bouquet di sapori. Si nota qualche nota acidula in ingresso al terzo tercio, poi subentrano note tostate che permarranno sino a fine fumata. La forza accresce nel finale, come in un crescendo rossiniano.

Ashton Cigar Bar

alla serie il mondo che vorrei, ecco a voi l’Ashton Cigar Bar aperto nel centro di Philadelphia. Duecento tipi di sigari e duecentocinquanta di whisky, compresi alcuni davvero rari, con delle limited vintage editions. In più cocktail da urlo, atmosfera rilassante e sofisticata, lussuosa ed entusiasmante, non a caso il posto viene considerato, citiamo, “the sanctuary for lovers of fine cigars”. Si sa, negli Stati Uniti è diventato un

problema fumare in pubblico, a New York e dintorni quasi ti arrestano per il pensiero di sognare un Cohiba, però rimangono i cigar bar, luoghi sempre più accoglienti e coinvolgenti, ampi e spaziosi, luminosi ed eleganti, dei veri club all’inglese con mobili moderni. Ovviamente all’Ashton Cigar Bar si fumano solo i prodotti dell’azienda creata da Robert Levin nel 1985. Tabacco dominicano, fogli mature, gusto blando, molto bilanciato, equilibrato, Ashton è diventato un

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sigaro di prim ordine negli anni novanta, quando il numero dei fumatori aumentò in maniera considerevole. Nel 1999 con il Virgin Sun Grown l’azienda di Connecticut si posizionò davvero alta. Nel 2003 creano assieme alla famiglia Fuente il Heritage Puro Sol, top di gamma. Nell’anno del ventesimo anniversario (2005) ecco l’Estate Sun Grown, limited edition creato con tabacco della piantagione Chateau de la Fuente.


Angelo Galasso

Il Subliminale di Wall Street

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a “Tradition in evolution” a “Il subliminale di Wall Street”. Angelo Galasso, oltre a saper entusiasmare con le sue collezioni, sa anche come muoversi nel mondo della stampa, suggerendo titoli davvero azzeccatissimi e, come si dice in gergo, “sul pezzo”. Subliminale: infatti. Le tre immagini, le tre giacche che abbiamo scelto sono di una bellezza e di una eleganza a dir poco straordinarie. Parlano, raccontano uno stile, raccontano un mon-

do, quello di Angelo Galasso e del suo popolo di seguaci, i dandy, in perenne adorazione, che aspettano con infinita trepidazione l’arrivo delle collezioni nei negozi, magari in uno dei quattro monomarca (New York, Londra, Mosca e Milano). Era il 10 gennaio, quando, alla presentazione della nuova collezione, nello show room di Via Montenapoleone (ora si è trasferito al piano inferiore del nuovo negozio, in Corso Matteotti), siamo rimasti conquistati dai colori, dal disegno, dalla

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linea e dall’imponenza delle tre giacche. Imperiali, davvero. Ricordiamo perfettamente perfino dove erano situate, nella seconda stanza dello show room, lassù, in alto, mentre sotto erano esposte delle scarpe altrettanto straordinarie, quel color blu Cina, elettrico ed elegante, un colore che, invano, abbiamo provato a far ribattezzare dal suo creatore in “blu Angelo Galasso”. Ebbene sì, siamo rimasti senza parole, perché la bellezza gioca brutti scherzi ma regala sempre emozioni fantastiche.


Angelo Galasso

Giacca da smoking in seta blu con fantasia Jaquard e rever in raso

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e volete trascorrere una mezz’ora piena di passione, se vi sentite vivi, se amate osare, se avete una personalità potente, se vi piacciono i colori, l’eleganza e il mondo del dandy moderno, allora vi consigliamo di entrare nel negozio, pardon nella house appena aperta da Angelo Galasso in Corso Matteotti, al numero civico 8, dove si è trasferito dopo un anno e mezzo in Via Montenapoleone. A breve si terrà la festa ufficiale dell’opening, il 25 giugno, a pochi giorni da un altro evento planetario organizzato dalla maison londinese, stavolta a New York, dove Angelo Galasso viene considerato il re della città più bella del mondo. Andate per credere al The Plaza, sulla 58ima angolo con la Fifth Avenue (prima c’era una vecchia sala da thé edouardiana, solo per maschi).

Un via vai continuo di persone trendy che vogliono sentirsi ancora più trendy, gente che ama apparire e distinguersi, che arriva perfino dal Giappone, dal Messico e dalla costa ovest. Insomma un mondo affamato di eleganza spinta, vedi Al Pacino, che va letteralmente a letto vestito Angelo Galasso. C’è una foto che lo ritrae alle nove del mattino da Starbucks mentre indossa proprio un tuxedo blu. Nero invece quelle scelto per ritirare dalle mani di Barrack Obama, alla Casa Bianca, la National Medal of Arts, ovviamente sempre realizzato dal nostro personaggio. I due si sono conosciuti tramite Barry Navidi, il co-producer di Al:”Gli chiesi se fosse possibile vestirlo”, racconta Angelo.” Rispose che lui si deve innamorare del prodotto, altrimenti non ci sono chances. Andai a casa

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sua a Los Angeles, all’inizio mi sembrò leggermente restio ma poi diventò addict, dipendente dai miei abiti; ne acquista in continuazione”. Ecco, la giacca che vi presentiamo qui si trova già nell’armadio di Al: a dire il vero anche le giacche che presentiamo nelle pagine accanto. Un breve descrizione delle tre: doppiopetto blu in seta Italiana con rever a lancia, giacca da smoking in seta blu con fantasia Jaquard e rever in raso, giacca da smoking in seta Bordeaux con ampi rever a lancia. Le parole non rendono giustizia e non fanno sognare, d’accordo, ce ne rammarichiamo. Ma è per questo che vi abbiamo invitati a passare un po’ di tempo nella house di Corso Matteotti.


Angelo Galasso

Giacca da smoking in seta bordeaux con ampi rever a lancia

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er una ragione incomprensibile, forse presi dalla follia del momento, o forse su di giri per via della nuova collezione di Angelo Galasso, il gladiatore della moda (copyright Nick Foulkes, editorialista del Financial Times), mentre stavamo ammirando la giacca che vedete qui ci è venuto in mente una canzone di Frank Sinatra, That’s life. That’s lfe, massi, questa è la vita, la vita che vogliamo, che ci piace, che ci distingue. Vestirci in maniera chic e choc, fare i dandy, vestirsi dandy, essere dandy dentro, ovvero vanesi e liberi, come i tanti che hanno scelto

di indossare i capi di Angelo, uomo di grande fiuto e grande idee, basta ascoltarlo per capire dove va il vento, basta leggere quello che raccontava incantato a Il Giornale: “Si sta respirando un’aria fantastica; l’uomo, nel modo di vestire, è in una continua evoluzione. Siamo arrivati al così detto right time: per anni si sono percepite delle sensazioni positive, ricordo come nel 2005 ero a New York sulla Madison e guardavo le aperture di negozi di jeans, tutti uguali. Mi dissi che era arrivato il momento per impreziosirlo, il resto venne come logica conseguenza. Il segreto sta nel saper osservare

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la gente e provare ad accontentarla al cento per cento. Chi viene da me, non importa se a Londra, Mosca, New York oppure a Milano, è gente che ama visceralmente sentirsi dire che è vestita bene, ama distinguersi, essere elegante, stupire, non ha paura dei giudizi altrui, gente che sa quello che vuole. Per alcuni l’impatto è forse troppo forte ma il mio prodotto arriva e conquista pian piano; a Londra ho trovato terreno fertile perché lì si respira una libertà straordinaria, a Milano ci vuole più tempo”. Quel “tempo” è arrivato.


The Gigi B Brothers

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’è poco da fare, i Boglioli brothers sanno emozionare. Sanno vendere sogni. Lo fanno da una vita e pare che la vena creativa non si esaurisca mai. Quando stai a galla per decenni, quando sai reinventarti collezione dopo collezione, quando sai stare al passo con le mode, a volte perfino anticipandole, a quel punto c’è poco da aggiungere, sei un fenomeno. Anzi, sono dei fenomeni, perché Mario e Gigi vanno avanti uniti, il primo è l’arco e l’altro la freccia, la mente organizzativa uno, il genio creativo. Indissolubili e compatibili; Mario gestisce l’azienda, la nuova azienda, Gigi dipinge meraviglie. La loro nuova realtà, The Gigi, sta attaccando e conquistando i mercati d’élite, la gente che piace e che ama sapere di piacere. Un target difficile, pretenzioso, ma allo stesso tempo pronto ad applaudirti e a premiarti se regali attimi di pura felicità, se sai mixare concetti di alta sartoria e puro desiderio, se colpisci insieme testa e pancia; il che si traduce nell’acquisto immediato. Rieccoli al Pitti, giocondi e fanciulleschi, pronti a sorprendere ancora. Rieccoci pure noi preparati a vergare papiri interi di lodi sperticate perché se le meritano. Perché vanno avanti spediti con la filosofia di sempre, la qualità prima di tutto, abbinata a dei dettagli raffinati. “Noi non facciamo solo giacche, non è interessante, ciò che è eccitante è cercare di dare loro anche un’anima e fare in modo che esprimano un concetto di libertà e di stile. Facciamo quasi cultura”, tuona Mario, in forma smagliante, un guerriero sempre in prima linea, una specie di Spartacus della moda. E’ un fiume in piena, racconta e si sbraccia, si vede che vive le collezioni in modo sanguigno, verace, selvaggio, affamato di gloria e voglia di stupire. E’ uno spettacolo, un continuo crescendo rossiniano: “The Gigi porta una nuova visione, disegni optical impercettibili, nuovi tessuti, una vera e propria evoluzione; giacche ricamate dove si mescolano concetti di architettura e design, tanta fantasia, fodere interne stampate. Tinture e sovratinture nuove, inediti effetti speciali, slavature, lane bouclé, jacquard, procedimenti di invecchiamento, enzimi per smorzare e creare l’effetto opaco, “mat” che tanto piace alla gente che sa apprezzare gli sforzi creativi, ricami in Principe di Galles di foggia

britannica. Abbiamo ripreso dei capi realizzati negli anni quaranta, impreziosendoli, aggiungendo una ricerca quasi spasmodica, siamo andati e andiamo oltre le convenienze. La chiave sta qui, capire che l’uomo è cambiato e non si accontenta più del grigio, del doppiopetto con gilet. Vogliamo stupire, anzi, l’uomo vuole essere stupito, per lo meno l’uomo che noi desideriamo vestire”. Ed ecco, come desiderano vestirlo: con un blazer blu sfoderato, realizzato in tessuto Jersey di cotone con disegni geometrici in rilievo. Da farfalle nello stomaco la giacca chiara in cotone effetto spugna lavorato su telai jacquard con disegno regimental sfumato. Per le altre magie passate dallo stand dei BBrothers.

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Doucals

Oggetti di culto

Teton Rame

Rainer

Range

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ll’ultima edizione di Micam stavamo passeggiando abbastanza delusi, fra i lunghi corridoi della fiera. Si notava una certa stanchezza, si percepiva come le aziende brancolano nel buio, molte di loro senza capire bene la strada da prendere per svoltare. C’era un’aria alquanto deprimente, se dobbiamo dirla tutta. Poi ad un certo punto, eccoci davanti allo stand di Doucals: vi sembrava di essere a Disneyland, un’infinità di colori, brillava tutto, una meraviglia. Raramente abbiamo curiosato con tanto interesse in uno stand, ancor più raramente ci siamo fermati tanto a lungo per sapere dei modelli, le lavorazioni e via discorrendo. Magnifico, sorprendente, fate voi: abbiamo scelto tre gioielli, a fatica abbiamo rinunciare ad altri. Teton, Range e Rainer: ci sono parsi dei veri oggetti di

culto, non abbiamo dubbi che il mercato saprà premiare gli sforzi, la fantasia e i saperi della famiglia Giannini. Facendo un lungo passo indietro lungo 40 anni, scopriamo che Mario Giannini fondò la sua azienda, lanciando il marchio Duca, nome scelto per identificare un prodotto mirato ad una clientela di alto livello, elegante ed esigente, attenta alla ricerca della perfezione. Poi andò a Londra, nel distretto calzaturiero del British Shoe District, per uno stage sul handmade good year. Tornò a casa pieno di idee ed entusiasmo, infondendo nella sua piccola realtà artigianale la dedizione puramente british rivolta alla perfezione vista, ammirata e imparata nella english factory. Cambiò il nome del marchio, da Duca a Doucal’s, proprio per onorare l’esperienza autentica e aggiunge il tocco italiano, la morbidezza, il confort. Sono passati quattro decenni ma nulla è cambiato: al

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timone dell’azienda oggi ci sono i figli Jerry (l’artefice dell’espansione sui mercati internazionali) e Gianni (privilegia la parte creativa e lo sviluppo prodotto, è lui l’anima delle collezioni), i quali hanno proseguito il cammino, salvaguardando il “fatto a mano” con l’ausilio delle tecnologie contemporanee più avanzate che sono il loro riconosciuto ed apprezzato terreno di azione. Manifatture artigianale,forme aggiornate, stile ricercato, forte identità, dettagli personalizzati, raffinatezza, massimo confort:per celebrare l’anniversario si sono regalati uno show room in via Montenapoleone. E nelle foto che potete ammirare in questa pagina ecco il regalo per voi, tre modelli straordinari: Teton Rame, derby quattro occhielli con bottalata in cuoio, Range, polacchino strepitoso e Rainer, anfibio con puntale color shining blu.


Passerini

Il dolce salotto dei milanesi

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’atmosfera bohemienne del vecchio centro meneghino, la via Spadari, i sobri palazzi d’epoca, il silenzio del tardo pomeriggio. Lo champagne, sempre in fresco, come i bicchieri. I tavoli chic, fuori all’ombra, ti fanno venire una voglia matta di accomodarti per un caffè cremoso, un gelato artigianale, uno spuntino gourmet e, perché no, accenderti un sigaro prezioso e gustare i piaceri della vita. Poi ci sono i dolci fiabeschi del maestro Luigi BIasetto, campione del mondo dei pasticcieri, “le magicien”, come lo chiamano i francesi dopo aver assaggiato il suo setteveli. No, non stiamo girando uno spot pubblicitario su un mondo ideale, lontano e irraggiungibile; parliamo invece dell’indirizzo perfetto per i sognatori del gusto e del bien vivre. Benvenuti all’antica pasticceria Passerini, il dolce salotto dei milanesi, locale storico con più di cent’anni di vita gloriosa nel ventre della Milano vecchio stampo: un mondo a parte, un mondo che, per tradizione significa eccellenza pura, raffinatezza, buon gusto e quel misto di austerità meneghina e savoir faire, leggerezza e rigore, eleganza e antichi saperi.

Quotidiani esteri la mattina presto, quando la gente di Borsa entra per sorseggiare il caffè, rigorosamente Illy, sfogliando il Financial Times nel locale impregna-

Quotidiani esteri la mattina presto, quando la gente di Borsa entra per sorseggiare il caffè, rigorosamente Illy, sfogliando il Financial Times to del profumo intenso dei chicchi tostati e delle brioche appena sfornate che aleggia nel locale. Manager e banchieri spesso fissano il primo appuntamento pro-

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prio qui, per godersi appieno l’inizio della giornata, il sole che sale pian piano, la Piazza Pio XI davanti agli occhi. Verso l’ora di pranzo Passerini diventa un vero e proprio bistrot parigino, la cucina propone piatti allegri di stampo mediterraneo e portate della tradizione milanese. Nel tardo pomeriggio il locale vive l’ennesima camaleontica trasformazione pur rimanendo uguale a se stesso: c’è solo l’imbarazzo della scelta, fra un aperitivo a base di champagne pregiato accompagnato da squisiti stuzzichini, una torta Sacher oppure il Mon Amour, autentica magia fatta di mouse al cioccolato al latte e caramello. Per non parlare dell’Estate Millefoglie e dell’Abbraccio al Venere, crema leggera al mascarpone e vaniglia con pezzetti di mandorle caramellate. Il più desiderato e richiesto rimane il Setteveli, ovvero un fondo di morbido savoiardo al cioccolato e gianduia ai cereali, bavarese alle nocciole pralinate e foglie di cioccolato. Piaceri infiniti, qualità assoluta, momenti fantastici: in una parola, Passerini.


Pommery

Un mondo perfetto

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k siamo di parte. Ok, vediamo, sogniamo e pensiamo Pommery dalla mattina alla sera. Ok, siamo Pommery dipendenti. Però spesso accade che la maison di Reims ci insegue. Non ci credete? Ok. Chiudete gli occhi, inizia la favola. Polaroid numero uno: Seychelles, l’isola di Praslin, resort Lemuria, spiagge mozzafiato e un mare di una bellezza commovente. Il campo da golf è altrettanto sconvolgente per la vista da cartolina, salendo si perde la parola perché vivi davvero un miraggio. Anzi, il miraggio. Dall’alto della buca 17 hai il mondo ai tuoi piedi, la spiaggia Anse Georgette pare dipinta, le isole in lontananza delle miniature disegnate. Non sei lì per giocare perché Lei non ama molto il golf ma non potete resi-

stere, stare separati, é la vostra prima vacanza insieme, siete fatti l’uno per l’altra: siete saliti per gustarvi la vista e la magia del posto. E’ la vacanza ideale, lei la donna più bella del mondo, tu l’uomo più felice. Il silenzio è totale, cala il tramonto, la guardi e ti sciogli tutto, hai la sensazione di vivere in un film; tu ti sorprendi a sussurrare una frase del tipo “Questo è il paradiso”. Si sente il rumore di un buggy, ti giri e vedi avvicinarsi un ragazzo con il sorriso stampato che, a nome della direzione, ti regala una bottiglia di champagne. Il secchiello pieno di ghiaccio, i bicchieri che compaiono da un piccolo freezer. Vedi l’etichetta della bottiglia, Pommery Brut Royal. Titoli di coda, per favore. Ciak numero due. Stai per realizzare uno dei tuoi sogni più grandi, forse il più grande. La rivista più bella,

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con lei in copertina. Sei nel giardino di casa, è l’ora dell’aperitivo, il rumore della città sta scomparendo, aspetti la chiamata del tipografo che ti consegna le prove della cover. Non vedi l’ora, sai che la metterai sotto il cuscino nella notte, pensi a come festeggiare un momento del genere, davvero irripetibile, perché non esisterà mai più una prima copertina con lei, apri il frigo e gli occhi ti si illuminano: si, Pommery, stavolta il Noir, una selezione di trenta cru di Chardonnay, Pinot Noir e Pinot Meunier della Cote des Blancs e della Montagne de Reims. Suona il telefono, le prove sono arrivate. Sei al settimo cielo, ti immergi nel profumo dell’inchiostro ancora fresco, stappi la bottiglia, accendi un sigaro altrettanto prestigioso. Ti chiedi: what else?


Caviale Da Vinci Paradiso nero

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l giorno esatto ha poca rilevanza. Eravamo sul finire di maggio, al calar della sera, al Museo Nazionale della Scienza Leonardo Da Vinci, location fiabesca, un ex monastero olivetano del cinquecento, che prima ancora era un convento benedettino. Non ci poteva essere luogo migliore, più adatto alla serata: la Sala del Cenacolo, interamente decorata con stucchi e affreschi di Pietro Gilardi. L’azienda Calvisius, produttrice numero uno al mondo per quello che riguarda il caviale, stava presentando, in maniera maestosa, il nuovo prodotto, ovvero il top di gamma Da Vinci, proprio nella Sala Cenacolo del museo Da Vinci. La perfezione. Anzi, di più, molto di più, perché il catering è stato affidato a Vittorio, il noto ristorante di Brusaporto , tre stelle Michelin, tanta magia e genialità. D’altronde i fratelli Cerrea sono famosi nel mondo intero proprio per quello che riguarda il catering; nessuno riesce avvicinarsi al loro livello. Per i meno avvezzi al

mondo della haute cuisine, ecco un breve excursus storico del ristorante, autentico simbolo vivente di come si dovrebbe fare ristorazione a 360 gradi. Sono cinque fratelli, figli di papà Vittorio (scomparso nel 2005) e di mamma Bruna (sempre presente): nel 1966 hanno aperto un locale nel centro di Bergamo. Da lì, in dodici anni, hanno conquistato la prima stella Michelin, diventando cult soprattutto per gli amanti del pesce. Segue una scalata inarrestabile, sino appunto alle tre stelle, nel 2010. Per l’occasione hanno proposto degli abbinamenti, è il caso di dirlo, stellari: tartare di tonno e ostriche su vellutata di patate e porri con caviale; spinacino, patate e uova di quaglia evidentemente sempre accompagnati con il caviale Da Vinci. Di seguito spaghetto con gazpacho, ricci di mare e, ça va sans dire, caviale. Per concludere l’ennesimo incanto, crema di zucca con marshmallow alle erbe e l’immancabile Da Vinci. Quattro gioielli dove il caviale prelibato di Calvisius la faceva

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da padrone, con le sue note aromatiche morbide e sofisticate, leggere nuances di frutta secca, texture soffice e idratata e un sapore elegante e intenso. Ottenuto dalla specie autoctona italiana di storione cobice (Acipenser Naccarii, il nome autentico), storicamente presente nel Mar Adriatico e nelle acque dolci del nord Italia fin dall’epoca rinascimentale, è prodotto nel Parco del Ticino dall’Ars Italica Calvisius, marchio di proprietà di Italian Caviar Srl, società del Gruppo Agroittica Lombarda Spa, il più grande produttore ed esportatore di caviale al mondo. Strano a dirsi, ma è la verità: la concorrenza russa e iraniana è stata superata, complimenti all’azienda bresciana. Produce solo caviali in purezza, non essendo contemplato alcun incrocio fra razze differenti: la gamma si arricchisce anno dopo anno con nuove specie di storione da cui si ricavano cinque differenti tipologie di caviale (gli altri quattro sono Oscietra Classic, Oscietra Royal, Oscietra Imperial e Sevruga).


Luci, ombre e magia Adolfo Valente

Rosanera Adams

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i lui si è sempre parlato un gran bene, anzi, veniva esaltato da tutte le parti. Però gli mancava la vetrina di prim’ordine, così da poterlo considerare un pezzo da novanta. Ora eccolo su Treats Magazine, di gran lunga la rivista del momento, creata e realizzata da Steve Shaw, fotografo di Manchester trapiantato a Los Angeles anni addietro. Oggi l’uomo più potente del mondo glamour americano, tant’è vero che New York Times, raccontando di un evento organizzato da Steve ad Halloween, scrisse: “Non si era mai vista tanta bella gente insieme ad una festa”. In molti lo considerano il nuovo Hugh Hefner, lui non è che faccia salti di gioia per il paragone, ma gli piace l’idea di essere al centro dell’attenzione con la sua creazione. E che creazione. Steve lo abbiamo intervistato nel numero passato di Good Life, per chi volesse saperne di più su di lui basta cliccare www.treatsmagazine.com. Mai si era vista una rivista del genere, letteralmente piena di nudo da sballo, opere d’arte firmate dai migliori fotografi al mondo. Perché il segreto di Treats sta proprio qui: stufo di scattare per riviste che non

riuscivano a capirlo e a dedicargli lo spazio che desiderava, Steve si è creato la sua. E’ così che ha convinto anche gli altri: venite da me, se avete venti foto da urlo io le pubblico tutte. Eccola, Treats. Fin dal primo numero ha fatto faville, per poi diventare una specie di “must be”. Il tam tam é iniziato con la cover di Emily Ratajkovski, la musa di Steve: dopo

E’ il primo italiano ad aver pubblicato su Treats Magazine, la rivista del momento la copertina, vero trampolino di lancio, il mondo hollywoodiano l’ha lanciata alla grandissima. Ecco, l’abbiamo presa alla larga per arrivare ad Adolfo, il primo italiano ad aver pubblicato su Treats, esordendo con gli scatti a Rosanera Adams, modella che sprizza sensualità infinita: la luce è favolosa, l’atmosfera da fiaba sexy. “Non conoscevo

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Steve, ho semplicemente mandato il mio lavoro, nell’arco di due ore mi hanno risposto”, racconta. Il caso vuole che poi abbia fotografato Giada Ghittino: chi ci segue sa che è stata per noi quello che Emily ha rappresentato per Steve Shaw. Non a caso splende sulle nostre ultime due copertine. Stesse sensazioni, stesse atmosfere: mai Giada fu più intensa, e badate bene che lei viene scattata a manetta dai migliori; conosciamo quasi a memoria ogni sua foto. Se Giada sarà la prossima a brillare su Treats è un po’ presto per saperlo, possiamo solo auspicarlo. “Magnifica”, dice Adolfo: lo sappiamo. “Avevo visto delle sue immagini su internet, mi aveva colpito per la sua bellezza e per la sua eleganza. Un giorno l’ho incontrata del tutto casualmente in metropolitana. Da allora ho deciso che avrei scattato con lei, l’idea ha trovato immediatamente la sua approvazione, anzi,il suo entusiasmo. Sul set è estremamente professionale, brava, molto attenta e precisa ed è anche simpatica”. Le luci di Adolfo, la semplicità del contesto sono da lasciarti senza parole: l’avevamo già notato ne-


gli immagini di Rosanera. A proposito, sentitela:” Conoscevo le fotografie di Adolfo e lui conosceva me. Mi confessò di voler realizzare una serie basata interamente sul colore, con luci molto calde, tonalità scure, ombre, evidenziando il corpo in maniera molto sensuale ed elegante. Secondo lui sarei stata perfetta, avremmo scattato con una piccolissima abat-jour ed un faretto. Sul set Adolfo è molto preciso ed esigente, attento ai minimi particolari: scattando spesso in controluce basta davvero poco per sbagliare una fotografia. Allo stesso tempo è estremamente tranquillo, parla molto con la modella, la valorizza, le infonde sicurezza, non la considera un semplice oggetto da spostare o da dirigere. A dire il vero durante gli scatti era sempre più entusiasta nei miei confronti ed apprezzava molto il mio ruolo, le mie pose, capiva che stavo dando esattamente quello che lui voleva, aspetto molto importante per una modella”. Da parte sua, Adolfo ricambia i complimenti: “Rosanera è istintiva, simpatica, estroversa”. Poi si lascia andare: “ Quando sono in giro mi capita spesso di scattare con la mente. Credo succeda ad ogni fotografo, non è certo una novità. Una sera dormivo in una piccola stanza a Milano e mi sono messo letteralmente a giocare con la luce di una piccola abatjour. La spostavo, l’appoggiavo sul cuscino, puntavo la luce su una parte e ne studiavo tutti gli effetti. Mi piaceva. A dire la verità stavo anche attento a non bruciare le lenzuola con la lampadina! Mi sono detto che dovevo assolutamente realizzare una serie con quella luce: molto calda, un po’ soffocata, lame rossastre con molte ombre, che proprio per queste peculiarità mi ha suggerito l’idea di realizzare delle fotografe dal sapore abbastanza erotico. Così quando ho pensato ad una modella che potesse avere le caratteristiche e le capacità di interpre-

Giada Ghittino

Rosanera Adams

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tare questo progettino ho pensato subito a Nera Adams. Scelta azzeccatissima: ha un grandissimo controllo del proprio corpo e durante tutto il set è stata davvero perfetta”. Tutto diverso quando si tratta di Roberta Mora, modella dirompente dalla sensualità sconfinata, la classica bellezza anni sessanta. “E’ una persona molto dolce, intelligente, in gamba. Conversare e passare del tempo con lei è sempre molto piacevole. Volevo ritrarla in maniera semplice, spontanea, parlando, lasciando che fosse se stessa. Tutto è avvenuto in modo naturale, non c’è stato nulla di costruito, impostato o artificioso. Abbiamo parlato molto ed abbiamo scattato, come se avessimo preso un caffè assieme. Di queste foto mi piace in particolare il suo sguardo, la naturalezza che ha mentre guarda in macchina, o intorno a sé. Perché, come dico sempre, prima vengono le persone, poi le fotografie”. Immagini splendide, ma chi è Adolfo Valente? Nato a Milano, trasferitosi a Treviso quando era ancora bambino, appassionato d’arte sin da ragazzo (“ma francamente negato per ogni forma di disegno o pittura”, confessa), si rassegna alle proprie incapacità ed inizia a fotografare alla fine del liceo, quando riesce a farsi regalare la sua prima reflex, cominciando a sviluppare da sé i negativi in bianconero ed a stampare le fotografie in casa. Dopo qualche anno inizia una lunga ricerca su una sorta di paesaggio minimalista ed astratto, in cui viene rigorosamente bandito ogni riferimento a persone od attività umane. Realizza varie esposizioni personali, dapprima in Veneto e poi in diverse regioni del Nord Italia. Dopo la lunga pausa si dedica principalmente al ritratto ed allo studio della figura. Ama una fotografia molto semplice, intimista, fatta di pochi elementi e dice che nelle proprie foto preferisce “raccontare” piuttosto che “mostrare”. Per i curiosi, ecco il suo sito: www.adolfovalente.com

Giada Ghittino

Roberta Mora

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Oda Serra Rising star

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iao. Mi chiamo Oda. Faccio la modella, studio lingue al liceo, mi ispiro a Bianca Balti,ho appena recitato nei video musicali dei Club Dogo e di Gue’ Pequeno, prima ancora nei video di Clementino e Carolina Marquez. Amo la danza,anzi vivo per la danza classica visto che ho iniziato quando avevo 2 anni. Vado pazza per il reggaeton,mi esibisco nei locali, però la mia passione numero uno sono le fotografie, vorrei tanto scattare con Luca de Nardo e Fabio Berg. Stravedo per Giorgio Armani e le sue collezioni, poi lo ammetto, mi ha fatto un sacco di complimenti, dicendo che sarò la sua futura modella. Ho iniziato anche a recitare; sono ancora alle prime armi, d’altronde ho appena 16 anni e una vita intera davanti. E che vita.

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Lugano, mon amour

14.000 metri quadri, un parco ricco di fiori e alberi secolari, giardini curati, il panorama lacustre, appartamenti senior living che vantano arredamenti di lusso e servizi degni di un albergo a cinque stelle, un ristorante gourmet meritevole di almeno una stella Michelin: benvenuti alla Residenza Parco Maraini.

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Residenza Parco Maraini Lusso a Lugano

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a terza età può essere una fase della vita ricca di stimoli, di conoscenze e di esperienze a patto di viverla nel posto giusto e con le persone giuste. La Residenza Sanitaria Assistita Parco Maraini è il luogo ideale dove trascorrere molti anni sereni godendo di tutta la sicurezza e l’assistenza che può offrire un team di esperti specializzato nella relazione con gli anziani. I residenti troveranno nel personale altamente specializzato di Parco Maraini le risposte più chiare e precise; e sappiamo quanto sia importante essere informati su ciò che riguarda la propria salute, soprattutto quando si dipende da qualcun altro. Al Parco Maraini al rapporto confidenziale con i residenti si sposa la competenza professionale e il calore di un vero ambiente familiare. Il tutto nella meravigliosa cornice di un parco ricco di fiori e alberi secolari affacciato su uno dei più affascinanti panorami del lago di Lugano: una particolarità unica. La struttura di Parco Maraini è all’avanguardia: può offrire il comfort più completo e la più completa attenzione professionale a una clientela dalle esigenze più diversificate. I clienti non autosufficienti troveranno tutta l’assistenza di cui necessitano 24 ore su 24. Inoltre, negli appartamenti senior living i residenti autosufficienti potranno godere dei comfort di un grande albergo, con in più la sicurezza di una tutela discreta e non invasiva: ogni abitazione è infatti lussuosamente arredata e dispone di un luminoso soggiorno con cucina all’americana, di un ampio balcone vista lago, di tv, telefono e wifi. Inoltre, ogni ospite ha la possibilità di personalizzare il proprio ambiente con i mobili di sua proprietà. Secondo le precise intenzioni del management, diretto negli ultimi due anni dall’Amministratore Delegato Marco Marzorati, Parco Maraini è concepito perché nessuno si debba mai sentire in una struttura sanita-

ria, nonostante il livello dei servizi disponibili, come l’assistenza infermieristica continua, la fisioterapia, un nutrizionista che personalizzerà la dieta di ciascun residente e un articolato programma di animazione che intratterrà gli ospiti quotidianamente. - Proprio al Dott. Marzorati, esperto del settore, chiediamo come vede lo sviluppo dei senior living?

- Dipende dall’area geografica. In Italia ci sono strutture in grado di dare un buon servizio sanitario ma mancano certamente strutture in grado di offrire un servizio alberghiero a cinque stelle mentre vi è una domanda sempre crescente di questa tipologia di offerta. In particolare le cosiddette strutture di “Independent senior Living” esistono ma non in numero adeguato al soddisfacimento della domanda. Operando prevalentemente all’estero ho avuto modo di riscontrare che quest’ultima tipologia di servizio è presente nei principali paesi europei ed è in costante crescita.

- Cosa ne pensa del fenomeno degli expatriates pensionati europei di cui spesso si parla?

Marzo Marzorati

Lusso e confort in un parco secolare sul lago. Vivere a pieno la terza età alla Residenza Parco Maraini di Lugano.

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- Non è un fenomeno nuovo, tuttavia è un fenomeno destinato a crescere. In Italia, la nazione ove vi sono certamente maggiori vincoli di natura affettiva ad allontanarsi dai propri cari, l’Inps conta già più di 400.000 pensionati espatriati. Nei paesi anglosassoni il fenomeno è ovviamente di ben altre dimensioni. La tendenza è verso paesi caldi con un basso costo della vita. In quest’ambito il Marocco è diventata una delle mete più appetibili, non ultimo per il fatto che ha attuato una politica fiscale incentivante per i pensionati riservando loro una imposizione sui redditi da pensione estremamente bassa.

- Come si posiziona la presenza di alta tecnologia in questo ambito? Vantaggi? Avete o state già usando al Parco Maraini di Lugano dei sistemi di monitoraggio particolari?


- Le innovazioni tecnologiche hanno portato numerosi vantaggi anche in questo settore. Esistono sempre più strumenti che permettono un costante monitoraggio della salute degli anziani, agendo in maniera non invasiva. Per esempio, sensori wireless posizionati all’interno delle camere o degli appartamenti che in caso di ca-

dute, malori o movimenti anomali provvedono a dare automaticamente l’allarme permettendo un rapido e tempestivo intervento da parte degli operatori sanitari. Non dimentichiamoci inoltre che la diffusione di massa di metodi di comunicazione digitale, ha generato dei risvolti molto importanti anche nell’ambito del senior

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living. Basti pensare alla possibilità, per chi decide di trasferirsi in strutture lontane dalle proprie residenze, di potersi mettere in comunicazione a bassissimi costi sia con i propri cari, sia con dei medici specializzati,attraverso per esempio l’utilizzo di Skype piuttosto che altre applicazioni Web.


House of cards Sesso e potere

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’ favolosa. Ha ritmo, fascino, energia, adrenalina, suspense, intrighi, cinismo a iosa, vita vera, lobby di potere, trame, lusinghe, soffiate, tradimenti, potere puro, veleni, fango e ferocia. Straordinaria dal primo all’ultimo secondo, dal primo all’ultimo frame. Kevin Spacey gigantesco, Robin Wright fantastica. Siamo pazzi di lui, pazzi di lei, insomma pazzi di House of Cards, monumentale serie tv, ovviamente americana. Si è probabilmente detto e scritto tutto, arriviamo in ritardo ma poco importa: è sempre un piacere immenso esaltare un mondo vincente e sbeffeggiare coloro che, pieni di presunzione, realizzano serie tv scadenti e grigie per le reti nostrane, lontane migliaia di anni luce dalle meraviglie statunitensi. Ciò che fa ridere a crepapelle è la superiorità della maggioranza dei giornali italici, i quali considerano la serie, i personaggi ed i corridoi della politica americana il male assoluto, come se la politica da noi o altrove fosse diversa. Abbiamo perfino letto che il personaggio principale é privo di un codice morale: ah beh allora. Comunque, al netto dei discorsi sulla purezza della politica (nessun essere umano oltre i due anni ci crede per davvero), la serie è straordinaria. La trama: Frank Underwood, senatore astuto e cinico, potente e influente, freddo e geniale, é il majority whip, ovvero il capogruppo dei liberal al congresso e deve tenere unito il branco dei propri cagnolini (dall’espressione inglese di caccia “whipping”). Ha un potere sconfinato, usandolo come meglio crede. Niente di nuovo, ci mancherebbe. Qualcuno storce il naso? Si può sempre guardare Nonno Libero oppure Don Matteo, volendo anche Un medico in famiglia. Frank si aspettava di essere nominato segretario di stato, invece il presidente non mantiene la promessa e da qui inizia lo show, e che show: trame, ricatti, tutto con un’astuzia straordinaria. Non concepisce mai la

sconfitta, studia le mosse per abbattere l’avversario, il sindacalista esce letteralmente distrutto dal confronto con lui. Piace poi quel direct address shakespeariano: il senatore spiega ammiccante al pubblico il perché delle decisioni, i suoi pensieri diabolici e sempre giusti per la causa (sua). Impera il pragmatismo fin dalle prime battute: “Ci sono due tipi di dolore: quello che ti rende più forte e il dolore inutile, quello che provoca solo sofferenza. E io non sopporto le cose inutili”, sentenzia

Ha ritmo, fascino, energia, adrenalina, suspense, intrighi, cinismo a iosa, vita vera, lobby di potere, trame, lusinghe, soffiate, tradimenti, potere puro, veleni, fango e ferocia. Frank nella scena iniziale parlando direttamente agli spettatori. E poi:”Tutto è sesso, eccetto il sesso. Il sesso è potere”. Oppure: “Detesto quelli che preferiscono i soldi al potere. Il potere è per sempre, i soldi si sciolgono”. “Amo mia moglie come lo squalo ama il sangue”. Standing ovation, verità sacrosante. Spacey e Wright non sono stati scelti a caso: sempre stati, nella mente degli autori, le sole opzioni possibili: “Se loro non avessero accettato è probabile che House of Cards non avrebbe visto la luce”, ha spiegato il cre-

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atore Beau Willimon. Coinvolto fin dal primo stadio della preparazione, l’attore due volte vincitore dell’Oscar ricorda: “Con la prima stesura della sceneggiatura andammo a bussare a tutti i network e alla fine Netflix fece la migliore offerta”. Netflix, appunto: società creata come strumento di noleggio, prima in dvd e oggi in streaming, l’ha resa visibile soltanto ai propri abbonati paganti, bypassando interamente sia le reti tv tradizionali che quelle via cavo. House of Cards è la prima serie ad alto budget prodotta dalla internet tv e ha cambiato il modo di vedere la televisione. Il pubblico americano e britannico, infatti ha avuto a disposizione i 13 episodi contemporaneamente, decidendo come, quando e con che frequenza vederli e magari rivederli. Un sistema che sta per essere copiato dai colossi del web, a cominciare da Apple. Oltre a loro due, altri sono i personaggi da seguire, a cominciare dalla giovane giornalista Zoe Barnes, interpretata da Kate Mara: una ambizione sconfinata di avere delle esclusive, di essere in prima pagina, di ruggire. Fa di tutto per ottenere le notizie che la possano portare in primo piano, magari ce ne fossero come lei in Italia. L’altra giornalista è una vera e propria macchietta: rosicona, non si cura, ha i capelli spettinati, si veste male ma in compenso se la tira ed è presuntuosa all’ennesima potenza. Vi ricorda qualcuno? I primi due episodi sono opera di David Fincher (Seven, Fight Club, The Social Network): atmosfere dark e colori intensi, poi il timone è passato a James Foley e Joel Schumacher. Si dice che nella seconda stagione ci saranno delle sorprese come Jodie Foster e la stessa Robin Wright come scenografe e realizzatrici. Sviluppata da Beau Willimon, la serie è tratta dal romanzo omonimo di Michael Dobbs, capo dello staff del partito conservatore prima e dopo l’elezione di


Maggie Thatcher a primo ministro. «Tra i miei compiti c’era quello di tenere sotto controllo la vita politica e privata dei parlamentari. Era assolutamente necessario che identificassi uno scandalo prima che lo facessero i giornali, non dovevo farlo arrivare a loro. E ovviamente gli scandali sessuali erano uno dei problemi maggiori. Cosa facevo? Una volta informato di un rischio, andavo dal protagonista e lo convincevo a mettere le cose a posto, a coprire le tracce. Ho fermato almeno cinque possibili scandali sessuali seri. Sono stato più di una volta nella condizione di dover decidere se salvare il partito o salvare l’individuo, magari l’amico, che avevo di fronte. Naturalmente il partito viene prima». Naturalmente. In House of cards racconta questo: cinismo e sesso che trionfano. Esattamente quello che trionfa anche al cinema oppure nelle serie tv americane. Applausi.

Cultura pop

L’importanza dei paninari

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a Milano e l’Italia degli anni Ottanta hanno trovato il loro libro di culto. Si intitola ‘L’importanza dei paninari - Milano anni Ottanta’ e l’ha scritto il giornalista Stefano Olivari, una vera garanzia per gli appassionati di cultura pop: uscito nell’estate 2013, solo con il passa-parola è diventato un fenomeno da migliaia di copie vendute e anche nel 2014 ha ridicolizzato opere inserite nel circolo mafiosetto delle recensioni culturali. Parla di ragazzi che hanno vissuto gli anni Ottanta con intensità e al tempo stesso leggerezza, ha lo stile del romanzo e parte dall’incontro, a New York, fra una ex ragazza e un ex ragazzo paninari. Attraverso il segreto che li lega racconta l’unico movimento giovanile della storia d’Italia a non essere importato dall’estero: dalla Milano che si trovava al Panino al boom incen-

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trato su moda e marchi, passando per amicizia, amore, politica, scuola, televisione, violenza metropolitana, sport, tecnologia, ideali e soprattutto assenza di sensi di colpa. Un’epoca affascinante, in un paese che non aveva paura del futuro. Con qualche insegnamento che oggi potrebbe servire. Per forma mentale il ragazzo degli anni Ottanta non guarda infatti al passato e rimane insuperabile nell’evitare tristezza e negatività. Per chi è questo libro? Facile la risposta: per tutti gli italiani nati fra il 1964 e il 1980. Ma anche per chi apprezza quella visione del mondo. Sono in tanti, siamo in tanti. L’importanza dei paninari - Milano, anni Ottanta, di Stefano Olivari (editore Indiscreto), 170 pagine a 12 (edizione cartacea) o 5,99 (eBook) euro.


Berkeley International Aaaaah l’amourrrrr

Inga Verbeeck

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a sede centrale è sull’Avenue Hoche, a due passi dall’Arco di Trionfo. a Parigi, la città degli innamorati, non poteva essere diversamente. Un palazzo d’epoca, splendido, maestoso che profuma di benessere, dove sono ospitati anche uffici di avvocati di prim’ordine, banche e via di questo passo. In linea principio è qui che si dovrebbe poter incontrare Inga Verbeeck, invece non la trovi quasi mai, impegnata com’è a volare da una filiale all’altra, incontrare persone, aprire nuove sedi, gestire, dirigere e decidere. Lavora come una forsennata, le piace da matti il suo business, lo si percepisce ogni volta che la incontri. La classica business woman da movie hollywoodiano, bionda e letale, appariscente e determinata, una specie di sogno proibito che di mestiere, invece, cerca di soddisfare e far diventare realtà i sogni e le aspettative degli altri. Si, perché la sua Berkeley International (www.berkeley-international. eu) è la maggior agenzia matrimoniale al mondo, la

10.000 euro

la quota minima annuale, però ne stravale la pena

più esclusiva e, aspetto più importante, la meno interessata a creare false aspettative. Ha saputo creare un mondo solido, con una reputazione altrettanto solida: niente avventure, niente incontri superficiali, d’altronde lo dice fin dall’inizio: “Per storie di una notte non venite da noi, non siamo interessati”. Si, ma come funziona? Perché la sua Berkeley è diversa? Quanto costa? Dopo quanti incontri trovi l’anima gemella? A chi puoi rivolgerti? In che paese hanno le loro sedi? Ce lo racconta lei stessa, con il piglio della manager di ferro. “Abbiamo una struttura ormai capillare a livello mondiale: New York, Londra, Parigi, Amsterdam, Geneva, ovviamente Milano. Ecco, in Italia, notiamo un gran fermento positivo; siamo arrivati di recente eppure il numero di persone che si rivolgono a noi è in continuo aumento, il che ci piace. Per entrare a fare parte del mondo Berkeley ci vogliono 10.000 euro l’anno, ma è solo il fee base. Perché con questa somma hai la possibilità di scegliere un compagno solo del tuo

80 per cento la percentuale di uomini che non hanno il coraggio di invitare una donna a uscire

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paese. Per 15.000 euro si allarga la scelta a due paesi: solitamente si va verso paesi con affinità intellettive, di lingua, di abitudini, religione o altro. 25.000 euro mettono a disposizione la nostra banca dati dell’intero Continente, con 50.000 quella dell’intero mondo. Ad alcuni sembrerà strano e folle che una persona, donna o uomo che sia, con una tale possibilità economica e un alto livello sociale stenti, fatichi a trovare la felicità coniugale. Invece accade: per mancanza di tempo, perché si lavora tanto, perché l’ottanta per cento degli uomini non osa chiedere ad una donna di uscire, temendo il rifiuto. Mediamente noi garantiamo un numero di otto incontri l’anno, anche se di media ne bastano sei per trovare la persona ideale con la quale iniziare un rapporto. Per rimanere in Italia, l’uomo preferisce un tipo di donna rassicurante e non del suo paese, così come anche l’opposto sesso, che vorrebbe un compagno inglese oppure nordico. L’unico problema, a livello internazionale? Le aspettative troppo alte”.

il numero medio di incontri necessari per trovare il partner giusto

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Dove si trova Berkeley ha sedi ovunque, a New York e Parigi, Londra e Ginevra, Amsterdam e Milano



Gordon Ramsey One man show

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ualche anno addietro, diciamo cinque, non c’era nemmeno l’ombra di programmi televisivi impostati sull’alta cucina. Sul tema ne esistevano in realtà a decine ma di un livello medio e soprattutto per un pubblico non proprio di prim‘ordine. Sia chiaro, nulla da eccepire, però, mettendo uno accanto all’altro un programma di Antonella Clerici con uno di Gordon Ramsey si capisce di cosa stiamo parlando e dove intendiamo puntare. Gordon ha stravolto tutto, ha cambiato la tv e il mondo della ristorazione, ha portato lo spettacolo dell’alta cucina nelle case della gente. E’ da tempi non sospetti che lo ammiriamo: quando iniziò Hell’s Kitcken e poi Cucine da incubo, in Italia c’erano solo programmi con presentatrici sorridenti e condiscendenti per un pubblico di casalinghe con bigodini e zie arzille. Possiamo dire, senza alcun timore di sbagliare, che la tv si divide tra prima di Gordon e dopo Gordon. E’ il Marlon Brando della ristorazione, l’Al Pacino, Messi, scegliete voi. Istrionico, geniale, con una personalità monumentale, un animale da televisione pur essendo uno chef.

Quasi quasi passa in secondo piano il fatto che negli anni sia riuscito a conquistare una ventina di stelle Michelin. Ormai è un’icona pop, una star mondiale, un one man show devastante. Ogni sera ti mettevi davanti al piccolo schermo per guardarlo rovesciare come un guanto un locale in preda al fallimento, eri ipnotizzato come se seguissi la finale della Champions League. Badate bene: i ristoranti che doveva salvare erano pessimi, per cui l’interesse sarebbe dovuto essere basso, non è il massimo della vita passare cinquanta minuti sentendo lamentele e vedendo cibo andato a male. Eppure. Restavi senza dire una parola, aspettavi la sua soluzione, il suo genio; vedevi come letteralmente cambiava l’umore della gente in cucina, era come aver preso una scossa. Ok, ok, si tratta di uno show tv, ma qualcosa di vero c’è negli sguardi delle persone. Idem per Masterchef, senza di lui non avremmo avuto la versione italiana, vale anche per gli altri programmi. Però com’è triste vedere le copie sbiadite di Ramsey in giro per il mondo! E’ come se al karaoke uno volesse imitare Michael Jackson oppure i Pink Floyd; un disastro.

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L’impegno c’è, Cannavacciulo è perfino un brav’uomo, un bonaccione simpatico, un fratello maggiore, ma il carisma non si compra e poi si sa, scimmiottare non porta a nulla se non all’effetto contrario. Gordon è una scossa di adrenalina e soprattutto un fiume in piena, a Masterchef e Hell’s Kitchen offre consigli, suggerisce, detta la via, partecipa, aiuta, recita, si arrabbia, inveisce, bestemmia, rassicura: tutto. Lo fa con un ritmo pazzesco, non sbaglia mai i tempi, non ha cali di tensione, tiene sulla corda dal primo all’ultimo istante. Carlo Cracco ci prova a stargli dietro nell’edizione italiana, ma per quanto si possa sforzare, non tiene il passo. Niente di male, è come voler giocare a tennis come Roger Federer senza averne i requisiti di base. Chi se la prende con il nostrano sbaglia, perché ognuno è quello che è, non puoi chiedere alla Fiorentina di battere il Real Madrid e a Rubens Barrichello di guidare come Schumacher. Gordon ha imposto dei limiti impossibili da raggiungere, l’asticella è troppo alta per chiunque. Rassegniamoci, per vedere uno show alla Gordon possiamo guardare solo Gordon.



La nuova House di Angelo Galasso apre a Marzo in Corso Matteotti 8, all’angolo San Pietro all’Orto


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