ATTIMI
wineemotion
Ioris Premoli
ACANTO La Rampina
&
TARTUFI friends
Michelangelo Mammoliti
Carlo CRACCO
Ethnic-chic _ Antiquariato dal mondo Design _ Complementi d’arredo Viaggi e vacanze esclusive
WABI-SABI la bellezza dell'imperfezione
uno spazio permanente dedicato alle creazioni ispirate al Giappone di Osvaldo Montalbano Fashion Stylist
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Editoriale Emozioni, non funzioni
Q
uando un burrito diventa qualcosa di più di un semplice burrito? Quando diventa lifestyle. Il titolo prometteva bene, la testata anche, così che mi sono messo a leggere l’articolo trovato su Bloomberg. Man mano mi sentivo sempre più rapito e coinvolto, perché le parole degli esperti di marketing erano chirurgiche, profonde, esprimendo concetti e principi che sono identici ai quelli di Good Life. L’articolo tratta e racconta l’ascensione di Chipotle, catena di fast food messicano. Sentite Christopher Brandt, chief marketing dell’azienda, è scoppiettante: “Chipotle diventerà un brand quando la gente vorrà saperne di più su di esso, quando vorrà abbracciare i suoi valori e indossarli come un badge”. Poi, si continua con frasi asciutte e immediate. “Si deve trovare un messaggio. Colpire il cuore e la testa. Invitare i clienti a far parte della vostra vita. Condividere i valori. Essere consistenti. Non basta più essere funzionali e dare un servizio, perché il food, oggi, è emozione ed emozionale, è personale”.
A parole tutti cercano di vendere emozioni, ma nella gran parte si resta alle intenzioni. Perfino i comunicati stampa pullulano di parole roboanti, è un continuo “esperienza unica”, “location esclusiva”. Manca però la sostanza, per tacere sul fatto che si usano parole a caso, spesso hai la sensazione che sono intercambiabili in funzione dell’azienda che si rappresenta. Oggi le dico per te che vendi tacos, domani per te che proponi carne e dopodomani per te che hai una birreria. Forse per questo un noto imprenditore è letteralmente esploso, dopo aver ascoltato l’ennesima litania trita e ritrita: “Voglio dei sognatori, non dei consulenti”. Perché, come diceva Christopher, si deve colpire la mente e il cuore, essere emozionali, non solo funzionali. E purtroppo la gran parte della gente che lavora nella comunicazione sa fabbricare solo messaggi funzionali. Aggiungiamo, spesso in maniera pedante e pedagogica. Altro che trasmettere quella voglia pazza di indossare i valori di un’azienda come un badge.
“In più, continua Christopher, “rispetto al passato la gente si identifica in base a quello che mangia: difatti dicono “Sono vegano”, oppure “Sono vegetariano”, “Mangio solo cibo organico”.
Non basta più essere funzionali e dare un servizio: il food, oggi, è emozione ed emozionale, è personale
In altre parole, quando cammini con un bicchiere di carta targato Starbucks racconti qualcosa di te stesso, dei tuoi valori, di conseguenza diventa personale. E’ il momento dove un’azienda inizia a far parte della tua vita quotidiana”. In pratica si crea un rapporto stretto, una relazione fra il brand e il cliente. “Certo, non si può fare da oggi a domani”, conclude Christopher, “si deve essere costanti e soprattutto trovare un messaggio convincente, che possa piacere al cliente”.
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Good
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Carlo Cracco "Per quello che riguarda la pizza, mi dispiace non poter fare più di cento
al giorno. La ricetta? Mi sono ispirato a Simone Padoan, un grande amico che conosco da quasi vent’anni e che ha rivoluzionato e reinventato la pizza. Ho preso spunto da lui, cercando di replicarla a modo mio. Mi piace precisare che la prepariamo nelle nostre cucine e ha lo stesso valore degli altri piatti che proponiamo al bistrot e al ristorante".
maniera devastante: oggi si merita già due stelle Michelin, pur avendone una soltanto. E’ solo questione di tempo, il riconoscimento della guida: i suoi menù sono sempre più sbalorditivi, l’intensità aumenta piatto dopo piatto, non ci sono pause, debolezze, intermedi sottotono.
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La Madernassa
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Michelangelo Non avevamo dubbi prima, ne abbiamo ancor meno ora, dopo la nostra ultima visita a La Madernassa. Il ragazzo sta bruciando le tappe in una Mammoliti
Ioris Premoli “ Il mio idolo è stato Renato Marcialis, anche se oggi può sembrare un po'
retrò. Ho guardato, analizzato e imparato molto da lui. Il piatto più difficile da fotografare? Le lasagne. Mi piacciono invece le materie prime povere, prendiamo per esempio le mele. Adoro ricreare la tavola italiana della domenica, soprattutto quei piatti dove riesci a trasmettere la golosità, il gusto”.
Foto: Ioris Premoli
Alessandro Buffolino
Alessandro E’ cambiato molto dal suo arrivo, tre anni addietro. E’ cambiato lui e soprattutto è riuscito a cambiato il ristorante: agli inizi pareva Buffolino
leggermente intimidito dalla storia dell’albergo e forse si sentiva un po' stranito guardando il locale sempre vuoto. Non lo ammetterà mai, però sotto sotto avrà anche pensato “Chi me lo ha fatto fare”. Quando è arrivato, la media era di 7 coperti a sera. Ora sono più di 70
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Un piatto di Giuseppe Postorino fotografato da Modestino Tozzi
Brevemente,
C
anni si è passati dal bere qualsiasi cosa a fare gli esperti.
I ristoratori di una volta lo dicevano sempre, mai cambiare la rotta alla prima difficoltà. Tradotto, se hai aperto un ristorante di pesce e vedi che non ingrana, non metterti ad aggiungere la carne e la pizza: aspetta. Credici, vai avanti: se hai le materie prime migliori e se offri un servizio ottimo, la gente pian piano riempirà il ristorante. Se invece cambi continuamente la gente percepirà che qualcosa non va e non tornerà. Tutti quelli che hanno aggiunto la scritta “pizza” accanto alla parola “ristorante” sono finiti col vendere solo pizze, mandando in vacca il progetto iniziale.
in cucina
uochi fenomeni ma anche no. Quando la realtà supera la fantasia: colloquio con un cuoco che vantava esperienze altisonante “Si, cucinare il pesce sono bravo, ho lavorato con ics a Londra, con ipsilon a New York. Però non sono bravo a sfilettarlo perché ci arrivava già sfilettato dalla cucina del piano sotto. Con la carne ovvio, la so maneggiare, faccio dei bei piatti, però non so tagliarla perché di solito ci arrivava sporzionata nel sottovuoto”.
Vincono a mani basse i ristoranti con una forte identità e, di conseguenza, perdono quelli che sono né carne nè pesce, quelli che si fermano a metà strada, quelli che vogliono essere sia creativi sia popolari, quelli che non hanno bene in mente la clientela che potrà varcare la loro porta. Il cliente ti “annusa” subito, capisce quando lo chef ha le idee chiare e quando no, percepisce al volo quando regna l’incertezza. Di conseguenza premia chi sa il fatto suo e boccia chi brancola nel buio, apprezza chi ha le idee chiare e la mano decisa. Pare così semplice e invece guardi sbalordito come alcuni continuano a proporre dei menù pallidi, pasticcioni, insicuri. La crisi non c’entra nulla, così come è folle dire che la gente non capisce di cibo: non si é mai visto vuoto un ristorante con la R maiuscola. Nella foto, un piatto (superlativo) di Giuseppe Postorino, chef al ristorante Da Noi.
Costanza. Ci vuole costanza in cucina. Un grande ristorante è quello dove vai a mangiare lo stesso piatto per cinque volte di fila ed è sempre uguale. Spesso vedi cuochi con un gran talento ma che dopo due settimane iniziano a essere insofferenti e lunatici, annoiati e isterici. Quando volete assumere uno chef informatevi prima di tutto sul suo carattere e per quanto tempo si è fermato in un posto. Un genio che dura cinque giorni non serve a nessuno. Avete fatto caso? Fino a qualche anno fa uno ordinava in scioltezza il vino della casa e nessuno si chiedeva minimamente cosa fosse e da dove arrivasse. Oggi tutti si atteggiano a sommelier perfino nelle osterie e del quartino della casa nessuno vuole più sapere. In pochi
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Carlo Cracco Il mio regno in Galleria
C Foto: Monica Cordiviola
Se avete una sola ora a disposizione e volete mangiare un piatto al bistrot, vi suggerisco il riso al salto, da abbinare ad una Ribolla Gialla, Marina Danieli No 6
iak numero uno, in esterna, al bistrot, piano terra, a stretto contatto con il rumore vivace della gente che passeggia freneticamente in Galleria. Carlo Cracco esce per un attimo a salutare il cronista e accade il finimondo: il via vai incessante e festante si trasforma subito in isteria collettiva, si crea all’improvviso un mucchio selvaggio di persone che tira fuori frettolosamente il telefonino e scatta all’impazzata, esclamando e urlando come se avessero visto Cristiano Ronaldo seduto a sorseggiare un caffè. “C’è Cracco c’è Cracco”. E’ una scena che racconta molto del potere della tv commerciale e americana (Masterchef e Hell’s Kitchen sono prodotti statunitensi, fosse per le idee della tv italiana non si andrebbe oltre Don Matteo e Nonno Libero), così come la dice lunga sul fascino e la popolarità dello chef vicentino. Perché una cosa va detta: la folla che popola la Galleria ha poco a che fare con il target super selezionato di un ristorante stellato, eccezioni a parte. E’ evidente che lo conoscono e riconoscono in quanto personaggio televisivo e stop: probabilmente nessuno di loro ha mai assaggiato l’insalata russa caramellata, lo spaghetto al tuorlo d’uovo, oppure la Sea Salad. Niente di male, ci mancherebbe, ma era solo per sottolineare come un cuoco sia diventato star di prim ordine solo perché fa il cattivo in tv, oppure promuove dei marchi in quanto testimonial. Adolescenti, pensionati, gente in grisaglia e doppio petto, c’è di tutto fuori dal locale. Ciak numero due, all’interno, primo piano: sono le ore 15,15, il servizio sta per terminare, gli ultimi clienti si preparano ad uscire e il dispiacere che si legge sul loro viso non può essere raccontato in poche frasi. E’ come se un bel sogno stesse per concludersi, come se volessero tornare a sognare da capo, c’è un misto di magone e disperazione, manca solo che implorassero “Ancora un quarto d’ora, per favore”. In rapida sequenza: un ragazzo livornese che ha appena concluso gli studi all’Alma e che quasi quasi non osa stringere la mano allo chef: “E’ stato
fantastico, il carpaccio di branzino e il risotto sono stati formidabili, non ho parole. Posso fare una foto assieme a lei? Se la vede mia mamma sviene”, dice sottovoce. Segue una signora appena uscita dal coiffeur, si vede che si è preparata a lungo per un pranzo da Cracco: “Mi ha molto impressionato la professionalità dei ragazzi, sanno spiegare davvero bene quello che ci viene servito, sa io ho fatto l’insegnante e riconosco al volo chi è preparato”, racconta fra il pedante e il divertito. Ultimi in ordine cronologico, una giovane coppia, bellissimi ed eleganti entrambi, soprattutto lei, sensuale e raggiante, sorridente e felice per aver potuto passare due ore da lui. “Chef, è stato fantastico, grazie”, sussurra con occhi languidi. Il fidanzato la guarda innamorato perso e le promette di riportarla. Sono persone diverse fra di loro, appartengono a dei target diversi, però erano tutti qui per vivere una esperienza, perché è questo che vuole proporre Carlo Cracco: un’esperienza gastronomica di altissimo livello in un “posto unico, speciale, ricco e carico di storia, tradizione e carattere”, come lo racconterà in seguito. Certo, la parola esperienza è stata cannibalizzata e svuotata di ogni senso logico, tutti parlano di esperienze uniche, spesso a sproposito, però qui ha davvero un significato, anzi, il vero significato lo si trova qui, nel salotto milanese. E ora spazio alle sue riflessioni e considerazioni. Abbiamo scelto di non rubare la scena togliendo le domande: leggendo le risposte dello chef si intuiscono facilmente. Un primo bilancio? Per certi aspetti siamo avanti rispetto alle aspettative, onestamente pensavamo che l’inizio sarebbe stato più complicato. Per tutti noi vivere un’esperienza del genere è qualcosa di nuovo. Il lavoro procede bene, si entra nei dettagli, si migliora, c’era bisogno di un po’ di tempo per calibrare ogni particolare, man mano che andiamo avanti si definisce e si incastra tutto. La perfezione forse non esiste, ma lavoriamo per questo e spero che la gente se ne accorga. Le difficoltà? Riuscire a trasmettere la sensazione di unicità. L’idea è di creare un tempio della gastronomia, dove puoi degustare un menù di sette portate così come un piatto di spaghetti. Mancava un posto del genere in Galleria, un ristorante che rispettasse la cultura, le radici, il carattere e la tradizione del posto, la carica storica del luogo. Vedere com’è stato ricomposto il tutto ci ha riempiti di orgoglio. Se avete una sola ora a disposizione e volete mangiare un piatto al bistrot, vi suggerisco il riso al salto, da abbinare ad una Ribolla Gialla, Marina Danieli. Oppure il polpo con fagiolini neri, cialda di paprika, limoni e polvere di olive. Non da meno gli spaghetti con cozze, prezzemolo e zenzero. Sono piatti curati, leggeri, che ti lasciano spazio per un altro, così da poter tornare a lavorare senza sentirsi appesantiti. Per quello che riguarda la pizza, mi dispiace non poter fare più di cento al giorno. La ricetta? Mi sono ispirato a Simone Padoan, un grande amico che conosco da quasi vent’anni e
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che ha rivoluzionato e reinventato la pizza. Ho preso spunto da lui, cercando di replicarla a modo mio. Mi piace precisare che la prepariamo nelle nostre cucine e ha lo stesso valore degli altri piatti che proponiamo al bistrot e al ristorante. In più, noi la vendiamo non la rivendiamo, come fanno in tanti qui in Galleria. La nostra pizza la abbinerei ad una birra bionda, solo nel caso mi sedessi più a lungo opterei per un Franciacorta. Però come idea la pizza è un piatto veloce, per questo sono un sostenitore dell’accoppiata con la birra. Sono molto fiero della nostra cantina, 1.800 etichette: è una delle migliori in assoluto.
Non riesco a capire perché in Italia sia diventato di moda lo stile minimal, ormai lo incontri ad ogni passo. E’ stato importato dai paesi nordici, ma noi cosa abbiamo in comune con gli scandinavi?
Un personaggio che mi piacerebbe avere a cena? Vasco Rossi
Al secondo piano c’è lo spazio per gli eventi, questo lo si sa, mi preme sottolineare che non abbiamo un catering esterno, si prepara tutto qui: per ogni piano c’è una cucina, il che è fantastico. Non riesco a capire perché in Italia sia diventato di moda lo stile minimal, ormai lo incontri ad ogni passo. E’ stato importato dai paesi nordici, ma noi cosa abbiamo in comune con gli scandinavi, perché lo copiamo e lo scimmiottiamo, perché ci snaturiamo invece di puntare sul nostro stile, che piace al mondo intero? Siamo italiani, facciamo sognare con il nostro stile, ce lo invidiano in tutto il mondo, che senso ha imitare gli altri? La Galleria Vittorio Emanuele è italianissima, per questo ho scelto di aprire qui. Mi riconosco, e tanto, in tutto quello che vedo attorno a me, dai colori all’architettura, mi rappresenta e cerco di dare un contributo.
La cantina di Carlo Cracco Mi dispiace molto per la scomparsa di Giuseppe Rinaldi, era un personaggio unico, produceva un Barolo pazzesco. Aveva una sua visione, sono sicuro che le figlie sapranno mantenere il livello alto. Una bella scoperta è stato il Timorasso di Carlo Lorenzo Bottazzi, grandissimo vino. Lui è bravo e capace. Ormai si sta delineando la clientela che abbiamo al bistrot, idem per le persone che vengono da noi al ristorante. Siamo contenti perché possiamo offrire a tutti un abito cucito su misura, in base alle esigenze e anche alle possibilità. L’obbiettivo rimane quello di poter accontentare la clientela in un luogo unico per davvero. Alcuni scelgono il bistrot durante la settimana, all’ora di pranzo, per un piatto veloce, mentre poi nel fine settimana tornano per un menù completo al primo piano. In molti vengono solo per fare i selfie? Siamo contenti di poter offrire un’opportunità del genere, ci sta e ci fa piacere.
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Quello che mi dispiace è che esiste gente che viene qui esclusivamente per criticare e non per scoprire quello che stiamo facendo. Mi pare una mancanza di rispetto e anche di intelligenza. Apprezzo invece chi sta capendo che dietro tutto questo lavoro mostruoso c’è un progetto, che cerchiamo di dare il massimo cucinando in maniera unica. Un personaggio che mi piacerebbe avere a cena? Vasco Rossi. Se ci riprendiamo la seconda stella? Mi interessa relativamente, comunque so già che nel caso la Michelin decidesse di premiarci la gente punterà il dito in maniera accusatoria, qualcosa del tipo “gliel’hanno data perché è Cracco, era tutto scritto”. Se invece la guida manterrà gli stessi giudizi si dirà che da noi si mangia male e di conseguenza non valiamo molto.
La pizza della discordia Ora, siamo seri: preferite sedervi da Carlo e pagare 20 euro, oppure tirare fuori 14 per una pittoresca pizza al pollo nel locale di fronte?
Foto: Modestino Tozzi
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e uno avesse rispetto per sé stesso e per i suoi lettori cercherebbe in maniera spasmodica e feroce di sedurli e conquistarli, impressionarli ed emozionarli. Cercherebbe di farlo ad ogni santa parola, ogni santo giorno. Certo, a leggere e guardare la gran parte di loro, pare utopia: sono a dir poco disinteressati di quello che vuole il lettore. Il compitino e basta, tanto lo stipendio corre, paga pantalone. Non è una mossa furba perché se si pretende di essere autorevoli e stare sempre con il ditino puntato contro quello o quell’altro, come spesso accade, almeno uno deve giocarsi bene le carte. Essere perfetto, irreprensibile, un esempio e un modello. E invece hanno dimostrato esattamente il contrario, fotografando con il telefonino la pizza non pizza di Cracco, oppure peggio, prendendo lo scatto malriuscito del buon Emanuele Bonati e spargerlo ovunque, commentando sdegnati sul prezzo e sulla qualità del piatto. Tutto ciò si traduce come spregio totale verso il mestiere e i lettori. Niente di nuovo, lo sapevamo già: il giornalismo non è morto per colpa dei lettori, bensì per il grigiore degli articoli. Se hai un po’ di orgoglio e ami visceralmente il tuo lavoro allora prendi un fotografo di prim ordine e fai le foto in tal modo da poterla raccontare da una giusta prospettiva. Vuoi emozionarli ed informarli, non essere approssimativo come al mercato. E’ l’abc, oppure dovrebbe esserlo. Eccoci, dunque. Abbiamo “convocato” Modestino Tozzi, uno che oggi da due piste a tutti. Guardatela, ora vi pare una brutta pizza? Si è sempre andato fuori contesto per questo piatto, perché di piatto si tratta, per di più un piatto proposto da uno chef stellato, roba assai diversa da una pizza fatta da un pizzaiolo comune (seppur bravo) in una pizzeria qualsiasi. Guardatela ora: brilla. Splende. Intriga. Incuriosisce.
E’ da bollicina. Da cocktail chic. E’ uno snack inserito nel menù di un ristorante che, ovviamente, non ha il forno a legna. Morale? Chi viene a sdottorare su bordi e impasti, tecniche e il resto, dovrebbe tener conto: e invece nulla, pur sapendo di essere nel torto. Per le altre curiosità e informazioni potete leggere l’intervista di Cracco nelle pagine precedenti: lo spiega proprio lui, fornendo una marea di dettagli. Qui ci preme raccontarla tramite le immagini di Modestino. La pizza non pizza può piacervi oppure no, ma per lo meno d’ora in poi avrete un’idea precisa sul com’è fatta. E’ il piatto più raccontato e fotografato dell’anno, Cracco è lo chef più mediatizzato degli ultimi 7-8 anni, la Galleria è il posto più bello di Milano: di conseguenza diventa un obbligo morale e professionale scegliere il miglior fotografo possibile per rendere giustizia a Carlo e al mestiere che sta facendo, così come a voi che state ora leggendo l’articolo.
Non è una pizza vera e propria. Semplificando, è un po’ focaccia, un po’ grissino, un po’ anche pizza. E’ fragrante e croccantissima, più da sfizio che da fame. E’ da aperitivo, da veranda, da tramonto. Da stuzzicare più che da mangiare. Non si avvicina alla napoletana, alla hawaiiana, alla toscana e alle altre: è diversa. Completamente diversa, per cui niente paragoni. Non è verace, bensì intrigante e ficcante. Da morsicare.
Non è una pizza vera e propria. Semplificando, è un po’ focaccia, un po’ grissino, un po’ anche pizza. E’ fragrante e croccantissima, più da sfizio che da fame
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Noi siamo andati, abbiamo allestito un set fotografico e ci siamo dati da fare in maniera spasmodica. Non ci vantiamo, anzi, lo consideriamo elementare. Non sarebbe male se lo facessero anche i vari tg prezzolati, così come i quotidiani grigi, stanchi e polverosi. Visto che arde in loro la voglia di sbrodolare sentenze e di attaccare Cracco ad ogni dove, per lo meno che alzino il sederino dalla sedia calduccia e si portino un operatore oppure un fotografo in Galleria. Certo, nulla di male pubblicare una scatto realizzato con un telefonino: la zia e il nipote possono fotografare con l’iphone, invece uno che sbraita istericamente proclamando la sua etica, deontologia e superiorità in quanto giornalista professionista, no.
la sua, così come lui ha il diritto di stabilire il prezzo che reputa equo. Pure qui: prima di criticare e urlare allo scandalo (“E’ un furto, una vergogna, non darei mai questi soldi a Cracco, il mio cugino ne fa una buonissima a 4 euro” e via di questo passo), consigliamo un giro in Galleria. Trovi pizze surgelate a 22 euro e la pizza al pollo a 14. Ora, siamo seri: preferite sedervi da Carlo e pagare 20 euro, oppure tirare fuori 14 per una pittoresca pizza al pollo nel locale di fronte?
Per non parlare del fatto che uno chef come Cracco e una trovata come la sua pizza meritano rispetto. Tanto. Concludiamo con il prezzo: prima 16, ora 20 euro. Tanti, pochi, tantissimi, ognuno ha il diritto sacrosanto di dire
Foto: Modestino Tozzi
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Foto: Brambilla Serrani
E’ tutto una soddisfazione compulsiva, un fuoco d’artifici, sei preda di una inesprimibile benessere, perfino il sangue piÚ freddo si scalderebbe a contatto con le sue pietanze No 12
Mago Michelangelo Verso le due stelle Mammoliti fa parte di quella ristretta, ristrettissima categoria di chef che vivono per fare della ristorazione uno spettacolo, cerca di reinventare un mondo e ci riesce
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on avevamo dubbi prima, ne abbiamo ancor meno ora, dopo la nostra ultima visita a La Madernassa. Il ragazzo sta bruciando le tappe in una maniera devastante: oggi si merita già due stelle Michelin, pur avendone una soltanto. E’ solo questione di tempo, il riconoscimento della guida: i suoi menù sono sempre più sbalorditivi, l’intensità aumenta piatto dopo piatto, non ci sono pause, debolezze, intermedi sottotono. E’ un continuo bombardamento di gusti, idee, combinazioni, un capolavoro dietro l’altro. Non ricordiamo tutti gli aggettivi e i complimenti che abbiamo usato nel passato, scrivendo di lui: ci scusiamo se ci ripetiamo, perché sono tre anni che ne parliamo entusiasti. Fatto sta che maneggia le materie prime con una sicurezza chirurgica, mai una esitazione. Ha raggiunto la piena maturità e consapevolezza, cresce menù dopo menù, le tecniche sopraffine vanno di pari passo con la creatività. Due numeri addietro lo abbiamo messo in copertina con il titolo “Fucking fabulous”, riprendendo il nome di un profumo lanciato da Tom Ford. Ora siamo ad un livello addirittura superiore, il che ci crea difficoltà nel trovare uno nuovo. Potrebbe andare bene The Master, oppure The Wizard, il mago. Certo, il nome Michelangelo sa di predestinato: ecco, Mago Michelangelo. Calza perfettamente, perché Mammoliti fa parte di quella ristretta, ristrettissima categoria di chef che vivono per fare della ristorazione uno spettacolo, cerca di reinventare un mondo e ci riesce. Vai da lui, ti siedi e ti lasci invadere dal languore, assaggi e non ricordi nemmeno di quante cose te ne innamori contemporaneamente, le scosse di piacere sono continue, l’effetto wow ininterrotto. Acquisita l’ortodossia francese, Michelangelo ora sta mettendo del suo, e tanto. Cotture da scienziato, piatti scenici e di sostanza allo stesso tempo, tante noti vegetali, perché l’orto è il suo vanto e ci attinge a ripetizione: d’altronde, se hai coltivato 32 tipi di pomodori e 27 di peperoni sarebbe un delitto non approfittarne. Le amuse bouche e il pane sono studiati per diventare quasi delle portate autonome, il che la dice lunga sull’entusiasmo e la ricchezza d’animo dello chef.
E’ tutto una soddisfazione compulsiva, un fuoco d’artifici, sei preda di una inesprimibile benessere, perfino il sangue più freddo si scalderebbe a contatto con le sue pietanze. Un’esplosione nucleare, capace di incendiare la mascella di felicità. Sono tutti piatti che hanno ritmo, vibranti, con dei sapori pieni, persistenti, dove ogni morso lascia senza fiato. Amuse bouche come se piovesse, una più deliziosa dell’altro, poi sette tipi di pane, mortali per bontà: eri già in paradiso, perché se l’inizio è di tale portata uno già immagina un seguito scoppiettante: lo è. Eccolo qui, il seguito: scampo con naja (un brodo di aglio, praticamente) e olio di zagara (il fiore dell’agrumo), peperone di Capriglio, la capasanta glassata in crema di zucca e tartufo nero, poi arriva la scaloppa di foie gras che ti cambia la serata: leggera come se fosse panna montata, delicata come solo i prodotti della piccola azienda Mitlaut riescono a essere. Mortale, davvero. Il risotto con uva fragola e colatura di alici ti fa scoprire dei piaceri sconosciuti, non riesci a controllare nulla, i gusti vanno in mille direzioni, confondendoti e inondandoti la testa. Le papille impazzano, il palato ringrazia estasiato. Poi arrivò l’altro colpo da maestro, lo spaghetto da mille e una notte, cotto nell’estrazione di brodo di pollo, per la cronaca un pollo da quattro chili che, una volta finito nell’acqua per la pasta conclude il suo compito, non venendo usato poi per altro. Abbiamo concluso con la rubia gallega, solitamente una carne assai dura, era così tenera che si disfaceva prima di masticarla: delicata ma succulenta, un trionfo. Complicato il completamento del piatto con il carpione, buono invece il jus all’alloro. E’ tutto peccaminoso e afrodisiaco, aggressivo. La coreografia dei piatti non è da meno, il dolce vale doppio perché, ahinoi, quante volte non abbiamo mangiato divinamente per poi restare delusi dal dessert? Ecco la mille foglie, anzi, la due mila foglie come dice lui: roba da far impallidire i campioni del mondo della haute pattiserie, Tutto in evoluzione, niente rewind, un viaggio continuo. Verso la seconda stella. Meritatissima.
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Il piatto piĂš difficile da fotografare? Le lasagne. Mi piacciono invece le materie prime povere, per esempio le mele No 14
Ioris Premoli Dark food
L
a prima volta che abbiamo visto un suo scatto il pensiero è subito volato a Sergio Coimbra, forse il più noto e richiesto fotografo di food. Il brasiliano è riuscito a creare uno stile tutto suo, facilmente riconoscibile, basato su colori intensi, intensissimi, quasi irreali. Ora, guardate l’immagine di Ioris, quella dell’ostrica: trasmette una sensazione strana, un misto di incredulità, ammirazione e inquietudine. Quando si arriva a ciò vuol dire che il suo messaggio è forte: quante volte vediamo delle fotografie e passiamo oltre senza aver avuto la minima emozione, il minimo sussulto? Fotografie ben eseguite, disciplinate, corrette, ma senza anima. Voto sei più, come si diceva una volta. Con Ioris non si corre il rischio, anzi, la fatica e la frustrazione stanno nella dolorosa scelta di escludere alcuni scatti, per evidenti problemi di spazio. Tornando a Sergio, c’è qualche punto in comune con Premoli: entrambi hanno avuto come ispirazione la pittura, i quadri di qualcuno. Ioris si ispira a Caravaggio, Coimbra allo still life dei secoli passati, quei dipinti comunamente nominati “natura morta”. “Già a quei tempi si dava una dimensione artistica ai piatti”, sostiene, a ragione, il brasiliano. Altro punto in comune dei due, il fatto che scattano rigorosamente all’interno, nello studio, perché hai tutto a disposizione e a portata di mano, in più conosci benissimo le luci, le distanze, puoi fotografare da ogni angolo, mentre nei ristoranti sei condizionati dagli spazi ristretti. Coimbra ha allestito una cucina che spesso viene invidiata dagli chef stessi. Per la cronaca, si avvale di uno staff fisso che conta dieci persone, mentre quando si scatta si arriva anche a 25. “Homemade pictures”, ama chiamarle. Fotografia artigianale, fatta in casa. Non economica, però ne vale la pena. Ioris Premoli, dunque. Un inizio pieno di contrasti, perché i genitori sono panettieri, mentre lui ha studiato le Belle Arti: un mix diabolico, un sali scendi. Da una parte i piedi per terra, dall’altra un mondo bohemien, tanti sogni e poca dimestichezza con la vita reale. Lui è riuscito a prendere spunto da entrambe le parti, creando uno stile tutto suo, che in principio doveva chiamarsi “dark food”. “Peccato che una mia ex amica blogger mi ha rubato l’idea e così ho dovuto inventarmene un altro, chiamiamolo “into the dark food”. Poi continua:“Mi ispiro alle tecniche di Caravaggio, anni di Belle Arti a qualcosa mi sono serviti. Quando frequentavo l’Accademia, il food era malvisto, ignorato e visto con aria sprezzante. A me invece piaceva l’idea, sono stato fortunato: una delle segretarie mi passava le
riviste americane. In quanto autodidatta, mi sono messo a studiare e sperimentare. A quei tempi mi occupavo di moda, ma dal 2012 abbiamo deciso, io e la mia collega con la quale dividevo lo studio, di puntare solo sul cibo”. “Agli inizi frequentavo molto il negozio Kitchen, in Via De Amicis, sono loro ad avermi proposto i primi lavori. Poi ho cominciato a collaborare con Grana Padano e con Il Sole 24 Ore, il resto è logica conseguenza. Di base adesso lavoro quasi esclusivamente con e per le aziende, il che mi gratifica molto. Sanno apprezzare il lavoro, lo sforzo, il talento, la professionalità: mai avuto un problema con i pagamenti, mentre se ho ben capito chi ha a che fare con chef e ristoranti si trova spesso in difficoltà. Le aziende hanno un gran senso del dovere, sono molto pratiche, mentre il mondo della moda è più snob e problematico”. “Il mio idolo è stato Renato Marcialis, anche se oggi può sembrare un po’ retrò. Ho guardato, analizzato e imparato molto da lui. Mi piace esporre le mie foto, organizzare mostre, oggi espongo a San Remo e nella sala pranzo dell’Hilton”, racconta. “Il piatto più difficile da fotografare? Le lasagne. Mi piacciono invece le materie prime povere, prendiamo per esempio le mele. Adoro ricreare la tavola italiana della domenica, soprattutto quei piatti dove riesci a trasmettere la golosità, il gusto”. “Un mio motto nella vita? La fotografia è come la donna: è falsa”.
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Adoro ricreare la tavola italiana della domenica, soprattutto quei piatti dove riesci a trasmettere la golosità, il gusto
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Il mio idolo è stato Renato Marcialis, anche se oggi può sembrare un po' retrò. Ho guardato, analizzato e imparato molto da lui
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Mimma Posca
Pommery, toujours
Cuvèe Louise e Apanage sono top di gamma e parliamo di paragoni assoluti. Sono gli assi che ha calato la maison, sono le bollicine per l’alta ristorazione, sono il calice che uno sceglie d’istinto quando si tratta di una gratificazione personale, quando vuoi regalarti delle scosse di piacere. No 18
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oi, la generazione che ha superato gli ‘Anta’, siamo meravigliosamente cresciuti con i supervalori del capitalismo e dei capitalisti ambiziosi. Abbiamo inseguito, studiato e analizzato visceralmente le vite dei vincenti nati, leggendo i loro libri e cercando di capire e carpire come agiscono. Uno dei nostri modelli, la stella polare, il guru, è stato ed è tuttora Donald Trump (lasciamo da parte la politica, qui parliamo di libri e di imprenditori geniali): “Pensa in grande e manda tutti al diavolo” è un’opera che si dovrebbe studiare nelle università, vale più di qualsiasi corso teorico, perché The Donald impartisce lezioni pratiche, drastiche, adrenaliniche e piene di verità assolute, niente sfumature e orpelli didattici. Alla pagina 11, lo sappiamo a memoria, l’attuale uomo più potente del pianeta sostiene che “Per avere successo dovete distinguervi dal 98% dell’umanità. Non è facile spiegarlo in due parole, ma ho notato che tutti questi personaggi di successo hanno dei tratti che li distinguono dal branco: gli atteggiamenti, le azioni, la tenacia e la passione, e tutta una serie di altre qualità che distinguono i vincenti dai perdenti. Tutti i grandi dello sport, della finanza, del business, dell’arte e della politica possiedono qualcosa di speciale”. Per non dilungarci troppo, anche se ci piacerebbe, arriviamo al dunque del suo discorso: “È un mondo difficile, in cui si prendono delle gran porte in faccia. Perciò, se volete vincere, dovete essere tosti e determinati. Dovete fare i conti con una pressione fortissima. Dovete pensare in grande. Cercheranno di fregarvi e di farvi del male. Nessuno vi darà una mano. Siete completamente soli. Dovete riuscire a piegarvi senza spezzarvi”. Ecco, tutte le volte che rileggiamo queste righe il pensiero va istintivamente a Mimma Posca, da dieci anni amministratore delegato di Pommery, la seconda maison di champagne al mondo per tradizione e numero di bottiglie vendute. Quando iniziò la sua avventura, Pommery quasi non esisteva in Italia. Esagerando, ma non troppo, era come se fossimo tornati indietro nel tempo, al 1858, quando Alexandre, un commerciante di lana, si mise a vendere vino assieme alla moglie Louise. Oggi sta lottando alla pari con colossi forti di un passato scintillante e anche di un presente formidabile. È una guerra di lusso, patinata, ma sempre di guerra di tratta. È dura, durissima, vale per lei come per tutti gli altri amministratori delegati e leader aziendali. La loro è una storia di solitudine, magari dorata, però spesso piena di momenti bui. In molti vedono un aspetto romantico legato ai leader soli al commando, ma i numeri hanno poco a che fare con il romanticismo, le porte prese in faccia (per tornare al libro di Donald) ancor meno. Ci vuole la tempra per imbarcarsi in avventure del genere e difatti eccoci qui, eccola qui. Sguardo fiero, testa alta, atteggiamento guerriero, modi decisi e felpati allo stesso momento, ma soprattutto idee chiare, chiarissime: “Lo champagne non è un vino né un prodotto commerciale. È un mezzo di relazioni, un modo potente per avvicinarsi a qualcuno: non è un caso che Madame de Pompadour, nel Settecento, lo abbia introdotto nelle corti per sedurre re e cortigiani. Ha un forte messaggio vocativo e un grande impatto sui nostri rapporti quotidiani in ogni ambito. La mia missione è trasferire questo messaggio ai nostri partner e ai clienti finali”, raccontava qualche mese addietro a Caterina Zanzi di Pambianco.
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Lo champagne non è un vino né un prodotto commerciale. È un mezzo di relazioni, un modo potente per avvicinarsi a qualcuno: non è un caso che Madame de Pompadour, nel Settecento, lo abbia introdotto nelle corti per sedurre re e cortigiani
Voci (confermate) dalla Francia parlano di un rapporto fortissimo fra la proprietà e la gestione, c’è rispetto e autonomia nelle scelte. Nonostante gli apprezzamenti continui (di recente è stata nominata anche direttore della divisione Prestige per quello che riguarda la Francia), Mimma sa che è solo una dipendente della famiglia e non passa giornata senza ricordarselo. “Hanno messo la loro azienda nelle mie mani”, dice, “mi sento responsabile e grata”. La sensazione è che, come dicono gli anglosassoni, the best is yet to come, il meglio sta per arrivare: per usare anche una frase cara ai francesi, nei primi anni ha rimesso la chiesa al centro del villaggio, che tradotto sarebbe il ritorno prepotente di Pommery sulla scena italiana. Sono stati dieci lunghi anni di posizionamento e riposizionamento, ora si inizia a pensare in grande. Perché è facile dire che lo champagne fa sognare e via via tutto l’elenco delle frasi languide e sensuali, però se non hai i numeri e il prodotto, come fai a sederti al tavolo dei grandi? Eccoci: Cuvèe Louise e Apanage sono top di gamma e parliamo di paragoni assoluti. Sono gli assi che ha calato la maison, sono le bollicine per l’alta ristorazione, sono il calice che uno sceglie d’istinto quando si tratta di una gratificazione personale, quando vuoi regalarti delle scosse di piacere. Tutto quello in cui crediamo l’abbiamo trovato nelle bollicine di Cuvèe Louise: la ricerca dell’emozione infinita, la qualità totale, il piacere di esibire la bottiglia e di offrire una coppa agli amici intenditori. E’ quante volte lo avete letto nelle nostre pagine? -aspirazionale. Per primeggiare ci voleva un prodotto del genere, perché sarà anche vero che lo champagne sia uno stato d’animo, un eccitante infallibile che sprigioni seduzione: ma non basta, ci vuole anche la qualità, la sostanza. Cuvèe Louise è il tocco magico che apre le porte del paradiso: Mimma Posca lo sa, non a caso sta innescando la quinta, sponsorizzando la guida Michelin dedicata esclusivamente agli stellati (che poi è la guida che vale di più, visto che all’interno trovi solo i ristoranti premiati). Uscirà il prossimo febbraio, è la mossa definitiva per il posizionamento altissimo, è la bandierina da piazzare, la consacrazione definitiva, almeno nelle intenzioni. Il messaggio è “Noi siamo qui per voi, apparteniamo allo stesso mondo, siamo i migliori”. Si è partiti pian piano, prima le guide Le Soste e Jeunes Restaurateurs d’Europe, ora la
Per primeggiare ci voleva un prodotto come Cuvèe Louise, perché sarà anche vero che lo champagne sia uno stato d’animo, un eccitante infallibile che sprigioni seduzione: ma non basta, ci vuole anche la qualità, la sostanza No 20
Luca Gardini racconta Cuvèe Louise
N guida suprema: giusto così, i tempi sono maturi, sia come prodotto sia come organizzazione societaria. Ora tocca a noi, giornalisti sognatori, portare avanti il messaggio, far sì che lo champagne di Vranken Pommery possa diventare il preferito, il prescelto quando si cercano le vette altissime della felicità e le vertigini di piacere. Perché manca solo questo tassello, l’ultimo e il più difficile: diventare la bollicina che cerchiamo istintivamente quando vogliamo ascoltare il crepitare del fuoco nel camino, oppure quando ammiriamo malinconici la nebbia che avvolge le colline, quando siamo in un ristorante poggiato sugli scogli. Lo dobbiamo pensare e immaginare come lo champagne ideale per una cena in veranda, oppure per un aperitivo sul terrazzo, per quando assaggiamo dei piatti che richiedono lumi di candele e vogliamo divorare il mondo. È la cartolina dalle vacanze, la polaroid delle giornate piene di sole. Ecco, è da qui che parte la seconda fase, il secondo decennio del mondo Vranken Pommery in Italia. È uno champagne tutto da scoprire, seppur parliamo di un prodotto nato qualche anno addietro: ora si propone con prepotenza e con quella freschezza che altri marchi, pur straordinari, non possono più vantare. Nel frattempo sono diventati status, togliendo qualche emozione. Cuvèe Louise è ancora puro e assai vergine. Però straordinario.
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on potevamo concludere la nostra storia di copertina senza chiedere un parere al principe dei sommelier italiani, campione del mondo nel 2010, ovvero Luca Gardini. La sua sensibilità, la sua capacità di spiazzare è infinita. Sentitelo: “Cuvée Louise Pommery è un vino straordinario. Veste luminosa e brillante. Al naso, teso e ampio, sentori di cedro e sfumature saline. Finale balsamico e sensazione di nocciolina. In bocca bollicina compatta e densa. Ritorni di pesca gialla e liquerizia donano freschezza. Chiusura minerale. Perfetto in abbinamento con piatti complessi ed elaborati come paté de foie gras, coniglio arrosto o in umido, piccione in diverse cotture, ma anche pasta ripiena con condimenti di terra”.
Tartufi & Friends Baciare Emily
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Il posto é ideale per una pausa totale dal lavoro, stacchi completamente e vieni trasportato in un mondo straordinario, eccitante e potente, afrodisiaco e inebriante come quello del tartufo
ella seconda stagione di Billions, serie tv americana a dir poco ipnotica e coinvolgente, c’è una scena che ci è rimasta impressa, non a caso la raccontiamo spesso. Una ragazza dell’alta società, invitata a cena, ordina un tagliolino con tartufo in un ristorante dell’upper class newyorkese. Il cameriere inizia ad affettare meticolosamente con la “mandolina”, per la gioia della donna e la disperazione del fidanzato, impaurito dalla quantità di tubero sul piatto dell’amata. Per restare in Italia e al cinema, i più avanti con gli anni ricorderanno il film “L’uomo dei cinque palloni”, con Marcello Mastroiani che ad ogni fettina di tartufo conta a voce alta quanto sta per spendere. Accade nei film e spesso anche nella vita di tutti i giorni, dove in tanti si tengono alla larga dal tartufo per il timore di vedersi arrivare un conto salatissimo. Nel dubbio si preferisce di non rischiare, è normale, così com’è normale andare e tornare con piacere in un posto dove ti senti a riparo da spiacevoli sorprese e dove ti senti a tuo agio. Tartufi and Friends è l’esempio eclatante di come possono coesistere tartufi, prezzi più che giusti e quell’atmosfera che fa tanto old style, con un pizzico di elegante modernità sparsa qua e là. A ben guardare è un posto che mette d’accordo tutte le fasce d’età e, perché no, quelle sociali: non si deve essere ricchi per sederti e gustarti un piatto prelibato. Difatti quello che impressiona è il target trasversale che varca la porta del ristorante: turisti giovani, coppie milanesi in pensione, imprenditori, professionisti e gruppi di amici. I prezzi sono più che abbordabili, per esempio i grandi classici non superano 30 euro: vale per il risotto al tartufo come per il tagliolino e lo spaghetto cacio pepe e, ovviamente, tartufo fresco. Sono i piatti più richiesti soprattutto all’ora di pranzo, quando, si sa, è complicato poter ordinare qualcosa in più, per ovvi ragioni di tempo e opportunità lavorative. Il posto è ideale per una pausa totale dal lavoro, stacchi completamente e vieni trasportato in un mondo straordinario, eccitante e potente, afrodisiaco e inebriante come quello del tartufo. E’ un luogo dove far pace con te stesso, un’oasi dove riconciliarti con il mondo. Ti basta un’ora per un risotto e un calice di Barolo, magari un dolce al cioccolato e un caffè eccezionale, perché sì, qui ci sono le cialde del caffè Kopi Luwak. E’ pieno di eccellenze, fin qui si era capito, ma senza uno chef di prim ordire forse la magia verrebbe a mancare. Perché il contributo di Luca Magri è notevole, lo si capisce con decisione fin dall’arrivo dei grissini appena sfornati. Chi altro e dove vi serve dei grissini caldi, croccanti e burrosi? Nessuno da nessuna parte, o quasi. Si inizia con il profumo del pane (focaccine e mini panini a volontà), si continua con la scaloppina di foie gras, carnale e saporita, eccitante e potente: vivi delle sensazioni straordinarie, è come baciare le labbra arroventate ed ebbre di piacere di Emily Ratajkovski, è come fare all’amore con lei. Nirvana, paradiso, settimo cielo: scegliete voi. Di sicuro è indimenticabile. Non da meno la guancia di vitello, oppure i raviolini, ovviamente con una generosa pioggia di scaglie di tartufo attorno. Regna l’eccitazione e l’esaltazione, è tutto perfetto, è come uno spot pubblicitario. D’altronde il ristorante di Corso Venezia serve anche come immagine per il gruppo di Alberto Sermoneta: è il classico flagship, il concept store da replicare in giro per il mondo, perché l’imprenditore romano sa il fatto suo, ha fiuto e ha capito da tempo che un ristorante del genere possa e debba soddisfare i sogni gastronomici un po’ ovunque, da Londra a Dubai. Funziona, eccome.
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L’Antica Osteria
La Rampina Non si trova mai un posto, se non prenoti rischi di non poter assaggiare il tajarin fatto in casa, oppure il fegato grasso che arriva da Strasburgo
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i sono ristoranti che vanno al di là delle mode, delle tendenze e delle guide. Vanno oltre, molto oltre: alcuni per la vista mozzafiato, altri per l’atmosfera che si respira, altri ancora per la storia. E poi c’è l’Antica Osteria Rampina, due passi fuori Milano, tornato alle cronache un anno addietro perché ci andava spesso Gualtiero Marchesi nel suo ultimo periodo di vita. “Veniva la domenica, a volte arrivava verso le 17, voleva dare una mano, amava accogliere i clienti”, racconta Lino Gagliardi, lo chef storico e il patron del ristorante. “Mi dava anche dei suggerimenti sul menù, mi spingeva a osare, per esempio mi consigliava di aggiungere i funghi trifolati accanto alle lumache, che a lui piacevano tanto. A fine cena ci chiedeva se fosse possibile fermarsi per la notte, nelle stanze che abbiamo sopra. Per la cronaca, l’ultimo compleanno, l’85imo, Gualtiero lo ha passato qui, assieme alla famiglia”. Lino Gagliardi, dicevamo. E’ qui da mezzo secolo, a quei tempi c’era un’osteria e basta; pian piano ha acquistato l’intero casolare, creando un vero e proprio impero, fra sale per banchetti, matrimoni e via discorrendo. In più, abita di sopra, accanto ai figli: tre dei cinque lavorano con lui in cucina, il clan Gagliardi è tutto casa e lavoro. Luca fa pure lui lo chef, proponendo le diavolerie più spinte, mentre Lino continua a preparare sfiziosità regionali e classiche per la clientela che mise qui piede per la prima volta negli anni settanta. Oltre a loro ci sono Giovanni, 16 anni e già in cucina: Lorenzo, 23, è invece il responsabile di sala. E’ questa la meraviglia del posto, appena varchi la porta vedi assieme tre generazioni della stessa famiglia e le vedi felici di trovarsi e ritrovarsi qui, parlottando sorridenti come ormai si fa di rado. Si intuisce lontano un miglio che sono di casa e che soprattutto si sentono a loro agio. “Molti si sono sposati a La Rampina, ora portano i figli”, racconta Lino, con gli occhi lucidi. Li conosce tutti, a naso i clienti fissi superano i tre quarti del totale. Non si trova mai un posto, se non prenoti rischi di non poter assaggiare il tajarin fatto in casa, oppure il fegato grasso che
arriva da Strasburgo, dove Luca ha lavorato per lunghi anni, da Troisgros. Davvero sublime il gelato al parmigiano, mentre chi è ossessionato da Instagram non può perdersi il risotto ai funghi e mirtilli. L’elenco è lungo, un buon mix fra piatti tradizionali, apprezzati in primis dalla clientela agè, e il menù degustazione ideato dal figlio. Così si spiega l’alchimia e le buone vibrazioni che si percepiscono subito: è così da cinquant’anni, grazie ai figli lo sarà anche per il prossimo mezzo secolo. Se il ristorante corre come una locomotiva, la parte eventi non è da meno: certo, il cortile aiuta, la sala con il camino anche, il grande salone pure. Però organizzando qui un matrimonio hai la sensazione di fare parte di una famiglia e non è solo un modo di dire, inflazionato e sbiadito. C’è profumo di casa, ovunque.
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Gianluca Renzi Attimi milanesi
Da Heinz ho imparato tutto, dalla tecnica alla creatività, fino alla precisione spinta fino all’estremo
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l ragazzo è tosto. Tostissimo. “Sono arrivato da Beck grazie al suo sous chef, Emiliano Pascucci. A quei tempi lavoravo in un ristorante in Via Salaria: lo ricordo come oggi, stavo per andare in vacanza a Palma di Maiorca, era il 25 di agosto. Quando Heinz mi ha proposto di iniziare subito, ho rinunciato al viaggio. Sono partito come demi chef, poi sono diventato capo partita e via via fino a volare da solo, prima a Fighine e ora a Milano”. Sono da poco passate le 23,30, il via vai nel ristorante situato al primo piano dello shopping center City Life si è un po’ calmato. Dopo un centinaio di coperti Gianluca Renzi può tirare il fiato, sedersi e raccontarsi. “Mi sono avvicinato al mondo della cucina fin da piccolo, mio padre era un appassionato, andavamo insieme a scegliere la frutta a Campo de Fiori. Da Heinz ho imparato tutto, dalla tecnica alla creatività, fino alla precisione spinta fino all’estremo. Mi ha svezzato e cresciuto, io sono stato bravo a saper comprendere in fretta. “A Fighine sono rimasto per quattro anni: quando sono arrivato il ristorante aveva già conquistato una stella, io però l’ho mantenuta fino alla mia partenza per Milano. Lì all’inizio non mi sono trovato bene con Antonio Strammiello, può scriverlo tranquillamente. Tempo due mesi e avevo già preso le redini della cucina, perché io sono così, feroce e determinato. Quando sono venuto a Milano il posto vacante lo ha preso lui, ma ormai a Fighine non c’è più la consulenza di Heinz, per cui è una storia tutta nuova”. Inutile guardare al passato, concentriamoci sul presente, ovvero sul bistrot Attimi, dove Gianluca si è presentato con lo spaghetto ai pomodorini datterini Abbascià e parmigiano di vacche grasse: il piatto è ormai un piatto cult (leggere di più alla pagina dedicata proprio al piatto classico della cucina italiana), idem la pappardella fresca di saraceno con agnello al Barolo e fonduta di parmigiano. Non è un caso che il bistrot lavori con i motori al massimo: nel weekend è impossibile trovare un tavolo, mentre all’ora di pranzo, durante la settimana, la storia si ripete ogni giorno. La sala risponde bene (ottimo Giorgio Fassio), la brigata anche, dove accanto a Gianluca c’è il fido Antonio Romano e anche la fidanzata Kim Novak (è la prima volta che lavorano insieme). Sarebbe un delitto avere a portata di mano un posto del genere senza “sfruttarlo” al massimo: difatti i
vari dirigenti e manager che lavorano nei grattacieli accanto fanno tappa fissa, così come i residenti del quartiere. E’ tutto molto buono, a cominciare dal pane, ed è anche molto economico, se consideriamo i 13 euro per spaghetto al pomodoro, oppure i 12 che si spendono per una coppa di champagne (troneggia il Pommery). Ora ha aperto anche il ristorante gourmet, esattamente dietro al bistrot, stesso ingresso e stessa cucina, quella di Gianluca: qui ha puntato su dei piatti più elaborati: vi suggeriamo due su tutti, il foie gras con fieno, camomilla e pere e poi l’agnello con cremoso al caprino, salsa alla verbena, cime di rapa e lime. Inutile negarlo, Renzi vuole la stella pure qui, seppur consapevole che il format di Attimi sia leggermente penalizzante: è più essenziale, immediato, freddo e austero rispetto ad un vero e proprio ristorante, dove puoi personalizzare l’ambiente e il resto. In un centro commerciale, seppur di nicchia, ci sono tempi, esigenze e dinamiche diverse, il che potrebbe leggermente condizionare il giudizio degli ispettori. Dall’altra parte non si torna indietro, il mondo cambia, non ci saranno più drappeggi e sedie d’epoca, oggi gli spazi sono questi, per cui pian piano ci si adatta alle nuove realtà. Va detto che la Michelin ha sempre premiato il piatto e non l’arredo: e se guarda solo al piatto, le speranze ci sono. Anzi, le certezze.
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Gianluca Renzi e Heinz Beck
Tovaglie, fra passato e presente Le signore vecchio stile non tollerano la mancanza: il contatto del braccio con il tavolo produce loro una sensazione terribile, leggi il disprezzo sul volto
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e tovaglie. I giovani le odiano, i clienti danarosi, quelli oltre la cinquantina, ti guardano sprezzanti se non le metti. Tanti ristoratori, perfino quelli di prim ordine, hanno cercato di farne a meno, più per un discorso economico (in un anno si spendono cifre altissime per lavarle) che estetico. E’ andata male: le signore vecchio stile non hanno apprezzato: il contatto del braccio con il tavolo produce loro una sensazione terribile, leggi il disprezzo sul volto. Dover toccare direttamente il legno, oppure il marmo, lo trovano un atto quasi ostile e selvaggio. Chi ha cercato di svecchiare l’ambiente stellato è dovuto tornare sui suoi passi: solitamente a Milano le persone con soldi provengono da famiglie appartenenti ad un certo ceto sociale (quasi sempre il merito va alle generazioni precedenti). Tradotto, sono cresciuti con la signora che lava, stira e apparecchia, cominciando dalle tovaglie di fiandra o di lino.
Il discorso potrebbe allargarsi a dismisura, le tovaglie sono un semplice aspetto, ma non divaghiamo. La conclusione è che se vuoi le clienti danarose faresti bene ad accontentarle pienamente. Alcuni ristoratori hanno impostato il locale per accontentare proprio la categoria di persone di cui parliamo. Le sedie, i tavoli, l’ambiente: é tutto pesante, pesantissimo, però si tratta di una scelta chiara, mirata, quasi ruffiana. Possiamo dire ancor di più: la presenza della tovaglia include alcune persone ed esclude altre, le più giovani e spensierate, libere da retaggi del passato. E’ una scelta rispettabile, seppur non condivisibile al cento per cento: il mondo si evolve, siamo nel 2018 non nel 1958: certo si deve mantenere uno stile, l’eleganza e la classe, però non dobbiamo guardare indietro, ancor meno impuntarci su regole di una volta. Personalmente ci sentiamo bene ovunque. Ovvio che ci fa piacere un tavolo rotondo con una tovaglia ben stirata: nella nostra personale classifica il tavolo di Morelli rasenta la perfezione. Ma da Berton, dove le tovaglie mancano, ci sentiamo altrettanto bene e in più abbiamo una sensazione di leggerezza, è come se avessimo venti anni di meno. Non soffriamo la mancanza, però sappiamo apprezzare la presenza. Conclusione, nel caso vi sentiate bene in qualsiasi tipo di ristorante dipende molto dall’accompagnatore: a noi può andare da dio in entrambi i casi, per le donne non è così. Per le signore di una volta ancor meno.
Il pane
del Notaio
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embra banale ma non lo è. Il pane è il miglior biglietto da visita per uno chef e per un ristorante. E’ anche il più immediato. Se ti portano del pane appena sfornato, caldo e croccante, allora puoi essere certo che il seguito sarà all’altezza. Perché vuol dire che ci tengono a te, che vogliono farti star bene dal primo all’ultimo momento che passi da loro. Certo, spesso si tratta di uno sforzo, ma proprio per questo viene apprezzato dal cliente, perché si sente al centro dell’attenzione,
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percepisce l’amore nei suoi confronti e ti ripaga tornando. Il discorso vale anche per il pane moscio, molliccio e senza personalità: uno lo assaggia e rimane deluso, capendo che ci sarà poco da divertirsi e da miagolare per il piacere. Certo, non è proprio automatico, ma se avete fatto caso è quasi sempre così. Ok, c’è una parte della clientela che si ingozza e non apprezza, ma questa gente non ci interessa, non viviamo per loro. Guardate il cestino proposto da Edoardo Fumagalli, chef fantastico che ora cucina a La Locanda del Notaio: sballo puro. Focacce calde appena sfornate, pane gustoso e croccante. Il fuoriclasse lo si vede dal mattino. E lui lo è. Andateci da lui, il posto è stupendo, sopra il lago di Como: regna il silenzio totale e si mangia a dir poco divinamente.
Il primo ad averla sdoganata, proponendola in un ristorante stellato è stato Felix Lo Basso: la sua è davvero unica e indimenticabile, forse perché segue le istruzioni di sua madre, con pomodorini al forno e ricotta Felice lo Basso
Sua Maestà La pasta al pomodoro
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ta tornando di moda, un po’ a sorpresa, anche se l’andazzo è quello, fare un passo indietro e concentrarsi sulla sostanza e non sulla forma, riscoprire i profumi di una volta. Però stavolta é diverso, perché non viene più pensata, proposta e realizzata come piatto veloce, povero ed elementare, bensì come prelibatezza assoluta, come una chicca, come un momento da vivere intensamente, quasi come il momento più alto della serata. Prima per la pasta al pomodoro si utilizzavano gli scarti e nessuno sapeva che tipo di pomodori trovavi nel piatto, così come nessuno se lo chiedeva: si presumeva fossero quelli un po’ andati e maturi, che ai tempi si chiamavano “da sugo”. Oggi invece c’è la gara a chi scopre piccole aziende di nicchia, mentre la salsa al pomodoro sta diventando una delizia di prim ordine, ti viene presentata come prelibatezza e infatti ora lo è. La pasta al pomodoro ha trovato una sua dignità, è stata elevata a piatto sfizioso. Per quanto possa sembrare banale, rimane uno dei piatti più difficile da
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eseguire e preparare; purtroppo, in tanti giovani chef si considerano sminuiti se viene loro chiesto di lasciare da parte tecnicismi e sifoni per concentrarsi sulle basi, vedi appunto la pasta al pomodoro. Ci è capitato spesso di vedere ammosciare l’entusiasmo di un giovane cuoco quando gli si chiedeva se sa fare per bene uno spaghetto: si aspettava tappeti rossi e richieste per un menù creativo al massimo, dimenticandosi di non essere Bottura. E’ un ragionamento folle, intanto perché, ripetiamo, farne una con controfiocchi è impresa ardua e poi non è un disonore saper preparare dei piatti tradizionali. Per non dire che riuscire a far inebriare il cliente con i suoi profumi vuol dire conquistarlo, non essere bocciati. Sono giovani, cresceranno e capiranno: forse. Magari cambieranno idea vedendo che pure uno come Heinz Beck la stia esaltando, proponendola da Attimi, a Milano: datterini siciliani dell’azienda Fratelli Abbascià, parmigiano di vacche rosse, insomma eccellenza pura e una cremosità straordinaria. A onor del vero la ricetta è di Gianluca Renzi, uomo di fiducia di Beck da più di nove anni: sul loro rapporto e il ristorante Attimi potete leggere l’articolo nelle pagine seguenti. Diversa la proposta di Giuseppe Postorino al ristorante Da Noi, al Magna Pars: rispetto alle altre assaggiate di recente è più ruvida e verace, più da battaglia che da salotto, più da gladiatore che da veranda e tramonto, più da urlo che da carezza. Però di alto, altissimo livello. E poi sarebbe la storia della Bellucci, Monica Bellucci. Tutti abbiamo fantasticato su di lei. Sensualissima, generosa, languida, intensa, semplice e sofisticata allo stesso tempo, di un erotismo spasmodico. Cosa c’entri la Bellucci con la pasta al pomodoro? Mentre stavamo degustando lentamente la linguina del ristorante Olio pensavamo a lei e per un lungo attimo ci è parso di
fare all’amore, perché ogni forchettata ci portava a pensare al suo corpo divino e a come sarebbe una notte di passione folle con lei. La linguina ai cinque pomodori assaggiata da Olio è erotismo puro, ci stiamo fantasticando ancora come per anni abbiamo fantasticato sul corpo della pantera perugina. Piatto devastante e pericoloso, perché i pomodori dolci dell’azienda Petrilli fanno mancare il fiato: attenzione, la ricetta è a dir poco complessa, leggetela nella pagina accanto. Lo chef Michele Cobuzzi ha creato un capolavoro, prendere spunto anche dai racconti di Angelo Fusillo, il patron del ristorante e pugliese doc: una ricetta a quattro mani, con un risultato spasmodico. Il primo ad averla sdoganata, proponendola in un ristorante stellato è stato Felix Lo Basso: la sua è davvero unica e indimenticabile, forse perché segue le istruzioni di sua madre, con pomodorini al forno e ricotta. Conclusione? Datevi la vita per farlo diventare un’esperienza indimenticabile, perché per quanto semplice è il piatto più passionale in assoluto.
Lo spaghetto di Gianluca Renzi
La linguina ai cinque pomodori di Olio
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olitamente non pubblichiamo ricette, per una serie intera di motivi. Stavolta è diverso, perché basta leggerla per capire quanto sia difficile, a volte, presentare una pasta al pomodoro con fiocchi e controfiocchi. “L’autore” è Michele Cabuzzi, ex Enoteca Pinchiorri, ora al ristorante Olio, a Milano, in Piazza Lavater. E’ un posto che sta galoppando verso vette altissime, lo abbiamo già raccontato. Ora ci limitiamo alla ricetta.
Ingredienti per 4 persone • 4 pomodori ramati • 150g pomodorini nebula • 150g pomodorini datterini • 150g pomodori Piccadilly • 200g pomodori pelati Azienda Petrilli • 360g linguine Petrilli • 50g cipolla stufata e tritata • 4 spicchi di aglio di Nubbia • 10 foglie di basilico • 60 gr olio extra vergine
Procedimento. Per l’acqua di pomodoro: frullare i pomodori ramati e metterli a scolare in un colino ricavandone l’acqua. Per i pomodorini infornati: tagliare a metà i pomodorini datterini, disporli in placca e condirli con olio, sale, zucchero, pan grattato, origano e caciocavallo e infornare a 200g per 12 minuti circa. Per i pomodorini confit: sbollentare i pomodorini Nebula e raffreddare in acqua e ghiaccio, quindi pelarli, tagliarli a metà per la lunghezza e disporli in placca con olio, sale e se occorre zucchero. Infornarli a 70-80 gradi per 4 ore circa. Per la salsa di pomodoro far soffriggere uno spicchio di aglio tritato con dell’olio quindi versare i pelati e far cuocere per 15 minuti circa e poi passare al passapomodoro. Per l’emulsione
di aglio: sbollentare gli spicchi d’aglio privati dell’anima per 5 volte partendo dall’acqua fredda a bollore, infine frullare in un bicchiere con il mixer aggiungendo acqua a temperatura ambiente e olio. Cuocere le linguine in acqua salata con 9g di sale per litro d’acqua, nel frattempo in una padella fare appassire i pomodori Piccadilly con dell’olio e un pizzico di sale dopo di che aggiungere i pomodorini confit, l’acqua di pomodoro, i pomodorini infornati, la salsa di pomodoro, la cipolla stufata e far cucinare il tutto per 3-4 minuti. Dopo 13 minuti di cottura scolare le linguine e versarle nella salsa. Mantecare per 3 minuti in padella aggiungendo del brodo vegetale, infine togliere dal fuoco e aggiungere l’emulsione di aglio, le foglie di basilico spezzettato a mano e impiattare.
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Principe Buffolino Estasi all’Acanto
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uando è arrivato, la media era di 7 coperti a sera. Ora sono più di 70. “Almeno tre volte a settimana dobbiamo rifiutare delle prenotazioni perché siamo pieni, ma pieni per davvero”, sostiene orgogliosa Alessandra Veronesi, la direttrice del ristorante. “Nessuno a Milano lavora quanto noi, a questi livelli”, rincara la dose lo chef Alessandro Buffolino. Ha ragione: i ristoranti del genere hanno una capienza attorno ai 50 coperti e raramente registrano il full booking. E’ cambiato molto dal suo arrivo, tre anni addietro. E’ cambiato lui e soprattutto è riuscito a cambiato il ristorante: agli inizi pareva leggermente intimidito dalla storia dell’albergo e forse si sentiva un po’ stranito guardando il locale sempre vuoto. Non lo ammetterà mai, però sotto sotto avrà anche pensato “Chi me lo ha fatto fare”. Veniva dalla scuola di Michel Guerard, poteva trovare un posto meno impegnativo come target e impostazione, eppure ha scelto la strada difficile e tortuosa dell’Acanto, il ristorante dell’hotel Principe di Savoia. Che sia chiaro: l’albergo macina utili come nessuno e per di più continua a fare il tutto esaurito nonostante un numero di stanze nettamente superiore agli altri, ma per la parte gourmet partiva con lo svantaggio e il pregiudizio di essere visto come il classico tetro locale di un cinque stelle d’antan. Certo, chi è stato in cucina negli anni passati ha contribuito a tenerlo nell’ombra, o forse i tempi non erano maturi per un menù scintillante e per una clientela desiderosa di miagolare per il piacere. Lo si sa,
I suoi nuovi piatti sono forti ma allo stesso tempo garbati, eleganti: d’altronde viene dalla scuola di Guerard, lui ha solo aggiunto un tocco campano e più in generale mediterraneo
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per decenni la ristorazione di un albergo è stata malvista: pochi piatti, elementari e assai tristi, un servizio ingessato e un’atmosfera discutibile, fra il polveroso e il moribondo. Di conseguenza Alessandro, campano doc ma con un carattere da tedesco, si è trovato a prendere le redini di un posto carico di marmi e storia ma privo di vita, nonostante ci lavorassero persone di livello (vedi Alessandra Veronesi, a quei tempi sommelier, poi promossa come direttrice). In quasi tre anni ha dimostrato quanto vale, i numeri sono lì a testimoniarlo e per fortuna non mentono: già dall’inizio del 2017 la situazione aveva preso la direzione giusta, a quei tempi la media dei coperti era già arrivata a 40, ora siamo sulla settantina, con picchi da 90 coperti a sera. Da notare che in cucina ci sono solo 12 ragazzi, chef compresso, ma sono così affiatati da poter servire anche 200 clienti. Merito dello chef, che li ha scelti uno per uno e che ora non lascerebbero la brigata per nulla al mondo. “E nel caso lo volessero fare mi opporrei di sicuro”, dice sornione l’apparente mite Alessandro, uno che ha come mantra in cucina tre parole tre: “ordine, pulizia, precisione”. Già che ci siamo al capitolo mantra, ecco anche i suoi credi culinari: “cacio pepe, babà e mojito”. Ha riempito il ristorante, l’età media della clientela si è abbassata, il posto non è più visto come superato e ingessato, bensì come un luogo di gran classe dove si mangia molto bene e dove il servizio rasenta la perfezione. Perché, va detto, lo è: qui il merito va alla direzione dell’hotel, l’eccellenza del personale non si discute, hanno una marcia in più, sono felpati, silenziosi ed efficaci, senza mai fare un movimento a vuoto. Chapeau Ezio Indiani, perché è lui il direttore del Principe ed è l’artefice di tutto ciò. Tornando allo chef, sa che molto è stato fatto ma che si è solo all’inizio dell’opera: sky is the limit, dicono gli anglosassoni, qui invece prima del cielo si pensa alla prima stella Michelin, “perché onestamente ce la meritiamo”. Sarà per l’anno prossimo a quanto pare, ma non saranno dodici mesi a scalfire il suo entusiasmo. Arde in lui la voglia di fare della ristorazione uno spettacolo, lo vedi dal suo sguardo: qualche passaggio sperimentale c’è stato, con dei risultati altalenanti, ora però le idee sono chiare, i piatti decisi, senza esitazioni. Il livello è alto, non ci sono dubbi.
I suoi nuovi piatti sono forti ma allo stesso tempo garbati, eleganti: d’altronde viene dalla scuola di Guerard, lui ha solo aggiunto un tocco campano e più in generale mediterraneo, il massimo. Tecniche francesi e idee italiane, forse così si spiega il suo spaghetto quadrato aglio olio peperoncino e polpo, piatto di una sensualità e intensità che superano il livello di guardia, fra cremosità e capacità di inebriare il palato. Quando arrivò all’Acanto si presentò con un pacchero all’osso buco da impazzire, è stato il suo primo notevole biglietto da visita, seguito poi dalla pasta al caviale e spuma di patate: ora invece spopola lo spaghetto, anche se fosse per i nostri gusti toglieremmo il polpo, perché già di per sé il piatto racconta e da tanto, tantissimo. Sono interpretazioni soggettive che non cambiano e non spostano il nostro giudizio, d’altronde sarebbe l’unico appunto in una serata piena di sorprese e certezze. La wagyu marinata è il jolly vincente, mentre il boccadoro, una specie di ombrina pescata nell’Atlantico, è la dama di cuori. L’asso rimane lo spaghetto, che suggeriamo anche alle persone che all’ora di pranzo preferiscono un solo piatto. Non ci sono sbavature, non ci sono tempi morti, in più è piacevole guardarsi attorno e vedere pezzi da novanta del capitalismo italiano come amano sedersi qui a cenare. Tavolate da sei, addirittura da otto, perché spesso portano qui ospiti illustri, il che racconta molto, se non tutto, sul servizio, il menù e l’atmosfera. Abbiamo lasciato alla fine il capitolo vini, perché l’argomento merita si essere trattato a parte. La cantina vanta 27 verticali, probabilmente un record nazionale, se la gioca con l’Enoteca Pinchiorri: Mara Vicelli, la sommelier, è un altro asso vincente del ristorante. A proposito, ci ha consigliato un Fantinel Eclisse per abbinare allo spaghetto aglio olio peperoncino. Voto? 10.
Wicky Priyan Ramen. Il suo ramen
N
ell’anno del Signore 2018 Wicky Priyan creò il ramen, il suo ramen. E da quel momento niente fu più come prima. Perché nessuno al mondo ci mette dentro tante pietanze, nessuno pensa nemmeno lontanamente di marinare le uova per dodici giorni. La sua ricetta pare uscire da un film di magia, poi assaggi e perdi i sensi, la prima cucchiaiata è un colpo al cuore. Brevemente, gli ingredienti: brodo di gamberi rossi, con aggiunta di qualche pesce bianco. E’ ricco, denso, intenso. Poi il maialino, lo stesso che da anni è il suo cavallo di battaglia, quello cotto a bassa temperatura per 16 ore. C’è anche la parte grassa, una delizia morbida, tenera. saporita. Seguono spinaci, cipollotto napoletano e ovviamente la pasta, che a breve verrà fatta in casa. Il tutto servito con accanto cinque tipi di gyoza, una via di mezzo fra il raviolo cinese e lo gnocco giapponese. Costo? 20 euro, solo all’ora di pranzo. Si è iniziato a novembre, il periodo dell’anno ideale per un piatto del genere. Immaginatevi una giornata iniziata con la nebbia, poi quel fresco quasi freddo. Non vedi l’ora che arrivi il pranzo per tuffarti nei profumi del ramen, anzi, il ramen di Wicky. In maniera istantanea chiudi gli occhi e respiri l’oceano (la fragranza del brodo di gamberi sovrasta le altre), sognando la spiaggia e un sole caldo. Dovessimo creare uno spot pubblicitario lo faremmo proprio così. Tornando alla realtà, colpisce la marinatura delle uova e la loro cremosità: è top secret la modalità di marinare, puoi carpire solo la presenza di alcuni elementi, come il dashi, la soia e il mizu, le basi che poi portano ad un risultato incomprensibile ai più e impossibile da raccontare. Mille gusti, mille sensazioni, alcune dolci e carezzevoli, altre aggressive e potenti: non può non ammaliare, non può non conquistarti, non puoi non tornare. Lasciatevi conquistare dal piacere, mangiate senza limiti e pudori.
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TM
MADE IN ITALY
Toys for (rich) mens
L’
uomo è geniale, i suoi prodotti ancor di più. Per dirla tutta, hanno rivoluzionato il mondo del vino e in buona parte anche quello della ristorazione. E poi ci sarebbero anche i numeri, tutti dalla sua parte: se il Financial Times ha “piazzato” la sua azienda come 82ima in Europa e terza in Italia per crescita (1.500 per cento nel triennio 2012-2015), un motivo ci sarà. Oltre a essere rivoluzionari, i suoi prodotti entrano nella categoria degli oggetti per adulti benestanti e dal gusto sicuro. “Giocattoli per ricchi”, è così che nel numero precedente abbiamo titolato l’articolo sul mondo Dupont: ora ci scuserete se ci ripetiamo, però mai definizione fu più appropriata. Toys for rich mens. Proviamo a immedesimarci nella persona di successo, estimatore dell’alta cucina e dei vini pregiati, immaginiamo la scena di un film americano con gente ambiziosa e vincente, che abita in lussuosi appartamenti nel cuore di New York. Torna a casa la sera, dopo una giornata piena di incontri e tensioni, finalmente si può godere il silenzio e un sigaro. Decide di aprire una bottiglia di vino, Chateau Lafite oppure Sassicaia, Gaja o altro: non può e non vuole scolarsela tutta, sarebbe inelegante e fuori luogo. Però dopo un bicchiere e mezzo si pone il problema della rimanenza perché si sa, tempo un giorno e il profumo svanisce, perfino ad uno che si può permettere il mondo dispiacerebbe lasciar imbevuto un vino del genere. Ecco dove, quando e come interviene il dispenser per la mescita di Wineemotion: i suoi macchinari mantengono perfetta e inalterata la qualità del vino. Così si può aprire una bottiglia diversa ogni sera senza l’ossessione o il dispiacere di dover fare i conti con il resto della bottiglia. Certo, oltre all’aspetto pratico ci sarebbe anche il piacere di avere nella propria abitazione un
giocattolo simile: esteticamente fa scena, riempie la stanza, è davvero un oggetto cult. “Possederlo”, oppure semplicemente guardarlo ti rilassa, ti inorgoglisce, perché crea status, piacere. E’ aspirazionale, per usare una delle parole che più ci piace e ci indentifica. E’ emozionale, non a caso l’azienda si chiama Wineemotion. “Il vino è l’attore, il dispender è il palcoscenico”, ama ripetere Riccardo, toscano doc (abita nello stesso paesino del famoso macellaio Dario Cecchini, a Panzano in Chianti). Financial Times, dicevamo: entrare nella loro orbita è già un onore, classificarsi al terzo posto passa per un risultato pazzesco, che da una parte racconta l’uomo Gosi e la sua azienda, dall’altra l’importanza del vino di alto livello nelle vite delle persone. E già che ci siamo, ci sarebbe piaciuto leggere sul quotidiano finanziario color salmone un articolo sul Wineemotion a firma di Tyler Brulè, il fondatore di Monocle. Peccato che ha smesso di collaborare con il FT: la sua rubrica, Fast Line, sembrava fatta apposta per raccontare i prodotti di Riccardo. Vale anche per l’Esquire di David Granger, altro esteta nato, l’uomo che ha riportato la rivista maschile più letta al mondo ad un livello superiore. Man at his best, suona il claim di Esquire: difficile trovare qualcosa più “at his best” dei dispenser di Wineemotion. Quello che stiamo pubblicando qui è il top di gamma, il lusso dei lussi, la meraviglia delle meraviglie, il sogno dei sogni: si chiama Convivium ed è una sorte di rivisitazione del vecchio mobile bar. Guardatelo, come prestigio e prestazioni vale quanto l’Aston Martin. Chi ama distinguersi e ovviamente chi se lo può permettere se lo compra all’istante. Merita.
Oltre all’aspetto pratico ci sarebbe anche il piacere di avere nella propria abitazione un giocattolo simile: esteticamente fa scena, riempie la stanza, è davvero un oggetto cult.
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Good Blue
Give me a Poke Scommettiamo ora: tempo un anno Milano sarà piena
E
ra il 9 dicembre 2016. L’articolo lo conserviamo ancora. New York Times, il quotidiano che detesta The Donald e per questo non lo consideriamo più un punto di riferimento, anzi, stanno diventando ridicoli, patetici e spocchiosi oltre il lecito. Alla faccia della stampa indipendente: hanno fatto un tifo assurdo e comico per Hillary, la perdente, ora vivono per attaccare The Donald, un vincente nato: amen. Come dice Trump, non si sono ancora ripresi dalla sconfitta. però non divaghiamo: NYT, dicevamo. Per quello che riguarda il mondo del food è ancora attendibile, siamo di quelli che leggevano gli articoli di Ruth Reich una ventina di anni addietro: di conseguenza continuiamo a soffermarci spesso sui loro contenuti e li consideriamo autorevoli. 9 dicembre, dunque: il nome della rubrica era Hungry City, il titolo dell’articolo The Top 10 Cheap (and Astonishing) Places to Eat in 2016. Firmato: Ligaya Mishan. Al settimo posto si trovava il Sons of Thunder, nome più da reality show che da ristorante. Era forse la prima volta che il poke arrivava sulle pagine di un quotidiano così importante: “uno dei primi posti a New York devoti al poke, insalata di pesce che raramente la puoi trovare fuori dalle Hawaii”, raccontava Mishan. “Qui lo fanno come a Honolulu, dove ho passato la mia infanzia, il migliore lo si mangiava da Tamura, un negozio di liquori che lo serviva come un pupu, ovvero uno snack”.
A quei tempi ci pareva assai simpatica la storia del poke, “generosi pezzi di salmone fresco conditi con shoyu e olio di sesamo, serviti in una ciottola. Al Sons of Thunder lo fanno divinamente, merito di James e John Kim, due fratelli del Queens con chiare origini coreane”. Per la cronaca il locale si trova a due passi dalla sede dell’Onu, organizzazione diventata la caricatura di sé stessa, obsoleta, priva di senso, una mangia soldi a livelli mondiali: di buono ha che mantiene tanti stipendiati che in pausa pranzo prendono d’assalto il Sons of Thunder, sono utili almeno in questo. Oggi, a due anni di distanza, i poke non vengono più considerati dei piatti esotici, bensì di tendenza: ormai tutti sanno che si tratta di insalate fresche, leggere, a base di riso con del pesce crudo marinato, spesso con agrumi e olio di sesamo. A proposito: poke si pronuncia po-key, nella lingua madre significa “tagliato a pezzi grossi”. West Coast, New York, Londra, Parigi e ora Milano. E’ un deja vù, accadde lo stesso con il sushi negli anni ottanta: lo si serviva solo al Poporoya, ora lo trovi perfino nei supermercati. Il poke pare la stessa storia, pian piano sta diventando qualcosa di assai abituale: l’ultimo locale aperto, in ordine cronologico, si chiama Good Blue e si trova in Via Volta, di fronte al nuovo locale di Tony Ingrosso, Macellai di Strada, ma soprattutto di fronte al Pescetto, altra realtà milanese a dir poco spettacolare per incassi e impatto. Pesce cucinato da una parte della strada, pesce crudo e marinato dall’altra. Good Blue, il nome è melodico, armonioso, come i piatti che abbiamo assaggiato. Uno su tutti, Aquachiles: tonno, salsa di soia, lime, peperoncino. Voto alto. Posto informale al massimo, giovanile, spartano e con pietanze deliziose. Conclusione? Dopo la dittatura del sushi e la moda del ceviche, sta arrivando in Italia uno tsunami di nome Poke. Scommettiamo ora: tempo un anno Milano sarà piena perché i piatti sono saporiti e leggeri, molto femminili, per una clientela prettamente meneghina. Per cui se frequentate modelle e ragazze magre ma che amano mangiare, portatale qui. Vedrete, sorrideranno. Ma nel caso la dea bendata vi riservi un viaggio a Honolulu, capitale delle Hawai, non dimenticate di provare il lomi salmon o insalata hawaiana, che si prepara con le carni di salmone massaggiate a lungo per essere più tenere, servito freddissime con una nota di piccantezza.
Dopo la dittatura del sushi e la moda del ceviche, sta arrivando in Italia uno tsunami di nome Poke.
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Bistrot,
L
parola ingannevole
a parola bistrot forse suona bene, ma in Italia la gran parte della gente non ha la minima idea di cosa possa essere e rappresentare per davvero. Non lo sanno i clienti e ancor meno alcuni proprietari di locali che pensano di attirare la gente mettendo ben in vista la scritta “bistrot”. Pensano che fa fine, chic, cool, si illudono che la musicalità di una parola possa rendere il proprio locale interessante e appetibile. E’ come dire “io ho una visione cosmopolita, ho girato il mondo, per cui vi propongo qualcosa di gran classe”. Errore, anzi errore tipico da provinciale che vuol dare di sé un’immagine da uomo vissuto ed elegante. Poi ci sarebbe l’altra categoria, che vive con un certo complesso di inferiorità e con il timore di non saper essere al passo con i tempi. Sono quelli che si vergognano di dire che aprono una trattoria, oppure una osteria, partendo dall’idea (falsa) che qualcuno li considererà desueti, antichi, fuori dal tempo e grezzi, che resteranno fuori dal giro che conta e che i giovani non varcheranno la loro porta, ancor meno quelli che seguono le tendenze ed i pr che propongono posti moderni, alla moda. Sono tutte fandonie, errori che commette la gente con poca autostima, perché è vero il contrario: scrivendo trattoria si ha subito una chiara idea dei piatti e dell’atmosfera che troverai, mentre mettere il nome bistrot sull’insegna del locale crea solo confusione. Ed è risaputo che nel dubbio la gente sceglie di non scegliere. Cena non scena, ricordatelo sempre. Per la cronaca il bistrot vuol dire piatti semplici, immediati, diretti, veloci da preparare e da mangiare, niente lunghe lavorazioni, un’atmosfera assai spartana, con servizio informale, cordiale e conviviale, senza tovaglie, con tavoli vicini. Bracciole, cotolette, filetti, magari due piatti di pasta, niente di più: una scelta limitata e un prezzo equo. Ma soprattutto il bistrot ha un’anima, un ritmo tutto suo, una patina de tempo che spesso fa la differenza, quella sensazione di vissuto. Certo, c’è stata poi l’evoluzione, il così detto neo bistrot, avvenuta una decina di anni fa a Parigi, ma qui ci stiamo allontanando dalla questione, perché il neo bistrot è parente del grande ristorante, è il così detto bistronomique. Aperture solo in pieno centro e con ai fornelli chef famosi, una garanzia per la bontà dei piatti e la qualità delle materie prime, perché di questo si tratta, l’esaltazione degli ingredienti eccellenti e piatti classici reinterpretati. Facciamo un esempio: all’ora di pranzo si ha poco tempo ma si vuole mangiare bene lo stesso: qualcosa di consistente e gustoso, facilmente riconoscibile, un bicchiere di vino, un dolce e poi il ritorno al lavoro. 35-40 euro spessi bene, insomma. La bistronomia non è proprio una trattoria, ad ognuno il suo, non ha senso fare confusione, ognuno deve fare quello che sa fare meglio. In Italia le trattorie, in Francia i bistrot o neobistrot: patti chiari amicizia lunga, ma soprattutto chiarezza per il cliente, che vuole concretezza, non fumo negli occhi. A Milano c’è qualcuno che si avvicina al concetto appena espresso, pur non avendo un locale dove si possa respirare una tale atmosfera: si chiama Taverna Calabiana, ne abbiamo parlato qualche numero addietro. I piatti sono semplici e davvero molto ben fatti, quello che ci ha sempre impressionato è la clientela: amministratori delegati di multinazionali, banchieri, stilisti e manager, ovvero gente che all’ora di pranzo esige determinate garanzie: un ambiente rilassato e dei piatti realizzati con ingredienti superlativi. Il patron, Alessandro Roggero, li conosce tutti e sa cosa proporre ad ognuno: è un grande oste, lo capisci dal rapporto con gli altri e soprattutto da come si fidano di lui. Il posto non è chic, anzi, è semplice e spartano. Quasi un bistrot. Con prodotti e piatti italiani. Il massimo.
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Bistrot vuol dire piatti semplici, immediati, diretti, veloci da preparare e da mangiare, niente lunghe lavorazioni, un’atmosfera assai spartana, con servizio informale, cordiale e conviviale, senza tovaglie, con tavoli vicini.
Krug and Fish
mi ha fatto venire in mente quando ero un giovane chef e aspettavo alle cinque del mattino la consegna del pesce. Quel contatto immediato con l’ingrediente fresco mi ha sempre riempito di gioia”. Aggiunge, Olivier Deboise Mendez, di La Table Krug, nel Messico: “Nessuna sensazione è paragonabile a quella di stare a contatto con l’acqua e con la forza degli elementi. È importante mostrare rispetto per l’ingrediente e onorare la natura è parte di questo”. Continua Kihak Lim, chef coreano di L’Espoir du Hibou: “Tutti i giorni vedo arrivare il pesce al mio ristorante, ma non avevo nessuna idea di quello che succede prima. È stata un’esperienza incredibilmente illuminante capire come i pescatori lavorano in mare”. Non poteva che concludere la carrellata delle impressioni Arnaud Lallement, chef tristellato del ristorante Assiette Champenoise e della dimora della famiglia Krug a Reims: “Ogni abbinamento comincia dal territorio. Per qualcuno sarà una sorpresa sapere che molti milioni di anni fa la regione della Champagne era coperta da un vasto oceano. Sarà forse questo a rendere Krug Grande Cuvée, con il suo assemblaggio di oltre 120 vini provenienti da vigneti dell’intera Champagne, e il pesce, quell’ingrediente infinitamente versatile, un abbinamento così perfetto? È possibile, ma non esiste una ricetta magica per l’abbinamento perfetto. In ultima analisi, tutto si riduce all’istinto, alla continua sperimentazione e a quella particolare scintilla che conferma che una particolare combinazione di ingredienti brillerà insieme a un calice di Champagne Krug”.
Sogni vista mare
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uardate bene la fotografia che abbiamo pubblicato qui sotto: è ipnotica. E’ l’essenza delle nostre vite, dove per “nostre” intendiamo il mondo della ristorazione, dagli addetti ai lavori ai clienti e fino ai semplici amanti di pietanze deliziose. Una bottiglia di Krug, il mare, l’orizzonte infinito, il silenzio, la brezza e la leggerezza. Poi ci sarebbero gli attrezzi del lavoro e le pentole dove, si presume, verranno cucinate prelibatezze che poi mangerete in maniera smodata, senza limiti. Appena l’abbiamo pubblicata sui social si è scatenata la corsa a chi sogna di più e chi già si vede con una cucina simile in un posto del genere. Si sono immedesimati in tantissimi: già, a chi non piacerebbe lavorare con un panorama così. Immagina, puoi.
Prima si faceva cenno al fatto che fossero arrivati alla quarta esperienza: la prima ebbe come protagonista la patata, poi ci furono l’uovo e il fungo. Ora, il pesce. Chissà, magari un domani ci sarà la carne. Comunque andrà sarà un successo anche il prossimo anno.
E’ una fotografia da conservare, come si faceva una volta: piegarla e metterla nel portafogli, per tirarla fuori e guardarla nei momenti di sconforto. Certo, sono storie del passato, ora la si salva come schermo del computer, oppure sul telefonino: cambiano i tempi, restano le sensazioni e i desideri, la voglia di vivere sempre delle emozioni forti, infinite, dei sogni interminabili. E’ una immagine straordinaria, che ci rappresenta appieno: fa parte del libro “Krug x Fish - Un mare di racconti”, il quarto della serie proposta dalla maison di champagne. La “trama”: dodici chef, rigorosamente ambassador Krug, sono stati portati in mare aperto alla ricerca di un singolo ingrediente per poi creare una ricetta da abbinare, ovviamente, ad una bollicina della maison, Grande Cuvèe o Rosé. Chi rende davvero bene l’idea del libro è Ryan Clift, del ristorante Tippling Club, a Singapore: “Questa esperienza
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LE 12 KRUG AMBASSADE PRESENTI NEL LIBRO Dick Middelweerd (De Treeswijkhoeve, Paesi Bassi), Robin Zavou (The Krug Room, Hong Kong S.A.R., Cina), Olivier Deboise Méndez (La Table Krug, Messico), Jorge Martin del Cañizo (Dani Garcia Restaurente, Spagna), Michael Cimarusti (U.S.A.), Yukiyoshi Tada (Sushidokoro Tada, Giappone), Andrew Fairlie (Restaurant Andrew Fairlie, Scozia), Kihak Lim (L’Espoir du Hibou, Corea), Hiroyuki Kanda (Kanda, Giappone), Heiko Nieder (The Restaurant, Svizzera), Ryan Clift (Tippling Club, Singapore), Domenico Soranno (Langosteria, Italia).
Una fotografia da conservare, come si faceva una volta: piegarla e metterla nel portafogli, per tirarla fuori e guardarla nei momenti di sconforto
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Monica Cordiviola
Perché mangiare è godere Atmosfere chic e dark, a volte bizantine, spesso anni trenta, armonie naturali, colori vivaci, dame contemporanee ed eleganze antiche
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ood is love. Mangiare è godere. Due frasi che sono il mantra della nostra vita e di Good Life, per cui immaginatevi la nostra reazione appena ci siamo imbattuti negli scatti di Monica Cordiviola: sembrano realizzati appositamente per noi e, ovviamente, per voi. A guardar bene trovi la sua firma in quasi tutti i numeri di Good Life, a cominciare dalle copertine: Carlo Cracco, Enrico Cerea, Felix Lo Basso, Roberto Conti, Eugenio Boer, poi la playmate Aurora Marchesani e la jolly Stella di Plastica, cover del numero che portò a dei grandi cambiamenti, visto che da quell’uscita Good Life virò decisamente e definitivamente sul food. Era l’estate del 2014, le foto furono realizzate nella cucina di casa sua, a Carrara: Stella indossava la giacca da chef realizzata a mano da Angelo Inglese, probabilmente il miglior camiciaio al mondo, ma pure questo lo sapete già. Rewind. In pochi però ricordano che “l’esordio” di Monica su Good Life avvenne nell’estate del 2013 con gli scatti a Tatiana Rovai, “La Geisha di Viareggio”, come avevamo chiamato la pr toscana, a quei tempi appena eletta come migliore nelle classifiche nazionali di categoria. Scrivevamo di Monica: “Atmosfere chic e dark, a volte bizantine, spesso anni trenta, armonie naturali, colori
vivaci, dame contemporanee ed eleganze antiche. Se vogliamo, un dandismo retro al femminile, una stravaganza studiata”. Dopo pochi mesi tornò sulle nostre pagine con una sua gallery. Si raccontava così: “Come fotografa mi definirei una che ha improvvisato molto agli inizi; ho cominciato sfogliando centinaia di riviste patinate e non, poi man mano ritagliavo le immagini che più mi colpivano, quasi collezionandole, spesso andando a rivederle per il puro piacere di ammirare cose che appagavano la mia vista. Poi col tempo, con l’esperienza e varie botte di fortuna son riuscita a crescere professionalmente. Quando viaggio porto sempre una piccola compatta per rubare a destra e a manca attimi che colpiscono la mia attenzione. Comunque quando sono in giro preferisco un iphone con Hipstamatic, ovvero la definizione immediata e poco sbattimento. Il mio sogno fotografico? Fotografare con Yossi Michaeli (NY) e ritrarre Greta Garbo, ma temo non sia possibile”. Non sappiamo se usa ancora l’iphone con Hipstamatic, di sicuro continua a deliziarci con le sue immagini violente e veraci, dark e sensuali: guardare per credere. L’immagine è stata esposta al Festival della Fotografia di Corigliano Calabro: per la cronaca, la modella si chiama Alessandra Giulia Bassignana e il tema era legato al Made in Italy e ai piaceri della tavola. Riesce alla perfezione nell’intento di ricordarci che il sesso e il cibo vanno di pari passo e che sono i grandi motori della vita. Perchè mangiare è godere. Siccome la rivista specchia la filosofia di vita di chi la crea, è il suo biglietto da visita. La seguiamo da
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Forno Collettivo Deliziose sensazioni
Da spasimo i croissant, anzi il croissant, perché per ora ne propongono uno soltanto, da riempire a richiesta con crema pasticciera (freschissima), oppure con marmellata di albicocche
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l miglior croissant assaggiato da anni. Il migliore, non fra i migliori. Fragrante da morire, gustoso da impazzire, croccante da svenire, con quel burro che ti avvolge completamente e ti inonda la testa. Ad ogni morso c’è quell’effetto wow che spesso manca agli altri e lo si sa, la vita vale la pena di essere vissuta solo per questi momenti. E pensare che ci siamo avvicinati con una certa diffidenza, perché il nome del locale non faceva ben presagire: Forno Collettivo fa venire i brividi evocando il peggio della storia, con quella parola “collettivo” che ti fa provare orrore. Invece il locale è davvero cool, l’atmosfera è un po’ nordica e un po’ newyorkese, il servizio impeccabile e poi i prodotti sono strepitosi. Da spasimo i croissant, anzi il croissant, perché per ora ne propongono uno soltanto, da riempire a richiesta con crema pasticciera (freschissima), oppure con marmellata di albicocche. In alternativa ci sarebbe la babka, treccia di croissant arrotolata con cioccolato, cacao, zucchero muscovado e mandorle: non ti basta mai, è carnosa. Il pane è un’altra rivelazione: alta scuola, altissima. E’ ricco, crea l’effetto shock, regala piaceri e sensazioni. Propongono due tipi, S41 e Discovery, entrambi “mortali” per fragranza e piacevolezza. La crosta è straordinaria per impatto e colore, poi l’interno è morbido e profumato. Confessiamo, la acquistiamo spesso, siamo diventati addicted. Sulle proprietà lasciamo la parola agli esperti, non ci concentriamo sui piaceri: “ai profumi e alle proprieta` nutrizionali dei grani di ricerca si coniuga un grande lavoro sulle fasi di fermentazione e la struttura finale. La mollica è cremosa e fondente, anche grazie all’elevata idratazione dell’impasto, con un punto di sale equilibrato e un’acidita` fresca e persistente”. Così recita il loro comunicato stampa e non mettiamo becco. Dando uno sguardo più attento ci siamo accorti che propongono anche dei piatti per l’ora di pranzo e per la cena, ne parleremo la prossima volta.
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Tornando al nome, assai sfortunato secondo noi, ha una spiegazione logica: quella parola che inizialmente mette paura, “collettivo”, porta invece ai tempi nei quali le donne impastavano a casa e poi venivano a far cuocere il lievitato, appunto, nel forno del paese, idem con gli arrosti e le torte. Nulla di ideologico, solo una provocazione e l’evocazione di un passato nemmeno così lontano. Per la cronaca i proprietari sono gli stessi di Champagne Socialist, locale che si trova a pochi metri di distanza, sempre in Via Lecco, stavolta al civico 1 (Il Forno è al 15). Davide Martelli e Alessandro Loghin sono diventati famosi a Milano per The Botanical Club, la prima micro distilleria di gin con smart dining: funziona che è una meraviglia, piace alla gente che piace e che ama scegliere i posti dove sedersi per un cocktail fuori dagli schemi: dopo l’apertura e il successo in via Pastrengo i due hanno raddoppiato in Via Tortona. Immaginiamo altre aperture anche per il Forno Collettivo: è davvero una grande idea.
Davide Martelli e Alessandro Loghin
Gruppo Meregalli Dynasty all’italiana
Il castello Lafite Rothschild
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assicaia, Chateau Lafite. Due nomi magici, iconici, che basterebbero per raccontare il mondo Meregalli e invece c’è tanto, molto altro. Perché la famiglia distribuisce vini da cinque generazioni ed è oggi l’azienda numero uno in Europa per prestigio, potenza e affidabilità. I numeri non mentono mai, però assieme all’amministratore delegato Marcello Meregalli, figlio del patron e presidente Giuseppe, abbiamo provato di andare oltre ai successi e alla crescita continua, cercando di capire, spiegare e raccontare i meccanismi, le logiche, le dinamiche e la filosofia di un’azienda che non conosce crisi, pause e giri a vuoto. - Partiamo come in tutte le favole, quelle di c’era una volta: come ha avuto inizio tutto? - Nel 1856 il mio trisavolo ha messo in piedi una piccola attività, poi la tradizione ha voluto che ogni primogenito prendesse le redini dell’azienda: accadde nel 1889, poi nel 1932, ancora nel 1969 e infine 1996, quando sono arrivato io. Il cambio di passo è avvenuto con il mio nonno, che di base faceva il grossista e l’imbottigliatore, servendo le osterie locali: dopo la guerra ha avuto l’intuizione di portare dalla Francia lo champagne e anche l’armagnac. Inizia così la distribuzione moderna, mentre con gli anni sessanta arrivano i grandi prodotti (Sassicaia, Gaja, Antinori) e si passa alla rete di agenti, così come alle importazioni di vini spagnoli e australiani. L’ultima tappa, che risale agli anni novanta, vede i distillati entrare nel nostro catalogo. - Come viene strutturata la vostra azienda? - Iniziamo col dire che c’è una netta divisione fra la vendita di vino e quella dei distillati. Poi c’è un’area manager per ogni regione: va a spiegare e a fare formazione alla rete vendita. Come filosofia, non abbiamo dei doppioni, per esempio nel nostro catalogo non compare più di un Barolo, così come non abbiamo più di un Brunello. Sarebbe davvero complicato presentarsi in un ristorante con dieci Brunelli, mentre il proprietario ne chiede uno soltanto. In tutto abbiamo 1.200 etichette, poi di recente abbiamo creato all’interno una nuova divisione, chiamata Visconti 43, che si concentra sui piccoli produttori di vino biologico e biodinamico. Per ora siamo arrivati a 230, con l’intento di arrivare a 400. A onor del vero, oggi in tanti si focalizzano su aziende del genere, per poter proporre qualcosa di esclusivo ai clienti.
- A proposito di clienti, come si fa a scegliere uno nuovo, quali sono i criteri? - Come idea di base puntiamo sulle aziende familiare, si lavora molto meglio. Se vediamo che la tendenza del mercato si sposta verso i vini bianchi, cerchiamo di incrementare, facendo degli investimenti. Per darle una percentuale, per l’80 per cento sono le aziende che ci sollecitano, mentre per il restante 20 siamo noi che le contattiamo. Che momento vive la distribuzione del vino? - Molto positivo, dal 2014 in poi: l’anno scorso abbiamo avuto il record di minor perdite sul fatturato, tradotto solo il 0,3 per cento dei prodotti distribuiti non ci è stato pagato. Prima si arrivava al 2 per cento, un’enormità. Certo oggi hai degli strumenti che ti permettono di capire se un ristoratore ha dei precedenti negativi, siamo agevolati rispetto al passato, possiamo monitorare l’andamento delle attività in giro per l’Italia, la rete è un alleato. In più sono cambiate le modalità di ordinazione, nel passato si faceva un solo ordine all’anno, mentre ora lo si fa mensilmente. - Molti ristoranti chiudono e spesso i fornitori rimangono con il cerino in mano: come ci si comporta? - Molti chiudono perché non sanno gestire la propria attività. Ci è capitato di avere a che fare con pizzerie che avevano in cantina dei vini che superavano un anno di fatturato. Ecco, noi cerchiamo di portare in ogni ristorante una quantità modica di prodotti, serviamo spesso e poco: in tal modo non ci troviamo in difficoltà nè noi, né il proprietario. - Capitolo clienti storici: chi possiamo nominare? - L’enoteca Cotti a Milano e Pinchiorri a Firenze. - Come idea, i ristoratori adottano due filosofie per vendere il vino nel proprio locale: la prima punta sui carichi alti, la seconda invece considera che il prodotto deve “viaggiare” e di conseguenza vale mantenerlo ad un prezzo più basso. Lei cosa ne pensa? - All’estero il vino viene proposto a dei prezzi alti, spesso altissimi. Qui da noi direi che i prodotti con un costo basso vengono caricati di più, mentre i vini top di gamma hanno un carico minore: penso sia giusto così. Però io preferisco e suggerisco sempre di prendere un bicchiere alla mescita, perché da una parte puoi assaggiare più vini e da un’altra non lo percepisci come caro. E poi diciamolo chiaramente:
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Abbiamo iniziato con il Sassicaia negli anni ottanta, a quei tempi non aveva il successo e il prestigio odierno. L'aspetto interessante é che agli inizi abbiamo distribuito il loro olio
Marcello Meregalli i ricarichi sui vini vengono sempre messi in discussione, mentre nessuno parla del fatto che sulle bibite ci sono margini molto maggiori. Spesso mi capita di vedere come ti chiedono 8 euro per una acqua tonica, mentre il negoziante non ha pagato più di 1. - Sfogliando il vostro catalogo, salta fuori che siete i distributori dei vini di Joe Bastianich: è una questione di marketing e immagine? - Non direi, visto che lo distribuiamo dal 2007, quando Masterchef non era ancora arrivato sui piccoli schermi. A quei tempi nessuno lo conosceva in quanto personaggio televisivo e forse era un bene, perché i suoi vini venivano scelti esclusivamente per le loro qualità. Certo, i numeri dicono che la presenza in tv abbia aumentato l’interesse e la richiesta: oggi la metà delle sue bottiglie vengono
acquistate grazie al fattore emozionale. Va detto che è bravo e che ha uno staff di prim ordine. - Un vino di Joe che lo ha impressionato? - Lui va forte con i bianchi, difatti mi piace molto il suo Vespa Bianco. Poi però produce un rosso notevole, il Calabrone, un vino leggermente appassito. - E’ vero che alle aste si possono acquistare delle bottiglie ad un prezzo inferiore rispetto al prezzo proposto dal distributore? - Confermo. - Quando avete iniziato a distribuire il Sassicaia? - Negli anni ottanta: a quei tempi non aveva il successo e il prestigio odierno. Era un buonissimo prodotto, ma l’esplosione e l’interesse nei suoi confronti è arrivato dopo. L’aspetto interessante è che agli inizi abbiamo distribuito il loro olio, nel 1984: sono quattro anni dopo si è aggiunto il vino. - Si narra che con Chateau Lafite avete un rapporto privilegiato. - Difatti l’accordo si chiama proprio così, partenariat privilégié, molto raro nel mondo dei bordeaux: in pratica lo trattiamo direttamente con la maison Baron de Rothschild. - Ci dica un ristorante dove le piace andare a mangiare a Milano. - Acanto, anche per la facilità di parcheggiare. Quando resto a Monza amo andare nella nostra enoteca, che si chiama semplicemente Enoteca Meregalli. - Qual è il futuro della distribuzione? - Noi ci muoviamo nella direzione del potenziamento informatico, nel senso che siamo i primi ad aver introdotto il così detto Crm, utilizzato finora dal settore dell’automotive. Si possono indirizzare i gusti e spesso mandare dei messaggi automatici ai clienti. - Oggi pare un inferno poter proporre un nuovo vino ad un cliente: voi come ci riuscite? - Siamo davvero all’avanguardia: oltre alla formazione interna, gestita da un ex dirigente Olivetti, ci avvaliamo dalle prestazioni dei docenti di Dale Carnegie e dei corsi di Fabio Venturi, così come della collaborazione di Hubnet Communication. A quanto pare il Sassicaia non si vende da solo. Joe Bastianich
Distribuiamo i vini di Bastianich dal 2007, quando Masterchef non era ancora arrivato sui piccoli schermi: quei tempi nessuno lo conosceva in quanto personaggio televisivo e forse era un bene No 39
Una storia italiana Dammi un Marzadro Come idea a noi piace e interessa molto la ristorazione moderna, mentre notiamo che si fa più fatica con i locali classici
“L’
anno prossimo l’azienda compie 70 anni. Mia prozia, Sabrina Marzadro, sarebbe così fiera di noi”. Alessandro, il pronipote, parla con un misto di malinconia e orgoglio. E’ chiaro che la figura della fondatrice è ancora molto presente ed è la forza della famiglia e dell’azienda. “Nel 1949, tornata a casa dopo un periodo passato a Roma come badante, si inventò la produzione di grappa per portare avanti la famiglia, decimata dalla guerra: persero la vita due suoi fratelli. Ora fatturiamo 19 milioni di euro, abbiamo 150 agenti vendita, 75 dipendenti e un futuro radioso davanti a noi”. Classe 1986, Alessandro è il responsabile marketing dell’azienda, mentre suo padre, assieme ai due fratelli, si occupano del resto, dalla produzione alla direzione. Ecco le sue considerazioni, asciutte, concrete e senza fronzoli. “Siamo un’azienda prettamente familiare, io faccio parte della terza generazione, ho 32 anni e mi occupo del reparto marketing. A capo ci sono Stefano, Andrea e Anna: il primo è il mio padre, gli altri due i miei zii. Abbiamo 75 dipendenti e un fatturato di 19 milioni di euro, il che ci piazza fra le prime cinque aziende del settore. Stiamo crescendo anno dopo anno, siamo addirittura in doppia cifra per il terzo anno di seguito: senza la contrazione economica forse avremmo potuto ottenere dei risultati ancora migliori. Oggi il consumo è diviso a metà fra la ristorazione e gli acquisti casalinghi. Ultimamente si sono inasprite le sanzioni del codice stradale e di conseguenza la gente preferisce non rischiare, meglio un bicchiere in meno e la patente salva.
Negli anni settanta si consumavano all’incirca 60 milioni di bottiglie, la gran parte a fine pasto. I contadini erano convinti che la grappa aiutasse a digerire, altri bevevano per dimenticare, era un consumo diciamo così funzionale. Poi hanno cominciato a temere l’alcol. Negli anni è cambiato il modo di bere la grappa: prima uno beveva in media una decina a settimana, ora siamo a una. E’ cambiato anche il target, ora si inizia verso i 35 anni e ultimamente ci sono anche le donne ad apprezzarla. In più, sono loro a gestire gli acquisti di casa e anche la regalistica, per cui sono diventate le nostre migliori clienti e alleate. L’Italia è il nostro mercato di riferimento, poi all’estero siamo fortemente presenti in Austria, Svizzera e Germania. Per gli altri mercati ci vuole tempo, si arriva pian piano grazie ai flussi migratori. La Germania è un caso a parte per via del turismo nel nostro paese: arrivano, iniziano a consumare la grappa e al ritorno a casa vanno a cercarla nei negozi, favorendo la richiesta. Molto interessante che ultimamente in Italia si consuma più grappa al sud, soprattutto quella di alta qualità. Comunque qui, in Trento, a casa nostra, la gente la prende ancora al bar, esattamente come mezzo secolo addietro. Quel “Dammi un Marzadro” lo si sente ancora oggi. In Italia ci sono 29 produttori di grappa, però noi siamo i più presenti sul territorio, il che facilità la continuità. Il nostro assortimento è piramidale, nel senso che si parte dalle grappe invecchiate dieci anni, che possono arrivare a costare 160 euro e si va fino a quelle molto giovani che si trovano a 18 euro.
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Nei ristoranti stellati, che propongono dei menu degustazione, si fa più fatica a inserire un nostro prodotto, perché dopo sette portate e cinque bicchieri di vino non hai più il piacere e nemmeno lo spazio per un distillato. Certo, se uno decide di pasteggiare alla carte, scegliendo due piatti, se ne può parlare. Spesso però i sommelier non hanno conoscenze elevate e approfondite in materia: di conseguenza preferiscono non proporla, puntando semmai sulla richiesta spontanea del cliente. Un ristorante che ci regala tantissime soddisfazioni è Il Pescatore: Nadia Santin capisce al volo le situazioni, è una oste fantastica. Come idea a noi piace e interessa molto la ristorazione moderna, mentre notiamo che si fa più fatica con i locali classici. Per quello che riguarda i liquori, il mercato è molto cambiato: se negli anni novanta era un prodotto abbastanza dolce e ogni cliente ne consumava più di un bicchiere al giorno, oggi il livello qualitativo si è alzato, però come volume si nota il segno meno. Si è vissuto un periodo di crisi quando i colossi si sono messi a produrre liquori a raffica, in maniera industriale: in mezz’ora producevano una cisterna, mentre noi, in quanto artigianali, avevamo bisogno di molto più tempo, visto che rispettavamo i metodi tradizionali. Al Nord riusciamo a vendere più liquori, mentre al sud viene premiata di più la grappa.
La nostra filosofia è la stessa da sempre: lavoriamo le materie prime nei primi cento giorni, quando sono fresche
Stefano Marzadro
Per una grappa stravecchia ci vogliono almeno quattro anni, fra sperimentazioni e tutto il resto: il nostro prodotto più importante, 18 lune, è stato diciamo così “progettato” nel 1998 per essere poi pronto nel 2002. Gli intenditori preferiscono la grappa bianca. Ovviamente nel nostro assortimento trovi quelle monovitigno e poi le multivitigno: quest’ultime possiamo considerarle più complesse, mentre le prime hanno i pregi e i difetti del monovitigno stesso. Come idea di base, le nostre uva bianche sono più profumate e meno saporite, mentre quelle rosse sono meno pungenti e, in compenso, più saporite. Le più profumate sono quelle dei vitigni Gewurtztraminer e Moscato. La nostra filosofia è la stessa da sempre: lavoriamo le materie prime nei primi cento giorni, quando sono fresche: non tutti adottano lo stesso metodo, c’è chi preferisce prendersela con più calma e processare le uva per un intervallo di tempo più lungo. Noi facciamo degli sforzi giganteschi, perché spingiamo sull’acceleratore giorno e notte, in tal modo da preservare al massimo i profumi. Più si va avanti e più cambiano, fino a quando iniziano a sapere di formaggio e non di frutto: noi non agiamo così. Per noi si concentra tutto nel periodo autunnale, dalla raccolta delle uva fino alla produzione e alla vendita, perché siamo ancora legati al periodo di Natale, quando le grappe più pregiate vengono acquistate come regalo. Difatti stiamo collaborando con degli artisti che personalizzano le nostre bottiglie, è un servizio in più che offriamo. Gli alambicchi non sono brevettati, seppur avremmo potuto farlo. Come idea ogni azienda si costruisce i suoi, in base agli spazi. Sono tutti in rame, perché il materiale incide, e tanto, sul prodotto.
La sede dell'azienda
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Diamo spesso un’occhiata alle pagine Facebook degli chef, scoprendo molto sulle loro vite. E’ così che ci siamo imbattuti nel testo di Massimiliano Valenti. Ci è sembrato divertente. Speriamo lo sia anche per voi.
I motivi per non sposarsi con un cuoco
“U
h, che meraviglia stare con un cuoco, chissà che cose buone ti prepara”. “Uh, che cosa fantastica stare con un cuoco, chissà in che posti meravigliosi mangiate”. Cara amica, mi sa che non sai granché di cosa vuol dire fidanzarsi con una persona che lavora in cucina. Lascio qui una breve lista dei buoni motivi per non fidanzarsi con un cuoco. 1. Non puoi uscirci a cena. Mai. Forse qualche volta riuscirai a strappare un pranzo, se gli astri si allineano nel modo giusto: non deve aver avuto troppi clienti il giorno prima, non deve aver finito la dispensa e deve poter rientrare più tardi nel pomeriggio. 2. Se vuoi mangiare qualcosa di preparato da lui devi andare al ristorante come cliente: spignattando tutte le sere e sovente anche di giorno quando è a casa l’unica cosa che ha voglia di preparare è pasta con l’olio. 3. In compenso quando gli piglia l’estro sperimenta per ore, lasciandoti a reggere il moccolo o “sfruttandoti” come aiuto-aiuto-aiuto-sguattera e lavapiatti. 4. N on esistono le vacanze. Quell’unica settimana in una stagione improbabile è dedicata al riposo assoluto. 5. Per quanto nella “sua” cucina sia disciplinato e maniacale, a casa resterà sempre il solito caciarone che lascia 22 pentole sporche in un grattacielo instabile. In compenso usa il triplo degli attrezzi per fare le stesse cose per cui a te basta un cucchiaio di legno. 6. P repari da mangiare e non c’è mai una cosa che sia “perfetta”: “forse aggiungendo della maggiorana”, “manca di personalità”. Stizzita gli rispondi “mbeh, allora fallo tu” e ricadi nel punto 2.
7. Q ualunque angolo di qualunque stipetto della cucina deborda di attrezzi, accessori, teglie, terrine che magari userà una sola volta, ma guai a toccarle. Poi ci sono gli stipetti per gli allestimenti. E vuoi non comprare quel nuovo carinissimo gadget per la cucina? Insomma, se avete una cucina normale, di quelle dai 12 ai 20mq, vi ritroverete con i suoi oggetti impilati fino al soffitto. E fare anche un uovo al tegamino diventa impresa. 8. Le sue mani sono ruvide, callose, piene di tagli. Come farsi accarezzare con la carta vetrata. Ottimo per lo scrub, però, a ben pensarci. 9. Sentirai racconti talmente incredibili sui comportamenti dei clienti nei ristoranti che avrai voglia di chiedere scusa ogni volta che ti siederai a un tavolo. 10. L a vostra storia se non lavorate insieme somiglia a Ladyhawke: quando lui va a dormire tu ti alzi per lavorare e viceversa. Vi scambiate giusto il mugugno del buongiorno e quello della buonasera. Se tutto questo non ti ha ancora fatta desistere, allora puoi fidanzarti con un cuoco. Magari non è una vita semplice ma avrai accanto una persona quasi certamente aperta e cordiale, che non teme il lavoro duro, che sa che le cose funzionano bene solo quando si fa “squadra” e che ognuno ha le proprie peculiarità che riescono a comporre l’armonia finale, senza disdegnare anche le note aspre. E ovviamente un amante del cibo, in tutte le sue forme.
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Sentirai racconti talmente incredibili sui comportamenti dei clienti nei ristoranti che avrai voglia di chiedere scusa ogni volta che ti siederai a un tavolo
Ristolandia
I mammasantissima
C
he brutto paese, Ristolandia. Per fortuna noi viviamo in Italia dove non esistono dei mammasantissima convinti che il mondo inizia e finisce con loro. Pensate un po’ cosa può succedere in un paese come quello: il più importante gruppo editoriale propone ad una giovane donna di pubblicare un libro di ricette. La voce gira e i mammasantissima, cattivi come il fiele e sempre pronti a spazzar via chi osa palesarsi nel loro mondo, diventano paonazzi. Iniziano a minacciarla e a fare pressioni, chiamandola e vomitando frasi del tipo “Non sei ancora pronta per un libro
con quel gruppo editoriale”. Come se qualcuno avesse chiesto loro un parere. La ragazza, ancora giovane, invece di rispondere “Grazie dell’interesse, semmai avrò bisogno di un consiglio la chiamerò”, sta sulla difensiva. Un altro si è spinto ancor più in là, tuonando: “Noi aspettiamo da 30 anni a fare un libro con quel gruppo, mettiti in fila, disgraziata sgualdrina”. Pure qui, la ragazza avrebbe potuto ribattere e rispondere “Scusa, se loro hanno scelto me e non te, qualcosa vorrà dire, forse sei scarso, forse non interessi, forse non piaci”. Ma pure qui si mise sulla difensiva. Il colmo arrivo con il terzo che si considera un gradino sopra Dio. Respirando la morte tuona: “Devi rinunciare al libro”. Si vede che la giovane donna era davvero priva di esperienza, perché al suo posto qualsiasi altro avrebbe risposto “Mi scusi, ma lei chi sarebbe esattamente, per dirmi cosa devo e cosa non devo fare?”. Ma qui lei ebbe la battuta pronta e replicò sorridente: “Mi spiace, il libro esce la prossima settimana”. Immaginatevi le facce paonazze dei baroni del mondo del food, convinti che non si debba muovere foglia senza il loro permesso (ma è tutto nella loro mente, in realtà contano molto meno di quello che pensano tronfi mentre si guardano allo specchio). Uuuuuh che sollievo che non viviamo in quel paese lontano, Ristolandia. Perché qui sono tutti rispettosi dell’altro, e ognuno cerca di primeggiare e pensa ai cavoli suoi, non a distruggere le carriere degli altri. Sarebbe davvero brutto avere fra di noi questi malati di onnipotenza.
Matteo Marra
M
Dal Magna ad Armani
atteo Marra ha lasciato Magna Pars e il ristorante Da Noi. Ora lo troverete da Armani Cafè, locale che può e deve fare di più (la qualità è media bassa, il servizio anche, l’affluenza invece è alle stelle). In sei anni al Magna ha creato uno staff di prim ordine, basta guardare i camerieri: mai un movimento a vuoto, sono silenziosi, felpati, si ricordano quello che hai ordinato la volta prima, sono preparati e sorridenti. Perfetti. Con lo chef Giuseppe Postorino ha instaurato
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un rapporto più che fraterno, sono complici: se la cucina di Giuseppe brilla, il merito è anche di Matteo. Sono cresciuti insieme in questi anni e sono cresciuti benissimo. Matteo trasmette serenità e infonde sicurezza a tutti, dicono che la colazione fili come la Ferrari e si sa, per un cinque stelle lusso la colazione è fondamentale. E’ sveglio, veloce, molto educato. Se avrà le mani libere farà brillare pure l’Armani Cafè (ora è solo un ritrovo, oppure una tappa obbligata per turisti in vena di vanterie e selfie). In bocca al lupo.
STARBUCKS Finalmente a Milano
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due mesi dall’apertura, il via vai continua come se fosse il primo giorno. Code festanti, seppur brevi. Curiosità, tanta. Atmosfera, un misto fra la macchina del tempo e lo stupore. Il posto piace a tutti, lo si capisce subito dagli sguardi della gente, ammirati e conquistati da tanta bellezza. Chi denigra non merita spazio e interesse, chi fa, crea e produce invece merita solo applausi. Siamo da sempre dalla parte dei colossi, perché nulla è stato loro regalato e si è cominciato da un’idea, quasi sempre semplice. Prendete la Coca Cola, poi il MacDonald e via dicendo, fino a Starbucks, Facebook e via dicendo.
Starbucks è un modo di vivere, racconta qualcosa su di noi: chi esibisce ben in vista i bicchieri bianco-verdi lo fa con orgoglio, il che significa che il colosso ha saputo colpire menti e cuori
E ora, cinque premesse e cinque brevi considerazioni su Starbucks.
Le premesse
1. I n quanto cultori del capitalismo e delle multinazionali, siamo fan Starbucks a prescindere e di conseguenza ne parliamo con rispetto. A Schultz poteva andare male,
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invece ha vinto e va avanti come un treno, ovunque in giro per il mondo. 2. Ci fanno ridere e inorridire le isterie feroci dei coloro che urlano al nemico, quando poi nei loro bar sei costretto a sorseggiare un caffè tremendo e il servizio è spesso respingente. 3. E’ pittoresco sostenere che la gente non capisce la qualità solo quando fa comodo: tradotto, non è che se la gente riempie i vostri locali allora se ne intende, mentre se va dagli altri è ignorante e superficiale. 4. Starbucks non è una americanata, bensì un modo di vivere, racconta qualcosa di chi ci entra, è ormai parte delle nostre vite: chi esibisce ben in vista i bicchieri bianco-verdi lo fa con orgoglio, il che significa che il colosso ha saputo colpire menti e cuori, fatto non secondario. Il marketing funziona solo e quando viene fatto in maniera sentimentale, Starbucks lo fa. 5. L’apertura a Milano farà del bene anche i piccoli produttori nostrani, i quali, orgogliosi, vorranno dimostrare che il loro caffè vale molto più dell’espresso proposto dalla multinazionale.
Le considerazioni
1. I l target è alto, identico alla gente che bazzica il Caffè Armani, per fare un esempio. Turisti di un buon livello, milanesi che prendono l’aperitivo da Bulgari, imprenditori, gente che viaggia con il laptop e cerca un posto carino e piacevole per lavorarci un paio di ore quando si è fuori sede. 2. Per essere una caffetteria (ok, Roastery) si è investita una quantità di soldi esagerata e forse si è voluto strafare. Però l’effetto wow è assicurato.
3. Q uel macchinario nel mezzo è un pugno nell’occhio: la torrefazione occupa la gran parte della sala, è ingombrante, seppur utile alla causa. 4. L ’angolo Princi è ben fatto, però qualsiasi prodotto o fetta di pizza costa in media due euro in più rispetto al Princi situato cinquanta metri più avanti. Non un’idea brillantissima, ma l’affluenza di pubblico racconta il contrario: forse alcuni di loro non sapevano nemmeno dell’esistenza della catena di panificazione. 5. I l personale è molto premuroso ma esagerano nel voler fare i primi della classe ad ogni costo. Alcuni ti spiegano il funzionamento del bollitore inventato da un chimico tedesco nell’ottocento, ma se volessimo lezioni e informazioni andremmo al museo della scienza. Qui in principio uno viene per un caffè (buonissimo va detto) e per rilassarsi. Hai la sensazione di essere trattato come un bambino nella prima elementare.
Conclusione, tutto molto bello e buono, tranne quel macchinario in mezzo: è fuori luogo, quasi pacchiano, oltre a toglierti lo spazio per respirare. Ci dicono che produce il fabbisogno di una gran parte dei punti Starbucks sparsi per l’Europa, ma non capiamo comunque il senso, si poteva prendere un capannone fuori città. Oppure l’idea è di pagarsi l’affitto del locale in Cordusio con il caffè prodotto della tostatrice. Ci sta, ma onestamente avremmo preferito uno spazio aperto, senza l’ingombro dei macchinari. Comunque ci alziamo in piedi davanti a Howard Schultz e ad Antonio Percassi, perché è lui l’uomo che ha portato Starbucks in Italia. E non dimentichiamolo, prima qui c’era un ufficio postate malandato, grigio, triste e senza alcun futuro.
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The Good Life Book D
ue volte l’anno Esquire pubblica una meraviglia di stile che si chiama Big Black Book. Il formato è più grande rispetto alla rivista ed è una specie di bibbia per gli americani e non solo. Non si tratta di un supplemento di moda markettaro e prevedibile, non è una pubblicazione nostrana piena di finti articoli che alla fine sono solo una triste giustificazione per mettere nel calderone di tutto e di più, in base alle amicizie e alle convenienze. Non è nemmeno una roba da snob modaioli, con capi e articoli al limite del ridicolo, di quelli che ti chiedi “Ma che senso ha?”. No, Big Black Book è il regno della raffinatezza, l’essenza dello stile, dell’eleganza che non pesa, ed è davvero una guida per degli acquisti mirati. Sa suscitare il desiderio e l’illusione, però quello che ci affascina è l’impaginato, poi copiato anche dalle altre riviste (che triste, copiare una grafica). E’ straordinario, seppur semplice, o forse è straordinario proprio per questo, non cercano di reinventare un mondo e di strafare. Siccome viviamo ossessionati da un instancabile appetito di emozioni, abbiamo provato a fare un giochino: riusciremo a vestirci sfogliando le pagine di Big Black? Ovvero, se avessimo acquistato e indossato quello che la rivista proponeva, ci saremmo sentiti appagati? La risposta è stata: si, decisamente. Forse perché il target di riferimento sono prevalentemente i businessman e gli avvocati di successo, gente tosta
Big Black Book è il regno della raffinatezza, l’essenza dello stile, dell’eleganza che non pesa, sa suscitare il desiderio e l’illusione, però quello che ci affascina è l’impaginato
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e dal gusto sicuro, dandy ma non troppo: nessuna voglia di dare nell’occhio, ma solo eleganza che non pesa, dove pure il colore intenso e frizzante sta per elegante e cool. Una camicia su misura, una giacca sartoriale, delle sneakers di alto livello, una valigia di pari passo e via discorrendo. Quando la proposero al comitato direttivo della casa editrice, dissero che lo scopo era di guidare la gente e aiutarla a non buttare via i soldi. Ed è vero: ti portano per mano verso quel tipo di borsa, camicia, giacca e tagliasigari che sarebbe un delitto non avere. Sono dei numeri da collezione, da sfogliare e risfogliare ogni tanto, il piacere è sempre immenso, come se fosse la prima volta. E poi raccontato qualcosa di te, li esibisci con orgoglio. Va detto che ultimamente ha cambiato leggermente la grafica e ci piace di meno, così come ci piace molto meno Jay Fielden, il nuovo direttore arrivato al posto di David Granger, per vent’anni mente della rivista. E’ rimasto invece Nick Sullivan, l’uomo della moda e colui che sceglie i capi da pubblicare. Tornando a noi, d’ora in poi dedicheremo un bel po’ di spazio alle aziende che ci piacciono visceralmente e che seguiamo con piacere, quelle che vivono per i momenti wow. Molti non sono i nostri inserzionisti né lo saranno: la gran parte di loro non hanno mai fatto pubblicità, altri investono solo nei media ultra conosciuti, altri ancora sono artigiani che per filosofia e dimensioni non possono o non vogliono arrivare al grande pubblico: proprio per questo potete essere certi che sceglieremo senza alcun condizionamento. Certo siamo soggettivi e ci piace esserlo, perché ci guidano i nostri gusti e non quelli degli altri. Capiterà anche qualcuno che vi farà storcere il naso, però ripetiamo è questione di gusti. Di sicuro sarà tutto a costo zero.
Tod’s A
spirazionale. Si, ci piace la parola e siamo ossessionati dal suo significato, difatti lo cerchiamo un po’ ovunque, spesso in maniera involontaria. E’ come una specie di bussola che ci guida alla ricerca di argomenti, appunto, aspirazionali. Tods ne è l’essenza. Da almeno vent’anni le riviste patinate ce lo ricordano, sempre nelle prime pagine, perché l’azienda acquista spazi pubblicitari esclusivamente in quella fascia: non potrebbe essere diversamente, visto il prestigio e il fascino. Non importa se sfogli Esquire, Arbiter, Vanity Fair, o qualsiasi altra rivista ideata per un target alto: Tods c’è sempre, per di più con delle creatività di rara eleganza. I colori sono caldi, i personaggi rilassati, spensierati e rassicuranti, le atmosfere anche. Il risultato è ogni volta lo stesso, ti viene subito la voglia di prendere le chiavi e uscire per trovare il primo negozio mono o multimarca dove poter acquistare almeno un paio di mocassini. Hanno creato uno stile ben preciso, immediatamente riconoscibile: parliamo sia delle collezioni che delle creatività. L’unico dilemma è se la gente ha iniziato ad acquistare i “gommini” per via della pubblicità oppure se le pubblicità vengono create in base alla gente che acquista. Perché, va detto, raramente abbiamo visto altrove una tale identificazione fra le due parti, fra prodotto e cliente: uno attira l’altro, si confondono e si completano perfettamente. Se potessimo, cambieremmo le parole che immancabilmente accompagnano gli articoli sul gommino: da almeno dieci anni, ovvero da quando la dittatura dei comunicati stampa fotocopia ha letteralmente svuotato il linguaggio da qualsiasi emozione, si ripetono le stesse parole trite e ritrite in maniera stanca e stancante. Certo, la fortuna vuole che le scarpe e le pubblicità siano così belle da farti dimenticare il grigiore dei testi: chissà se il trend cambierà, temiamo di no. Di sicuro Tods merita articoli più frizzanti e un linguaggio più elegante, ricercato e, perché no, sensuale. Per ora incappiamo solo in veline e frasi prese da wikipedia, oppure i nomi dei vari personaggi che indossano i gommini dell’azienda di Casette d’Ette. L’azienda è anni avanti rispetto al linguaggio dei media, cercando sempre di creare l’effetto wow: prendete per esempio il quarto piano della boutique di Via della Spiga, una specie di club segreto per gli amanti dei tempi che furono, quando gli uomini spendevano le serate insieme sorseggiando whisky e fumando sigari, cenando e sfogliando i quotidiani. E’ il Sartorial Touch, dove gli appassionati e gli affezionati possono trovare le cartelle dei colori e delle peli pregiate per realizzare scarpe su misura. E poi guardate il modello che abbiamo scelto: leggerissimo, sottile, classico, pregiato, in pelle spazzolata dalla finitura anticata, con impunture a vista realizzate a mano e con il morsetto in metallo personalizzato. Non puoi non acquistarlo. Subito. Perché è aspirazionale.
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Facenti, le voglio! Per irriducibili dandy
E’
stato amore a prima vista e ammettiamo di essere ancora innamorati come il primo giorno. Le calze dell’azienda bresciana sono irresistibili: fossero da mangiare le finiremmo in un sol boccone. Guardarle è un piacere, indossarle ancor di più: sono come il mare d’autunno in una calda giornata di sole, mettono allegria, sono un misto fra la solarità e la creatività italiana. Propongono sempre un assortimento ricco, ti svegli con la voglia di sceglierle e di indossarle, le guardi e ti regalano la felicità immediata, ti vesti con gesti lenti come carezze. L’azienda trabocca di idee, sono passionali e creativi, la roulette dei colori è infinita, alcuni sono elettrici, altri violenti. Osano, sanno trasmettere ottimismo, perché poi non dimentichiamo che le calze sono una specie di barometro sociale, una chiave di lettura dei tempi, spesso con la crisi si ha poca voglia di colorarsi la vita e si va verso il blu e il grigio, quasi senza accorgersene. Si presume dunque che l’acquirente delle calze Facenti poco vuole pensare ai tempi cupi, oppure intende sdrammatizzare, vivere con leggerezza e spensieratezza. Più probabilmente è un dandy moderno, vuole piacere, a se stesso prima di tutto.
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Lo stile Boggi L’uomo cosmopolitano
A
ben pensare, sono stati i primi a credere per davvero nel connubio alta ristorazionealta moda. Ricordate? Correva l’anno 2014 quando i fratelli Zaccardo ebbero l’idea di aprire un locale gourmet all’ultimo piano del palazzo acquistato in Piazza San Babila. Lo chiamarono Asola, perché l’idea era quella di un ristorante con cucina sartoriale: per la cronaca, il copyright ed i “diritti” dell’espressione spettano a Claudio Zaccardo, uno dei tre fratelli che, dopo aver creato la catena di negozi Bryan&Barry hanno acquistato anche Boggi, una vera e propria istituzione a Milano. Fino all’inizio del nuovo millennio gli store Boggi non superavano il perimetro della città meneghina: dopo l’acquisto si sono estesi un pò ovunque, arrivando a quota 160 in 33 paesi. Una crescita sensazionale, ponderata, voluta, studiata, meritata: complimenti. Per tornare un attimo all’Asola, a quei tempi fu qualcosa di rivoluzionario: di cucine a vista ce ne erano poche. E’ identica a quella del famoso Atelier di Robuchon a Parigi, nel Sant Gemain, in via Montalembert. Il posto fu preso d’assalto fin dal primo giorno e continua a esserlo pure oggi, perché oltre al fascino del locale ci sono i piatti di Matteo Torretta, il gigante buono che, parole sue, propone una cucina “internazionale, riconoscibile,
onesta”. “Asola è il mio progetto”, continuava lo chef in una intervista rilasciata a Il Giornale proprio nel 2014, “è esattamente come lo sognavo, in più guardo Milano dall’alto, impossibile chiedere di più: l’architetto Luca Cuzzolin è stato straordinario. Ho voluto un ristorante come quello di Robuchon perché nel 2002, appena finito il militare, sono andato a Parigi, rimanendo a bocca aperta davanti al suo ristorante Atelier: è stato il primo ad abbattere le barriere fra chef e clientela. Da Asola ci si sente esattamente come là, la famiglia Zaccardo è venuta con me a Parigi, studiando in ogni dettaglio il locale di Joel”. Fin qui il mondo della cucina dei Zaccardo, che fra l’altro hanno dedicato un altro piano alla ristorazione, nello stesso palazzo di San Babila: ora invece concentriamoci sulle collezioni Boggi. Prima del loro arrivo era tutto molto lineare, austero ed elementare: venivano conosciuti per dei negozi dove acquistare un abito “corretto” e una camicia classica di un livello medio. Da loro si vestivano gli impiegati di banca e i ragionieri, ora è tutto cambiato: entri da Boggi e trovi tante similitudini con l’universo Bryan Barry: sono cambiati i colori, lo stile, il livello si è notevolmente alzato, lo si capisce dai tessuti e dalle proposte: sono cool, e tanto. L’immagine che abbiamo scelto lo dimostra.
No 49
La guida Michelin non è X Factor
I
n maniera assai pittoresca qualcuno ha scambiato la Michelin per San Remo oppure X Factor, dove la gente, stando in pigiama e con i bigodini, vota da casa il cantante preferito con le dita unte di patatine. Poi ci sono quelli che pensano che la guida sia un ministero che debba accontentare tutti, dal sud al nord, in maniera equa. Appena esce la lista delle nuove stelle si legge di tutto, come se la Michelin avesse dei doveri nei confronti di non si sa chi. Si è letto perfino che non è stato giusto svantaggiare la Liguria proprio ora, con la caduta del ponte. Per cui alla Michelin cosa avrebbero dovuto fare, dare due stelle ad hoc come risarcimento? Ma perché???? Certo, è bello avere dei pareri personali, tutti ne abbiamo: il colore preferito, la squadra del cuore, il cantante e l’attrice. Ma sono gusti, appunto, personali, li teniamo per noi e lo diciamo agli amici. La Michelin è un mondo che non ci appartiene, non ci include, non è interattivo, non spiega e non giustifica, com’è giusto che sia. Loro lo fanno di mestiere, non hanno slanci come i nostri, che vogliamo venisse premiato lo chef sotto casa oppure quello che piace a noi. Loro hanno dei criteri rigidi, mentre noi no, parliamo a braccio e pensiamo d’istinto, il che è bellissimo e romantico, ma il mestiere è una e i gusti sono un’altra cosa. In molti pensano di saperla più lunga della Michelin solo perché “noi siamo noi e sappiamo a prescindere”. Tradotto, sono dei dilettanti mentre i professionisti e gli intenditori siamo noi. Si, ciao Pep. In base ai quali criteri non è dato sapere. Sorvolando sul ridicolo della situazione, forse non sarebbe male chiedersi se forse abbiamo torto noi e che il giusto stia dalla parte della guida. A San Siro ci si diverte sempre a vedere come uno si alza
Qualcuno ha scambiato la Michelin per San Remo oppure X Factor, dove la gente, stando in pigiama e con i bigodini, vota da casa il cantante preferito con le dita unte di patatine
No 50
dalla tribuna e dà del cretino ad un allenatore che prende 4 milioni l’anno. Viene sempre da chiedergli “Scusa, come mai lui è seduto lì, mentre tu stai qui in tribuna a bere birra e mangiare noccioline? Non sarà che ci capisce più di te?”. Ecco, vale anche per la Michelin, loro sono pagati esclusivamente per dare dei giudizi, mentre molti altri lo fanno per sport e per far passare la giornata. Un po’ di buonsenso, please, anche se nulla cambierà, perché siamo sempre convinti di essere un gradino sopra tutti. Ovviamente alla Michelin nulla importa di tutto ciò e va tranquilla per la sua strada, ridendoci sopra. Viviamo in un mondo dove ognuno può dire la sua, ma non per questo uno si deve illudere di avere pure ragione. Ps: A fine febbraio, il milione per cento dei commenti saputelli era “Vabbè, è tutto scritto, Cracco ha aperto giusto in tempo per prendere la seconda stella, è ovvio che ora gliela daranno solo perché ha aperto in Galleria, che schifo”. Sott’inteso, il senso era che “noi quelli che la meritiamo veniamo sempre dopo le logiche del potere, degli interessi e intrallazzi” Lo dicevano chef, pittoreschi commentatori ed esperti alle vongole. “Vabbè, funziona così”, sdottoravano rassegnati. Perché loro sanno come funzionano le cose, non c’è verso di fregarli. Difatti Cracco non ha preso la seconda, ne ha ancora una, come l’anno scorso. E’ l’ennesima conferma del fatto che la Michelin è impermeabile a qualsiasi moda e giudizio esterno, con buona pace dei coloro che vivono perennemente con il complesso di superiorità e con la frustrazione che la Michelin ignori il loro pensiero (ci mancherebbe altro).
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