Food Destination
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UN VIAGGIO CON… ADA GRILLI Giornalista, fotografa e ricercatrice nel campo delle Aurore Boreali e Australi, autrice di guide di viaggio, Ada Grilli ha fondato e dirige la casa editrice Leading Edizioni. Ha organizzato varie mostre ed eventi celebrativi, per lo più legati allo straordinario mondo dell’Artico e dell’Antartide. È l’ideatrice de “Il Manifesto per i Poli”, iniziativa di sensibilizzazione sulle aree circumpolari e si occupa di Aurore Polari con l’Università di Siena.
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Sommario
Good Life
La vita ĂŠ una magia
One and Only
Alex Atala
Cap Ferrat
Pag. 6
Angelo Galasso
Pag. 9
Noma
Pag. 24
Andoni Luiz Aduriz Massimo Bottura Pag. 12 Pag. 18 Pag. 16
Pag. 30
Capri Palace
Pag. 28
Good Life dominiqueantognoni@yahoo.it
Phulay Bay
Pag. 34
Editoriale
Food destination F
ood destination. Già il titolo basta per farci sognare: chiudiamo gli occhi e ci immaginiamo da qualche parte, in riva al mare, con la leggera brezza del vento assaggiando dei gustosissimi piatti mediterranei per poi accenderci un sigaro guardando l’orizzonte, pensando a quanto siamo fortunati. Food destination perché è il trend del momento, un trend che difficilmente si fermerà, anzi: qualche anno addietro sarebbe impensabile organizzare una vacanza gastronomica, oggi invece spuntano città e paesi dove si mangia divinamente. Cibo divino e spiagge bianche, delizie gourmet e viste da cartolina, oppure città chic e ristoranti stellati, metropoli affollate e chef geniali: what else?, diceva il claim pubblicitario. Perfino la fredda Copenhagen è diventata una meta per i gourmand: Noma ha aperto la strada rivoluzionando la Nordic cuisine, però oltre al regno di Redzepi ci sono altri ristoranti stellati che fanno venire la voglia matta di passare una settimana in una delle città più chic, pulite e attente al livello di vita delle persone, non a caso troviamo la Danimarca al primo posto nella classifica dei paesi più felici del mondo. Prima si diceva che a Copenhagen vai a letto con la sensazione che la mattina dopo la città in cui ti sveglierai sarà ancora meglio: oggi ti svegli con la certezza che troverai un nuovo risto o bistrot dove deliziarti. E’ la capitale gastronomica dell’intera Scandinavia, regna lo stret food, il mercato di Papiroen è una specie di Disneyland per i golosi, con hamburger e quei panini aperti al burro, favolosi. San Sebastian invece rappresenta un caso unico al mondo: è la città con più ristoranti stellati rapportati al numero di abitanti, 16 per 175.000 residenti, per non dire che sui sette tristellati dell’intero paese tre li trovi a Donostia, come si chiama San Sebastian nella lingua basca. E poi quei pintxos, gli stuzzichini, favolosi: se aggiungiamo il mare, la costa, gli alberghi chic, l’atmosfera felice e rilassata, le montagne, ebbene abbiamo trovato la nostra destinazione ideale per le vacanze estive. Se Copenhagen e San Sebastian vanno di moda da un po’ di tempo, emerge con forza la candidatura di Sao Paolo come nuova capitale sudamericana del mondo gourmet, grazie soprattutto a quel personaggio fuori dagli schemi che si chiama Alex Atala, un genio istrionico che pare più un condottiero che uno chef. La città conta, udite udite, 12.000 fra ristoranti e bistrot, per non parlare di quel Mercado Municipal, vera e propria sorpresa per chi ci viene per prima volta: frutta esotica carnosa e fiammante, pesce fresco, street food. L’entusiasmo è alle stelle, la creatività pure: ora chiudete gli occhi e immaginatevi lì. Life is now.
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Il Salviatino
Firenze
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a camera più romantica del mondo, lo dicono tutti quando parlano della Melodie Suite. Già questo basterebbe per prenotare subito. Oltre alla magia della Melodie gli ospiti possono scegliere altre suite, ognuna con un fascino particolare: Ojetti, Tegliacci (dal nome dei proprietari passati), Melodia, Affresco e Greenhouse. Prendiamo Ojetti, due piani con interni ricchi e influssi toscani, in più si potrà approfittare della Jacuzzi privata posizionata sul tetto. La vista sa di cartolina: colline toscane e l’accesso diretto ad un balcone privato, favoloso per le cene all’aperto. Le esclusive Green House Suite sono invece caratterizzate da un grande letto e un bagno con soffitti ad arco, opere d’arte contemporanee, una piacevole area relax separata racchiusa in una cupola di vetro che offre accesso diretto al parco e ai giardini della villa. Il Salviatino è una villa rinascimentale costruita nel XIV secolo, quando era una semplice casa colonica acquistata e ristrutturata poi dalla famiglia Bardis (banchieri fiorentini). In seguito furono tanti patron, ognuno con la sua voglia di impreziosirla. Nascosta fra le dolci colline di Fiesole, fra pendii terrazzati e viti, circondata da un parco privato, é trasformata in resort dalla Mpg, società italiana di costruzione e restauro fondata da Marcello Pigozzo, l’attuale patron assieme al figlio: per la cronaca, hanno investito una somma vicina ai 50 milioni. 45 fra stanze e suites, eletto miglior hotel di lusso in Europa, propone anche una cucina di alto livello grazie allo chef Carmine Calò, ex Joia e Miramonti l’Altro in Costrorio di Concesio, due stelle Michelin. In seguito ha aperto un suo ristorante, Il Cantuccio di Stella, vincendo il titolo come miglior giovane chef del centro Italia. E’ approdato al Salviatino nel 2010, dove propone una cucina toscana di primo livello. Colline, silenzio, la stanza più romantica del mondo, piatti prelibati: cosa aspettate?
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One and Only Cape Town
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envenuti a Cape Town, una metropoli mondana, festaiola, frizzante ai piedi della Table Mountain, con spiagge infinite e montagne verdi, clima mediterraneo e ristoranti di alto livello, campi da golf sublimi e alberghi straordinari, vedi Twelve Apostles, Bay Hotel e soprattutto One and Only. Qualcuno, esagerando assai, la considera la New York del futuro, guardando solo gli aspetti positivi, comunque tanti. Siccome Good Life si occupa dei piaceri della vita tralasciamo gli eventuali punti a sfavore e raccontiamo le ragioni per le quali ne vale la pena passare una vacanza nella Città del Capo. Dunque: i suoi scorci d’oceano, i parchi, il modo molto cheerful della gente, le spiagge di Clifton Bay e Simon’s Town con i pinguini ed i ristorantini nelle capanne dei pescatori, poi Blouberg, mecca di surfer, il Royal Cape Club, campo da golf nel centro della città, i locali di Camps Bay e Granger Bay (non perdetevi The Grand e Long Street). Si fa jogging sulla spiaggia, si mangia divinamente al Baia (il miglior pesce dell’intero paese) e al Caveau (filetto di antilopa springbok), al Coldfather e al Carne Sa (carni locali), per chi vuole un albergo contemporaneo, lontano dal mondo tipicamente british si può alloggiare all’One and Only, pochi passi dal waterfront e anche dal centro città. L’albergo si divide fra il corpo principale ed alcuni isolotti, senza alcuna differenza per quello che riguarda il design e la grandezza. La colazione degna di un cinque stelle lusso, la piscina esterna riscaldata anche, la ristorazione pure (Nobu e Reuben’s), il concierge impeccabile, così come il butler. Per gli amanti del vino non mancate una escursione nelle wineland, prendendo la strada fra Stellenbosch e Franschoek. Piccolo suggerimento, cenate da Ernie Els, nel suo Big Easy: cucina e vini di altissimo livello.
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Angelo Galasso Vanity Man
Giacca smoking nera in velluto con ampio rever a lancia. Interno rosso con ampio logo e bottoni argentati esagonali, vero marchio di fabbrica di Angelo Galasso
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’è una foto che a noi piace da morire ma che sicuramente piace ancor di più ad Angelo Galasso: Al Pacino, la mattina presto che esce da Starbucks indossando un tuxedo realizzato dallo stilista pugliese trapiantato a Londra. Ore nove del mattino, Al con un tuxedo super elegante sopra una maglietta scura che sembra essere messa a caso. La maglietta, il tuxedo invece no: perché l’attore, da quando
ha scoperto il mondo di Angelo non riesce proprio di farne a meno, perfino quando va a fare colazione. E’ il manifesto di Galasso, la polaroid del suo successo, la dimostrazione che ha vinto, anzi, che ha stravinto. L’attore acquista le collezioni appena possibile, fa incetta di giacche eleganti, lo fa in maniera quasi compulsiva. Ha già comprato la giacca da smoking in seta bordeaux con ampi rever a lancia, la doppiopetto blu in seta italiana.
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Ora pare abbia ordinato la giacca smoking nera in velluto con ampio revere a lancia e l’interno rosso con ampio logo Angelo Galasso. D’altronde quando ti chiami Al Pacino devi brillare sempre, da Starbucks oppure alla Casa Bianca, dove di recente ha ricevuto dalle mani di Obama un riconoscimento alla carriera, il National Medal of Arts. Indovinate a chi aveva chiesto un tuxedo su misura…
Angelo Galasso
Giacca Grigio antracite in lana finissima e rever a lancia
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o ricordiamo come se fosse oggi: il primo incontro con Angelo Galasso fu spettacolare, scoprimmo un personaggio sfavillante, frizzante, pieno di idee e con una voglia pazza di conquistare il mondo. Ci raccontò con un entusiasmo travolgente del così detto right time, in pratica una vera e propria rivoluzione, perché l’uomo era finalmente pronto per osare di più, per vestirsi senza preoccuparsi di cosa diranno gli altri. “E’ arrivato il momento dell’uomo vanesio, senza età, che ama apparire, mettersi in gioco, sentirsi speciali e, perché no, esagerare”, sentenziò: aveva
ragione. Poi ci parlò a lungo dei suoi testimonial volontari, nel senso che acquistano le sue collezioni indossandole mattina, pomeriggio, sera e notte: Michael Caine, Puff Daddy e gli altri di cui parliamo nelle pagine successive. Era scatenato, trasmetteva un’energia positiva straordinaria: parlava a raffica dei suoi quattro negozi monomarca che ama definire house, perché l’uomo si deve sentire come a casa sua, ci confessava il desiderio di voler vestire Sean Connery e della sua ammirazione per Gianni Versace, del passato imprenditoriale assieme a Flavio Briato-
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re (fu lui a disegnare le collezioni di Billionaire, agli inizi). Tutto questo mentre noi eravamo rapiti, oltre che dalle sue parole, dai tuxedo e dalle giacche, dai jeans e dalle scarpe color blu Cina, un paradiso del colore e dell’eleganza. Tagli decisi e colori intensi, sete e disegni da farti girare la testa. La giacca che vi presentiamo qui la immaginiamo indossata da Roger Moore, uno dei suoi clienti più affezionati: il 007 ama girare nella house londinese di Angelo alla ricerca spasmodica di una novità, sgargiante o classica che sia. Probabilmente l’ha già acquistata.
Angelo Galasso
Giacca smoking bordeaux in seta con ampio rever a lancia satinato nero. Lavorazione a fiori e bottoni neri in seta satinata.
A
ad inizio giugno fu un grande evento nella house di Angelo Galasso di New York, sulla Fifth Avenue angolo con la 58ima, al piano terra del The Plaza, laddove prima c’era una sala da the edouardiana. Fra gli ospiti Clint Eastwood, non proprio un dandy, sicuramente un uomo austero, old fashion, conservatore, uno tutto di un pezzo che passa le sue giornate fra la casa di Carmel, il campo di Pebble Beach (è il
nuovo patron, assieme a due altri amici lo ha acquistato un anno addietro) e gli studi cinematografici. Poca vita mondana, lui ama il silenzio delle sue colline e del suo mondo. Eppure voleva a tutti i costi conoscere, guardare e toccare le collezioni di Angelo Galasso, voleva rendersi conto di persona di cosa significhi il mondo dandy impersonificato dallo stilista che veste tanti suoi amici e conoscenti, da Al Pacino a Puff Daddy, da Roger Moore a Paul McCartney. L’esplo-
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sione di colore, la botta di vita e di stile lo ha sorpreso a tal punto da voler provare pure lui l’ebbrezza della vanità. Forse lo ha incuriosito il titolo della nuova collezione, “Il subliminale di Wall Street”, forse ha deciso di “svoltare” e di indossare qualcosa di chic, come la giacca smoking bordeaux in seta con ampio rever a lancia satinato nero, con una lavorazione a fiori e bottoni neri in seta satinata che potete ammirare nella foto qui sopra.
D.O.M Alex Atala
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e perfino il Time lo ha messo in copertina, accanto a Rene Redzepi e David Chiang, se lo hanno incluso fra le cento persone più influenti del mondo, se viene intervistato dal Financial Times e tutte le altre testate di prim ordine vorrà dire che Alex Atala sta riuscendo di portare avanti un progetto davvero pieno di significati. Perché lo chef che fa la spesa in Amazzonia è ormai molto più di un cuoco, è un autentico simbolo del suo paese, è l’uomo che ha dato dignità ai piccoli produttori e che ha portato la cucina sud americana in cima, laddove non sarebbe mai arrivata senza il suo lavoro gigantesco. Brasiliano di origini palestino-irlandesi, così si spiega la sua barba rossa, uomo tutto d’un pezzo, è diventato chef per puro caso, quando faceva il pittore in Belgio e doveva trovare un modo per guadagnarsi il visto di permanenza in Europa. Così si iscrisse ad un corso di cucina: pare una storia al limite dell’surreale, però è tutto vero. Oggi è una rock star, l’inventore della cucina contemporanea amazzonica, ovvero seduzione brasilera e freschi prodotti locali, biodiversità ed esotismo, alte tecniche e multiculturalità alla conquista dell’occidente. Calamaretti con salsa di barbabietola, mandarino e priprioca, ostriche con whisky, filetto di cinghiale con funghi shitake e canjiquinha , gambero con cavoli, rucola e fun-
ghi dal sapore esplosivo, consommé di funghi con erbe dell’orto e della foresta, quenelle di gelato, ravioli di gelatina di limone con ripieno di banana d’oro: il menù è un crescendo rossiniano di piccoli meravigliosi assaggi. Alex Atala non smette mai di creare, di stupire, forse per via del suo passato da cantante punk-rock e dj. A proposito, probabilmente dalle foto ci si aspetta di incontrare una persona rude, visti i tanti tatuaggi e la giovinezza mo-
Sulla copertina del Time, incluso fra le cento persone più influenti del mondo, intervistato dal Financial Times vimentata: invece ti trovi davanti un uomo calmo, sorridente, dai modi felpati e lo sguardo penetrante, che parla a voce bassa e ti mette a tuo agio. Ti racconta che ha studiato prima in Belgio alla scuola alberghiera di Namur, iniziando a lavorare subito dopo presso Jean Pierre Bruneau e Bernard Loiseau all’Hotel
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de la Côte d’Or. Seguono esperienze a Montpellier e Milano, dove capisce che non riuscirà mai di essere all’altezza dei suoi colleghi europei per quello che riguarda i piatti classici ma che potrà diventare il migliore se si concentra sulla cucina brasiliana. Così che torna a casa nel 1994 per la nascita del suo figlio Pedro e lavora per Filomena e 72, poi si sente pronto ed eccolo partire per conto suo con un minuscolo ristorante di proprietà, Na Messa. Il Dom (acronimo di Domus Optimus Maximus) lo ha aperto nel 1999, scommettendo sull’identità dei prodotti brasiliani, un modo per sostenere i produttori locali, dar loro la possibilità di crescere, di avere un reddito sicuro e continuo. Non a caso sulla home page del sito sta scritto come un proclamo, più che un desiderio: ”La cucina brasiliana è un sogno che si può realizzare”. Alex ama portare il suo cliente in giro per il Brasile, facendoli assaggiare prelibatezze dell’intero paese ed è qui il merito che tutti gli riconoscono, questa voglia matta di essere nello stesso tempo chef, filosofo, uomo dei nostri tempi per via dell’etica nel lavoro, promotore del suo paese: se la cucina sud americana gode di ottima salute e di un interesse sempre crescente, gran parte del merito gli appartiene. Per la causa ha creato anche un istituto, l’Atà, dedicato alla tutela degli alimenti e dei produttori amazzonici. Se non è patriottismo questo… Aggiungiamo: non è un caso che Dom sia al sesto posto nella classifica dei migliori ristoranti e che riesce a star lì,
in alto, anno dopo anno, fra le prime dieci posizioni. Per la prima volta entrò nella lista dei Best 50 nel 2006, cinque anni dopo era 18 imo. Che sia chiaro: Alex punta molto sul territorio e sugli aspetti umanitari, fanno parte del suo bagaglio culturale, la scoperta e la messa in evidenza di piante come acaì, jambu, tucupi e pupunha sono una missione vera e propria, però di base è un imprenditore con fiocchi. Gli affitti sono da capogiro, per cui immaginate le difficoltà di tenere a gala un ristorante del genere. Il ristorante, 54 posti, si trova nella zona più esclusiva di Sao Paolo, nel quartiere Jardim, una specie di quadrilatero della moda milanese: volendo essere pignoli lo si trova nella via Barao de Capanema, non lontano dal Mani di Helena Rizzo. In cucina ci sono 15 cuochi, fra di loro anche un giovanissimo italiano, Giulio Zoli. Esteticamente è a dir poco esaltante: da podio mondiale, c’è chi lo vede lottare per il primato con Combal Zero. Soffiti alti, un soppalco che ad alcuno ricorda molto la Chicago degli anni venti, tavoli rotondi e rettangolari, poi ovviamente un servizio eccellente e dei piatti esecutati in modo perfetto, dai tagli di carne all’impatto visivo e alla
E’ una rock star, l’inventore della cucina contemporanea amazzonica, un simbolo per il suo paese consistenza. Alex si diverte con i sapori dinamici, generati dalla putrefazione, quel stadio intermedio fra il crudo e il cotto, usa le formiche proprio come Redzepi, crea piatti partendo dalla vita reale, come racconta lui stesso: “Stavo facendo una passeggiata sulla spiaggia. Dopo un temporale mi sono imbattuto nei pescatori, fermi dall’impossibilità di uscire in mare per il maltempo, e in una noce di cocco aperta con il latte ormai solidificato. Da questa visione parte l’idea di portare nel piatto la quiete dopo la tempesta, la generosità dell’Oceano che toglie e poi restituisce. Una creazione composta dal latte di cocco rappreso, dalle alghe e dai funghi che creano forti contrasti. I singoli ingredienti, dai sapori decisi, hanno trovato un equilibrio grazie alla spugna di latte di cocco che riesce a domarli tutti”. Nel 2009 ha aperto un bistrot, Dalva e Dilo, tre anni dopo ha avuto un’idea fantastica, aprire accanto una specie di mercato dove si possono acquistare le materie prime che fanno la fortuna dei suoi ristoranti e per di più alcuni piatti in versione take away. Rileggendo si capisce perché Alex non ha la minima intenzione di aprire a Londra e New York. Gli mancherebbe troppo la natura e soprattutto l’Amazzonia.
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Helena Rizzo
Foto: Bruno Geraldi
Brasil, Brasil
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oteva diventare come Giselle Bundchen, invece eccola insignita del premio come miglior chef donna dell’anno. Helena Rizzo forse avrebbe potuto conquistare le copertine e le passerelle, invece ha scelto di buttarsi anima e corpo nel mondo della cucina: fin qui nulla di strano, in tante rinunciano alla gloria per prendere altre strade, però lei ha avuto l’intuizione a 14 anni. A quell’età si sogna di apparire sulla copertina di Harper e Vogue, Tatler ed Elle, tutto sembra possibile, vai a mille all’ora cercando di sfruttando la fortuna di essere ammessa dall’ambiente. Erano gli anni d’oro, a metà degli novanta, quando imperavano le top model e qualsiasi ragazza avrebbe fatto carte false pur di seguire le orme di Claudia Schiffer, Cindy Crawford, Linda Evangelista e le altre. E invece eccola dire stop, per dedicarsi alla sua grande, grandissima passione, la cucina, anche se nel tuo cammino c’è stata anche una laurea in architettura. Detta così suona abbastanza semplicistico: abbandoni e sfilate per diventare chef ed eccoci, ci sei riuscita. Per la cronaca, Helena, oggi 35 enne, succede ad Anne Sophie Pic, Elena Arzak e Nadia Santini. Le sue prime parole, dopo aver appreso del premio? ““E’ un riconoscimento al lavoro mio e dell’intero team, non ho mai pensato di poter diventare la miglior chef al mondo,
anche perché si tratta di un giudizio difficile da dare. Ognuno può essere il migliore, in certe situazioni e per un certo periodo di tempo. Ovviamente sono contentissima, grata e onorata di ricevere questo premio. Al Maní cerchiamo di dare il nostro meglio tutti i giorni, a volte ci riusciamo, a volte no. Spero davvero che il riconoscimento apra gli occhi di tutti sulle incredibili realtà culinarie che ci sono oggi in Brasile”. Ha lavorato come una indemoniata, ha girato il mondo, lavorato per i migliori prima di aprire il suo ristorante, Mani, a Sao Paolo. Ha fatto tappa anche a El Celler de Can Roca, dove fra l’altro ha incontrato Daniel Redondo, diventato poi il suo marito. “Ha molto talento, istinto e passione, in più è rimasta fedele alle sue radici”, racconta Joan Roca, chef del El Celler. Il nome, di chiare origini italiane, spiega perché agli inizi abbia scelto di studiare l’arte dell’alta cucina nella penisola: “Nell’infanzia a casa a tavola c’era sempre cibo italiano e quando ho deciso di imparare sul serio a cucinare sono venuta lì, dove sapevo che si mangia bene ovunque anche senza tanti soldi. Ho studiato con Marco Talamini al ristorante La Torre di Spilimbergo e poi al Sadler di Milano, imparando tutto quello che so del pesce, Claudio è davvero bravo a lavorarlo.”
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Nel suo ristorante la tradizione italiana é però rivisitata in chiave brasiliana, spiega Helena: “A casa mangio tantissima pasta al ragú e adoro la polenta, ma a Maní faccio una cucina diversa. Gli gnocchi, ad esempio, non sono di patate ma di manioca e senza uova. L’ispirazione é italiana ma gli ingredienti devono sempre essere freschi e locali.” Ecco, Manì è proprio questo, cucina brasiliana reinventata. Ha aperto nel 2006, nella zona Jardim Paulistano: è un ambiente minimalista, contemporaneo, disegnato da Mariana Kraemer. Legno ovunque, vetri di Murano. Ci sono sei soci, oltre a lei e il marito altri quattro, fra cui Pedro Diniz, l’ex pilota della Formula 1. Lavorare assieme al compagno potrebbe creare qualche problema, però lei la vede diversamente: “Non é facile, ma arricchisce il nostro rapporto e credo anche la nostra cucina, perché siamo due teste diverse, con storie di vita ed esperienza diverse ma siamo in sintonia. Lavoriamo a quattro mani quindi questo premio lo condivido in pieno con mio marito.” Ora si aprono delle nuove porte per loro. Primo step è riuscire a superare il Dom di Alex Atala, miglior ristorante sud americano: lo si sa, la cucina da quelle parti conosce un periodo straordinario, anzi, già quest’anno ci si aspettava che vincesse un ristorante situato dall’altra parte dell’oceano. Chissà, forse sarà proprio Helena a farlo.
San Sebastian Donostia mi amor
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6 ristoranti stellati in una città di 175.000 abitanti. San Sebastian, oppure Donostia nella lingua basca, è senza dubbio un caso da studiare, oltre una delle mete più desiderate per i sognatori del gusto: diciamo che non vi basta una settimana per scoprire tutti gli angoli ed i ristoranti, vi consigliamo un viaggio dai dieci fino ai quindici giorni, anche perché si tratta di una stazione balneare di primo livello. Abbinare le primizie alla spiaggia ci pare il modo ideale per una vacanza davvero chic e gourmet. Elegante, la città a forma di mezzaluna attorno alla baia di Concha viene considerata la perla dell’oceano: per anni è stato soltanto un paesino di pescatori, oggi è il posto dove si mangia meglio in tutto il paese. La cucina è sempre stata ottima, qui. Soprattutto dalla metà del diciannovesimo secolo in poi: a quei tempi veniva frequentata dall’alta aristocrazia francese che viaggiava con i suoi cuochi. Fra l’altro era una tappa fissa per la regina Isabel II: ci passò una ventina di estati quando i medici le consigliarono il clima della
costa oceanica (dal 1843 al 1868). Fu proprio in quel periodo che iniziò la costruzione dei grandi alberghi, i più belli ancora oggi: Palacio Miramar, Hotel Cristina, tanti altri. La città è semplicemente straordinaria, a cominciare dal panorama: basta salire sul monte Urgull oppure su quell’altro, Igueldo, per farsi un’idea. Ci si viene anche per il surf, moda “importata” negli anni cinquanta dalla vicina Biarritz: le influenze francesi vanno oltre, appunto alla cucina, perché oltre allo stile Belle Epoque è sempre grazie a loro se oggi i ristoranti ed i chef baschi vantano stelle a non finire. Accadde tutto una trentina di anni addietro, i primi ad “esplodere” furono Juan Maria Arzak e Pedro Subijana. Quest’ultimo, patron del ristorante Akelare, una ex fattoria vicina al monte Igueldo a strapiombo sul mare, racconta: “Alla fine del 1976 Paul Bocusse visitò Madrid, noi ci siamo presentati e così ci invitò a Lione. Tornati a casa cominciammo a parlare con gli altri chef baschi, scambiandoci le esperienze. Proba-
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bilmente senza nemmeno renderci conto avevamo già iniziato a creare uno stile, le basi della nuova cucina, diversissima dalla nouvelle cuisine francese. La nostra era impostata sulla tradizione, l’innovazione venne solo in seguito”. Arzak aggiunge: “Da noi esiste un culto per il buon cibo: tutti, di qualsiasi strato sociale, danno una grande importanza alla cucina, il popolo basco è raffinatissimo quando si tratta di mangiare. Basta entrare in un bar per rendersi conto: quando assaggi i pintxos, ovvero i tapas, capisci si trovarti davanti all’alta cucina in miniatura. Poi c’è la qualità delle materie prime, specialmente la carne, le verdure e il pesce che viene dalla baia di Biscaglia. Dico le verdure perché senza i fagioli, i peperoni ed i pomodori la nostra cucina sarebbe impensabile”. In pochi anni cambiò radicalmente la mappa dell’eccellenza in cucina: perfino New York Times e Wine Spectator proclamarono la supremazia degli spagnoli nei confronti dei francesi. E gran parte del merito appartiene ai baschi. Seguiteci.
Martin Berasategui L’autodidatta stellato
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l basco viaggiatore, oppure il grande rinnovatore della cucina basca. Per dirla come lui, un umile autodidatta. Comunque la si vuole chiamarlo, sette stelle Michelin all’età di 33 anni sono uno “score” straordinario. E’ lui l’uomo che, imparando da Arzak e Subijana ha aperto e indicato la strada stellata ai suoi: cucina innovativa strettamente legata al territorio, “una cucina senza confini ma che senza la mia terra non esisterebbe”. Equilibrio, tecnica e virtuosismi messi al servizio dei prodotti, appartenenza e leggerezza: potremmo definire così la sua filosofia. Un vero enfant prodige, un predestinato che ha iniziato presto, prestissimo, davanti ai fornelli dei genitori, proprietari di un ristorante nel cuore della città vecchia di San Sebastian, il Bodegon Alejandro. Una cucina semplice, orata alla griglia e ragù di tonno con patate, colombaccio e agnello arrosto, sapori classici che mettono l’allegria e fanno venire la voglia di crescere e sperimentare, migliorare e stupire la futura clientela. L’entusiasmo di Martin era tale da “buttarsi” definitivamente nel mondo della ristorazione a soli 15
anni: difatti va a Granada dallo chef francese Didier Oudil, noto in Francia per aver diretto il Café de Paris a Biarritz. Appena maggiorenne torna a casa e prende in mano le redini del Bodegon: se non è un record poco ci manca. Per la cronaca, il ristorante gode ancora Qdi ottima salute, anche se la principale attrazione per i suoi fan è il relais chateau. Piccola curiosità: dei quattro fratelli solo lui ha deciso di prendere la strada della cucina. Il relais, dicevamo. Sul suo sito sta scritto, fra il serio e il divertito: Latitudine 43.2668, Longitudine 2.0155. Che sia chiaro, nessun amante dell’alta cucina prende in considerazione di arrivare al ristorante di Martin usando la bussola e ancor meno possiamo pensare che fra i gourmand ci siano dei boy scout, però arrivarci non è proprio una passeggiata. Difatti il ristorante si trova sulle colline, a Lasarte Oria, sette chilometri fuori San Sebastian, a sud ovest per la precisione. Lo gestisce assieme alla moglie Oneka Arregui e si vanta di proporre sempre una cucina radicata nella ricchissima terra della provincia di Guipuzkoa, fa-
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mosa per i frutti di mare, la selvaggina ed i funghi. Lasciamo stare gli aggettivi, sono superflui quando si tratta del suo menu degustazione, una vera e propria maratona della felicità, visto che ci sono tre primi, otto secondi e due dessert. Niente aggettivi superflui, però azzardiamo un titolo, la tecnica al servizio dei prodotti. O se volete, per dirla con le sue parole, “la quintessenza gustativa dei prodotti baschi, dove ogni ingrediente, in un piatto, deve risaltare ed essere gustato per quello che è”. Sottoscriviamo. Piccolo elenco delle meraviglie di Martin: succo di fagiolino verde crudo con insalata, millefoglie caramellato di anguilla affumicata, foie gras e mela verde, ostrica alla clorofilla di crescione, alla rucola, alla mela, alla crema di finocchio, alla cedronella e alle erbe di oxalide, foie gras e crema di rafano, cetriolo iodato al lardo abbrustolito accompagnato d’insalata cruda di erbette e foglie di sedano con sorbetto. Proseguiamo: vongola all’olio d’oliva, brodo di calamaretto saltato croccante e ravioli cremosi con nero di seppia, zuppa di cipolla e formaggio, pancetta affumicata arrosto e “cuajada” di formaggio tartufato, e scampi in fine lamine con liquido in gelatina del suo
corallo, gelatina calda di frutti di mare con zuppa di anice e sorbetto di finocchio, acciuga con cipolletta dolce con emulsione di peperone arrosto con patate e pomodoro, spigola arrosto con brodo di bietola, salsa pil pil di mostarda e insalata di sesamo. Poi ci troverete sempre i due piatti “inventati” nel 2005, ovvero il branzino grigliato con germogli di soia, caffè e cannella, e il piccione arrostito con grano selvatico, formaggio di pecora Lana e ciliege (quattro prodotti baschi per eccellenza). Non
manca mai il sandwich “targato” 1995, sandwich di foie gras e mela caramelizzata. Qualcuno contesta il menu che attraversa due periodi completamente diversi del mondo dell’alta cucina: in effetti, hai la sensazione di mangiare in due ristoranti nello stesso momento, uno che serve piatti anni novanta e uno ultramoderno. “E’ come se tu andassi al cinema e guarderesti una pellicola di 8mm con una grafica realizzata al computer”, sostiene un blogger di prim ordine. Qualcosa stona: sui piatti presi uno ad uno
nulla da dire, semmai l’insieme pare relativamente una forzatura. Forse non vuole abbandonare le pietanze che gli hanno portato le stelle, la prima a solo sei mesi dall’apertura, la seconda dopo tre anni, la terza nel 2001. E’ ambizioso, tantissimo. Lavora senza soste, apre ovunque: nel 2009 a Shanghai (il primo ristorante aperto qui da uno chef con tre stelle, si chiama Martin), nel 2010 a Siviglia (Santo, una stella), poi Doma al Museo Guggenheim di Bilbao e due in Messico.
Akelarre Pedro Subijana
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iavolerie in tavola, cucina surrealista, complicità e provocazioni divertenti, modi di avvicinare palati vergini e sapori antichi per mano di uno chef che se la ride sempre sotto i baffi mentre assembla il piatto in cucina. Il patron baffuto di Akellare è uno dei sette chef spagnoli che possono vantare tre stelle Michelin: assieme ad Arzak è il pioniere della cucina basca, il padre delle nuove generazioni. E’ ancora lì, nel suo ristorante con vista sull’Oceano, abbarbicato sul monte Igueldo, dispensandoti appena arrivi del sapone liquido, spugna, crema idratante, sali da bagno, colluttorio. L’impatto è alquanto inconsueto, poi scopri che sei stato “burlato”: difatti il sapone è un gel di pomodoro e basilico, da spreme-
re sulla spugna (pane alla cipolla disidratato), i sali sono gamberi in polvere in una bustina edibile da far sciogliere tra lingua e palato, la crema idratante è formaggio Idiazabal, il colluttorio un cocktail di cava e melograno. Niente male come inizio, vero? In aggiunta alla carta, ad Akelarre è possibile scegliere tra due menu degustazione, Aranori e Bekarki (volendo puoi assaggiarli entrambi). Piccolo elenco di quello che Pedro vi porta a tavola, sempre con un sorriso fiabesco:gamberi cotti all’Orujo, passati alla fiamma in sala, polpa di txangurro appoggiata sopra un saporito blinì impastato con le carni del granchio e bagnato nel suo brodo, scaloppa di foie gras, servita su una riduzione di vino dolce con sopra cristalli di zucchero e riso venere soffiato,
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il maialino con pelle croccante (cotto dapprima in brodo e poi passato al forno), con un’emulsione di brodo e grasso, aglio e una meringa al pomodoro. Continuiamo: mousse di formaggio quark aromatizzato con noce moscata e pepe rosa, mosto e pomodoro; millefoglie di Idiazabal con mela cotogna e polvere di vino. Si chiude con il gelato al gorgonzola oppure Xaxu con gelato spumoso al cocco: due blocchi di spugnosa meringa ad circondare una sfera di marzapane ripiena di crema d’uovo alla mandorla. Una cucina dell’imbroglio e della burla, con cibi che somigliano ad altri ma non lo sono, forme menzognere e consistenze ingannevoli, un’esibizione di tecnica volta a ottenere un effetto estetico o concettuale prima ancora che gustativo. Chapeau, Don Pedro.
Mugaritz
Andoni Luiz Aduriz
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ire che qui si mangia la pietra perfetta può suonare alquanto strano e tenere alla larga i diffidenti. Però a Errenteria, sulle alture basche, fuori San Sebastian, fra l’Atlantico e le montagne, nel ristorante di Andoni Luis Aduriz, il nuovo mago della cucina basca, accade che ti viene portata una pietra in una ciotola bianca. Tranquilli, si tratta di un piatto squisito: l’impatto è decisamente strano ma sta proprio qui il gioco: il tocco con la lingua ti porta a pensare che per davvero hai davanti a te un sasso, poi lo mordi e inizi a correre con la mente, ad immaginare mondi lontani, un po’ come nei film di
science fiction. Appena trovi il coraggio di affondare gli incisivi la crosta, la superficie si rompe e scopri l’interno morbidissimo, caldo, umido, una polpa che si scioglie in bocca. In pratica, una patata in crosta dura, glassata in maniera perfetta, dipinta con pasta di caolino, tanto dura e così ben “disegnata” da sembrare un sasso liscio. Sensazioni forti come da Heston Blumenthal, la logica è la stessa: stupire, in alcuni casi andare troppo oltre, ma la filosofia della nuova cucina sperimentale è questa. “Chiediamo molto ai nostri ospiti”, racconta Andoni, lo chef con due stelle Michelin, “vogliamo che
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partano con l’immaginazione, abbandonare i pregiudizi, superare i confini. La nostra è una sinfonia fatta di sfumature, essenzialista, mutevole, è una cucina d’autore, facciamo quello che vogliamo. Cerchiamo che ogni piatto sia un racconto in se stesso: ci sarà gente che riuscirà a decifrarlo e altri che non ce la faranno. Si tratta di non mostrare tutto, che l’immaginazione delle persone voli, che siano pronti per la sorpresa e che non sia tutto già stabilito in partenza”. Appena ti cali nella parte capisci che ne vale la pena giocare: superati i cinque secondi di diffidenza ti rendi conto della genialità del piatto, provi a immedesimarti
e renderti conto di quanti sperimenti, quante ore sono dovute passare perché si arrivi ad un tale risultato, perché il gusto ed i profumi sono eccezionali, non si tratta di sensazionalismo e di uno sperimento fino a se stesso, qui parliamo di alta cucina, di ricerca, di sensazioni incredibili. “Sappiamo che se la gente non apprezza, non si diverte, non riusciamo a convincerla di osare, abbiamo fallito”. E invece hanno vinto. Andoni ha aperto qui nel 1998: prima c’era una fattoria in mezzo al nulla, a sei chilometri dalla costa, nella baia di Pasaia, con il villaggio di Errenteria a pochi minuti distanti, una zona piena di verde, tanto da paragonarla all’Irlanda. Dal parcheggio vedi la cucina, le finestre sono grandi, puoi ammirare e osservare tutto, potresti fermarti lì e passare la serata osservando i movimenti eleganti e precisi del personale. L’incanto continua appena entri nel “laboratorio”, ti siedi e assaggi l’aragosta affumicata al pane nero: probabilmente il piatto più affascinante, molto più del sasso-patata, però l’idea di Andoni è di stupire, cono-
scendolo si esalterebbe se venisse apprezzata la pietra glassata e non l’aragosta. Di livello altissimo la coda di porco con zucca, i bastoncini di agnello soffiato, le fettine di rana pescatrice cotte al vapore, la lonza di agnello da latte con ragù di cervella e via discorrendo. Non a caso il suo ristorante è fra i 50 migliori al mondo, non a caso ha appena vinto il Chefs Choice Award, riconoscimento assegnato dai suoi colleghi, per non parlare del Premio Nazionale di Gastronomia (2002). Se lo merita, Andoni. Ci ha creduto follemente fin dall’adolescenza, da quando a 16 anni capì che il futuro e la magia stanno proprio nel mondo del cibo. Aveva già una buona preparazione di base, perché andava assieme a sua madre al mercato del pesce: comprava la coda e non il filetto di tonno, per dei motivi prettamente economici. E’ stata la sua fortuna: guardava come dalla coda si faceva la gelatina e anche le varie salse, la curiosità gli ha fatto aprire gli occhi, il passo successivo è stato l’acquisto di un libro di cucina sperimentale, il resto è storia: inizia a lavorare in una pizzeria, poi in un catering, nel 1993 eccolo al Bulli,
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il sogno di tutti gli aspiranti grandi chef. Una dura e fantastica gavetta, fra clementine da sbucciare e dolci da impiattare, due anni che lo fanno diventare estremamente bravo e con una autostima altissima. Dopo Adrià va da Arzak, poi da Berasategui, praticamente il suo maestro, poi apre una pasticceria: il cammino è tracciato, la strada in discesa, per quanto si possa parlare di discesa in un mondo infernale come questo. Mugaritz, ovvero il posto dove è stato aperto il ristorante, lo ha scoperto per caso ed è stato amore a prima vista. Lo ha ristrutturato e soprattutto gli ha aperto nuove strade: “noi eravamo tutti ragazzi di città, arrivando qui in montagna è stata una folgorazione. Andavamo di buon mattino a passeggiare ed a raccogliere fiori ed erbe per poi assaggiarle”, racconta, indicandoci il giardino di spezie. “Il primo cliente fu un ciclista che smarrì la strada”. Non è stato tutto rose e fiori: nel 2010 ci fu un incendio che distrusse il ristorante, però quattro mesi dopo riaprì le porte. Ora va tutto a gonfie vele. Merito suo, della sua tenacia e del suo talento.
Massimo Bottura Tre stelle sul Bosforo
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n’antologia dell’autentica cucina regionale italiana a Istanbul, con il Bosforo davanti. Perché Massimo Bottura ha deciso di aprire qui il suo primo ristorante oltre i confini della penisola. Il risultato è maestoso, probabilmente stiamo parlando del più bel ristorante italiano concepito all’estero: l’arredo è firmato Poltrona Frau e Bottega Veneta, i prodotti sono di primissima qualità per il semplice motivo che il posto si trova all’interno dell’Eataly, a suo turno situato nel più lussuoso centro commerciale della capitale turca, Zorlu Center, nel distretto di Besiktas. Sessanta posti all’interno, con i tavoli distanziati, un’altra sessantina sulla balconata con vista da cartolina, cento piatti che hanno fatto la storia dell’Italia dal dopo guerra fino ad oggi, non a caso il nome del ristorante è quello del nostro paese.
Piatti tradizionali, dunque: nessuno sa interpretarli in chiave moderna come Massimo, su questo è imbattibile. Ha costruito la sua fama proprio sulla tradizione, sulle ricette casalinghe per poi dare un tocco chic e spesso internazionale, conquistando i gourmet di casa nostra e non solo, basta ricordare che è l’unico italiano ad aver salito sul podio nella classifica dei 50 ristoranti migliori al mondo. Massimo Bottura non sarà sempre presente a Istanbul, anzi: chi lo conosce si stupisce del fatto che per una volta ha deciso di delegare, lui che solitamente cura tutto in prima persona e nei minimi dettagli: però si fida ciecamente di Davide Montano di Albenga, con il quale ha messo a punto un ricettario straordinario. “In realtà, abbiamo messo a punto 150 piatti. Rappresentano nel loro insieme la nostra storia culinaria nazionale che ci ha resi celebri nel mondo. Mi sono mi-
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surato con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi, l’ottocentesca bibbia delle cuoche italiane che “fotografa” la grande tradizione in cucina dopo l’Unità d’Italia. Da qui sono partito per rivisitare i piatti e non per reinventarli: voglio dare loro più forza sia nella preparazione che nel gusto per consolidare la nostra tradizione”, racconta. Piccola lettura del menu: come antipasti baccalà mantecato, battuta al coltello di manzo, mozzarella in carrozza. Come primi l’uovo in crema di Parmigiano con asparagi, gli spaghetti alla cetarese, la lingua in salsa verde, per poi continuare con i fusilli con gamberi, scampi e pesto oppure il risotto alla milanese con l’ossobuco. Il Ristorante Italia offrirà la possibilità di scegliere tra due menu degustazione, uno per ripercorrere un viaggio della penisola da nord a sud, l’altro concentrato sulla cucina regionale, che cambierà ogni mese.
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Il Maestro Alain Ducasse
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ei andrebbe da Chanel a lamentarsi che un vestito costa troppo?”. E’ una delle frasi preferite di Ducasse quando si osa commentare i prezzi alti dei suoi ristoranti. La domanda che invece si fanno gli altri è se lui sia un cuoco con naso per il business, oppure un uomo di finanza che si diverte in cucina. Lo considerano un mogul, ovvero un magnate, oppure un “culinary force”: in pratica tutto tranne che uno chef.
Al di là dei pareri e delle risposte non dobbiamo dimenticare che ha “accumulato” 22 stelle Michelin e soprattutto che ha una storia da raccontare, forse come nessun’altro chef famoso. Tanto per fare un esempio: nel 1984 viaggia assieme a degli amici con un charter verso Courchevell, nelle Alpi, l’aereo si schianta e lui rimane l’unico superstite. Un vero miracolo, seppur siano stati necessari 15 interventi chirurgici per rimetterlo in sesto. “Nei mesi passati in ospedale pensavo ai nuovi piatti, a come prepararli.
Il ristorante Louis XV, a Monte Carlo
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Non potevo camminare, non ci vedevo e non potevo lavorare: sognare e immaginare invece sì”. La passione per la cucina e per l’essenza del gusto ce l’ha fin dagli anni dell’infanzia, a Castelsarrasin, nel sud della Francia. I suoi avevano una specie di agriturismo, la sua stanza da letto si trovava proprio sopra la cucina: il profumo della blanquette de veau lo mandava in visibilio tutte le domeniche, a quel punto il futuro pareva già segnato. La prima esperienza fu come cameriere, a 16 anni, al
Foto: Pierre Monetta
nei suoi ristoranti sono altissimi: il piatto che costa di meno è l’insalata di 68 euro (va detto che per i nababbi russi si tratta di noccioline). A Parigi, al Plaza Athénée, il suo menù arriva quasi ai 400 euro, però sa come giustificarsi: “L’alta cucina è come la haute couture, i materiali sono pregiati, le finiture e la preparazione richiedono molto tempo, tanta bravura e rigore. Non mi sento in colpa, i prezzi sono giusti, per la cronaca ho aperto anche dei bistrot dove si spende molto meno”. Tutto vero: ne ha due perfino a Parigi, in totale ne gestisce e dirige 25 per un fatturato totale di 120 milioni (e 1.400 dipendenti). L’ultima apertura è in pratica un chioschetto parigino nel 15imo arrondissment, Chou d’Enfer: solo sweet food, bigné al burro salato al prezzo, non modico, di 9 euro l’uno. Per il 25imo anniversario del Louis XV ha invitato a Monte Carlo 240 chef dal mondo intero, compresi 67 francesi, 27 americani, 8 inglesi e spagnoli e 17 nostrani. Il rapporto con l’Italia è alquanto forte: fra l’altro da lui sono passati a lavorare Cracco e Oldani (Alain apprezza moltissimo anche Massimo Bottura e Fulvio Pierangelini). Oggi in pratica non cucina più, si limita a inventare e trasmettere le idee ai collaboratori. Continua ogni mattina ad andare personalmente e fare la spesa al mercato di Nizza: ha sempre messo l’accento sulla freschezza dei prodotti, come ha ripetuto spesso nel suo ultimo libro, Nature. Quello che si conosce meno è che sua moglie, Gwenaelle, incontrata su un volo Parigi-New York, è vegetariana convinta: pure Arzhel, il loro primo figlio, pare indirizzato verso la stessa strada, visto che viene catechizzato e obbligato a mangiare verdure due volte al dì. Il secondogenito, Dae, è ancora troppo piccolo per essere catechizzato: ha solo tre anni. Forse si salverà. Non sopporta la televisione, ovviamente intesa come mezzo per parlare di cucina, di alta cucina: “La detesto, è caricaturale, uno chef deve fare il suo mestiere, l’artigiano, mica fa la star in tv”. Punti di vista. E’ stato, ed è tuttora, lo chef preferito di Sarkozy e consorte, del principe Alberto (ha gestito lui il banchetto di nozze) e di tantissimi altri. Lavora come se non vi fosse un domani, dorme poche ore, ama andare alle mostre e assaggiare i piatti degli altri chef famosi oppure emergenti, è un uomo fortunato e lo sa. Come lo sono i suoi clienti.
Pavillion Landais, ristorante a Soustons: “un lavoro terribile, dovevo cambiare altrimenti mi sarei ammazzato”, ricorda divertito. Difatti passò al ristorante di Alain Chapel, uno dei pionieri della nouvelle cuisine: qui imparò davvero molto, tanto da sentirsi pronto per la grande avventura, ovvero chef al Hotel Juana a Juan Les Pins. Il risultato? Due stelle Michelin, la prima nel 1984, la seconda un anno dopo. Nel 1987 gli viene proposto di prendere le redini del Louis XV, a Monte Carlo, ristorante che si trova di fronte al casinò, al piano terra del Grand Hotel. “Accetto, ma se nell’arco di quattro anni non riesco ad ottenere tre stelle Michelin me ne vado”, disse per poi metterlo perfino nero su bianco sul contratto. Non rispettò l’accordo: le tre stelle arrivarono con in anticipo. Per la cronaca Louis XV fu il primo ristorante di un albergo ad avere un riconoscimento del genere. Diventa così uno dei più giovani chef a poter vantare un curriculum tristellato: il mondo gli sorride, poi viene colpito dalla disgrazia dell’incidente. Rieccolo dopo, ancor più agguerrito: apre un suo ristorante in Provenza, uno a New York nel Essex House Hotel e di seguito tutti gli altri. Per tornare alla domande iniziale, sa bene che i prezzi
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René Redzepi Geniale ma no, grazie
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on si vince per tre volte in quattro anni il titolo come miglior ristorante al mondo senza proporre qualcosa di straordinario, sente stupire e convincere. Il che non vuol dire che tutti dobbiamo battere le mani e andare di corsa da Noma: per curiosità e per lavoro forse si, in quanto clienti e amanti del gusto probabilmente no. I motivi sono tanti, a cominciare dalla sua quasi diffidenza per la carne: il menu invernale propone qualcosa, ma non con tanta convinzione, tant’è vero che i clienti hanno percepito la selvaggina come contorno alle verdure. Renè, il profeta della new Nordin cuisine, punta sulla natura, sui suoi prodotti: non proprio il nostro target, ancor meno la nostra filosofia. Ovviamente il rispetto rimane intatto, perché quello che riesce a realizzare lo chef di origini albanese ha dell’incredibile. Trasformare la cucina danese in una tendenza di prim ordine, far addirittura diventare Copenhagen una meta per i gourmet sa di miracolo. Non a caso ha vinto e vince ancora, non a caso lo considerano l’unico vero genio dopo Ferran Adrià, non a caso si aspetta sei mesi per poter andare da lui (si prenota solo online, per la cronaca). Certo, a chi preferisce una bistecca da mille e una notti scappa un sorrisino solo all’idea che Redzepi si fa pagare centinaia di euro per i suoi piatti pieni di licheni, muschi, fiori e radici. Brodo di betulla e licheni fritti, grilli e formiche, tota-
le 300 euro: detta così sa di cialtronaggine. Leggenda vuole che la sua cucina sia nata per caso, durante una tempesta: si narra che per tre giorni rimase bloccato assieme a degli amici in una capanna della Groenlandia, per cui dovettero arrangiarsi per nutrirsi. La sua versione è solo in parte diversa: “Stavo per aprire il mio ristorante ed ero alla ricerca di una precisa filosofia, ben sapendo che non aveva senso utilizzare le mie esperienze per un menu classico. Pian piano ho capito che avevo una sola strada, cambiare la materia prima, utilizzando tutto quello che offre il Nord Europa e lasciando perdere, per quanto validi, i prodotti importanti”, raccontava di recente a Maurizio Bertera per Linkiesta. Poi continua: “Ogni mattina, quando il tempo è sopportabile, tre squadre di stagisti escono in bicicletta, guidate ciascuna da uno dei miei sous-chef e raggiungono la spiaggia, il bosco, il roseto per raccogliere il meglio che trovano. Poi tornano al Noma e si inizia a lavorare. Questa particolare spesa quotidiana è fantastica ma obbliga a saper preparare un sacco di piatti e ancora più a testarli: mediamente entra in carta quello che si salva da una trentina finiti nel cestino dell’umido”. Da René lavorano una cinquantina di persone, meta dei quali lavora al piano superiore dove vengono eseguite le lunghe preparazioni, mentre sotto c’è la cucina vera e propria, dove si ultimano i piatti, e stiamo parlando di circa 900 a pranzo e altrettanti a cena. Sugli stagisti, da leggere assolutamente il pezzo accanto:
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non perdetevi nemmeno una riga. René crede sempre di più nella cucina impostata sui vegetali e cerca di rimuovere dal menu, in maniera definitiva, sia la carne sia il pesce. Ha messo in piedi il Nordic Food Lab assieme all’università di Copenhagen, sotto la supervisione di Michael Bom Frost. Con dei fondi pubblici e privati si fanno delle ricerche sulle nuove frontiere del cibo: ci lavorano cuochi di tutto il mondo, botanici e biologi. Si studiano le fermentazioni utilizzando lieviti, batteri e muffe. “Vorrei ricordare che vini, birre, caffè, pane e cioccolato sono interessati delle fermentazione”, sostiene con fierezza. Capitolo formiche, uno dei cibi più “in voga” della sua cucina. Le ha scoperte (culinariamente parlando) grazie allo chef brasiliano Alex Atala: rimase subito piacevolmente impressionato dal gusto di citronella mettendosi subito al lavoro, difatti ora vengono servite vive su una crema solida di yogurt, segale e nocciole. Non da meno il patè di grilli, per non parlare dell’uso delle cavallette . Fin qui possiamo essere d’accordo, ma poi ci allontaniamo dalle sue posizioni: ci schieriamo con i coloro che lo criticano per le sue scelte ideologiche che vanno a discapito del piacere culinario. Lui sostiene di voler rispettando la natura e che la sua cena ideale sarà sempre quella dove si causa il minor impatto sul pianeta. E’ un suo diritto, però ci sfugge la differenza fra cucinare cavallette oppure la carne. Non importa. Rimane un genio, magari non compreso da noi.
Noma
Vita da stagisti
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proposito degli stagisti, categoria sensibile in Italia, con tante prospettive altrove: qui da Noma c’è una situazione interessante, che merita essere approfondita. Intanto non vengono retribuiti e fin qui ci sta, vista la fila per entrarci da Noma (la puoi sempre mettere al curriculum e fa un certo effetto). Alcuni di loro vengono assunti in seguito ma nei mesi di stage si devono dannare l’anima in un modo folle. Sentite qui la testimonianza di Anna Lisa Macellaio, sous chef di Luigi Nastri al Settembrini di Roma. E’stata da Noma per due mesi, fra novembre e dicembre dell’anno scorso, ne ha da raccontare, anzi, la sua testimonianza è un “documento” a dir poco straordinario per chi vuole capire come si svolgono le attività nel ristorante più acclamato degli ultimi anni. Sentitela. “Due settimane prima dell’inizio dello stage ho ricevuto una mail di conferma e un file che racconta la filosofia del Noma, quello che avrei dovuto portare in dotazione e quello che mi avrebbero dato loro. Mi hanno avvertito che non sarebbe stato possibile fare foto, abbandonare prima della scadenza prevista lo stage o avere comportamenti inappropriati. Se avessi commesso uno di questi errori, sarebbe scattata la penalizzazione e sarei stata inserita sul famoso libro nero degli stagisti che condividono tutti i grandi ristoranti. Insomma, tolleranza zero”. Ed ecco il suo “diario”. “La mia sveglia suona alle 5 del mattino. Devo attaccare a lavorare alle 6 e continuare fino alle 23-24, dal martedì al sabato. Lo staff al Noma è diviso in 5 sezioni. 1. Am è la sezione di quelli che attaccano alle 5 del mattino e staccano alle 18 del pomeriggio. Si occupano delle centrifughe di frutta e verdura, così come del pranzo e della cena al personale. 2. Snack è la sezione che si occupa dei 20 assaggini
iniziali. 3. Section 1 è la sezione che si occupa dei piatti freddi che escono dopo gli assaggini. 4. Section 2 è la sezione dei secondi caldi. 5. Pasticceria. Tutti siamo divisi come se fossimo in una caserma. Ognuno è in una sezione e se sei fortunato, come me, ti mandano anche a fare il servizio nella cucina del piano di sotto. Solo così puoi portare i piatti ai tavoli e annullare la distanza tra cucina e sala, uno dei miti del Noma. Il tempo è scandito da un cronoprogramma molto preciso. Dalle ore 6.00 alle ore 8.00. Alla Section 1 prepariamo tutte le guarnizioni e le erbe che vanno nel piatto. Alle 8.00 arriva la spesa e con guanti e cappotto si esce fuori a sistemarla. Anche sotto la neve, se è questo che state pensando, perché il magazzino è esterno. Dalle ore 8.00 alle ore 9.00. Pulizia generale dei piani e del pavimento. Dalle ore 9.15. Mise en place delle preparazioni. Ore 11.30. Di nuovo pulizia generale dei piani, delle pareti e del pavimento. E’ la seconda. Ore 11.45. Briefing nella sala del ristorante dove il maître di sala racconta chi sono gli ospiti del giorno e se tra loro c’è qualche Vip o Friend (come li definiscono) o qualche tavolo con allergie e richieste particolari. Si discute anche del servizio del giorno prima e lo chef non manca mai di fare giuste annotazioni o di motivare lo staff a dare sempre il meglio di se stessi. Dalle ore 11.45 alle ore 11.48. Se sei fortunato hai 3 minuti per mangiare in piedi una scodella di minestra: i primi tavoli arrivano alle ore 12.30 e molte preparazioni sono ancora ineludibilmente da completare. Ore 15.00 circa. Finito il servizio (section 1) se lavori nelle cucine al piano inferiore ti tocca passare almeno un’ora per lucidare e pulire tutto. Se invece lavori nelle cucine di preparazione al piano di
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sopra continui fino alle 16.30. Quindi di nuovo mega pulizie generali sui piani di lavoro, sulle pareti e per terra. Ore 17. Cena dello staff. Ore 17 .30. Di nuovo preparazione. Ore 18.30. Il briefing della sera. Ore 19.00. Inizia il servizio serale. Ore 22.00. Finito il servizio, di nuovo mega pulizie con svuotamento di tutti i frigoriferi e delle celle del piano superiore. Poi si continua a fare preparazione fino le 23 per il giorno successivo. Ore 00.00. Lo staff di cucina si riunisce per organizzare l’attività del giorno seguente. Sempre così, dal martedì al venerdì. Il sabato, poiché la domenica è giorno di chiusura e non c’è bisogno di fare alcune preparazioni c’è più tempo per svolgere le pulizie straordinarie. Si prendono le scale per arrivare al soffitto, si smontano tutti i mobili per disinfettarli e si puliscono anche le prese di corrente per togliere ogni ombra di grasso. La cosa più terribile, almeno sino al disgelo, è la pulizia dei magazzini esterni (sei al freddo). Il giorno della chiusura per le feste natalizie (22 dicembre) siamo rimasti fino alle 3 di notte per completare le pulizie di chiusura attività. Tutti coloro che lavorano al Noma in pianta stabile sono ragazzi molto giovani con età di 23-25 anni. Non reggono più di un anno e poi scoppiano. I ritmi sono pazzeschi, ripeto dalle 6 del mattino fino a mezzanotte e 6 giorni su 7. Perché anche se il lunedì è un giorno di chiusura si va lo stesso al Noma per fare alcune preparazioni. Contate che ci sono solo tre souschef che hanno più di 35 anni: controllano tutti questi giovani e talentuosi capopartita. La verità è che non mi riesco ad immaginare come potrebbe fare il Noma a reggere questi ritmi di produzione senza l’aiuto di noi stagisti”.
Grace Santorini Cartolina di lusso
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e luminose case bianche, cubiche e base, in pietra locale, a cupola con le porte e le finestre blu, aggrappate sui lati della scogliera della caldera, le spiagge con ciottoli scuri e sabbia nera, grigia e rossa, i tramonti, il suo passato, l’ imponente scenario. Vacanzieri, celebrità, novelli sposi, tutti scelgono e se innamorano pazzamente di Santorini, la più ribelle isola delle Cicladi, l’unica che poggia su un antico vulcano (a dire il vero ci sarebbe anche Milos, molto meno suggestiva). Le foto scattate dalla via Ipapantis sono un must oltre che una delle più spettacolari panorami sul blu del Mar Egeo: vista sulla celebre Caldera, colori mozzafiato, acqua cristallina. Di giorno si va sulle spiagge incontaminate, qualcuno preferisce quelle meno frequentate: le più belle sono la Red Beach, l’Amoudi Bay e Capo Colombo, Bella Bay e Kambia, ma qui subentra il fattore soggettivo, per cui ognuno ha la sua classifica personale.
la via Erythrou Stavru e Ipapantis, dove si trovano i miglior ristoranti ed i lounge bar, le caffetterie e le discoteche. Kamari, Perivolos e Perissa sono le località ideali per i più giovani. Per gli amanti della musica rock la meta ideale è il pub irlandese Murphy oppure Tithora, entrambi a Fira, e il bar Taboo a Perissa che offre musica dal rock al blues, passando per il funk e il soul Ancora
Poi, la vita notturna, soprattutto a Fyra, nella parte fra
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meglio i bar sulla spiaggia, le notti passate qui sono fantastiche. La cucina reca di Santorini è caratterizzata dai prodotti agricoli dell’isola, ovvero frutti di una terra vulcanica che conferisce un sapore particolare ad ogni prodotto. Piccoli suggerimenti: le zucchine tonde ripiene di carne, i formaggi freschi di latte di capra cremosi e aspri, l’apokhti, il prosciutto crudo prodotto sull’isola, il coniglio selvatico con formaggio e salsa di uova e con pane di zafferano, poi i vini autoctoni dei vitigni di Athiri, Aidini e Assyrtiko. Abbiamo lasciato per ultimo il capitolo alberghi, perché prima ci piaceva farvi calare nell’atmosfera dell’isola. Grace Santorini è tutto quello che potete desiderare dopo una giornata piena di profumi e colori intensi. Svegliarsi qui, sorseggiando un cocktail, godersi un sigaro, guardare lei e la sua schiena arcuata, la pelle luminosa, il sorriso dolce, i movimenti felpati e sensuali. Un boutique hotel che ti stupisce e ti rapisce: la vista più bella, l’eleganza delle stanze, l’atmosfera romantica. Life is now...
Hotel Caruso Ravello, Paradiso
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redesi che la marina da Reggio a Gaeta sia quasi la più dilettevole parte d’Italia; nella quale assai presso a Salerno e una costa sopra ‘l mare riguardante, la quale gli abitanti chiamano la costa d’Amalfi, piena di picciole città, di giardini e di fontane, e d’uomini ricchi e procaccianti in atto di mercatantia sì come alcuni altri”. E’ un tratto del Decameron di Bocaccio e, per un motivo assai strano ma non troppo, ci è venuto in mente ammirando la bellezza sconfinata del quadro che ti si offre dalla piscina a sfioro. Una delle cartoline più affascinanti del mondo intero, la polaroid ideale della vacanza romantica. Perché L’Hotel Belmond Caruso, situato sul punto più alto di Ravello,considerato la terrazza panoramica della Costa Amalfinata. Non potrebbe essere altrimenti: la piscina a sfioro, vero capolavoro architettonico, il concierge dedicato, affreschi che risalgono al diciannovesimo secolo. Ovvio che la posizione della località incide e non poco: Ravello, situato su una ripida rupe, sovrasta Maiori e Minori e offre una polaroid davvero fiabesca, con il Mar Tirreno e il golfo del Salerno. Ravello fu fondata nel V secolo come luogo di rifugio dalle scorrerie dei barbari che segnarono la caduta dell’Impero romano d’Occidente, ma per leggenda vi immigrarono dei patrizi amalfitani in seguito a uno scontro tra più fazioni della classe alta amalfitana, che sfociò quasi in una guerra civile. La cittadina crebbe in popolazione, prosperando con l’arte della lana e con il commercio verso il mediterraneo e Bisanzio e raggiunse il suo massimo splendore
dal IX secolo, sotto la Repubblica marinara di Amalfi e il Principato di Salerno. Per volere del normanno Ruggero Ravello divenne sede vescovile nel 1086 per porla a contrasto della troppo potente Amalfi. Nel 1135 riuscì a sostenere gli attacchi portati dai Pisani al Ducato di Amalfi, ma due anni dopo, nel 1137,
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dovette soccombere, fu saccheggiata e distrutta. I palazzi-fondaco delle antiche famiglie ravellesi, principalmente situati nel nobiliare rione del Toro, sono divenuti alberghi nell’ultimo secolo e mezzo. Stiamo divagando, scusateci: ma stando qui, con il profumo dei limoni e del mare, abbiamo perso la nozione del tempo e dello spazio. Provare per credere.
Capri Palace Fiaba amalfitana
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elizia mediterranea, emozioni infinite, piaceri assoluti, bellezza totale, una vera e propria opera d’arte sulle pendici dell’isola: benvenuti a casa di Tonino Cacace, il creatore e il patron dell’albergo, perché la proprietà appartiene alla sua famiglia da generazioni. L’odore dei limoni, l’alta cucina, il design, la spa: tutto nel più classico stile partenopeo. Ci si arriva via mare, in barca, ormeggiando ai galleggianti del beach club, oppure via terra, a dieci minuti dalla piazzetta di Anacapri. Hall immensi, colonne stuccate di bianco, pavimenti di pietra, lampade di ceramica, tendaggi di morbide tonalità, in più una serie intera di opere d’arte firmate Schifano e De Chirico, opere appartenenti alla collezione privata della famiglia. La più bella e imponente è Riva dei Mari di Arnaldo Pomodoro, ispirata alle coste dell’isola. Le suite dell’albergo sono a tema: la Callas è dedicata
all’artista che ci veniva spesso sull’isola, la Warhol contiene riproduzioni d’autore e in più dispone di una piscina privata con mosaici personalizzati. Stanze da mille e una notti, seppur l’espressione cade nel banale quando sei qui e lo stesso vale per la ristorazione. Cenare a L’Olivo, due stelle Michelin, è un piacere da ripetere ogni sera. Lo chef Oliver Glowing propone specialità partenopee rilette in chiave contemporanea. Il ristorante invece è Il Riccio è stato rilevato, smontato, rimontato e riaperto nell’arco di sei mesi nel 2008. Il restauro porta la firma di Marco De Luca, che passa per il miglior interior designer se si tratta di interpretare i colori, le luci e le atmosfere della costa sorrentina e delle isole. Il bianco ricorda i villaggi di pescatori sulle rive mediterranee, mentre il blu le porte delle case che tanto ci piacciono quando andiamo in vacanza in una delle isole greche. Se vogliamo, Il Riccio, luogo di specchi e simboli, è il
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beach club dell’albergo, ma sono dettagli, perché quello che conta è il fascino indescrivibile dei tavolini sul mare, non a caso Aristotele Onasis e Jacqueline Kennedy andavano pazzi e tornavano tutte le volte che potevano. La cucina è nelle mani di Salvatore Elefante, nato nel paese della pasta, Gragnano, cresciuto qui, al Capri Palace, fino a diventare chef. Eccelle nel preparare il risotto alla pescatrice, ovviamente gli spaghetti allo scoglio, alle vongole e ai ricci di mare, per non parlare del polipo alla griglia con fagiolini, patate e finocchietto selvatico, oppure delle linguine con zucchine, gamberi crudi e cotti. La stanza di dolci sa di favola, anzi, è una favola per adulti sognata dai bambini, da raccontare agli altri: i babà, le capresine, la pastiera, le sfogliatelle, le crostate di frutta, il carretto del gelato. Puoi prenderne quanti ne vuoi, tutte le volte che vuoi. Pare un racconto fiabesco e invece Capri Palace esiste. Andare per credere.
Monastero SantaRosa
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ifugio romantico a Conca dei Marini, borgo di pescatori fra Amalfi e Positano, in un monastero del XVII secolo trasformato in hotel nel 1924 e da allora più volte ristrutturato e passato di mano fino alla riapertura di due anni fa, grazie a Bianca Sharma Marcucci, dopo un lavoro durato un decennio. Costruito per volontà di Sorella Rosa Pandolfi, discendente della nobile famiglia Pontone della Scala, su un’alta e scoscesa sporgenza rocciosa, il monastero si staglia all’orizzonte nella sua solitudine, sovrastando la costa.
Fu poi acquistato da un albergatore romano e come motto aveva una frase che vale ovviamente anche oggi: “A ogni finestra il sole, da ogni finestra il mare”. 20 camere e suite, una diversa dall’altra come dimensioni, pezzi unici di arredamento, fotografie in bianco e nero ritraendo il monastero negli anni sessanta, poi la piscina a sfioro di forma ellittica incastonata nella base rocciosa proprio al livello più basso del giardino digradante a terrazze: magia. Non da meno la cucina mediterranea dei Christoph Bob, chef arrivato sulla costa per amore (la sua moglie è una ragazza del posto): “In nessuno altro luo-
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go al mondo il sole e il suolo regalano una simile intensità di gusto e profumo, di frutta e pesce, di erbe ed ortaggi”. Come dargli torto? La sua cucina è in pratica un omaggio alla costa, perché porta in piatto quello che gli offre la natura. Qualche suggestivo esempio? L’antipasto con tre variazioni di crostacei, l’astice su purea di ceci, l’insalatina di fave all’olio di oliva affumicato e lardo di Colonnata, i ravioli di gamberoni con pomodori di Corbara e limone candito, i fusili con calamari, pomodori del Piemolo e melanzane al profumo di basilico.
Grand Hotel du Cap Ferrat
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05 anni di storia. Un lusso senza uguali. Cucina stellata. Giardini infiniti. Vista da mille e una notti, panoramica sul Mediterraneo. Spa multi premiata. What else? Cap Ferrat è da sempre l’albergo con la a maiuscola, su questo non ci sono dubbi e non ci possono essere discussioni, dibattiti e opinioni discordanti. Diventò famoso nel periodo fra le due guerre mondiali, quando principi e regine lo presero d’assalto. I fasti di una volta (qui abitarono Piccaso, Cocteau, Modigliani, Rodin e altri artisti per non fare l’elenco delle celebrità, dai Kennedy a Charlie Chaplin e Paul McCartney,
da Depardieu a Jean Paul Belmondo) continuano anche oggi: tutto brilla, tutto splende. L’hotel è stato rinnovato nel 2007, compresi i giardini, con Jean Mus incaricato di ridisegnarli. Gli interni invece sono opera di Pierre Yves Rochon: mobili moderni e raffinati, mentre si può ammirare ovunque il marmo beige di Persia e di Calcutta. Piacciono molto le riproduzioni di Matisse, presenti in ognuna delle 73 stanze. La cucina non è da meno: per il quinto anno di fila Michelin ha confermato la stella per il ristorante Le Cap: da quando è arrivato nel 2007, lo chef Didier Anies ha impressionato e convinto, conquistandosi l’ammirazione
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dei più. Da non perdere le lasagne al caviale e poi da dare uno sguardo alla lista dei vini, impressionante con le sue 600 etichette. Prima dell’ora di cena vi suggeriamo un aperitivo sul terrazzo del ristorante, la vista è sensazionale. Durante il giorno non perdetevi un pranzo al Club Dauphin, di fronte alla piscina: estasi puro. Il parco, poi: sette ettari di verde, 400 specie di piante esotiche e mediterranee, fontane a cascata, profumi e colori. Come dice lo slogan, la vie est magnifique. Soprattutto al Cap Ferrat, diciassette chilometri dall’aeroporto di Nizza.
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The Brando L’isola di Marlon
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tollo di Tetiaroa, isola di Onetahi, Polinesia francese, 60 chilometri da Tahiti, nelle acque del Pacifico del Sud. Il nome vi dice qualcosa? Ai giovanissimi forse no, ma chi sospirava per Marlon Brando qualche decennio addietro sa che l’attore scoprì Tetiaroa e se ne innamorò a tal punto da acquistarla, nel 1967. Erano i tempi nei quali girava Gli ammutinati di Bounty: l’idolo delle folle femminili compariva sulle pagine dei giornali sulla spiaggia polinesiana accanto a Tarita, la sua terza moglie. Giovani, bellissimi, lui divino, lei sensuale come poche. Amore folle, fra i due, sospiri infiniti per le ammiratrici dell’attore. Marlon sognava di preservarle la ricchezza culturale, la naturale bellezza e la biodiversità: ora grazie a The Brando il sogno è diventato realtà, anzi forse supera le aspettative del sex symbol, perché è un modello all’avanguardia di tecnologie eco-sostenibili, che comprendono un sistema di aria condizionata alimentato dall’acqua di mare e lo sfruttamento di energie rinnovabili quali l’energia solare e l’olio di cocco. Gli sarebbe piaciuto vederlo finito, il progetto: la missione di The Brando é la tutela dell’abbondante fauna ittica tropicale e dell’ecosistema marino. Accessibile solo tramite collegamenti operati con aerei privati, il resort offre un’ospitalità di lusso discreta immersa nella natura incontaminata dell’atollo, proprio sul motu dove una volta si trovava la residenza estiva della famiglia reale tahitiana. Il Resort, che propone una formula all-inclusive, è composto da 35 ville lussuose, ognuna delle quali dotate di spiaggia e piscina private. Poi ci sono i due ristoranti che propongono il meglio della cucina locale e francese (Beachcomber café offre una vista deliziosa), la spa polinesiana, un bar con vista sulla laguna (Te Manu), un altro sulla spiaggia(Bob’s
Bar porta il nome del factotum di Marlon, insieme passavano molte ore a chiacchierare sulla spiaggia, una volta finite le riprese), la piscina, un orto e un frutteto biologico. Per vivere al meglio l’Oceano – Te Moana – gli ospiti di The Brando possono cimentarsi in tantissime attività alla scoperta dei tesori dei fondali polinesiani: dall’ammirazione della flora sottomarina della laguna alla visita della nursery degli squali limone, fino all’osservazione delle tartarughe marine che da ottobre a marzo si riproducono lungo le baie incontaminate. O ancora, esplorando le acque della laguna a bordo della va’a, la tipica canoa polinesiana a bilanciere, o in
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kayak, mettendosi alla prova con il Sup (Stand Up Paddling), altra attività tipica polinesiana, praticando diving o snorkeling. In più ci sarebbero le altre isolette che compongono l’atollo: Tiaraunu, la più grande, ricoperta da una foresta di palme di cocco, Tauini, Tauroa e Hiraanae, il gruppo di motu al nord dove si rifugiano gli squali limone, Otoatera, isoletta caratterizzata da un laghetto a forma di cavalluccio marino, Reiono, che ha conservato la sua foresta pluviale originaria e dov’è possibile imbattersi nei Kaveu (i granchi del cocco) e Rimatuu, il primo fra i motu di Tetiaroa ad essere abitato dagli europei, antica piantagione di cocco con un suo villaggio e un molo.
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Phulay Bay
Krabi, Thailandia
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ra il mare e la giungla, tra la foresta vergine e lo spettacolo delle spiagge immacolate, un resort che ti lascia senza fiato. E invece capita di leggere una miriade di parole pompose, senza senso e addirittura comiche: questo salta agli occhi dando uno sguardo ai vari articoli finti colti e impegnati sul Phulay Bay, posto assolutamente meraviglioso da gustarsi senza l’obbligo del pensiero buonista imposto dalle anime belle. Avete presente quelle frasi che fanno venire l’orticaria, tanto sono piene di falsità? Lusso colto, non fine a se stesso, mezzo per apparire e via discorrendo? Ecco, per un strano motivo chi viene qui si sente autorizzato ad annoiarci con discorsi che valgono dieci Tavor. E invece Phulay Bay, modello della nuova linea Riserve
Ritz-Carlton, è magico e basta. Lusso puro, natura intensa, spiagge e cibo indimenticabili. Poco a nord di Krabi, sulla costa ovest della penisola che delimita l’Oceano Indiano dal Mar delle Andamane, Phulay Bay è situato all’interno della gran baia di Phang Nga, pareti calcaree che digradano in fondali corallini, ma impressiona per la qualità del resort, disegnato dall’architetto thailandese Lek Bunnag. Il suo credo è creare un’ambiente in cui i sensi siano costantemente attivati. Per gli amanti dei paroloni, qui c’è un ecosistema davvero notevole: dovrebbe piacere ai radical chic che si riempiono di buone intenzioni, scegliendo però solo i propri comodi e lussi. Sorvoliano, anzi ignoriamo e parliamo del resort. Fin dall’ingresso si rimane ammagliati dalla vista del par-
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co tropicale: giardini, macchie di bambù, spiagge, isole di palme, sentieri segreti, piscina infinity. Le 54 ville sono quasi nascoste nel parco. Le più piccole si estendono su 50 metri quadri più almeno 300 metri di giardino con piscina privata, veranda con zona lunge. Le più grandi, come la Royal Beach, arrivano ad avere fino a 120 metri interni. Un’insieme che viene vissuto come una specie di habitat dell’ospitalità, un mondo lussuoso con tecnologie hi tech. I ristoranti non sono da meno: al Lae Lay potete gustarvi delle aragoste alla griglia appena pescate, al Sri Trang dei piatti tradizionali thai in versione moderna. Andate e divertitevi, le parole pompose lasciateli agli altri…
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Mandarin Oriental One night in Bangkok
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o cantavano i Murray Head, nei favolosi anni ottanta: il ritornello é simpatico, One Night in Bangkok ci diverte e soprattutto vien naturale associare il brano al lusso sfrenato dell’albergo. Stesse atmosfere, stesso target, non è un caso che l’hotel è stato eletto come migliore al mondo dall’austero quotidiano londinese Times ( lettori di alto livello, conservatori, gente che bada al sodo senza ipocrisie). Situato sulle riva del fiume Chao Phraya, 358 stanze e 35 suites, negli anni ha ospitato la creme della creme mondiale, a cominciare da George Bush e continuando con Sean Connery e Audrey Hepburn, Helmuth Kohl e Niki Lauda, Sofia Loren ed Elizabeth Taylor, Richard Nixon e Henry Kissinger. L’elenco è alquanto lungo, ne abbiamo scelto le persone più vicine ai nostri gusti. Le suite portano il nome delle personalità che abbiano soggiornato per almeno una notte: così si spiega il motivo della suite Graham Greene oppure Wilbur Smith, Somerset Maugham e John Le Caré. Per cenare c’è il piacevole quesito della scelta: cucina francese a Le Normandie, pesce al Lord Jim’s, thailandese al Sala Rim Naam, italiana al Ciao. Per il dopo cena il Bamboo Bar, con musica jazz live e Authors Lounge, stile coloniale e atmosfere di una volta, dove si può fumare un sigaro e sorseggiare un cocktail di qualità. L’intera catena sa di favola, ovunque tu vada: New York e Barcellona, Pargi e Praga, Kuala Lumpur e Macau, Bermuda e San Francisco. Ci sono 28 in tutto, sparsi nei quattro continenti, la particolarità sta nel fatto che a Hong Kong ce ne siano tre (mentre a Macau due). Forse perché la storia del gruppo inizia proprio da qui, dove fu costruito il primo albergo, nel 1963 e che sempre qui è quotato in Borsa. O forse perché la città stato riesce a rappresentare al meglio il concetto di hotelerie voluto e promosso da Mandarin: sfarzo, lussi, notti magiche. E molto altro.
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Inga Verbeeck The Love Affair
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gni estate lo studio legale Fetman&Garland di Chicago tira fuori dal cassetto una campagna pubblicitaria che, perché negarlo, fa sorridere assai: “Life is short, take a divorce”, suona il claim. La vita é breve, divorzia! Si rivolge sia ad un pubblico maschile che femminile, é di grande impatto, desta sorrisi ed ironie, riflessioni e, a qualcuno, qualche giramento di bile : davvero una bella trovata, anche se non sappiamo quali siano gli esiti. Fa sorridere se, ovviamente, sei single oppure felicemente sposato, non se il tuo rapporto fa acqua da tutte le parti. Di sicuro divorziare é la soluzione ideale per le casse degli studi legali, un pò meno per le proprie tasche, per cui qualcuno festeggia e qualcuno invece no. Se lo studio legale di Chicago intende trasmettere un messaggio diabolico agli indecisi, portando per di più acqua al proprio mulino, Berkeley International invita i desiderosi d’amore e di un rapporto stabile, duraturo e pieno di soddisfazioni di provare a entrare in contatto con la propria rete di collaboratori, promettendo di trovare il partner ideale. Non avviene sempre e non in modo automatico, però funziona nella maggior parte dei casi. Non é la falsa promessa di un sito di incontri qualsiasi, non é un Cupido a buon mercato e ancor meno un’azienda di poco conto: stiamo parlando del leader assoluto per quello che riguarda il così detto “matching”, che non é come scovare partner occasioni nella rete. Qualcuno potrà obbiettare che il mondo é pieno di siti web d’incontri, seppur la gran parte della gente fatica ammettere di ricorrere al dating online. La così detta Generazione Y, ovvero i nati dopo il 1980, pare il target più scaltro, é gente più sciolta e priva di imbarazzi, più tecnologica e abituata ai social. Sono loro i principali fruitori delle applicazioni come Tinder, che sta spopolando negli States e ora anche in Inghilterra. Le regole sono però spietate, leggere per credere: si devono inserire i propri dati personali e sullo scher-
mo dello smartphone compare subito la foto profilo di una ragazza, il suo nome, la sua età, a quanti chilometri di distanza si trova. L’utente può decidere se premiare la foto con un like, oppure scartarla con un movimento del pollice e quindi passare al profilo successivo. Se il like viene ricambiato a quel punto la chat può avere inizio. Insomma, roba da ragazzi, roba cheap, usa e getta, siti per gente in cerca di avventure, per non dire che, almeno secondo uno sperimento condotto sul sito Okcupid, per ogni messaggio ricevuto da un uomo, una donna ne riceve almeno una ventina. In più, si è obbligati ad accettare che le app utilizzino i tuoi dati personali e così tutto diventa di dominio pubblico. Per andare oltre, pare che Lindsay Lohan stava scartando foto su Tinder quando si é imbattuta nella foto del proprio fratello. Ricki Lake invece stava addirittura sposarsi con un affascinante inglese conosciuto in chat (anche se stentiamo a crederlo), tranne poi scoprire che il birbante aveva come unica intenzione ottenere la carta verde per gli States. Privacy zero, dunque. Eleganza ancor meno. Possiamo andare avanti all’infinito, citando Local Sin (app d’incontri geolocalizzata), o Pure (si inserisce una foto provocante e un cuoricino inizia a pulsare sullo schermo del cellulare diffondendo la richiesta per un raggio di 50 chilometri, per la durata di un’ora). Ci sono poi Avocado, You&Me, Couple and Between, che stanno addirittura fidelizzare gli utenti dopo la formazione della coppia, tenendoli in contatto a distanza: niente da dire, la rete si sta attrezzando alla grande , ma siamo sempre nell’ambito dell’aspetto giocoso, avventuroso. Per questo Berkeley International é diversa. Offre ai suoi clienti la certezza della discrezione, vanta una banca dati di prim ordine e soprattutto la ricerca, così come il contatto, non avviene in maniera automatica, anzi. Inga Verbeeck ha creato una rete di filiali straordinaria, si é occupata personalmente di cercare, trovare e formare lo staff, ha aperto uffici ovunque, da New York a Parigi, da Londra ad Amsterdam, da Ginevra a Milano: non parli
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con un computer bensì con delle persone addette preparate, che svolgono delle ricerche accurate. Intermediari, consulenti, confidenti: persone autentiche, non applicazioni fredde. La splendida imprenditrice belga, che oltre a Berkeley vanta imprese di gran successo nel mondo dell’acciaieria, ha messo in piedi un vero e proprio colosso dell’amore, una multinazionale che ti garantisce più di qualsiasi altra azienda la possibilità di trovare il partner ideale. Che sia chiaro: non si occupa di avventure e non prende in considerazione un target basso e nemmeno medio. “Non offriamo un servizio escort e partner per la vita notturna”, puntualizza con fermezza. No, ha ideato la Berkeley International come un sistema di relazioni umane di altissimo livello. Per accedere ed essere ammessi non basta staccare un assegno, ci vuole ben altro: prima di tutto un incontro conoscitivo, due-tre ore di confronto pacato, amichevole, informale dove si cerca di capire i desideri dei futuri clienti, il loro modo di vivere, le aspettative, i propri gusti, l’infanzia, la famiglia dove sono cresciuti. In media ti si assicurano otto incontri all’anno, mentre per restare nell’ambito della statistica ci vogliono sei per trovare il partner giusto. Altre piccole curiosità: l’uomo italiano ha delle esigenze molto più semplici rispetto al maschio, che punta sui maschi inglesi oppure scandinavi. L’ottanta per cento degli uomini manca di coraggio per invitare una donna a cena, la fascia che più ricorre ai suoi servizi sono i quarantenni che prima si sono dedicati solo alla carriera, lasciando poco spazio alle relazioni personali. La fascia d’età che più incontra difficoltà sono gli over sessanta, quella meno interessata i under trenta. Tutto bello, ma, vi chiederete, come avviene un incontro? Semplice: al maschio viene dato il numero di telefono della donna e, si suppone, la chiamerà per invitarla fuori. Per il resto non dipende da Inga ne da Berkeley International. Se son fiori…
Jakarta
Profumo di soldi
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mmagliati. Conquistati. Rapiti dalla capitale indonesiana. Lo confessiamo, senza alcun problema: non avremmo mai immaginato che Jakarta potesse brillare in una maniera simile. Ci aspettavamo una metropoli vivace, però non così ricca e piena di grattacieli, dove il profumo dei soldi e degli affari lo si avverte ovunque nel così detto Triangle Business. E poi centri commerciali surreali, bar e caffetterie chiccose al massimo, il Luwak caffè ovunque (il più caro al mondo), negozi infinitamente più belli rispetto alla nostra Via Montenapoleone. Straordinaria, letteralmente straordinaria, incredibile con il suo numero infinito di palazzi di vetro, con il centro città sconfinato ed i centri commerciali monumentali e per niente kitch. Strepitosa per intensità e per voglia di fare, per la velocità con la quale si costruisce, per la “furia” con la quale desidera diventare la città del futuro. Tutto va ad una velocità folle, si lavora senza soste, i ritmi sono da grande capitale: lo diciamo con invidia estrema. E’ una città con quasi dieci milioni di abitanti più un numero difficile da quantificare che arriva da fuori, una città dove alle cinque del mattino trovi già traffico, nonostante le sei corsie. Se prima il paese lo conoscevamo per via dell’isola di Bali, al massimo di Java, ora ne siamo convinti che prima di una settimana al sole faremmo uno scalo a
Jakarta per almeno tre giorni. In ordine sparso, gli alberghi presenti: Ritz Carlton, Four Seasons, Kempinski, Hyatt, Mandarin Oriental, Pullman e poi le altre catene. Tutti nel centro della città, molti praticamente incollati uno l’altro, splendenti e accoglienti. Partiamo dal Mandarin, il più piccolo e anche il primo costruito fra i giganti della hotelerie: restaurato completamente nel 2009, domina la piazza Jalan Thamrin, proprio dove inizia il quartiere delle ambasciate. Una chicca piena di calore umano, 272 stanze assolutamente superlative, molte di loro con due stanze, un arredamento strepitoso, di altissimo livello. La vasca in mezzo alla stanza, marmi, letto gigantesco, mogani, morbidezza e lusso in ogni dettaglio. Il ristorante Cinnamon lo mettiamo senza ombra di dubbio fra i primi cinque in assoluto, non solo indonesiani, per quello che riguarda la colazione. E’ per la prima volta che vediamo il tutto organizzato e diviso in base al tipo di cucina: indiana, indonesiana, giapponese, italiana, francese e via di questo passo. Tutto presentato in modo sublime, hai la sensazione che hai a disposizione uno chef personale. Non male nemmeno il Mo Bar, aperto solo la sera: il classico lounge dove puoi fumare un cigaro sorseggiando un cocktail oppure mangiare a mezzanotte (il club sandwich da impazzire).
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Il Kempinski, situato di fronte, è molto più imponente: una hall del genere non si vede spesso, imponente al massimo. Più isolato il Four Seasons, quasi nascosto dietro il caos della metropoli. Per la verità è un po’ datato, difatti a breve inizieranno i lavori di ammodernamento delle stanze, per il resto è all’altezza del nome della catena. Si distinguono sempre, quelli del Four Seasons: il lounge per i clienti più importanti, situato all’ultimo piano, è un vero bijou. Puoi degustare le prelibatezze degli chef ad ogni ora, il servizio è perfetto, hai a disposizione qualsiasi cosa: da prendere come esempio. La spa ne vale la pena, magari nel pomeriggio, prima di cena. Per gli italiani le sorprese arrivano se vai al ristorante del piano inferiore, The Cell, dove il sommelier Suyanto vive con il mito di Luca Gardini: ne guarda i filmati in continuazione, gli sa a memoria. E’ uno dei più accreditati nell’intero paese, non a caso Erick Thohir, patron dell’Inter, è un ospite fisso negli weekend. A noi invece piaceva mangiare al piano terra, al ristorante con cucina internazionale, provando le specialità locali, compreso il pesce pescato nell’oceano, le zuppe leggermente piccanti e un gustosissimo dentice scottato. Piatti speziati, delicati, ben cucinati: complimenti. Per avere un’idea su cosa significhi ora la capitale indonesiana: la richiesta di alloggi di alto
livello ha quasi obbligato i proprietari di Four Seasons di costruire quattro torri di appartamenti, ce ne sono più di seicento, tutti venduti prima di essere ultimati. Gli acquistano i magnati ed i vari business man che riempiono Jakarta provenendo dalla Cina, Hong Kong e Singapore: è una ulteriore conferma di quello che sta significando in questo momento la capitale. Il punto più alto lo si raggiunge andando nella zona della borsa, dove impera il Ritz Carlton, sviluppato tutto in orizzontale: maestoso, semplicemente maestoso. Al sesto piano si incontra il gotha della città, si danno appuntamento i miliardari, si decidono le sorti e il futuro di tante aziende. Il ristorante è uno dei migliori del paese: lo abbiamo provato a tutte le ore e sempre ci è parso eccezionale. Delizie per i gusti più vari, carne e pesce, pasta e riso, dolce e salato, piatti caldi e freddi, snack e portate gourmet, buffet e a la carte: really impressive, come dicono gli anglofoni. La carne cotta 16 ore sa di paradiso, i colori ed i profumi degli altri piatti sono sinonimo di felicità, i dessert molto delicati e ben fatti: applausi. Piccola aggiunta: appena arrivi alla reception e anche nei vari ristoranti ti chiamano tutti per nome pur non avendoti mai visto prima. Le camere sono degne delle miglior case dei magnati e soprattutto hanno una vista che ti riempie di energia: il centro della città, il così detto Business Triangle davanti a te, grattacieli in costruzione, un mondo effervescente che ti lascia il magone visto l’immobilismo italiano. Fiabesca la spa: ti lascia senza parole per dimensioni, lusso, silenzio, minimalismo e competenza. Come tutta la città.
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Nicolas Latsos Safari Man
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no come lui, di solito, lo vedi nei film. Oppure su National Geographic, Discovery e affini. Perché la vita di Nicolas Lotsos è uno show televisivo, un documentario, con la differenza che lui passa delle giornate intere nel bel mezzo della giungla, mentre noi dopo aver guardato il programma in tv cambiamo canale oppure andiamo a dormire in un letto comodo comodo. Di mestiere fa il fotografo. Fotografo specializzato in safari e vita selvaggia, wild life per farla sembrare un’occupazione chic. La sorpresa sta nel sentire che, nello stesso tempo, agisce come agente di giocatori di pallacanestro: ai più alti livelli, si intende. - Partiamo proprio da qui, dall’attività come agente: come hai cominciato? - E’ un’azienda di famiglia iniziata vent’anni addietro, ce ne occupiamo io e il mio cugino, per quanto possa sembrare strano le dedico la gran parte del tempo, pur essendo spesso via nei safari. Diciamo che le due attività convivono, una è la testa, l’altra il cuore. Negli anni abbiamo rappresentato giocatori di prim ordine come Alphonso Ford, Walter Berry, ora Milos Teodosic, Michael Batiste, Keith Langford e molti altri. - Quando hai iniziato invece a dedicarti alla vita e alla fotografia nei safari? - Il mio primo viaggio in Africa, nel 2006, é stato così esaltante da segnarmi per sempre: ho fatto delle fotografie, diciamo così, poco convenzionali, riuscendo a carpire la vita degli animali da angoli particolari, mi sono reso conto di poter creare uno stile personale. - Domanda scontata, cosa ti piace di più nel continente nero? - La risposta è altrettanto scontata, Africa non la si può spiegare e raccontare, ti ammalia perché è unica: i paesaggi incontaminati, la vita selvaggia, la povertà assieme alla ricchezza della natura, il sorriso dei bambini nonostante vivano nelle peggiori condizioni
possibili. Ecco, le forti contraddizioni viste e vissute lì mi stanno emozionando, sono come delle scosse. - Altra domanda scontata, non hai paura che ti possa succedere qualcosa? - Certo, però provo a muovermi con cautela, anche se spesso agisco d’impulso, la passione vince su tutto, compresa la paura. Fare lo scatto migliore è la priorità, l’unica priorità. - Guardando i documentari si capisce che spesso te ne devi stare per giorni prima di scattare la fotografia che desideri. - Dipende dal tipo di fotografia che ti aspetti di scattare, dalle tue ambizioni e dalle attese, da quello che ti fa sentire l’uomo più felice del mondo. Personalmente sono difficile da accontentare, per cui capita
di restare oltre il tempo programmato per il viaggio stesso. Ci vogliono giorni, la natura è impossibile da gestire e da domare, non puoi creare il quadro perfetto, non è un set fotografico, ci sono imprevisti, piogge, bufere, venti forti, ti devi adeguare e aspettare il momento perfetto: ne vale la pena, ve lo assicuro. In più, io non utilizzo il teleobiettivo, per cui devo essere molto vicino, il che significa avere una pazienza infinita. A volte devo perfino ritornare per giorni e giorni, il record l’ho battuto andando alla ricerca degli impala, una settimana sotto la pioggia battente. - Cosa fai mentre aspetti di scattare? Come passi le ore? - C’è poco da fare, sei in una macchina aperta, stai
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lì ad attendere il momento giusto per scattare. Però sai, spesso sei così concentrato a inquadrare, a seguire con la macchina fotografica che perdi l’insieme. Così, ne approfitto per godermi il paesaggio, spesso chiudo gli occhi e ascolto i suoni della foresta, sogno, immagino. Sono i momenti nei quali mi sento davvero connesso con la natura, sono attimi, che poi sono delle ore, che ti rimangono dentro per sempre. - Come sei diventato fotografo? - A 13 anni mio padre mi ha regalato una macchina fotografica, probabilmente miglior regalo che avessi potuto ricevere. A 15 già sapevo che sarei diventato un fotografo professionista. - C’è un animale che, per grazia e colori, movimenti e carattere ti esalta in maniera esagerata? - Fotograficamente amo da impazzire fotografare i leoni, ma è un discorso legato più alla loro estetica: sprizzano grazia, forza e fierezza. Mi esaltano le giraffe, perché eleganti e con un ritmo particolare, poi gli elefanti, perché trasmettono unità e sono giganteschi. - Tu e la famiglia ci avete mai pensato di trasferirvi? - Più di una volta, anche se esistono dei problemi oggettivi, per esempio l’età dei bambini, sono piccoli. Assieme a mia moglie abbiamo anche una fondazione no profit in Kenya,a Kibera, per cui ipotizziamo che un giorno, chissà, magari potremmo dividerci fra Europa e Africa. - Torniamo sulla terra: c’è la crisi nel settore della fotografia della natura? - Diciamo che nei giorni nostri le fotografie limited edition stanno raggiungendo livelli da record. Poi l’arte ha superato guerre e crisi, è eterna. - Se ti chiedessi di scegliere la fotografia più bella mai fatta? Non potrei rispondere, è come chiedermi se ami di più un figlio piuttosto di un altro. Ogni foto ha la sua storia e sono parte di me e della mia vita, il suo posto nel mio cuore.
Cultura pop
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L’importanza dei paninari
a Milano e l’Italia degli anni Ottanta hanno trovato il loro libro di culto. Si intitola ‘L’importanza dei paninari - Milano anni Ottanta’ e l’ha scritto il giornalista Stefano Olivari, una vera garanzia per gli appassionati di cultura pop: uscito nell’estate 2013, solo con il passa-parola è diventato un fenomeno da migliaia di copie vendute e anche nel 2014 ha ridicolizzato opere inserite nel circolo mafiosetto delle recensioni culturali. Parla di ragazzi che hanno vissuto gli anni Ottanta con intensità e al tempo stesso leggerezza, ha lo stile del romanzo e parte dall’incontro, a New York, fra una ex ragazza e un ex ragazzo paninari. Attraverso il segreto che li lega racconta l’unico movimento giovanile della storia d’Italia a non essere importato dall’estero: dalla Milano che si trovava al Panino al
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boom incentrato su moda e marchi, passando per amicizia, amore, politica, scuola, televisione, violenza metropolitana, sport, tecnologia, ideali e soprattutto assenza di sensi di colpa. Un’epoca affascinante, in un paese che non aveva paura del futuro. Con qualche insegnamento che oggi potrebbe servire. Per forma mentale il ragazzo degli anni Ottanta non guarda infatti al passato e rimane insuperabile nell’evitare tristezza e negatività. Per chi è questo libro? Facile la risposta: per tutti gli italiani nati fra il 1964 e il 1980. Ma anche per chi apprezza quella visione del mondo. Sono in tanti, siamo in tanti. L’importanza dei paninari - Milano, anni Ottanta, di Stefano Olivari (editore Indiscreto), 170 pagine a 12 (edizione cartacea) o 5,99 (eBook) euro.
Jason Ierace Donne. Solo donne
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emplice, senza tempo, divertente”. Si racconta cosi il fotografo australiano, innamorato dalle donne per la loro infinita capacità di trasmettere emozioni. Nato a Sydney, cresciuto sulle spiagge del nord, grande viaggiatore, pazzo d’amore per la sua moglie e la figlia appena nata, Jason si racconta brevemente, perché vuole lasciare tanto spazio alle immagini. - Come hai cominciato? - Ho studiato fotografia all’università, per essere precisi cinema e fotografia, seppur la mia laurea é stata in design. Poi ho iniziato a lavorare come grafico e art director: lo facevo come freelance, fra
una gara di snowboard e un’altra. Finita la carriera sportiva sono andato a vivere per tre anni in Svezia: tornato in Australia ero già sicuro di voler fare il fotografo, cosi che ho cercato un lavoro come assistente. Pian piano mi sono costruito un portfolio. - Hai avuto un idolo, quando eri agli inizi? - Tanti, tantissimi. Sam Haskins e’ uno di loro. Sapeva sfruttare la luce naturale come nessuno, per più di cinquant’anni ha ritratto solo donne, i suoi scatti fashion rimarranno nella storia perchè aveva quel tocco magico, senza tempo. - Come possiamo definire il tuo modo di fotografare, in tre parole? - Semplice, senza tempo, divertente (Simple, time-
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less, fun). - Ci sono donne ovunque, nelle tue foto... - Le amo. Dopo la nascita della mia figlia ho iniziato ad apprezzarle ancor di più, le ammiro per quella capacita di sacrificarsi. E poi il loro modo di comunicare con le curve, come riescono ad esprimersi ondeggiando, con un semplice gesto sexy. Hanno una abilità folle di trasmettere emozioni e bellezza in una maniera naturale, sono qualcosa di straordinario. - C’e’ una donna che ti piacerebbe fotografare? - Ogni giorno ne incontro tante e cambio idea: una cantante, una modella, una ragazza che vedo camminando per strada.
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Passerini Magic Moments
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mmaginate la scena. Lui ha appena finito una giornata da far tremare i polsi alla Piazza Affari, è stremato dalla fatica ma cammina a tre metri dalla terra e vuole assolutamente festeggiare il più 2,7 della Borsa che ha portato ai suoi clienti e, ovviamente, anche a lui un cospicuo guadagno. Posti per gustarsi la vittoria ce ne sono tanti attorno alla cattedrale del denaro ma vuole un luogo chic e silenzioso dove potrà sedersi comodo, fuori, accendersi un sigaro e ordinare il suo cocktail preferito. Così che decide di regalarsi un po’ di tempo con se stesso e va nel suo rifugio, nel suo locale preferito, un gioiello nascosto in una famosa via del vecchio centro, una via dove non c’è traffico e in più si respira il profumo della Milano di una volta. E’ vestito in maniera davvero elegante, giacca su misura, la camicia anche, le scarpe sono lucide e di gran classe. Si siede, chiude gli occhi per un interminabile secondo, poi pian piano tira fuori dalla tasca un robusto. Per gli uomini di un certo livello è uno dei momenti più piacevoli in assoluto: girarlo fra le dita prima di tagliarlo e poi accenderlo lentamente. Se leggete Cigar Aficionado, probabilmente la miglior rivista dedicata ai piaceri maschili, saprete che tutti gli artigiani del tabacco, tutti i produttori di sigari vivono con l’ossessione
di dover soddisfare le esigenze di un uomo nell’ora più importante della giornata, quella dedicata a se stesso. Non possono sbagliare, non possono deludere il loro cliente, solitamente uno che vive di sfide e successi, di guerre professionali e battaglie senza esclusione di colpi. Ecco, proprio perché la vittoria la si gusta, la si assapora alla fine della giornata, sanno che la qualità del loro sigaro avrà un’incidenza fortissima sull’umore del nostro personaggio. Danno il meglio, per l’uomo che sa apprezzare la qualità. Ciak numero due. Lei ha appena ricevuto una telefonata straordinaria, una importante rivista di moda le dedica la copertina. Chiama subito le amiche e si danno appuntamento nello stesso locale storico. Sono giovani, luminose, splendono che più non si può, sprizzano bellezza e felicità, spensieratezza e voglia di vivere. Ordinano bollicine rosé, a prima vista il contrasto sembra forte, da una parte un locale austero e storico, dall’altra i sorrisi delle amiche ventenni, ma poi ti rendi conto che il quadro è perfetto. Due tavoli, due mondi diversi, un nome comune, Passerini, in via Spadari. Potremmo aggiungere altre polaroid della felicità che abbiamo visto e condiviso in prima persona, dai quattro avvocati sulla cinquantina che
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fumavano ognuno un Cohiba Behike e sorseggiavano Dom Perignon del 2000 al giovane creativo che tira fuori il suo Mac e ordina un Martini in stile James Bond. Passerini, il salotto della Milano di una volta e anche della Milano di oggi, perché da un anno vive una seconda giovinezza, per esattezza da quando Claudio Leone lo ha rilevato e riportato ai fasti del passato. La vista su Piazza Pio XIimo, il silenzio e le case aristocratiche, i tavolini fuori, i dolci del campione del mondo Biasetto, una lista di vini, spumanti, champagne e distillati da far invidia ai bar più blasonati. Noi ci andiamo spesso, scene come le due appena raccontate ne vediamo di continuo. Uomini di successo, donne della Milano che conta e ragazze straniere di passaggio, manager e modelle, potenti e pr. Per utilizzare una frase un po’ inflazionata Passerini piace alla gente che piace, ma d’altronde come può non piacere? Per noi è lo spot della dolce vita 2.0, la vita che abbiamo sempre sognato. Una via con dei palazzi che sembrano disegnati, dei tavolini fuori,ordinati sullo stretto marciapiede, quel misto di atmosfera severa e allegra, il silenzio del tardo pomeriggio e il profumo della vittoria. Come dice lo slogan pubblicitario, Life is now.
Dylan Penn Rising star
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’ la figlia di Robin Wright e Sean Penn: già questo basta e avanza per capire che si tratta di una ragazza a dir poco predestinata, con tutte le carte in regola per sfondare. Ha ereditato quasi tutto dalla madre: le labbra, il naso, i movimenti, la pelle color moon-dust come dicono gli americani. Cresciuta a Ross, piccola cittadina pochi pass fuori San Francisco, Dylan ovviamente fa la modella, le foto che pubblichiamo sono state realizzate da Tony Duran per Treats, rivista che esaltiamo ad ogni passo e in ogni pagina. L’immagine con la borsa Fendi che le copre le parti intime ha fatto il giro del mondo, onestamente speriamo che la maison abbia pagato la presenza, perché una pubblicità del genere raramente si ha la fortuna di avere. Solitamente
Duran predilige il bianco e nero, sono sempre donne molto eleganti e di carattere, stavolta ha fatto un eccezione per la cover: complimenti. Più che posare e sfilare Dylan ama scrivere, osservare le persone, recitare: l’esordio nell’horror The Condemned, sui grandi schermi l’anno prossimo, vestirà i panni di una ragazza particolarissima, membro di una strana comunità che vive in un palazzo abbandonato di New York. “Avevo giurato di non girare mai mai e poi mai un film horror, però ho letto la scenografia e per di più non si poteva dire di no a tre settimane di riprese a New York”, racconta soddisfatta. Per la cronaca si narra di un suo flirt con Robert Pattison: a noi piacerebbe vederla con un uomo più macho, tipo suo padre.
Jesse Lee Denning Who’s that girl?
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oto e tatuaggi, adrenalina e tanta, tanta bellezza. Jesse Denning è la classica bad girl e una vera ragazza copertina per via dei tatoo realizzati nella gran parte dal marito Troy: l’hanno resa famosa, tanto da posare per le copertine di Inked Magazine e Tattoo Life. Non ha mai voluto fare la modella, o per lo
meno è quello che racconta: a dire il vero sfilare è alquanto difficile visti i tatuaggi, però i pubblicitari ne vanno matti. Come dar loro torto? Guardatela, trasmette una energia e una sensualità davvero fuori dai canoni abituali. Metà tedesca e metà russa, nata e cresciuta a West Village, New York, laureata in storia dell’arte, lavo-
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ra in una agenzia di comunicazione, occupandosi di pubbliche relazioni. E’ salita sulla moto quando aveva sei anni: suo padre la insegnò a inserire le marce fin dalle prime volte, lei se ne innamorò subito ed eccoci. “Amo tutto ciò che è veloce e diventa una estensione del guidatore”, dice maliziosa.
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