Good
Michelangelo
MAMMOLITI Fucking fabulous
Foto: Brambilla Serrani
A CIASCUNO IL PROPRIO STILE A CIASCUNO IL PROPRIO STILE OGNI VIAGGIATORE È DIVERSO E OGNI VIAGGIO DEVE ESSERE A MISURA DEL VIAGGIATORE OGNI VIAGGIATORE È DIVERSO E OGNI VIAGGIO DEVE ESSERE A MISURA DEL VIAGGIATORE
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Editoriale Selvaggia, Allan e Chef & Maitre
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l caso più eclatante è quello dell’ottima Selvaggia Lucarelli. Quando scrivo l’articolo, il numero di persone che la seguono su Facebook è pari a 1.241.264: una follia. Nei suoi confronti si scatena, non sempre in silenzio, la più feroce frustrazione professionale possibile. Il motivo? Semplice: quasi nessun giornalista ha un seguito del genere e, con l’ego smisurato che si trovano, tutti vorrebbero vantarsi di un tale numero di lettori adoranti. E invece ciccia. Nessuno se li fila, o quasi. Morale? Dicono che un lettore su Facebook vale meno di uno dei “loro”. Francamente, tolto il Wall Street Journal e il Financial Times, nessun quotidiano offre dei contenuti così fondamentali e importanti da dover acquistarlo. Certo, trovi sempre qualche articolo interessante, però ci siamo capiti: si può fare a meno. Le notizie arrivano sui tablet e sui telefoni, figuriamoci. Si aggiunge il fatto che il milione e passa che segue Selvaggia segue lei e solo lei, sono dei lettori costanti e personali: sono i followers della sua pagina, non di un quotidiano. Tradotto? Quando sfogli un giornale non sai quanti leggono cosa: qui è chiaro: 1.241.264 persone leggono Selvaggia. Messi insieme gli acquirenti di quotidiani in Italia, non si arriva a metà. Ogni altro commento è inutile. Ma poi, oggi ha ancora senso parlare di lettori di quotidiani e lettori internetiani? E soprattutto, la pittoresca idea della vecchia guardia secondo la quale il lettore della carta stampata possa essere considerato intellettualmente superiore, ha ancora un senso, semmai ne avesse avuto uno? No, è la semplice storia della volpe e dell’uva: si vedono spodestati, emarginati, perdono potere e il fatto rode assai. Un lettore è un lettore. Perché sulla carta stampata si scrive nella stessa lingua che sui siti e sui social network, anzi, si scrive senza filtri, ovvero quello che si pensa per davvero. Il linguaggio è più veloce e immediato, si deve essere brevi e destare interesse subito: tantissimi giornalisti della “carta stampata” non avrebbero un lettore o quasi, per come scrivono. Sul web devi essere frizzante, intrigante, ficcante. Cosa vogliamo dire? Che Selvaggia ha 1.241.264 lettori. Non di categoria A oppure B, bensì lettori. Facciamo un’altro esempio, Allan Bay: cosa cambia se lo leggi sul Corriere (per la verità ha abbandonato la sua rubrica), oppure su Facebook? I suoi suggerimenti, concetti, gusti, le sue idee e parole sono esattamente le stesse. Gli piacciono gli stessi identici ristoranti: cosa cambia se lo scrive sul quotidiano,
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sulla propria pagina, oppure sul suo sito (www.allanbay.it). Altra considerazione: se un quotidiano ha ics lettori, quanti ne ha un articolo singolo? Mettiamo che in media un articolo viene letto da una persona su 20, ma siamo generosi. Di conseguenza, non supera 5-10.000 lettori, numero per nulla eccezionale. Il discorso vale ancor di più per i media settoriali: quale rivista di cucina potrà mai vantare 200.000 seguaci appassionati? Nessuna o quasi. Invece la pagina Facebook di Chef&maitre sì. Avere un tale numero di persone innamorate del cibo e degli chef, con gli stessi chef partecipanti e membri del gruppo chiuso, è un caso da studiare. In più, un numero che fa gola a qualsiasi inserzionista, e qui facciamo un altro dispiacere ai soloni del mondo che fu. C’è un nocciolo duro di 200.000 lettori, numero in continuo aumento, che partecipa, legge, si infervora, applaude e critica. Come nel caso di Selvaggia. 200.000 che leggono quasi ogni post e commento. Lettori consolidati, fedeli e fidelizzati. A loro puoi vendere un prodotto e, senza la minima paura di sbagliare, porti i dati esatti. Le riviste come Good Life possono essere più belle, più curate graficamente, hai la possibilità di poterla sfogliare e ammirare, è aspirazionale, però i numeri sono altrove. Noi proponiamo un mondo patinato, Facebook dei numeri da sballo. Il futuro è qui, mixando le due realtà. Ma il numero di lettori è infinitamente superiore sul web. Dunque, vale di più.
Nessuna rivista di cucina potrà mai vantare 200.000 lettori appassionati, fedeli e fidelizzati. Nessuna o quasi. La pagina Facebook di Chef&maitre sì
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Foto: Monica Cordiviola
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Felix Lo Basso Abbiamo scritto così tante volte di Felix che, in principio, non dovremmo
avere più nulla da inventarci. E invece, argomenti a iosa. L’apertura a Trani, il suo stato di grazia, i piatti miagolanti, il nuovo libro. E’ lui che ci alimenta, ci spinge a farlo e a frequentarlo, perché ha un’energia infinita, soprattutto in questo periodo: vive uno stato di grazia e si vede.
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Giuseppe Postorino Il nuovo menù dello chef del ristorante Da Noi è concreto e convincente,
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Carlo Tinelli E’ autorevole. Garbato. Deciso. Veloce nel pensiero. Astuto. Chirurgico
alcuni piatti sono saporiti come un bacio, i gusti pieni, lo stile è ricco, a volte sofisticato. Cucina pittorica, ispirata, allegra, sensuale: i ravioli ripieni di cozze e patate dolci si sciolgono in tutto il corpo, i gusti e i profumi ti stordiscono, esplodono sul palato e ti avvolgono come una sinfonia, il fuoco comincia a vibrarti nelle vene. Piatto elegante e violento allo stesso tempo, eccitante e potente.
nelle analisi. Perfezionista, per contratto e modo di essere. Carlo Tinelli ha il piglio del leader, sa il fatto suo. Testa alta, parlatina fine e asciutta, da manager qual’è. Mai una parola in più, mai una parola fuori luogo. E’ arrivato da Trussardi un anno fa e ha cambiato tutto, dalla brigata alla filosofia: i risultati si vedono.
Il tiramisù di Giuseppe Postorino
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Carlo Tinelli e Roberto Conti
Il ristorante Gong
Gong Sublime. A tratti divino. Esagerazioni? No. Esaltazione? Forse. Perché
è uno di quei ristoranti per i quali vale la pena vivere e fare questo mestiere, ovvero provare il meglio e raccontarlo ai lettori. Voto dieci più, dall’estetica all’organizzazione, dalla lista degli champagne al personale di sala, dalla cucina all’atmosfera. E poi, ammettiamolo: non si era mai vista una situazione del genere: tre fratelli, tre ristoranti con incassi mirabolanti, tre ristoranti dove splende e funziona tutto, tre macchine da guerra dove è difficile trovare un posto senza prenotare.
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Foto: Monica Cordiviola
Felix lo Basso A
Il mio mondo
bbiamo scritto così tante volte di Felix che, in principio, non dovremmo avere più nulla da inventarci. E invece, argomenti a iosa. L’apertura a Trani, il suo stato di grazia, i piatti miagolanti, il nuovo libro. E’ lui che ci alimenta, ci spinge a farlo e a frequentarlo, perché ha un’energia infinita, soprattutto in questo periodo: vive uno stato di grazia e si vede. Negli ultimi sei mesi ha innescato la quinta, proponendo dei menù sbalorditivi per gusto, idee e colori. Nel numero passato avevamo elogiato il suo risotto all’astice, ma solo di sfuggita. Tornarci sull’argomento è un dovere, oltre che un piacere, vale da solo la seconda stella: mare e montagna, tartare di astice e champagne, sa di tutto e di mille cose insieme. Cotto nel latte e poi nello champagne, il risotto canta, è di una rara eleganza e delicatezza. Il jus, sempre di astice, sussurra segreti. E’ come accarezzare i fianchi a forma di violino di una donna mozzafiato, con la quale avete appena fatto all’amore. E’ come assaporare la sua pelle, è come andare sulle montagne russe. Le animelle, piatto agli opposti, povero in origine, non è da meno: impanate, alla milanese, di vitello. La carne, ovviamente, arriva dai Fratelli Varvara, piccola azienda pugliese, perché Felix acquista quasi tutto da quelle parti. Non lo fa per campanilismo, non gli
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serve: lui è convinto che i prodotti della sua terra siano di gran lunga i migliori. Dovete vederlo quando elogia la sua Puglia, gli lacrimano gli occhi. Ammettiamolo, alcuni lo sono, se preparati da lui di sicuro. Lo jus di acciughe, mossa diabolica, è il tocco da maestro che fa la differenza. Gli gnocchi con cime di rapa, tartufi di mare, scamorza affumicata e bottarga lasciano a bocca aperta. Assaggi e non riesci a ricordare tutte le emozioni che provi, è sballo puro. Scintille di piacere, mentre la bocca diventa sempre più avida. Deliziose sensazioni, da vivere in maniera lenta e sognante, guardando Milano dall’alto. Idem la zuppa di zafferano, piatto che ti porta a superare le classiche frontiere gustative. I suoi piatti sono sentimentalismo puro, perché oltre la tecnica lui ci mette un cuore grande così, mentre altri stellati, forse più riveriti e blasonati, presentano delle creazioni perfette ma fredde, tecnicamente ineccepibili però senza una anima. Siccome mangiamo con il cuore, preferiamo lui: per una cena romantica, per un pranzo spensierato, per sentirci vivi e per continuare a sognare: é qui che stravince Felix. Da qualche mese ha un chiodo fisso: conquistare la seconda stella. Avere soltanto una inizia a stargli stretto: lo pensiamo ogni qualvolta morsicchiamo i suoi amuse bouche, perché lui è uno
di quelli che vive per fare della ristorazione uno spettacolo. Cambia e investe una montagna di soldi in piatti, lampadine da tavola, ti stordisce con la sua voglia di stupire. Vuole conquistarti e ci riesce fin dall’inizio, perché un ristorante stellato deve essere questo, una grande e continua emozione, altrimenti vai in una trattoria. Gli amuse bouche sono dei giochi alla Copperfied, piccole magie che ti fanno sorridere, ti si illuminano gli occhi. Ha superato la quarantina, il suo ristorante è un bijou, la vista è la più bella del mondo. Non manca nulla. Vai da lui e hai tutto. Sarà un caso, ma da quando si è fissato la seconda come obiettivo, i piatti sono molto più evoluti, complessi e raffinati, si respira un’aria più cosmopolita e sofisticata. Certo, stare in Piazza Duomo aiuta, la clientela lo spinge a superarsi. A Trani, invece dove ha aperto di recente (1 di marzo, per esattezza) il discorso è più lineare, la matrice della sua cucina è più schietta, prettamente pugliese: giusto così. “Qui a Memorie faccio una cucina ancor più legata al territorio”, ci racconta. “E’ impostata sui prodotti locali, mi piace promuoverli e valorizzarli, lo sento come un dovere, oltre a crederci visceralmente. Il pane lo prendo da Antonio Cera, il pesce da Filamino, i frutti di mare da Michelittica, azienda con la sede proprio a Trani. A me piace parlare e frequentare i produttori, sentirli raccontare, toccare i loro prodotti. Non mi interessa leggere le mail con le proposte, vieni da me e parliamo, poi vediamo. Il ristorante è la novità dell’anno, nessuno prima aveva proposto qui una cucina innovativa con dei prodotti locali. Prepariamo gli snack di benvenuto davanti alla clientela, la mise en place è elegante, vorrei abituare la gente del posto a pensare la ristorazione in una maniera diversa: si deve uscire anche durante la settimana, non solo per un evento importante. In cucina ho scelto dei ragazzi giovani, motivati, guidati da Roberto Boccassini che è stato con me a Milano per un mese intero, imparando la mia filosofia. Per lui è un esame importante, viene dal mondo della banchettistica, prima lavorava a Villa Ciardi. In molti mi hanno chiesto perché ho aperto proprio a Trani, ma Trani è una città meravigliosa, meno conosciuta per i vacanzieri, che preferiscono andare da Monopoli in giù. Qui c’è un turismo più locale, vengono da Andria e da Barletta, in tanti hanno qui le seconde case, siamo sul lungo mare. Il menù è diverso rispetto a quello che propongo a Milano, mi sono portato solo alcuni piatti, come il risotto alla parmigiana, l’insalata di riso, cozze e patate e il chicco cremoso. Di nuovo e buono ho creato l’agnello dei Fratelli Varvara in tre consistenze, il carpaccio di gamberi, le braciole di cavallo con all’interno lardo, pecorino, aglio e prezzemolo, cotte nella salsa di pomodoro., poi il doppio raviolo e la pasta di semola servita con brodo di granchi. C’è ancora tanto da lavorare, cerchiamo un’identità precisa, l’inizio è stato positivo, la sala e il ristorante le gestisce il mio fratello. Cerchiamo di fare qualcosa di diverso, abbiamo anche creato un angolo sartoriale, dove vengono esposte le camicie di Angelo Inglese, pugliese doc come me: le sue giacche da chef fatte a mano sono musica pura. Puglia e pugliese fino al midollo e questo si sente, piacevolmente. E’ tutto così intenso e gustoso, verace ed elegante da rimanere sbalordito, attonito. Esci con la voglia pazza di tornare al più presto, per provare altre emozioni del genere, per vivere un sogno interminabile e indimenticabile. Felix Lo Basso. Immagina, puoi.
Felix acquista quasi esclusivamente materie prime pugliesi. Non lo fa per campanilismo, non gli serve: lui è convinto che i prodotti della sua terra siano di gran lunga i migliori
Animelle di vitella
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Per il ristorante di Trani il pane lo prendo da Antonio Cera, il pesce da Filamino, la carne dai Fratelli Varvara, i frutti di mare da Michelittica, azienda con la sede proprio a Trani
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Nino Ferreri L’ombra di Felix
Foto: Monica Cordiviola
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arlare di Felix? Difficile, non saprei da dove iniziare: sarebbe riduttivo considerarlo un fratello maggiore. Trovare una persona come lui è impresa ardua. Ci conosciamo da una vita, il nostro primo incontro lo ricordo come se fosse oggi. Lavoravo a Milano Maritima, lui venne a pranzo per mangiare. Chiese al proprietario se fosse a conoscenza di un ragazzo bravo per le colazioni, aveva bisogno per l’albergo dove gestiva la ristorazione. Pur di andare con lui rinunciai alla mia posizione: dopo una stagione come demi chef mi sono riguadagnato i gradi per fare il capo partita, ma ero con lui. Poi siamo andati all’Alpen Royal, in Val Gardena dove mi ha definitivamente conquistato, professionalmente e umanamente: riusciva a creare dei piatti nuovi in pochi istanti, aveva una capacità incredibile di improvvisare. Per due anni le nostre carriere si sono separate, andai a Verbier, al La table d’Adrien. Quando decise di trasferirsi a Milano, all’Unico, mi chiamò: “Te la senti di fare il sous chef per me? Non ci pensai due volte. Arrivato, ci furono dei piccoli problemi, ero l’unico siciliano in una brigata di pugliesi doc: gelosie, qualche tensione di troppo, l’ambiente mi era ostile. Felix ha saputo farmi sentire importante e farmi integrare. Tempo qualche settimana le tensioni si erano dissipate. Ecco, lui ha questa capacità innata di difenderti, di aiutarti, di spendersi per te, di fare scudo. Quando ci siamo spostati in Piazza Duomo mi ha coinvolto e mi ha voluto presente a tutte le discussioni iniziali con i proprietari. Sa come stimolarti: può sembrare banale ma non lo è, anzi. La gran parte degli chef famosi non lo fa, un po’
per carattere e un po’ perché si spaventano, temono tu possa rubare loro la scena, le ricette, il sapere. Felix ti da e ti trasmette tutto quello che sa. In più, sta arrivando alla piena maturazione professionale: certo, era bravissimo anche dieci anni addietro, ma ora si avvicina a delle vette inimmaginabili. Quando prenderà la seconda stella io voglio esserci. Insieme abbiamo realizzato più di un piatto: il suo risotto alla parmigiana è un po’ anche mio, eravamo insieme in un pomeriggio qualunque e lo abbiamo ideato e perfezionato. Oggi è uno dei più richiesti in assoluto. Idem il polipo con la salsa barbecue: l’avevamo prima provato con la seppia, non era il massimo della goduria. Ora viene richiesto a manetta, ne sono fiero e felice”.
I suoi piatti sono sentimentalismo puro, perché oltre la tecnica lui ci mette un cuore grande così, mentre altri stellati, forse più riveriti e blasonati, presentano delle creazioni perfette ma fredde No 9
L’onestà di Felix è straordinaria. Ha coraggio, è autentico, non si atteggia a star, è tutto sostanza. Si vede che adora la sua terra
Puglia, my love La terra di Felix
sensibilità, i gusti di ognuno di noi, spesso lontani da certi concetti fumosi e astratti. Però non basta abbinare due mondi e pensare che in maniera automatica, quasi per grazia divina, un libro diventi interessante e compiuto, intrigante e coinvolgente. Maretti Editore, più precisamente Maria Paola Poponi, ha saputo trovare la chiave giusta: proporre un gioco, a prima vista senza senso, fra i piatti di Felice e le opere dell’eclettico Donato Piccolo, difficili da spiegare per il grande pubblico. Non avendo una preparazione nel merito, Di Dominique Antognoni preferiamo sorvolare sul micro universo di Donato, fatto di sculture evanescenti e apparizioni di nebbia, vapori e colonne d’aria: ci sentiamo più vicini erzo libro, il primo con la casa editrice Maretti. Un al mondo di Felix. libro evoluto, sofisticato, difficile da realizzare non E allora eccoci. Tante cose sono cambiate dal suo precedente libro. A tanto per via dei piatti e le fotografie, quanto per la quei tempi lavorava da Unico, era la sua prima esperienza milanese complessità dell’argomento. 200 pagine, la perfezione dopo una vita in Val Gardena, all’Alpen Royal. Arrivò nel 2014 fatta pubblicazione. La carta è patinatissima, le fotografie sublimi, i pensando all’Expo, convinto che l’esperienza dolomitica si fosse disegni di Donato Piccolo anche. Due mondi, quello dell’alta cucina esaurita e che una tappa della tua vita stava per chiudersi. Voleva e quello dell’arte, che negli ultimi anni hanno trovato attinenze misurarsi con la città più ambita e anche la più difficile, la Milano e convergenze sorprendenti, seppur spesso forzate e interpretate delle famiglie snob e dei saputelli con soldi ereditati, un pubblico male. Però i due mondi hanno molto in comune, dalla voglia di che più lontano non esiste, rispetto ai modi schietti e diretti di comunicare alla necessità di emozionare, entrambi interagiscono Felix. Certo, è anche piena di gente con un gran gusto, elegante e con il design e le tecnologie, cercando dei nuovi linguaggi. Dal preparata, cosmopolita e attenta ai dettagli, gente che sa apprezzare connubio ci guadagna il mondo dell’arte, spesso auto ghettizzato e interpretare un piatto, un’idea: Felix voleva loro e il loro giudizio, per colpa degli artisti stessi, così presi da loro stessi da farsi odiare l’approvazione e l’acclamazione. Ci è riuscito. piuttosto che amare e apprezzare. Gli chef sono più vicini al mondo Andai da lui un giovedì, per esattezza giovedì 27 settembre 2014. reale, più immediati, assaggi e capisci subito il messaggio: l’artista Bella vista, perché Unico si trovava e si trova tutt’ora al 20imo è l’opposto. piano del grattacielo WJC Tower. Fu una serata epica, per il foie Il punto è che il leitmotiv di Good Life è la frase “Food is art”: non gras che profumava di latte e paradiso, per gli amuse bouche e per potevamo non sentirci coinvolti. le sensazioni che riusciva a trasmetterti. Certo, c’è arte e arte, ci sono artisti e artisti, non tutto può andare Risale a quella sera la scoperta assai banale che sesso e cibo vanno per il verso giusto, poi dobbiamo prendere in considerazione la a braccetto. Scrissi – scusate l’autocitazione- che il suo foie gras
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fosse il “migliore mai assaggiato, delicato come la schiena arcuata e vellutata di una fanciulla, saporito come un bacio, leggero come se fosse panna montata, morbido come le parti intime di una donna. Un foie gras che incendia i sensi, appena lo assaggi ti si schiudono territori sconosciuti. È afrodisiaco, tocca l‘anima”. Lo ribadisco, a distanza di anni. A onor del vero avevo in mente il corpo di una modella bionda di una bellezza e una sensualità che mi stavano facevano perdere la testa, il controllo, il senso del tempo. Okei, due modelle, una di origini ucraine e l’altra argentina: entrambe con dei corpi fiabeschi, come il foie gras di Felix. Foie gras da urlo, donne da leggenda, mi sentivo davvero in vetta al mondo. Per continuare con l’autocelebrazione, scrissi così nella prefazione del suo secondo libro: “Mangiai divinamente: guardavo Milano dall’alto del grattacielo WJC e all’improvviso mi tornarono in mente due frasi di Anthony Bourdain. La prima suonava più o meno così: “la cucina è l’ultimo baluardo della meritocrazia, un mondo di assoluti”. La seconda, invece, me la ricordo parola per parola: “come dovrebbe accadere in tutte le grandi esperienze culinarie, mi era sembrato che qualcuno mi avesse parlato, mi avesse raccontato qualcosa di sé, del suo passato, delle cose che amava e ricordava”.
Maretti Editore, più precisamente Maria Paola Poponi, ha saputo trovare la chiave giusta per abbinare il mondo dell'arte a quello dell'alta ristorazione, proponendo un gioco, a prima vista senza senso
della sua regione. Dovessi scegliere una sola fotografia, un solo piatto prenderei i zitti, perché così pugliesi, moderni e classici allo stesso tempo”. Non conosceva Felix. Non avrebbe nemmeno potuto, dal punto di vista professionale: Maretti si occupa di storia dell’arte, libri per un pubblico di nicchia. “Volevamo provare a modernizzarci, a trovare un filone più commerciale, per un pubblico più numeroso. Ho scelto di iniziare con Felix perché è uno chef emergente, ma anche consolidato. Ama spostarsi, mettersi in gioco, poi Milano è il centro del mondo, per noi che siamo emiliani è una vetrina importantissima. Di sicuro faremo un altro libro con lui, mi ha fatto venire l’appetito, ho già in mente il prossimo”. Non vediamo l’ora. Comunque andrà, sarà un successo.
Sono passati quasi quattro anni e tante cose sono cambiate. Felix ha lasciato Unico per trasferirsi in Piazza Duomo, dove ha aperto il primo ristorante che porta il suo nome. Ha subito preso la stella e, va detto, ora va spedito verso la seconda. Inventa e cucina meglio di prima, si percepisce che vive un periodo sereno e pieno di ispirazione, d’altronde ha 44 anni, l’età della consacrazione totale. Ovviamente, non c’è alcuna certezza del riconoscimento Michelin, però le sensazioni sono positive. Per tornare al libro, ascoltavo Felix mentre parlava di Puglia e dei suoi profumi: quest’uomo è davvero innamorato della sua terra, non lo fa in maniera fredda e scolastica, non recita, non si sente obbligato di dirlo solo per tenere buoni i benpensanti alle vongole e le loro isterie ridicole. Lui davvero freme quando parla della sua terra, si commuove, cerca in tutti i modi di convincerti che la Puglia sia il posto più bello al mondo. Ci riesce. Maria Paola Poponi, autrice e coordinatrice del libro, è rimasta pure lei folgorata: “L’onestà di Felix è straordinaria. Ha coraggio, è autentico, non si atteggia a star, è tutto sostanza. Si vede che adora la sua terra, alla presentazione mi ha colpito un suo concetto. Diceva che la Puglia non deve essere ricordata per i matrimoni faraonici, ma per i ristoranti dove si svolge la cerimonia, per quello che si mangia al ricevimento. In pratica vuole che a Trani, dove ha aperto il suo nuovo locale, la gente ci vada per i suoi piatti e non perché ci fosse una ampia sala e una bella vista, perfetta per un evento. Vuole fare cultura, far capire e conoscere al mondo intero le ricchezze
Quest’uomo è davvero innamorato della sua terra, non lo fa in maniera fredda e scolastica, non recita, non si sente obbligato di farlo. Lui davvero freme quando parla della sua Puglia, si commuove Felix Lo Basso
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Donato Piccolo
Donato Piccolo
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effusioni di gusto
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Il tiramisÚ è un dessert entertainment, perchÊ il cliente viene accompagnato da uno show e ci deve essere il colpo di scena, come nei film hollywoodiani
Tutte le fotografie sono di Modestino Tozzi
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Giuseppe Postorino Da Noi al Magana Pars Nome: Giuseppe Cognome: Postorino Ristorante: Da Noi Località: Milano Tipo di cucina: italiana Livello: alto Voto: lo lasciamo a voi
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erché vale davvero la pena di andarci. Il posto è davvero cool ed elegante, raffinato ma non ingessato. In più si trova all’interno di uno degli alberghi più chic di Milano: il Magna Pars splende come pochi, fra luci naturali e spazi sconfinati. Manca solo il mare davanti, per il resto, lo abbiamo già detto, ti pare di essere a Miami. Chapeau. Qualche mese addietro avevamo annotato un altro aspetto: visti i costi eccessivi, a Milano è difficile fare alta ristorazione. Ovvero, solo un grande albergo si può permettere un investimento del genere e accollarsi spese iniziali faraoniche. In più, un ristorante di prim ordine è anche una vetrina, un vettore di immagine. Facciamo un esempio: a Roma in pochi parlano dell’hotel Hilton, ma tutti sanno che La Pergola di Heinz Beck si trova all’interno dell’albergo. Parlando del tristellato si fa pubblicità anche alla struttura, struttura che partecipa volentieri agli oneri che un ristorante del genere possa avere. In più, quante volte puoi scrivere di un albergo, per quanto sfarzoso e sfavillante? Poche. Un locale stellato invece è un fonte inesauribile di notizie, cambi di chef, menù, piatti, riconoscimenti e via discorrendo. Un discorso semplicissimo che però poche volte trova riscontro. Perché? Pigrizia mentale, mancanza di capacita’ manageriale e di lungimiranza, disinteresse. Affari loro. C’è chi si trova invece all’opposto e capisce al volo l’opportunità di una tale situazione, prendendola al volo. Mandarin Oriental ha puntato su Antonio Guida e le pagine di tutti i giornali sono piene di articoli sul ristorante Seta, molti di più rispetto agli spazi dedicati all’hotel stesso. Pure Alessandro Rosso ha visto giusto, portando Felix Lo Basso in Galleria Vittorio Emanuele, completando e arricchendo così la sua proposta, dopo aver aperto l’unico albergo sette stelle esistente a Milano. Al Magna Pars seguono la stessa filosofia, puntando forte su uno chef emergente, cresciuto in casa: a onor del vero avevano già un cuoco insignito dalla Michelin, Fulvio Siccardi. Le strade si sono divise, ora regna Giuseppe Postorino: con lui si è iniziato un progetto a lungo termine. Ci credono, e tanto, nelle sue possibilità. Hanno ragione da vendere, perché il ragazzo sprizza entusiasmo
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Giuseppe assieme alla sua brigata
e ha una voglia pazza di divorare il mondo. Il suo nuovo menù è concreto e convincente, alcuni piatti sono saporiti come un bacio, i gusti pieni, lo stile è ricco, a volte sofisticato. Cucina pittorica, ispirata, allegra, sensuale: i ravioli ripieni di cozze e patate dolci si sciolgono in tutto il corpo, i gusti e i profumi ti stordiscono, esplodono sul palato e ti avvolgono come una sinfonia, il fuoco comincia a vibrarti nelle vene. Piatto elegante e violento allo stesso tempo, eccitante e potente. Si sta guadagnando un ruolo di prim ordine sulla scena gastronomica milanese e, se continua così, anche internazionale, perché la guida delle guide lo tiene d’occhio, seguendo la sua crescita. Tanti complimenti e belle parole, ma chi è Giuseppe Postorino? - Partiamo dalla domanda più semplice e importante: come possiamo caratterizzare la tua cucina? - Ci sono tante componenti. Inizierei dal discorso artistico, visivo: è spesso presente nei miei piatti, vedi il tributo a Mondrian. Poi ci sarebbe il discorso emozionale, perché i miei piatti sono dei ricordi dell’infanzia e anche spunti dei vari viaggi. Ecco, mi piace fare viaggiare il cliente, che deve percepire subito tutto questo. Un esempio? Il mio rombo è arricchito dal foie gras, il che vuol dire un salto in Francia. La salsa giapponese ti porta con il pensiero al Sol Levante, mentre il limone di Sorrento, ovviamente, ti fa sentire dalle nostri parti. - Il periodo passato all’Albereta alle dipendenze di Gualtiero Marchesi cosa ti ha insegnato? - Lavorare con Marchesi è stato un gran privilegio, lui ti insegnava di andare oltre, ti faceva capire che la cucina non è solo saper preparare un carciofo, bensì frequentare le mostre, ascoltare musica e mille altre cose. - Perché sei diventato cuoco? - Probabilmente lo sono da sempre. Provengo da una famiglia di meridionali, il che significa una festa continua a tavola, la ritualità, la semplicità, per non dire della convivialità. E’ stato quasi naturale scegliere la strada della cucina: prima gli studi al Collegio Ballerini, poi gli inizi lavorativi, sempre in strutture alberghiere perché, va detto, ho sempre voluto fare il cuoco in un albergo e non in un ristorante vero e proprio. Mi hanno sempre affascinato la banchettistica, il catering, l’hotelerie. Se devo dirla tutta, ho sempre sognato di lavorare in un albergo
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moderno, contemporaneo, non in una struttura vecchio stampo, ingessata, lenta e fuori dal mondo. - Il Magna Pars è il tuo posto ideale… - Sono qui da prima dell’apertura, sono arrivato nel 2012 come sous chef, poi mi sono occupato della banchettistica, da settembre dell’anno scorso sono diventato executive. Essendo un albergo di lusso e molto dinamico diventa tutto molto impegnativo, dobbiamo fare da mangiare ad un altissimo livello, dalla mattina alla sera. Si inizia con le colazioni e ci tengo tantissimo, perché una colazione fragrante, ricca, con delle brioche croccanti e gustose ti colora l’intera giornata. In più, la nostra clientela è premium, merita il meglio del meglio, è gente disposta a spendere cifre alte pur di star bene, non possiamo deluderla. - Il menù è tutt’altro che deludente, il tiramisù pare una scenografia… - Il tiramisù è un dessert entertainment, perché il cliente viene accompagnato da uno show e ci deve essere il colpo di scena, come nei film hollywoodiani. Da piccolo sognavo di lavorare alla Nasa, il dolce che ho realizzato è un omaggio all’agenzia americana. Ci sono stato a visitarla anni fa, poi Facebook mi ha ricordato il viaggio negli Stati Uniti e così mi sono detto che avrei dovuto fare qualcosa. Dopo 150 prove, eccoci pronti: è il dolce che più rappresenta l’Italia, noi siamo all’interno di un albergo con una clientela internazionale, mi pareva quasi un obbligo crearlo. - C’è un piatto che ti rappresenta in maniera particolare, che senti totalmente tuo? - Le capesante con il caviale. E’ un piatto intuitivo, unisce tecnica e semplicità, con la crema di patate prima arrostite e poi affumicate e il profumo di porro. - Ci sono degli chef che ammiri più degli altri? - Antonio Guida, imbattibile sul gusto e la tecnica. E poi Felix Lo Basso, volevo fare un risotto alla parmigiana, poi mi sono accorto che lui l’aveva già fatto da anni: imbattibile. - In cucina sei uno da urla o da dialogo? - Mi considero autorevole, non autoritario. In cucina si fa tutto insieme, non esiste l’io, ma solo il noi. - Hai un motto nella vita? - Chi non sa obbedire non sa comandare.
Le capesante con il caviale? Un piatto intuitivo, unisce tecnica e semplicitĂ , con la crema di patate prima arrostite e poi affumicate e il profumo di porro
Canederli di astice, zuppa di pesce, salicornia e asparagi
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Le cosce di rana? Piatto da Bocuse D’or, di una difficoltà estrema, realizzato con delle tecniche da concorso, in più è dura trovare l’equilibrio fra l’affumicato e la salsa
Foto: Brambilla Serrani
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Michelangelo Mammoliti Fucking fabulous, parte seconda
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ewind. 23 settembre 2017. Michelangelo cala gli assi e propone un menu autunnale a dir poco bestiale. Nello stesso periodo Tom Ford lancia il suo ultimo profumo, chiamandolo Fucking Fabulous. L’accostamento è breve, quasi automatico, da lì il titolo che avevamo deciso di mettere due numeri addietro. Ora il ragazzo ha fatto un passo avanti, lo abbiamo messo in copertina: stesso titolo, perché lo rappresenta al massimo. Lo ripetiamo perché Tom Ford ha osato laddove nessun’altro aveva osato, spingendosi oltre i nomi rassicuranti e prevedibili. Ecco, ci sono tante similitudini fra i due: osano, e tanto. Certo, forse è assai improprio chiamarlo ragazzo, ha compiuto 32 anni e cammina con le sue gambe da dieci, ormai ha una storia alle spalle e un gran futuro davanti a sé. Intanto ha un suo stile ben preciso, una specie di caos spumeggiante e organizzato, nel senso che ha bisogno di tanto, tantissimo spazio per esporre il piatto. Accanto alla portata ti arrivano sempre altri tre piattini, un po’ per confonderti e un po’ per impressionarti: ci riesce. Gli piace giocare e farti giocare, d’altronde sei nella sua Disneyland, nel suo parco giochi. L’insieme ti riempie gli occhi, assaggiare ti incendia i sensi. Corre dei rischi, tutti ben calcolati. Con ogni menù che assaggiamo si allunga la lista dei piatti da inserire nel cassetto dei ricordi, i signature dish aumentano di numero: non diamolo per scontato, perché l’ispirazione è tutt’altro che obbligatoria, non arriva in maniera automatica e matematica. Da lui ogni morso è felicità, sua e tua. E’ tutto filtrato da una mano tecnica e internazionale, alcuni piatti trasmettono ondate di profumo che ti preparano ad abbandonarti. Sentimentalismo puro, colpi di genio e scintille di piacere, accostamenti che ti fanno scoprire piaceri sconosciuti. L’allievo prediletto di Yannich Allenò (continuano a sentirsi quasi quotidianamente) cucina sempre con gli occhi affamati e avidi, guarda sempre più avanti e chiede il massimo da sé stesso. E’ pirotecnico, ha la capacità di far scaturire sapori inediti dalle combinazioni proposte, le sensazioni si ammassano una sull’altra, esci da lui con la certezza di dover tornare e ti svegli con la voglia di ricordare ogni boccone. Breve elenco delle ultime meraviglie presentate. Il
calamaro con ricci e tartufi di mare, scampetti e geleè di yuzu porta diritto ad un’espressione che usavamo anni addietro per raccontare il paradiso, ovvero la schiena arcuata. Avete presente quella sensazione impagabile e unica, mentre stai accarezzando la pelle luminosa e fresca di una giovane donna, che si inarca per il piacere? Il piatto si chiama Elastique, quasi per darci ragione. Una tale delicatezza e raffinatezza la si incontra di rado, ancor meno per l’inizio di un menù. A questo punto forse sarebbe più giusto far parlare lui. - Cominciamo proprio dall’Elastique. - L’idea mi è venuta mentre stavamo porzionando gli spaghetti, appunto con l’elastico. Esteticamente è un bel piatto, come gusto ancor di più, la difficoltà di realizzazione è alta. Lo abbinerei ad un vino minerale tipo Chablis. - Poi sono arrivate le cosce di rana, morbide come la seta. - Italiane, le prendo solo italiane, anche se costerebbe di meno acquistare quelle thailandesi, oppure maltesi. E’ un piatto da Bocuse D’or, di una difficoltà estrema, realizzato con delle tecniche da concorso, in più è dura trovare l’equilibrio fra l’affumicato e la salsa. Seguo molto la filosofia di Yannich, ovvero andare all’essenziale delle cose: quando mi capita di perdermi fra mille dettagli, penso ai suoi insegnamenti e mi concentro solo sul gusto e la tecnica. - Capitolo successivo, il risotto con cocco e percebes. - Il risotto è da sempre un piatto familiare, di memoria e ricordi, perché va detto che ora la mia cucina va in quella direzione, i ricordi. Confesso, lo si può migliorare, però il livello di difficoltà è altissimo.
E’ pirotecnico, ha la capacità di far scaturire sapori inediti dalle combinazioni proposte, le sensazioni si ammassano una sull’altra No 17
Foto: Brambilla Serrani
Voglio trasferire e trasmettere le mie emozioni, il mio vissuto ai clienti, sta diventando una ossessione. - La trotta, invece… - Altro ricordo, perché mi piace molto pescare. Lo faccio qui vicino, nel Pesio o in Val di Susa, nei fiumi di montagna. Non è facile lavorarla, la trotta: la frollo due giorni nel frigo, poi la sfiletto e ci metto sotto delle felci. La particolarità del piatto sta nell’acidità data dal laticello, poi aggiungo il burro di nocciole e una salsa di borragine e anice stellato. E’ un piatto gentile, delicato, viene servito per abbassare il ritmo fra una portata adrenalinica e un’altra. - La brigata com’è? Sei contento? - Siamo sulla strada giusta, stiamo per creare un gruppo in grado di trasmettere all’unisono il mio messaggio. Dovrebbero imparare come cucino e di conseguenza cucinare con il mio palato. Alle 11,30 assaggio tutto, li coinvolgo, perché una cucina cresce se cresce la brigata.
Ha un suo stile ben preciso, una specie di caos spumeggiante e organizzato, nel senso che ha bisogno di tanto, tantissimo spazio per esporre il piatto
- Lo spaghetto è intrigante. - Altro ricordo: mia madre, Katia, la domenica arrostiva i peperoni prima del barbecue. Quel profumo mi è rimasto nella mente. Così che la pasta la faccio cuocere nell’acqua di peperoni e poi aggiungo dei limoni canditi e una salsa fermentata di teste di acciughe. La gente impazzisce, letteralmente. L’anno scorso ero più “fissato” sul vegetale, ora invece mi voglio sentire a casa.
No 18
Fin qui il suo racconto appassionato e dettagliato. Ci tocca aggiungere una breve annotazione, legata ai prezzi: troppo bassi. Si, troppo bassi. Il posto vale tanto, il menù anche, l’atmosfera pure, la vista ancor di più. Se ha ancora un senso la frase abbastanza inflazionata “in un ristorante stellato vivi un’esperienza” allora da Michelangelo ne vale la pena mettere la mano al portafoglio. Perché qui, di esperienza, ne vivi una al cubo.
Foto: Brambilla Serrani
Il risotto è da sempre un piatto familiare, di memoria e ricordi, perchÊ va detto che ora la mia cucina va in quella direzione, i ricordi
No 19
Pubbliredazionale
Pierchic di Dubai
Charcoal cuisine Ovvero la cottura con forni a brace In solo 4 anni il prodotto si Ê diffuso nelle cucine di 30 paesi differenti anche grazie al contributo di un manager mecenate, anch’esso italiano, Alfredo Mercurio No 20
No 21
Ristorante Bar Martini Dolce & Gabbana
Una nuova tecnica di cucina
Nel panorama delle tecniche di cucina più trendy del momento troviamo la cucina alla brace ma in chiave più tecnologica, più raffinata, più gastronomica. L’utilizzo della brace viene fatto all’interno di veri e propri forni che consentono una cottura più veloce, più uniforme, e con meno perdita di succhi dell’alimento cucinato. dalle carni, al pesce, ai crostacei o conchigliame a tutti i tipi di vegetali, col la charcoal cuisine vengono esaltati nel sapore e nella succosità.
Cenni storici
Il fenomeno di diffusione dei cosiddetti ” forni a brace” (charcoal ovens ) nasce non così recentemente, in Spagna, dove a cavallo degli anni 70/80 si iniziano a vedere i primi bracieri chiusi, sostanzialmente dei camini in metallo con uno sportello di chiusura frontale ed una regolazione dei flussi di aria in ingresso e fumi in uscita.
Diffusione
Col passare degli anni fino ad arrivare ai primi anni 2000 questi strumenti iniziano a superare i confini spagnoli e grazie al risultato di cottura veramente unico (che tende a preservare succhi e proprietà organolettiche dell’alimento cucinato), tale tecnica inizia ad entrare nelle cucine di hotel e ristoranti di tutto il mondo, generando un nuovo concetto di cucina la “charcoal cuisine” (cucina al carbone) cosi battezzata da alcuni pionieri italiani del settore di cui accenneremo più avanti.
No 22
Enrico Piazzi ha creato e brevettato un’attrezzatura differente da tutte le altre, sviluppando il concetto di forno brace verticale con cassetti griglia laterali
Una storia con un grande futuro
In poco tempo, iniziano a cimentarsi con i charcoal ovens, numerosi chef di livello, che con la brace gastronomica sviluppano una tecnica di cottura ancestrale declinandola in mille modi con risultati mai visti , ma la sensazione e’ che siamo solo agli inizi di un fenomeno con un grande futuro.
Due tipologie di strumenti
In pochi anni nascono (in Spagna, Inghilterra, Italia e in altri paesi) molte aziende che si specializzeranno nella produzione di “forni a brace” sostanzialmente identificati in due tipologie : forno a brace a camera orizzontale( orco
orizontal chacoal oven) e forno a brace a camera verticale (veco vertical charcoal oven). Queste due tipologie danno naturalmente dei risultati di cottura molto diversi nell’ambito della cottura a brace in camera chiusa.
Due risultati differenti
Il modello orizzontale ha una camera di cottura bassa e larga che tende a schiacciare molto la massa di fumo e calore generata, verso le griglie di cottura dando al cibo un intenso sapore di brace che a volte tende ad essere prevalente sul sapore della materia prima, e’ un risultato che potremmo definire rustico, rude, molto intenso. al contrario i forni a brace a sviluppo verticale hanno una camera di cottura più stretta ed allungata, consentendo di lavorare con temperature differenti per gestire risultati diversi su una varietà di materia prima maggiore rispetto al forno orizzontale. Il risultato di cottura è sensazionale per fragranza, succosità ed eleganza, un risultato che emoziona chi assaggia e che risulta irripetibile con altre attrezzature.
L’inventiva italiana che può fare la differenza
Merita un cenno a margine l’intuizione di un ristoratore e inventore italiano, Enrico Piazzi, che nell’ambito dei forni a brace ha creato e brevettato un’attrezzatura differente da tutte le altre, sviluppando il concetto di forno brace
verticale con cassetti griglia laterali (informazioni sulla pagina www. x-oven.com). La cosa sensazionale di questa attrezzatura oltre al risultato di cottura ottimale, sta nei consumi ridottissimi, nel comfort e nella sicurezza di chi la utilizza, nella facilità di installazione. Un progetto che nasce da un ‘intuizione semplice ma geniale e che ha dato origine ad una azienda costruita attorno ad un prodotto che in solo 4 anni si é diffuso nelle cucine di 30 paesi differenti anche grazie al contributo di un manager mecenate anch’esso italiano, Alfredo Mercurio che ha visto nell’idea innovativa un potenziale da far crescere con mezzi adeguati e competenze internazionali.
Ristoranti a Milano equipaggiati con X-Oven: Bar Martini Dolce e Gabbana - C.so Venezia 15 Cenere’ – P.zza Virgilio 3 Farinella – Foro Buonaparte 71 Rock burger – Via Ercole Oldofreddi 27 Bistrot Duomo – Piazza del Duomo 25 Parrilla mexicana – C.so Sempione 76 A Riccione - Via Procaccini 28 Mare crudo - C.so Porta Romana 132
Ristorante Cenerè
No 23
Carlo Tonelli (a destra) assieme allo chef Roberto Conti
Carlo Tinelli
Trussardi, mon amour
E’
autorevole. Garbato. Deciso. Veloce nel pensiero. Astuto. Chirurgico nelle analisi. Perfezionista, per contratto e modo di essere. Carlo Tinelli ha il piglio del leader, sa il fatto suo. Testa alta, parlatina fine e asciutta, da manager qual’è. Mai una parola in più, mai una parola fuori luogo. E’ arrivato da Trussardi un anno fa e ha cambiato tutto, dalla brigata alla filosofia: i risultati si vedono. Il cliente sempre al primo posto, l’aspirazione verso la perfezione come modo di vivere: concetti semplici e spesso usati con il pilota automatico, senza un vero seguito, si rimane alle parole. Carlo invece lo fa e lo sa fare. E’ un marines più morbido, ma non tanto: sicuramente è l’uomo giusto al posto giusto nel momento giusto. Non che prima Trussardi fosse meno efficace, però un cambio di rotta ogni tanto ci vuole, ovunque. Sta nella logica e nei manuali di management. E’ naturale, fisiologico, spesso auspicabile. E ora, conosciamolo meglio, il food and beverage manager del Trussardi.
No 24
- Rewind. Il suo primo giorno da Trussardi, febbraio 2017. Qual’è stato il primo pensiero e le prime decisioni prese? - Ho cambiato la brigata, tutta. L’ho ringiovanita e rivitalizzata, la media d’età attuale è di 25 anni. Volevo ragazzi super motivati e grintosi: quando sei in un posto per più di un paio di anni tenti a sederti, a perdere la voglia di migliorare, ti accontenti, inconsciamente. Da quando abbiamo cambiato nessuno è partito, a parte un ragazzo che ha scelto di andare a studiare. Poi ho perfezionato la carta dei vini, arricchendola con case vinicole australiane, cileni e qualche piccolo produttore italiano. Come sommelier ho promosso una ragazza che era qui dal primo giorno dell’apertura, Klodiola Prenga: funziona, ha il fuoco negli occhi e la sete di conquistare il cliente. - Quali sono i criteri della selezione? Spesso vengono con dei curriculum mostruosi, tranne poi dimostrarsi deludenti e approssimativi. - Rispetto, puntualità, educazione: i miei paletti sono questi. Il fattore umano viene prima di quello professionale.
Ho cambiato la brigata, tutta. L’ho ringiovanita e rivitalizzata, la media d’età attuale è di 25 anni. Volevo ragazzi super motivati e grintosi - E’ facile trovare del personale, ad un livello così alto? - Assolutamente no, pretendono più di quello che sono in grado di dare, in più non hanno mai fatto esperienze all’estero e questo li penalizza. - Lei conosceva lo chef ? - Non conoscevo Roberto Conti, difatti ho dovuto amalgamarmi in fretta e cercare di portare tutti nella stessa direzione, ovvero prendere la stella. Da lui ho subito apprezzato la semplicità, riesce a creare e realizzare delle opere d’arte con immensa facilità. - Un piatto di Roberto che le piace in modo particolare? - Il black cod marinato al caffè con crema di nocciole. Purtroppo nel menu nuovo non lo troverete. - Perché ha scelto di lavorare per Trussardi? - E’ molto vicino alla mia filosofia, nel senso che ci sono tante realtà, - dal bistrot al ristorante, dalla caffetteria al lounge fino agli eventi. Ho sempre lavorato in un mondo del genere, al Sheraton Grand di Doha gestivo 380 persone che lavoravano nei dieci ristoranti dell’hotel, a Casa Mia di Dubai rispondevo di 23 sommelier. Grandi numeri e grandi responsabilità. In Italia non esistono delle realtà così, il target è diverso. - Il ristorante ha (ri)preso la stella mentre il bistrot è una macchina da guerra. - Diciamo che andiamo nella direzione giusta, continuando il lavoro fatto prima: sarebbe folle prendermi tutti i meriti, ho solo portato dei piccoli ed essenziali accorgimenti. - Un esempio? - Per quello che riguarda il ristorante, ho ricamato sui tovaglioli il nome dei clienti che avevano prenotato. Appena arrivati si sono subito rilassati, sentendosi a casa: lo so, è una espressione inflazionata, ma ora tornano ancor più spesso di prima, il che vuol dire che ha funzionato. Però confesso che è al che bistrot che abbiamo fatto i grossi cambiamenti, ora il menù è davvero cool. Il galletto con la salsa barbecue, i moscardini con la polenta, il burger Trussardi: Roberto ha dato una nuova impronta, vicina al suo modo di intendere la ristorazione veloce e immediata. Facciamo tante prove, dalle 19 alle 19.30 ci sediamo alla così detta chef table e ci confrontiamo sui nuovi piatti e sulle strategie. La clientela del bistrot è molto fidelizzata, il 95 per cento sono degli aficionados e per loro, in gran parte dei businessman, abbiamo introdotto le prenotazioni, premiando così la lealtà nei nostri confronti.
con vista sul Burj Khalifa. Il cibo è straordinario, perché la cucina di Zuma non la trovi da nessun’altra parte, Nobu o Morimoto che sia. Roberto’s, che si avvale della consulenza di Enrico Bartolini, ha creato un mondo italiano quasi perfetto, mentre La Petite Maison ti ricorda la Provenza. - Zuma rimane il miglior locale nel suo genere? - Di gran lunga. Per qualche anno ha provato a tenergli testa Okku: stessa atmosfera, food e servizio di alto livello. Poi non sono riusciti a riconfermarsi, Zuma invece vola verso vette sempre più alte. Hanno un bartender con fiocchi, Jimmy Barrat. Funziona benissimo anche a Roma, seppur con caratteristiche diverse, a cominciare dai prezzi, molto più bassi. Sono stati bravi ad adattarsi al mondo italiano, la location aiuta: due piani all’interno del palazzo Fendi. Nel weekend riescono a fare 1100 coperti. - Ci sono altri locali che le piacciono in maniera particolare? - Iyo. Matteo Ghiringhelli sa come accogliere la clientela, sa guidarti. Siamo cresciuti insieme, sono contento per lui. - A proposito, lei prima di andare a Dubai e dintorni, che esperienze aveva fatto? - Da Vittorio, Four Seasons, Moreno Cedroni. - C’è un posto dove vorrebbe lavorare? - Mi manca un’esperienza asiatica, tipo Singapore e Hong Kong. E’ un mondo straordinario per dedizione, precisione, filosofia, velocità e meritocrazia. - Lei ha un motto nella vita? - Si vince insieme e si perde insieme. Finora da Trussardi si è solo vinto.
Dubai é un modo a parte, pieno di soldi, con tantissimi stranieri, in due cento metri hai lo Zuma, il Roberto’s e La Petite Maison, tutti con vista sul Burj Khalifa
- Accanto al ristorante c’è la smoking room: ci voleva, in una città come Milano. - E’ il nostro jolly, io la chiamo smoking section. Sopporta il pranzo, è un revenue supplementare, mentre la sera qui serviamo il dessert, oltre ai sigari, ovviamente. In più possiamo organizzare eventi, ci stanno fino al 50 seduti e 60 in piedi. - Le manca Dubai? - E’un modo a parte, pieno di soldi, con tantissimi stranieri, in due cento metri hai lo Zuma, il Roberto’s e La Petite Maison, tutti
No 25
Con Sergio Motta ho imparato che un buon vitello deve avere le caviglie sottili, il che significa poco grasso
I suoi piatti richiedono lumi di candela, sono leggeri come se fossero panna montata. E’ giovanissimo, però vanta già un curriculum straordinario: ha lavorato per Gualtiero Marchesi, Alain Solivéres, Daniel Boulud. Farà tanta strada, perché oltre al talento e alla disciplina arde in lui la voglia di conquistarti: ci riesce. Assaggi e ti senti invaso dal languore, senti un fremito in tutto il corpo appena degusti i suoi gnocchi di patate arrosto con morchelle e ricotta di pecora. Assalto di sensazioni per i raviolini di coscia di piccione con crema di tartufo nero, standing ovation per il cannolo di scampi , caviale e salsa all’arancia, idem per il cioccolato fumè leggermente piccante. Edoardo Fumagalli sa il fatto suo : potrebbe vincere tranquillamente la sua prossima sfida, ovvero la finale internazionale del San Pellegrino Young Chef. Milano, 11-13 maggio: evento imperdibile. Per la cronaca, Di Dominique Antognoni si è conquistato un posto nella finale presentando il gambero carabiniere con animelle glassate e croccante alle alghe. Ora, proviamo a conoscerlo meglio. onfesso. Non lo conoscevo. Mea culpa. Fortunatamente ho rimediato di recente. Il merito va al Palazzo Parigi, - Dopo aver assaggiato i tuoi piatti il primo pensiero è che non ti hotel cinque stelle lusso che ha ospitato lo chef per una fermerai ad una stella soltanto… settimana. Il 28 enne brianzolo si è spostato dalla sua - Sarei ipocrita a dire il contrario, ci punto e ci conto, però la strada è Locanda del Notaio nel cuore di Milano, vetrina privilegiata dove ci lunghissima. Faccio un esempio: appena ho messo piede da Daniel, a ha fatto letteralmente innamorare. New York, ho subito percepito qualcosa di speciale. Chi ha tre stelle Ho scoperto uno chef con una mano elegante e gentile e dei modi riesce a trasmettere subito la sensazione di trovarti in un posto altrettanti gentili e felpati. magico. So bene di poter e di dover fare molto di più. Nei due mesi Niente esperienze esplosive, niente colori violenti, è un uomo del di chiusura vado a studiare, vale anche per la mia brigata. Quando nord, brianzolo appunto, ma l’avventura è stata comunque eccitante rientriamo, ci sentiamo per davvero arricchiti. So e sappiamo cosa e fantasiosa. dobbiamo fare per migliorarci, siamo solo agli inizi. Ha impostato la sua cucina su gusti garbati e netti, dove ogni - A proposito, come funziona negli Stati Uniti? Spesso di dice che ingrediente è perfettamente definibile. un tristellato americano sia lontano anni luce da un suo simile in
Edoardo Fumagalli
Classico e stellato
C
No 26
Francia, oppure in Italia. - E’ tutto diverso, dall’impostazione alla gestione. Da noi forse sarebbe un’utopia servire 200 persone a sera in un ristorante del genere. Lì ci si riesce: si apre alle 17 e si girano i tavoli, perché i coperti sono una novantina. Lo scontrino medio si aggira sui 200 dollari, si lavora sei giorni su sette. L’organizzazione è perfetta, la gestione del personale anche, idem per le materie prime. Rispetto all’Europa c’è più dialogo fra chef e brigata. Daniel è uno che sta ad ascoltarti pur avendo una personalità fortissima, è molto deciso e manageriale, lo vedi anche nell’approccio con i clienti. - La clientela newyorkese è sofisticata, oppure in linea con il palato medio americano? - Apprezzano la semplicità. Per loro l’alta cucina è proprio questo, un piatto con pochissimi elementi, cucinato in maniera perfetta. Non amano troppe spezie e condimenti vari, però attenzione: io raramente ho incontrato delle materie prime simili, le capesante sono uniche, certi pesci idem. - Cosa ti ha lasciato l’esperienza tristellata newyorkese? - In cucina eravamo ragazzi provenienti da venti nazioni diverse, il che è un valore aggiunto straordinario. Impari da tutti. - Perché hai lasciato un posto del genere? - Le grandi città ti danno tantissimi impulsi, ma poi diventa stancante. In più ero già via da qualche anno, volevo tornare e soprattutto mettermi in gioco in prima persona. Cinque anni fra Parigi e New York possono bastare. - Come sei arrivato a La Locanda? - Tramite il passaparola e anche grazie a Luigi Taglienti, che ha fatto il mio nome alla proprietà. Volevano ripartire da zero, in cucina e in sala. Ho ricreato l’intera brigata, compreso il pasticciere Damiano Bonomi, che conoscevo da tempo ed è ancora con me. - Che tipo di clientela avete? - Vengono soprattutto da Lugano, è a venti minuti da noi. Tanti clienti internazionali, alcuni li conoscevo dai tempi di Daniel. La gran parte viene e torna per te, il che è gratificante. - Cos’è cambiato da quando hai preso la prima stella? - L’ho considerata una tappa, la stella mi è sembrata un giusto riconoscimento al nostro lavoro. Gli ispettori penso abbiano assaggiato il risotto a base di sedano levistico con bisque di gamberi di fiume. E’ diventato un classico, c’è sempre in carta. - Come possiamo considerare e inquadrare la tua cucina? - Una cucina semplice, nel senso che il cliente deve riconoscere quello che trova nel piatto. Poi prendo spunti dai miei percorsi all’estero e aggiungo degli elementi incontrati altrove, per cui la considero anche una cucina internazionale. Faccio un esempio: i miei ravioli sono classicissimi, però l’impiattamento e il gusto sono di chiara ispirazione asiatica. La mia cucina si rifà a quella classica, però deve conquistare i giovani, non a caso ne arrivano in numero assai elevato. - Che momento vive la ristorazione, dalle nostre parti? - Prima c’era la confusione degli chef, ora sono i clienti a non avere le idee chiare. Per certi versi si stanno evolvendo, da un’altra parte c’è una tale offerta che non sanno come orientarsi. - Facciamo qualche passo indietro. Come hai iniziato? - La scuola alberghiera dalle mie parti, poi varie esperienze, compresa la macelleria di Sergio Motta, quando non aveva ancora aperto il ristorante. - Lavoravi proprio nella macelleria? - Si, a quei tempi Sergio non aveva aperto il ristorante. Esperienza straordinaria, andavamo insieme a
scegliere il bestiame la domenica sera per poi tornare il giorno dopo e consegnare le carni a Berton e Marchesi. Trattavamo soprattutto la fassona, con Motta ho imparato che un buon vitello deve avere le caviglie sottili, il che significa poco grasso. In caso contrario, ovvero le caviglie grosse, vuol dire che l’animale è stressato: può dipendere da mille fattori, a cominciare dal poco spazio nella stalla. Poi la pelle fine è fondamentale, è equivalente di muscoli ben definiti. Potrà far ridere qualcuno, ma un vitello con il così detto sedere alla brasiliana, ovvero arcuato, è di una qualità superiore. - Ti piace la carne? - Moltissimo. Al primo posto metto l’anatra, cucinarla al torchio è favoloso, con la carcassa. Si tratta di una cottura attenta, dove il fuoco deve interagire, lo chef deve sondare con lo spillo, non è facile. Poi il piccione, altra mia passione. - Capitolo maestri e idoli. - Enrico Crippa, per il modo nel quale cucina i vegetali, un po’ come Michel Bras. E’ una persona squisita, semplice, seria. Sai esattamente cosa devi fare fin dalle otto del mattino. Non si perde tempo, tutto deve essere perfetto, un modo assai francese nella gestione. Un altro che mi piace molto è Alain Solivéres, ambizioso e sicuro del fatto suo prima ancora di prendere una padella in mano. Ci ho lavorato per lui, al Taillevent: un leader nato. Concludo con Paolo Casagrande, chef al Lasarte, a Barcellona. - Da Marchesi cosa hai imparato? - Ci sono stato due anni. Mi è rimasta la sua idea di classicità, il fatto che alcune ricette possano e debbano essere senza tempo. E’ una scuola di vita, impari tanto sulle cotture, i suoi risotti sono irraggiungibili. - A proposito di piatti: facciamo l’elenco delle pietanze indimenticabili assaggiate altrove. - L’insalata 21-31-41 di Crippa. Poi tutto quello che ho mangiato da Alajmo: sensazioni uniche.
Enrico Crippa e’ una persona squisita, semplice, seria. Sai esattamente cosa devi fare fin dalle otto del mattin
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Gong La perfezione
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ublime. A tratti divino. Esagerazioni? No. Esaltazione? Forse. Perché è uno di quei ristoranti per i quali vale la pena vivere e fare questo mestiere, ovvero provare il meglio e raccontarlo ai lettori. Voto dieci più, dall’estetica all’organizzazione, dalla lista degli champagne al personale di sala, dalla cucina all’atmosfera. E poi, ammettiamolo: non si era mai vista una situazione del genere: tre fratelli, tre ristoranti con incassi mirabolanti, tre ristoranti dove splende e funziona tutto, tre macchine da guerra dove è difficile trovare un posto senza prenotare. Giulia, Claudio e Marco Liu sono nati in Italia, i loro genitori invece sono originari di Zheziang, nel sud della Cina.
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Ognuno gestisce un ristorante in una zona diversa della città, così da poter presidiare l’intero “territorio”. Sono straordinari, davvero: Giulia regna al Gong, Claudio da Iyo, Marco invece tiene le redini del Ba Asian Mood. Certo, spicca l’Iyo, una stella Michelin e un record ancora imbattuto a Milano, 620 persone rifiutate in un sabato qualunque perché, semplicemente, era tutto pieno. Ora, torniamo al Gong, una delle tre macchine perfette, 100 coperti ogni sera, 35 persone che ci lavorano, fra sala e cucina. Entri e rimani sbalordito, il primo impatto è formidabile, pare uno di quei tempi dell’alta ristorazione. Colpisce il design, le camicie bianche dei camerieri, gli spazi ampi, la luce che entra dalle finestre gigantesche. Poi ti siedi e, come sempre, inizi a giudicare un ristorante dalle amuse bouche, che raccontano tanto se non tutto sulla cucina, sullo chef, sulla filosofia del ristorante. Potrebbero offrirti due cosette due, carine e poco impegnative, di poca intensità e personalità: e invece. Trovi mini ghiotterie fantasiose, frizzanti, vigorose, eleganti, ispirate, pittoriche. Primeggia il grissino leggero e croccante con coda di scampo e gelatina di tosatsu, una salsa a base di soia e aceto di riso che detta così pare una carineria e nulla più, però assaggiatelo e poi vediamo. Segue l’ostrica con dashi e uova di lompo: lo scoppiettio delicato delle palline, l’intensità del dashi, è seduzione totale. Certo, il menù è ampio, non puoi e non ha senso raccontare ogni piatto assaggiato, la nostra intenzione è di mettere l’accento sulla ricerca della perfezione e della felicità.
Voto altissimo per il raviolo con filetto di wagyu di Kagoshima, morbido come un cuscino: caramella amorosa, paradisiaca, che lascia il segno e ti fa venire la voglia di tornare anche domani.
Ostrica con dashi e uova di lompo
Prendiamo per esempio il Maci, ricciola del Pacifico con salsa mirabolante di mizu. Ogni morso è felicità, tenerezza allo stato puro: hai la sensazione di assaggiare l’intensità dell’oceano, i profumi sono nitidi, la mano dello chef Keisuke salda. Si scioglie al solo contatto con la lingua, è un piatto saporito come un bacio e che va assaggiato con lentezza, tanta lentezza. Di grande impatto coreografico il carpaccio di storione con salsa mojito e zenzero candito, mela verde e dragon fruit, marinato con ginbotanic: nulla è lasciato a caso, l’insieme vale. E tanto. Sul podio delle portate assaggiate sale, forse al primo gradino, la tartare di tonno spagnolo Belfago. Preparato con una maionese all’ostrica e wasabi, é quasi afrodisiaco, mettiamo il quasi perché ognuno ha la sua sensibilità e palato, magari per qualcuno l’emozione
Non si era mai vista una situazione del genere: tre fratelli, tre ristoranti con incassi mirabolanti, tre ristoranti dove splende e funziona tutto, tre macchine da guerra dove è difficile trovare un posto senza prenotare.
è minore, anche se dobbiamo dirlo che in tal caso Gong non fa a caso suo. Piatto che ha e che da ritmo, di una delicatezza vibrante. Voto altissimo anche per il raviolo con filetto di wagyu di Kagoshima, morbido come un cuscino: caramella amorosa, paradisiaca, che lascia il segno e ti fa venire la voglia di tornare anche domani. Portata di estrazione geografica più chiara, davvero perfetto (ancora, è una parola che la si deve ripetere assai, nella casa di Giulia Liu). L’anatra è morbida come il raso, è un piatto che va annusato in modo profondo, ampiamente. Piatto che richiede lumi di candela, il fegato
grasso servito accanto completa, mentre la salsa di sesamo nero, mizu cinese e biscotti di soia è il tocco in più che da potenza. Certo, qui da Gong rimane il problema dell’identificazione, lo abbiamo preso alla larga perché non è facile inquadrarlo. Sono evidenti e forti le matrici asiatiche, però si deve stare attenti nel considerarlo un ristorante cinese solo perché la patron, Giulia, proviene dal paese del dragone. In più, sarebbe riduttivo e, ammettiamolo, sminuente, vale anche per il termine fusion, che ormai significa tutto e nulla. Qui si fa alta cucina e la si propone in maniera costante, senza amnesie e differenze da una settimana all’altra, come spesso accade altrove. Il livello rimane sempre superlativo, puoi tornare dopo alcuni mesi ed è tutto identico, come servizio e qualità. Giulia è consapevole che non si possono fare passi falsi in una città dove si è alzata e di molto l’asticella, ha ben chiaro che diventa sempre più difficile soddisfare una clientela esigente. Lo sa e sa anche come far funzionare il tutto. E’ merito suo anche l’intesa fra i due chef, Keisuke Koga e Gugliemo Paolucci, scuole così diverse ma che vanno così d’accordo. Menzione d’onore anche per il sommelier Roberto Riccardo Tornabene: discreto, preparato, gentile, affidabile, serio. Provando a trovare una definizione, diremmo che è un ristorante con una cucina traboccante di idee, pur non spingendosi troppo oltre certe frontiere gustative: un ristorante per gente affamata di sensazioni, dove ti fanno vivere e assaporare dei piaceri sconosciuti. Di sicuro, se vi aspettate molto, le vostre aspettative saranno interamente soddisfate e, forse, superate. Standing ovation.
Grissino con coda di scampo
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Lo chef non è colui che insulta senza motivo, che urla come un oca, che è pettinato come una diva e che parla un italiano perfetto e scandito
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colorati, gente senza cultura che usa prodotti delle grosse multinazionali, gente senza predisposizione al sacrificio che pensa che un piatto bello e colorato valga una carriera di riconoscimenti. Tutte cazzate. La cucina è tutt’ altra cosa. E’ una cosa talmente viscerale che rinchiuderla in uno schermo piatto al plasma o in una scaletta di un programma è quasi offensivo. La cucina è l’ infanzia di ognuno di noi, la rincorsa impossibile a quei profumi, a quei sapori, a quei ricordi. Qui si vive per sentire il calore della fiamma sulla propria pelle, non per la gloria. Qui ogni giorno ci si mette in discussione, ci si mostra nudi di fronte a sconosciuti, gente che fa km solo per assaggiare del cibo. Qui lo chef non è colui che insulta senza motivo, che urla come un oca, che è pettinato come una diva e che parla un italiano perfetto e scandito. Qui lo “ssssscief ” fa squadra, tutela le pedine deboli e le fa crescere, evidenzia gli errori ma solo dopo averli corretti, accetta le critiche anche dal cliente più sfigato, cerca di trasmettere il proprio essere traducendolo attraverso un collettivo, parla male, pensa male e spesso di fa capire male. Non dateci del “lei”. Il “lei” se lo merita una ricciola pescata ad amo che ha combattuto tre ore prima di cedere al suo pescatore. Il “lei” se lo merita un manzo allevato per anni con mangimi naturali che ruminava nei pascoli della maremma toscana sognando di fare il toro. Il “lei” se lo merita quel pomodorino che pende dall’ alto che grazie alla sua scorza dura resiste a tutto l’ inverno. Non siamo divinità. Siamo di vino e non divini. Siamo casalinghe con la barba, pirati senza né barca né bussola, scarti di una società troppo standardizzata. Siamo lunatici, strani, sovrappensiero perennemente, insicuri sulle nostre sicurezze, perennemente in esame con le nostre certezze e costantemente giudicati dal tribunale del gusto. Siamo tutt’ altra cosa da quella che vi stanno facendo vedere. Vi stanno fregando. Spegnete le tv e varcate la soglia di una cucina in pieno servizio. Se non vi arriverà una coltellata volante potrete dire di aver visto il più grande controsenso della vita. L’ unico ambiente pieno di vuoto.
Fabio Tammaro
Lo chef? Una casalinga con la barba
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abio è nato chef e si vede. Leggete la sua esternazione, a metà frase fra urlo liberatorio e disperazione per come viene vista la sua professione. Ha un ristorante a Verona, L’Officina dei sapori, dove gestisce e cucina dal 2012. Prevalentemente pesce. Una storia italiana, umile e di successo. Sa il fatto suo, lavora e accoglie, fattura e fa felice la gente. Tutto il resto è operetta. Ora ascoltatelo. Vi stanno fregando. E alla grande! La cucina non è come ve la vogliono far sembrare, non è come ve la stanno vendendo. La ristorazione è tutt’ altra cosa da quella finta inscatolata dai media. Qui da noi esiste il caos organizzato, la gerarchia di squadra, la fretta calma, il vaffanculo rispettoso, la consapevolezza incosciente, l’ emozione di fare sempre le stesse cose, tutti i giorni, in maniera differente. Già, la monotonia improvvisata. Vi fanno vedere chef che urlano, gente che sbatte padelle, altri che insultano e mettono pressione. Vi fanno vedere gente senza basi che fa piatti
La cucina è una cosa talmente viscerale che rinchiuderla in uno schermo piatto al plasma o in una scaletta di un programma è quasi offensivo No 31
Chef girls Sexy cover I primi a puntare sul binomio sesso-food furono quelli di GQ: ricordate la copertina con Carlo Cracco e la modella Jessica Dykstra, completamente nuda?
Stefania Buscaglia
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Foto:Francesco Francia
a fotografia è del 2001. Febbraio, per esattezza. Fu realizzata da Fabrizio Ferri per Esquire, rivista di riferimento per il mondo liberal statunitense, un mensile davvero ben fatto, ricco, colto, sofisticato, nonostante l’appoggio incondizionato e comico per progressisti ipocriti e democratici boriosi. La cover fece scalpore: Monica Bellucci ricoperta di caviale. Wow. A quei tempi l’attrice rappresentava il sogno proibito degli italiani: formosa e sensuale, sexy e burrosa, inavvicinabile e straordinariamente bella. “Dopo il servizio fotografico abbiamo assaggiato il caviale, prendendolo con le dita”, raccontava Ferri. “Io e il mio staff ci siamo divertiti assai, mangiammo con le dita sul suo corpo, anche lei lo mangiava a quattro ganasce”, continuava lo fotografo in una intervista apparsa molto tempo dopo. Dopo Esquire fu il turno di GQ Italia a proporre la stessa fotografia in copertina: eravamo a novembre del 2001, ovvero il periodo d’oro della carta stampata e dei mensili patinati, pieni di vita e di bellezza. Le vendite andavano a gonfie vele, poi arrivò la moda della morale non richiesta e dell’etica a manetta, della tristezza e del grigiore come filosofia quotidiana. All’improvviso tutto finì: lettori, interesse, charme. Ora qualcuno cerca di tornare ai fasti di quei tempi però è troppo tardi, un decennio di hispter piatti e direttori politically correct hanno ammazzato l’intero settore. Però non rattristiamoci, siamo ancora qui nonostante i loro sforzi feroci di far allontanare i lettori. Tornando alla copertina di Monica, a distanza di anni notiamo un neo: a quei tempi non impazzava la foodmania. Gli chef non dominavano la scena in quanto nuove rock star, i ristoranti stellati erano di meno e gli influender nemmeno esistevano, i blog appena appena. L’idea di Esquire era di raccontare i piaceri della vita, la gioia del sesso, la lussuria, il desiderio: gli scatti di Ferri vennero come conseguenza. I primi a puntare sul binomio sesso-food furono quelli di GQ: ricordate la copertina con Carlo Cracco e la modella nuda? 2012,
Francesca Lukasik lei si chiamava Jessica Dykstra, a quei tempi fresca vincitrice di Miss World Usa. Proprio per il discorso fatto prima, fu crocefissa dalle solite (“Donna oggetto”, sbraitarono), il che ovviamente ha generato risate a crepapelle. “Trovo che una rivista maschile sarebbe talmente noiosa e poco creativa se rappresentasse solo un uomo e un pesce! Suvvia, io non trovo che ci sia nulla di volgare negli scatti: sono nuda e allora? Tutti siamo nati nudi e non trovo che nessuno stia sfruttando il mio corpo. Lavoro sodo per tenermi in forma e siccome so che il mio fisico non potrà essere così per sempre, mi diverto a mostrarlo. Per me è un onore mostrarlo sulla cover di un mensile come GQ. Non mi sono certo mostrata a gambe divaricate, ciò che vedete è solo una parte del mio seno e pure di profilo. Il problema sarebbe davvero quello? Credo che non si sia capito che
Foto: Monica Cordiviola
Non mi sono certo mostrata a gambe divaricate, ciò che vedete è solo una parte del mio seno e pure di profilo. Il problema sarebbe davvero quello? No 33
Foto: Monica Cordiviola Aurora Marchesani
dietro quel servizio c’era solo parecchia ironia”, rispose. All’interno ci furono delle immagini ancor più hot, bellissime: qui pubblichiamo solo la cover, per il resto googlate. Da allora nessuno ha più osato a proporre copertine del genere, gli editori e i direttori hanno preferito cambiare rotta, puntando sulla noia e perdendo lettori. E pensare quanto possa essere sexy farsi ritrarre nude e con la giacca da chef addosso. Noi lo abbiamo sempre fatto, anche se, ammettiamo, per qualche anno abbiamo tirato le remi in barca, in maniera del tutto inconsapevole. Mea culpa: rieccoci. A onor del vero non ci viene in mente alcun buon motivo per il quale abbiamo abbandonato ciò: la prima uscita di Good Life in quanto rivista di food ebbe sulla cover Francesca, in arte “Stella di plastica”. Monica Cordiviola, fotografa dark e diabolica, la ritrasse nella cucina di casa. Poi ci fu la “puntata” soft con Anna Rogojkhina. Qui accanto invece pubblichiamo uno scatto di Francesco Francia con Francesca
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Lukasik, ex coniglietta che ai tempi cercava di avvicinarsi al mondo del food con un blog personale. Aurora Marchesani è un capitolo a parte: tre volte sulle copertine di Playboy, vive per farsi fotografare. Si trasforma quando si trova davanti alla macchina fotografica: l’intero shooting lo pubblicheremo nei prossimi numeri, probabilmente la vedrete sulla cover. Tutte quattro hanno posato indossando una giacca da chef realizzata a mano da Angelo Inglese, di gran lunga il più acclamato e apprezzato camiciaio italiano. Andando oltre le nostre immagini, ci piacciono, eccome, gli scatti sexy e ironici di Stefania Buscaglia, nota blogger gastronomica (il suo sito www.mangiaredadio.it è uno dei più cliccati). La “Busky”, scaltra e bellissima, ha fatto centro con le sue immagini hot. Fantastica lei e bravo Matteo Zanga, il fotografo. C’è ancora spazio, per l’estro e il lato sensuale della vita. Basta volerlo e non cadere nei cliché tediosi che alcuni direttori vogliono proporre. La vita triste è affar loro, la vita a colori è affar nostro.
Albufera Eleganza spagnola
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lbufera, parte seconda, a distanza di pochi mesi. Perché è uno di quei ristoranti dove torni e che consigli a tutti. Il ristorante piace e non potrebbe essere diversamente. E’ per questo che torniamo a scrivere di loro: se lo meritano e soprattutto siamo stati assai vaghi nella nostra prima incursione nel ristorante di Via Settembrini, due passi dalla Stazione centrale e dal Corso Buenos Aires. Fu un pranzo veloce, non proprio indicativo ed esauriente, ora proviamo a rifarci. Tanto per iniziare, l’atmosfera: incantevole, leggera, spensierata, rilassante. Un po’ salotto, un po’ casa, con quelle finestre gigantesche che riempiono di luce naturale il locale allestito da Alice Coelho, proprietaria nonché moglie dello chef, Mateus, origini brasiliane e giramondo sognatore. A proposito, auguri: stanno aspettando il secondo figlio. La cucina di Mateus sa toccare le corde giuste della clientela: un gusto “spaziale”, intenso, facilmente capibile da qualsiasi autentico amante dei piaceri della vita e anche dai neofiti. Non sono piatti sofisticati, anche se lo chef è difficile da tenere a bada quando inizia a volare con la fantasia: vorrebbe spingersi oltre, osare di più e proporre dei menù degustazioni, però è ancora presto per “destabilizzare” la gente che ama quello che trova nei piatti e fa la fila (nel weekend è impossibile avvicinarsi senza aver prenotato con un paio di giorno di anticipo). E’ un posto dove andare con gli amici, la famiglia, la fidanzata, moglie o amante, ti senti subito a tuo agio e, pensateci bene, non è proprio un aspetto da banalizzare. Quante volte vi è capitato di mangiare in maniera superlativa eppure uscire comunque delusi per via del servizio, dell’ambiente e del posto in sé? Tante, per qualcuno troppe. Vale anche il discorso rovesciato: spesso andate in un locale esteticamente perfetto per poi restare delusi dai contenuti. Ecco, da Albufera non succede, anzi. Qui si viene per sentirsi leggero e felice, ma soprattutto per le ghiotterie di Mateus, il quale è riuscito a indovinare una serie infinita di mini portate. Breve elenco, con la preghiera di scusarci per le eventuali mancanze: il tataki di presa iberica (succoso, morbido, non ti basta mai), le costine di maiale glassate con salsa barbecue (da leccarsi le dita in tutti i modi, sono spaventosamente deliziose), la bomba di guanciale, il mini bocadillo . Piccola aggiunta: i prezzi non superano i 10 euro di media per una tapas, assai poco rapportato alla qualità e alla presentazione. Le paellas sono un capitolo a parte. Iniziamo dalle dimensioni: gigantesche. Poi ricche, ovviamente. Ce ne sono sei e vengono proposte per due persone, vi consigliamo di non ordinare altro perché faticherete a finirla e sarebbe un delitto. Finora ne abbiamo provate due soltanto, quella con i frutti di mare (de mariscos, per dirla alla spagnola) e la classica valenciana. La qualità è eccelsa. La presentazione idem (tegami bassi e larghi). La goduria anche. Olè.
Qui si viene per sentirsi leggero e felice, ma soprattutto per le ghiotterie di Mateus, il quale è riuscito a indovinare una serie infinita di mini portate
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La vista dal ristorante Toya e la nuova mise en place
Simone Cantafio Sognando le tre stelle
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ove eravamo rimasti? “Vivo nel paesino a sud dell’isola di Hokkaido Toya, a circa due chilometri dall’hotel. L’impatto iniziale é stato tremendo: la cultura, il luogo disperso tra mare e montagna. E’ stata dura trovare la mia posizione all’interno di questo quadro, ma dopo qualche mese ho capito quale fosse il mio compito, poter trasformare la natura in una delle cucine più ricercate de mondo. Il palcoscenico é surreale: il ristorante ha due sale, una con vista sull’Oceano Pacifico, l’altra con vista sul lago di Toya, due vulcani e dei colori mozzafiato a seconda della stagione”. Un anno fa, Simone Cantafio ci pareva al settimo cielo raccontando il suo mondo perfetto e stellato alla guida di uno dei ristoranti della famiglia Bras, a Hokkaido. Nel frattempo tante cose sono cambiate, soprattutto la rinuncia della famiglia Bras alla stelle Michelin. Si è fatta tanta, troppa confusione sull’accaduto, ora proviamo a fare ordine. Dopo lo stordimento iniziale eccoci in una fase dove tutto pare si sia sistemato.
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- Dunque, Simone, come va? - Come meglio non avrei potuto sognare e immaginare. Scopro sempre di più il Giappone e di conseguenza la mia cucina si impregna sempre di più di influenze asiatiche. E poi, il film su Gualtiero Marchesi: sono il più giovane dei cuochi ad essere stato inserito e farne parte, è un onore. - La rinuncia alle stelle della famiglia Bras, piuttosto… - Un attimo: mettiamo in chiaro una cosa. La famiglia vorrebbe che non si insistesse troppo sulla loro decisione. - Impossibile. - Meno se ne parla, meglio è. - Per loro forse, ma il giornalismo funziona diversamente: si indaga, si scoprono e si dicono cose scomode, piaccia oppure no. - La verità è che qui in Giappone è tutto come prima, anche perché c’è una proprietà e una direzione diversa, cioè la mia. Sono ambizioso, ci mancherebbe altro, di conseguenza ho chiesto di rimanere nella guida e di puntare alla terza stella:
lavoro come un matto da quindici anni, la competizione è la mia carica quotidiana di adrenalina. Voglio sempre di più, chiedo sempre di più a me e ai miei collaboratori, per arrivare alle due stelle ci siamo dati la vita e continuiamo a darla per mantenerle. - La rinuncia dunque vale solo per Laguiole. - Sì. Ora, tornando al Toya, siamo saliti di una posizione nella classifica dei migliori 100 ristoranti asiatici. Ho un team a dir poco favoloso, è il mio terzo anno qui, i clienti tornano. A giugno faremo tre cene davvero speciali, dove stravolgerò l’intero menù: protagonista sarà il nostro orto, ho pensato ad una immersione totale nella natura giapponese, con dei tocchi leggeri e accenni al mondo animale, per l’occasione ci sarà anche Michel. Sai, accanto a lui mi sono innamorato del vegetale ma non posso vivere senza gli elementi animali. - Ti sei integrato definitivamente. - Lo ammetto senza troppi giri di parole, i primi mesi a Hokkaido sono stati durissimi, non è stato affatto semplice calarsi nella parte dello chef per una delle maison più prestigiose al mondo a soli 29 anni. Ho stretto i denti, cercando di guardare oltre, ascoltando le parole di Michel Bras, il quale mi ha sempre cresciuto con il motto:” le grandi storie si scrivono nel tempo , con pazienza , fatica e tanto sacrificio”. Per più di 12 mesi ho ripetuto i suoi “comandamenti” ogni santa mattina, poi ho trovato il mio equilibrio , scoprendo la bellezza dell’avventura , bilanciando i miei dubbi con la mia estrema passione per la cucina. - C’è stato un moment clou, quando si è definitivamente accesa la lampadina? - Si, quando ho cominciato a vedere l’Hokkaido come un immensa fonte di ispirazione e non come un muro assoluto fatto di gelo, silenzio e inverni senza fine. Mi sono aperto, pian piano sono uscito dal mio guscio, probabilmente all’inizio mi volevo proteggere dall’impatto con la cultura nipponica. Così che dal secondo anno ho iniziato a scoprire il vero Giappone: andavo a pesca , sulla baia, a pochi km da casa mia. Credetemi, prendere la barca per pescare delle capesante è un esperienza magica: il vento nordico, l’acqua dell’oceano, le reti gigantesche colme, la dolcezza delle capesante, l’estrema naturalezza nel poterle assaporare galleggiando. Meraviglioso. Certi miei piatti sono nati proprio qui, per esempio il carpaccio di capesante laccato con aceto di nasturzio e goccia di olio di dragoncello: a completarlo, le piccole insalate dell’orto e le cime di cavolfiori crude marinate per qualche istante in un agrodolce leggero. Confesso, amo il crudo e la sua consistenza avvolgente, inoltre la capasanta si sposa divinamente con gli elementi dolci e salati: ho giocato a lungo su questi equilibri naturali che esaltano il lavoro dei pescatori. Forse non lo sapete, ma ci vogliono tre anni per realizzare una noce di capasanta perfetta, è un prodotto nobile che merita tutta la mia attenzione.
- A questi livelli è obbligatorio, oltre che scontato. Prendiamo la primavera: la pesca della trota Sakura nel lago di Toya diventa un rito per i miei cuochi. Alle prime ore dell’alba, prima di indossare la giacca in cucina, si rilassano sulle rive del lago, pescando trote dalla pelle brillante, dalla carne rosa e delicata che poi serviremo cuocendole rapidamente in un burro spumeggiante al profumo di cumino, accompagnate con delle sfoglie di cipolle dolci e un emulsione al lardo, più delle piccole foglie d’aglio Ursino raccolte nella foresta. E’ un piatto che mi rappresenta, per i gusti delicati e sottili, al cento per cento ispirati dalla natura selvaggia. - Finita la primavera… - Agli inizi di giugno iniziano a farsi sentire i primi caldi. Sulle spiaggia di Hokkaido compaiono i fiori, soprattutto le rose selvatiche e gli emerocal, una sorta di tulipani commestibili. Il loro periodo è breve, coglierle non ha eguali: immaginate le prime ore del mattino, il suono dell’oceano che si infrange sulla spiaggia e il profumo intenso di rosa selvatica. E’ una sensazione che volevo venisse portata nei piatti: nasce così il nostro coulant al carbone vegetale, ispirato dai resti di cenere dei barbecue estivi sulla spiaggia. Aggiungiamo un ripieno di albicocca al fior di sale e un sorbetto alla rosa selvatica intenso e profondamente femminile con i suoi petali cristallizzati . Siamo all’autunno.
Sono ambizioso, ci mancherebbe altro, di conseguenza ho chiesto di rimanere nella guida e di puntare alla terza stella: lavoro come un matto da quindici anni, la competizione è la mia carica quotidiana di adrenalina
- C’è un ingrediente che hai scoperto qui e che ami in maniera particolare? - Sicuramente il tofu, lo acquisto regolarmente da una piccola famiglia che vive qui sul lago: mi hanno fatto scoprire l’eleganza della semplicità, una grattata di zenzero fresco e un trito rapido di Kizaminegi (una sorta di erba cipollina), qualche goccia di salsa di soia e il gioco è fatto. Poi ci sono gli asparagi, li prendiamo da una signora che abita vicino al ristorante, i ricci di mare che in Hokkaido sono molto rinomati, i gamberoni, il granchio, i rombi che vengono trattati con il metodo tradizionale dell’ikejime, prodotti straordinari che riassumono la vera storia di un luogo unico al mondo. - Se vi concentrate sul territorio, si presume che il menù cambi ad ogni stagione.
Rabarbaro e fragole
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Michel Bras mi ha insegnato di immaginare il piatto come una tela bianca e di scrivere sopra la mia storia con le mie emozioni e le mie avventure
Simone Cantafio assieme a Michel Bras
- Quando arriva, i colori cambiano, l’intero paesaggio dell’isola si trasforma, diventando l’attore principale. Il cervo qui rappresenta la natura più bella, l’eleganza, una fonte di ricchezza. Il sovrappopolamento obbliga i cacciatori a tenere sotto controllo la specie: assistere a una battuta di caccia, alle prime luci dell’alba, è un privilegio immenso. Quest’anno ho proposto la sella di cervo in crosta di origano, tanto da poter riassaporare un po’ delle mie origini calabresi. Poi radici di Gobu cotte al burro nocciola, veli di Renkon (è un vegetale molto usato in Giappone) e una polvere all’aceto di vino rosso, in ricordo della mia esperienza inglese e delle serate passate ai pub tra amici con qualche bicchiere e le immancabili chips all’aceto. Cercavo un equilibrio di carattere , dei contrasti: chi visita Hokkaido e vuole capire al volo la mia visione di cucina fatta di viaggi, beh, questa è una bella sintesi. - Ti stai spostando verso una cucina con troppi elementi vegetale. - All’inizio non è stato semplice prevederlo in ogni creazione, oggi invece potrei fare a meno dell’elemento animale o perlomeno potrei sostituirlo senza troppo timore. Non sto parlando assolutamente di una cucina vegetariana, ma di una cucina vegetale naturale, che pone al primo posto il giardino, la foresta, la natura pura ed elegante. - Un esempio? Immaginate degli asparagi leggermente grigliati al barbecue, accompagnati da una crema di ricotta fresca, giusto lavorata con qualche goccia di olio di aglio ursino. A completare il piatto una salsa detta Gastrique, ossia una riduzione di salsa di pollo con un acidità molto pronunciata, capace di supportare la forza degli asparagi e della ricotta. Oppure un cavolo appuntito , cotto dolcemente al cartoccio nel forno e poi sfogliato delicatamente e farcito di tartufo nero come se fosse un vero e proprio pollo tartufato. I francesi lo farebbero così, invece io aggiungo delle leggere e profumate lamelle di tartufo nero sotto ogni sfoglia del cavolo. A completarle il piatto un cucchiaio generoso di ragout fatto di piselli freschi, qualche foglia di mentuccia e una riduzione di jus d’anatra perlata con due gocce di foie gras fatto sudare lentamente a bordo della stufa. - In quanti siete, in cucina? - Dirigo uno staff di circa 26 persone fra sala e cucina, tutti giapponesi tranne Charles Decoene, il mio fido e fidato assistente francese, in pratica il restaurant manager. In tre anni ho cambiato pochissime persone nella brigata, per chi è del mestiere questo è un segno fondamentale: puoi essere il più bravo cuoco al mondo, ma se non riesci a essere leader in un contesto del genere, con una cultura diversa dalla tua, non arriverai mai da nessuna parte. Il segreto è saper ascoltare per poi trovare un equilibrio tra ognuno di noi. - Il chiodo fisso sono le tre stelle.
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- Si, non sono ipocrita. Però l’ordine delle priorità deve essere molto importante, perché se lo stravolgessi o lo capovolgessi rischierei di fare un grave errore di egocentrismo incosciente: mai dimenticare che il ristorante rimane un’attività imprenditoriale a tutti gli effetti. - E’ il primo comandamento di Michel e Sebastian Bras. - Hai un ricordo particolare di loro due, nei tanti anni passati insieme? - Quando ero a Laguiole la cosa che amavo di più era andare al mercato di Rodez con Michel e Seba: partenza ore 3.30 e rientro giusto in tempo per cominciare la mise en place. Ricordo ancora i profumi, i colori e quella sensazione di dormiveglia che ti faceva pensare di essere in un grande sogno. - Cosa ti ha insegnato Michel e Sebastian Bras? - Potrei stare qui a raccontare per ore quello che sto imparando con loro, dalla gestione del personale a quella economica di un ristorante. Però il più bell’insegnamento di Michel è stato quello di immaginare il piatto come una tela bianca e di scrivere sopra la mia storia con le mie emozioni e le mie avventure. - Per intervistarti ci abbiamo messo un bel po’, lo abbiamo fatto a pezzettini, eri quasi impossibile da raggiungere. - Ogni anno faccio un lungo viaggio: quest’anno sono partito da Hokkaido con il mio zaino e la mia reflex: tappe in Giappone, Taiwan, Vietnam, Cambogia e infine la Thailandia. Il filo conduttore è stato la scoperta dei mercati e delle tradizioni asiatiche, provando più volte l’emozione di partire la notte e vedere le prime luci mentre assistevo agli scambi di frutta e verdura nella delta vietnamita. - Il viaggio mi dà la possibilità di abbattere i limiti del mio gusto e del palato: per l’ennesima volta ho scoperto sfumature che non conoscevo e non immaginavo minimamente. E’ come tornare bambino, sentivo di aver ricevuto in dono mille colori per poter dar vivacità e profondità ai miei piatti futuri .
Quando ero a Laguiole la cosa che amavo di più era andare al mercato di Rodez con Michel e Seba: partenza ore 3.30 e rientro giusto in tempo per cominciare la mise en place
Botanebi, barbabietola e avocado
Lo ammetto senza troppi giri di parole, i primi mesi a Hokkaido sono stati durissimi, non è stato affatto semplice calarsi nella parte dello chef per una delle maison piÚ prestigiose al mondo a soli 29 anni No 39
Alessandro Roggero è un vero One man show: riesce a fare il capo, l'oste e mille altre cose insieme. E’ lui il vero Restaurant Man
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Alessandro Ruggero
prendono da Morenpesca di Federico e Federico Gallo, azienda genovese che è un gioiello. Non è un pizzaiolo e non ha una pizzeria, però assaggiate la sua, per esempio quella con salsa di pomodorini di San Marzano, fatta in casa (leggera aggiunta di zucchero, per togliere l’acidità): la gente la ordina quasi ogni giorno, idem con le altre. Pure il minestrone riesce a farlo diventare un piatto del desiderio: provare per credere. Il patron, Alessandro Ruggero, sa il fatto suo, è qui da 27 anni, quando la zona era meno chic di adesso: a quei tempi era quasi periferia, niente Fondazione Prada nei dintorni, ancor meno le sedi di Yahoo, Motorola e Fastweb. Eppure andava a mille, forse perché figlio di ristoratore (suo padre gestiva la Pizzaccia, locale cult negli anni settanta), forse perché semplicemente ci sa fare e basta. 100 coperti di media solo a pranzo, con il bel tempo si arriva addirittura a 200, nei fine settimana c’è la coda. Numeri da capogiro, qualità eccelsa. Alessandro è un vero One man show: riesce a fare il capo, l’oste e mille altre cose insieme. E’ lui il nostro Restaurant Man ed è con lui che proveremo a mettere in piedi una specie di rubrica sulla vera ristorazione, vera nel senso di pochi ghirigori e onanismo, tanta sostanza e conti in attivo. Materie prime, servizio, piatti facili e capibili, il conto giusto: la sua ricetta è questa. Funziona. E pensare che ai master di ristorazione chiamano come docenti persone che non hanno gestito un locale in vita loro. Insegnare e imparare la gestione è una, l’attività quotidiana un’altra. Invece di spendere fior di soldi per corsi poco credibili, andate in Via Calabiana, sedetevi e capirete molto di più e più alla svelta.
Restaurant Man
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ualche settimana fa, una illuminazione, mentre guardavano in tv un programma di cucina. In pratica, lo conduceva uno chef che aveva fatto fallire o quasi tutti i ristoranti dove aveva lavorato, eppure impartiva lezioni Non sarebbe meglio far parlare e mettere nelle giurie delle persone che ci sanno fare anche con i numeri? Per la verità una trasmissione del genere esiste, è ovviamente americana e parla di affari, numeri, idee, marketing. La fa Joe Bastianich: una trasmissione strepitosa, impari una valanga di cose, si chiama Start Up. Assieme a lui Tim Love, un altro che bada solo al sodo e “annusa” l’affare, così come il fallimento di un progetto. You impress, we invest, suona lo slogan della trasmissione che ha un gradimento pari al 94 per cento da parte del pubblico. Ecco, loro ti fanno capire che la ristorazione è una attività commerciale e imprenditoriale. Punto. Come una cartoleria, una tintoria, oppure una salumeria. Il ristoratore acquista la merce, la trasforma e la vende, incassando dei soldi. Non tutte le idee sono vincenti: stop. Facciamoci una ragione. Tutto il resto, compresi i vari premi e riconoscimenti, viene dopo. Perché la domanda è una soltanto: un patron, ovvero quello che paga gli stipendi e la merce, è più contento se porta a casa mezzo milione di guadagno o se perde 250.000 euri ma ha una stella Michelin, cinque forchette e dieci capelli, sette premi e dieci articoli sui giornali ogni mese? Fare ristorazione vuol dire cercare di guadagnare dei soldi cucinando bene, ovvero convincere la gente a venire e a pagare. Certo poi ci sono delle situazioni particolari, ma parliamo di una ogni mille ristoranti. Acquistate delle ottime materie prime, provate a convincere la clientela di venire ed eventualmente di tornare. Il resto è operetta. Pensieri semplici ed elementari: forse. E allora perché tanti ristoratori sbagliano la strada, cercando di scimmiottare i tristellati? Ricordate quando tutti imitavano le schiume, quando tutti utilizzavano i sifoni? E quelli che in provincia propongono piatti creativi, quando la gente del posto vuole solo pappardelle e filetti? Ne è pieno il mondo di ristoratori e cuochi che vogliono strafare, accecati dai piatti dei giganti della cucina. Fortunatamente c’è anche gente con la testa sulle spalle, che spinge sui prodotti di altissima qualità, proponendoli in quanto tali. Prendete per esempio la Taverna Calabiana, due passi dalla Fondazione Prada, zona Corso Lodi. Ambiente spartano, tavoli di legno, idem le sedie. Un grande cortile, spazi ampi, un po’ casa della nonna e un po’ agriturismo, un po’ taverna e un po’ trattoria di un paesino sperduto. In una parola, fantastico. Cento coperti all’ora di pranzo, altrettanti e forse più a cena. Ogni giorno, ogni mese dell’anno. Un pane da urlo fatto in casa, nel forno, raramente incontrato altrove. Croccante, croccantissimo. Alle ore 13 è già pieno, dicono che nessuno viene per mangiare un piatto e via: no, qui si sta fino alle 15 e ci si comporta come se fossi a cena. È tutto semplicissimo e pirotecnico allo stesso tempo. Sono famosi per le cervella impanate e le animelle, tutto saltato in padella, niente friggitrice. Pure la ventresca canta, suona e sussurra: il pesce lo
Non è un pizzaiolo e non ha una pizzeria, però assaggiate la sua, per esempio quella con salsa di pomodorini di San Marzano La pizza con salsa di pomodorini di San Marzano
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Cracco l’incapace, ovvero quando la realtà supera la fantasia Ricapitolando, brevemente.
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racco insulta la pizza. La pizza di Cracco fa orrore. Schifo. I talebani con le loro isterie alle vongole lo hanno crocifisso. Deriso, con la loro simpatica supponenza. Insomma Cracco è un cretino, ben lontano dai coloro che sanno tutto sulla pizza e lo sanno prima ancor di essere nati. Cracco non si deve permettere e bla bla bla, isterie comiche a iosa. Dimenticavamo: è antipatico (chi lo accusa rabbiosamente invece tutti simpaticissimi), se la tira
Quattro ristoranti
(chi gli vomita insulti invece umilissimi). Pooooi ovviamente si è pure venduto, è tutto apparenza, senza la tv farebbe lo sguattero. E poi come si permette di fare la pizza senza chiedere la benedizione dei saccentini che sanno tutto su tutto? Incredibilmente Carlo li ignora, fa di testa sua, non chiede loro un consiglio (perché, ovviamente, loro sanno). Fa ridere a crepapelle la storia della pizza di Cracco. Certo, se avesse aggiunto “a modo mio” il polverone non si sarebbe alzato, ma vai a saperlo, forse si inventavano un altro motivo per attaccarlo. Perché, va detto, ci sono anche quelli che, con il consueto ditino moraleggiante e il compresso di superiorità lo accusano di non pensare ai poveri e di puntare troppo sull’apparenza. Consigli non richiesti, ovviamente. Insomma, le comiche all’ennesima potenza. L’unica certezza che in media ogni due secondi qualcuno da consigli e insulta Carlo. Morale? Provate a mangiare la sua pizza, se ci riuscite: alle 12.30 l’impasto finisce, ogni santo giorno. Certo, la mangiano i cretini, la gente non capisce nulla, bla bla bla, costa 16 euri, un furto, “a Napoli con 3 euri io mangio una mille volte meglio”. Intanto il suo impasto finisce prima delle 13, perché per quanto provi di accontentare tutti, la richiesta é sempre oltre ogni immaginazione.
Lievità, anche se onestamente si è capito poco perché a parlare fosse stato lui e non i patron, ovvero i fratelli D’Angelo (ottimi imprenditori, va detto). La gente forse avrebbe voluto e dovuto sapere finalmente cosa fosse la pizza gourmet, si è capito solo che è cara come il fuoco (in una delle pizzerie si è speso 180 euri in 4!!!). Messa così, come nella trasmissione, si è data la sensazione che la parola gourmet venisse buttata lì solo per farla pagare di più. Per noi, seguendo la trasmissione, la migliore delle 4 è stata Garage. Che, va detto, conosciamo e apprezziamo molto.
Folcore e confusione
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vete presente la trasmissione 4 ristoranti. La puntata sulle miglior pizzerie gourmet di Milano é stata folcloristica e pittoresca. Non si è capito quasi nulla sul perché i conti fossero così salati (i 4 partecipanti hanno speso in media 40-45 euri a testa, una follia), cosa fosse per davvero la pizza gourmet e via dicendo. E poi quali sono i criteri, perché sono state scelte le quattro pizzerie (Lievità, Garage, Assaje e Pizza Biscotatta) e non altre, tipo Berberè, Sorbillo? Comunque, la puntata condotta dal figlio di Barbara Bouchet ha fatto solo confusione. Il simpaticone con la pizza biscottata (“sa di biscotto”, diceva, mah, se vogliamo un biscotto compriamo un biscotto), la ragazza presuntuosa di Assaje, che diceva tutto e il contrario di tutto, credendosi pure una donna di classe (madonna santa): fenomeni da baraccone. Hanno fatto bella figura Matteo di Garage (l’unico a saper spiegare per bene cosa fosse la pizza gourmet) e Carlo, il pizzaiolo di
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L’Alchimia Manhattan, Milano
E’ un posto da primo appuntamento, perché l’atmosfera è scanzonata, frizzante, spensierata ed elegante senza essere ingessata
B
envenuti a Manhattan, nel nuovo, primo locale di Alberto Tasinato: dopo aver fatto andar bene i ristoranti degli altri, eccolo alla prova del nove. Si è fatto conoscere ed apprezzare da Trussardi ai tempi di Berton, poi la consacrazione è arrivata al Mandarin, con Antonio Guida. E’ un posto da primo appuntamento, perché l’atmosfera è scanzonata, frizzante, spensierata ed elegante senza essere ingessata. Pare di essere in una puntata di Sex and the City, tanta leggerezza e voglia di frivolezze. Promette bene, benissimo. Esteticamente, “spacca”. Caldo, ruffiano, sensuale, rilassante, senza essere sofisticato. Le poltrone rialzate, nella zona bar, sono una gran “figata” (si può dire? Si): comodissime, seppur alte, da banco. E’ uno di quei posti che fin dai primi giorni diventerà aspirazionale. All’interno, quasi nascosta, c’è perfino una sala per i pezzi da novanta, i fumatori di sigari. Sono dettagli che fanno la differenza e alzano il target. Poi si mangia bene, dannatamente bene. Lo chef Davide Puleio, 28 anni, romano, esperienze da Redzepi e Taglienti, ha trovato subito la quadra, menù facile e veloce, poche portate però ben strutturate. Insomma, tanta sostanza: ci sono già alcuni piatti da consigliare caldamente, per esempio il carpaccio di peperoni, straccetti come compare sul menù: vengono prima ossidati e poi messi al forno, però credeteci, lasciano un tale retrogusto sul palato da rimanere sbalorditi. Sono grassi, gustosi, ricchi. Il cremosissimo risotto alla milanese con coda alla vaccinara pare nitroglicerina: una bomba di sapori tanto da considerarlo fin da adesso un signature dish del ristorante. Sarà uno dei piatti più richiesti, non ci sono dubbi. La polvere di cacao aggiunge forza e carattere, semmai ce ne fosse il bisogno: strepitoso. Annotatevelo: risotto Milano Roma. Il discorso vale anche per lo spaghetto Benedetto Cavalieri cacio pepe e borragine. Assaggi e la mente parte lontano, ad una donna con il fondoschiena a forma di violino, leggermente carnosa. Delizioso il piccione, il più tenero mai assaggiato. Sembra seta, poi il jus con base dello stesso piccione, sedano, rapa e lampone completa l’opera. Arrivi al dolce e temi che l’incantesimo si possa rompere, perché tante volte abbiamo mangiato bene per poi essere delusi dall’ultima portata. E invece un’altra sorpresa, prima il pre dessert (sorbetto alla menta), poi il terroir, ovvero tanto cioccolato con thè affumicato e sorbetto al lampone. Si mangia bene e si beve altrettanto, a cena e anche all’ora dell’aperitivo, non a caso una delle due sale è destinata quasi
esclusivamente agli amanti dei cocktail e spirit. Finora ne abbiamo sorseggiati due soltanto, il Contratto e Milano a modo mio, entrambi a base di Campari ed entrambi creati da Valerio Trentani, pure lui ex Mandarin: valgono da soli la visita. Bei bicchieri, bella presentazione, ottime le mandorle salate e tostate proprio qui. In tutto ci sono seicento etichette, compreso un vino, Alchimè, creato appositamente per loro dall’azienda di Giacolino Gillardi, amico di vecchia data di Alberto: 50 per cento Nebbiolo, 25 per cento Merlot e 25 per cento Cabernet. L’inizio è promettente, e tanto. Se il locale diventerà un vero e proprio cavallo di razza lo si vedrà, ma le premesse fanno pensare ad un vero e proprio purosangue.
Il cocktail Milano-Torino
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E ora, spazio alle parole del barone. Prendete appunti, ne vale la pena. Quest’anno festeggiamo 90 anni di attività. L’azienda la fondò nel 1928 il mio nonno Amerigo. Io sono arrivato nel 1978, dopo aver lavorato nelle cantine di Perrier Jouet e poi per qualche mese negli uffici di Mumm, prima che entrasse a far parte di una multinazionale. Siamo diventati distributori di Cristal grazie al passaparola, eravamo ben visti mentre chi lo distribuiva a quei tempi non tanto. In pratica, ti vendevano lo champagne solo se acquistavi altri loro prodotti. Noi lo abbiamo sempre presentato come una buona bollicina, non come una etichetta da esibire alle feste. Diciamo che la crisi ci ha aiutato, sono spariti quelli che si vantavano e la mettevano in mostra. Roederer è arrivato a far parte della nostra azienda quando abbiamo preso il Cristal. All’inizio ci hanno chiesto di farlo conoscere: la sensazione era che fosse il fratello stupido del Cristal quando invece era ed è solo il fratello più piccolo. Ora vendiamo in Italia 180.000 bottiglie l’anno, prima della crisi arrivammo a vendere 200.000. Il miglior Romanèe Conti che ho mai bevuto? Quello del 1919, era perfetto e mai uscito dalla cantina. Lo assaggiai ad una verticale organizzata lì da loro. Poi ci furono altri due vini maestosi, uno degli anni cinquanta e uno degli anni sessanta. Il primo apparteneva alla seconda parte del decennio: nei primi anni cinquanta spiantarono le vigne per poi ripiantarle, così che i vini di quel periodo furono assai giovani: buoni, ma non eccezionali. Se avessi la possibilità acquisterei tanto Cristal del 2002, regala delle sensazioni incredibili. Nella mia personale classifica seguono il 2008 e il 2012, sono quasi uguali. Le vendite dell’annata 2008 iniziano fra pochi mesi. Ben vengano le tante nuove aperture di ristoranti, sono un volano importante per il turismo. I comuni dovrebbero contribuire e aiutare in qualche modo, perché se in una cittadina ci fossero più stellati, allora il turista si fermerebbe più giorni, tutti avranno da guadagnare.
Massimo Sagna Buon compleanno
E
sono 90. Certo, non è il centenario però fa impressione lo stesso. Il barone Massimo Sagna prepara i festeggiamenti, a giugno inizieranno le danze, gli eventi, le feste: non vede l’ora. D’altronde è uno che sa gustarsi la vita, figuriamoci quando si tratta dei suoi “figli”. Per chi non lo sapesse, la sua azienda importa e distribuisce Romanée Conti, Cristal e Roederer: poi certo, il catalogo di Sagna vanta tanti altri nomi, leggermente meno altisonanti ma di pari qualità. Come idea, importa e distribuisce solo vini e liquori prodotti da società familiari: niente multinazionali. Per lui parlare di vino è come parlare di vita: non smetterebbe mai, è uno spasso. A proposito: pian piano le redini dell’azienda passeranno nelle mani di Leonardo Sagna. Guai a chiamarlo “figlio di”: sa già il fatto suo. Pronipote del fondatore, quarta generazione della famiglia: in pratica, sta diventando una dinasty.
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Il mondo degli alcolici è sempre in evoluzione. Quando avevo 20 anni tutti volevano bere un cocktail per emulare James Bond. Poi la moda è sparita. Negli ultimi anni si registra un enorme cambiamento: i grandi barman vengono affiancati da giovani davvero molto preparati, sono meno formali ed estremamente professionali. Negli ultimi anni si beve meno, ma indubbiamente si beve meglio. Il calo dei consumi pro capite è dovuto al pericolo di vedersi ritirare la patente, al colesterolo, ai problemi di cuore e via dicendo: però chi sorseggia un bicchiere lo vuole di qualità. Mi piace lasciare qualche anno prima di aprire una bottiglia di Roederer: con gli anni migliora. In Italia si fa fatica a vendere il porto, anche se per me sono dei grandi vini da abbinare ai formaggi e con la frutta secca. La gente non sa nemmeno come si beve: ecco, freddo o per lo meno fresco. Non ci aiutano le varie campagne pubblicitarie che lo presentato con un vino di cattiva qualità. Però quando stappo una bottiglia di Ramos Pinto con gli amici, nessuno lascia un goccio: ovviamente lo distribuiamo noi. Tuttavia, non si riesce a vendere più di 20.000 bottiglie l’anno. Le aste ci danneggiano, sono quasi contrario. Faccio un esempio: prendiamo il Romanèe Conti. Ci sono i collezionisti, i cultori e poi i speculatori. Si aggiungono gli eredi, che scoprono una cantina favolosa del loro padre ma non sono interessati al vino, però ai soldi si. E allora lo mettono in vendita. Se un vino viene portato e acquistato ad una asta, vuol dire che ha viaggiato parecchio, spesso si sposta da Mosca a New York, poi arriva a Londra e via dicendo. Com’è stato trasportato questo vino? Romanèe Conti vorrebbe che si evitassero le esportazioni ripetute.
Da sinistra, LeonardoSagna, Massimo Sagna e Giusto Lusso
Se avessi la possibilità acquisterei tanto Cristal del 2002, regala delle sensazioni incredibili. Nella mia personale classifica seguono il 2008 e il 2012 Anni fa mi chiamò un vecchio cliente, lamentandosi di avere una bottiglia di Cristal del 1970 con l’etichetta rovinata. Mi chiese se potessi sostituirla: un po’ mi vergogno, però dissi di sì. Ammetto di averlo simpaticamente ingannato. I vini sono enormemente migliorati, soprattutto quelli rossi. Perfino quello in cartone è di un certo livello: degli amici mi hanno regalato una confezione, ovviamente per scherzo. Va detto che l’ho decantato come se fosse stato un vino importante e mi ha sorpreso, era privo di difetti. Pochi pregi, ma nessun difetto. Oggi si vende di più il vino che costa meno. Noi per esempio vendiamo tre volte di più il Roederer rispetto al Cristal: giusto così. E’ poi influisce molto il marketing, anche se mi fa male dirlo. Le grosse multinazionali “comprano” il cliente con una serie intera di omaggi, ombrelloni, eventi. Noi non possiamo permettercelo, però credetemi, anche se potessi non lo farei, non sarebbe corretto nei confronti del prodotto. Dei vini che mi hanno sorpreso ultimamente? Quelli valdostani, specialmente i prodotti della Maison Anselmet, abbiamo richieste e ordini da tutto il paese: in una degustazione alla cieca non so quanti distinguerebbero i loro Pinot Noir, scommetto che li prenderebbero per dei vini della Borgogna. Fra le nuove entrate nel nostro gruppo vorrei segnalare alcuni piccoli produttori familiari con dei vitigni autoctoni. Sono tanti, non vorrei fermarmi a pochi nomi, altrimenti rischio di scontentare qualcuno, però basta andare sul nostro sito per scoprirli (www.sagna.it). Il mio motto è: Il vino non è religione, non è filosofia, bensì puro piacere.
Il miglior Romanèe Conti che ho mai bevuto? Quello del 1919, era perfetto e mai uscito dalla cantina No 45
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Julie Mechali
Food and paint
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Julie ha reinventato un mondo quello della fotografia gastronomica, proponendo uno stile unico, una via di mezzo fra pittura, design e immagine
artiamo da una certezza e una promessa: Julie e le sue foto sono e saranno parte integrante del nostro mondo, il mondo di Good Life. Food is art, sta scritto sotto il nostro titolo, alla pagina del sommario. Certo, è una frase assai generica, ma rende l’idea. Gli chef si stanno spesso avvicinando al mondo dell’arte, creando piatti cromatici e coreografici, ispirandosi o rendendo omaggio ai vari Kandinski e Mondrian: altri, vedi Marchesi, hanno sempre sostenuto che un cuoco deve uscire dalla sua cucina e andare alle mostre e concerti, allargando il suo modo di vedere e capire la realtà che lo circonda. I suoi allievi lo hanno seguito alla lettera, frequentando gallerie d’arte e artisti vari, con il risultato che oggi propongono nuovi metodi di manipolare le materie prime. Il risultato? Avendo il compito di sorprendere e di stupire, gli chef interagiscono con il mondo del design e la tecnologia, per certi versi sono simili ai movimenti rivoluzionari dell’arte, sono all’avanguardia. Per questo le immagini di Julie Mechali fanno e sono parte integrante della nostra realtà patinata e sognante. Perché lei ha reinventato un mondo, quello della fotografia gastronomica, proponendo uno stile unico, una via di mezzo fra pittura, design e immagine. Le sue creazioni sono leggere e sofisticate allo stesso modo, intense e ispirate, addirittura aspirazionali. Portano la felicità immediata, trasmettono entusiasmo, ottimismo. Ce lo ha raccontato tante volte, durante questi anni: “Ho a disposizione tutto quello che serve ad un pittore. Una infinita paletta di colori, ingredienti vari, la possibilità di mescolarli. Sarebbe stato folle non provare a creare proprio come Michelangelo e Raffaello. Il momento più bello? Quando si mescola animale e vegetale”. Ed eccoci arrivati a quel momento, nei due scatti che pubblichiamo qui. Entrambe delle pitture astratte, una impostata sull’estetica delle strutture geometriche, l’altra sulle emozioni vissute quando si contempla l’oceano. Sono come quei piatti che gli chef propongono una volta tornati da un viaggio: “Le ho create con gli stessi gesti, cercando di mettere insieme colori e vibrazioni. Volevo elevare e sollecitare i sensi, tornare agli origini grazie ai colori e ai cinque elementi. Ovvio che cercavo un parallelo fra il food e la pittura, Yin e Yang per intenderci. Come in ogni mia creazione, il tempo pare si fosse fermato: difatti Blu ocean porta con il pensiero all’infinito e anche ai momenti che passano inesorabilmente. L’altro, più geometrico, ti spiazza e sa di effimero, una sensazione già vissuta, un’emozione fugace che non tornerà. L’idea è che le forme geometriche segnano il tempo”. E ora spazio alle immagini, perché una fotografia vale più di mille frasi.
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Morenpesca
“C
Qualità stellata
iao. Sono Federico, uno dei due fratelli che gestisce l’attività Morenpesca di Genova. Mi sveglio alle due e mezzo del mattino, vado a letto alle nove. Serviamo chef come Carlo Cracco, Felix Lo Basso, Luigi Taglienti e Roberto Conti”. Inizia così la storia di Federico e Fabrizio Gallo, gente che più operosa non si può. Per orari e non solo si trovano agli antipodi rispetto a noi: fosse esclusivamente per questo e meriterebbero una medaglia. Noi medaglie non conferiamo, però spazi su Good Life sì. Con immenso piacere. - Di solito chi possiede un’attività del genere è perché l’ha ereditata dal nonno o addirittura dal bisnonno… - Vale anche per noi: è iniziato tutto con il nostro nonno, negli anni sessanta. Però fu il nostro padre, Moreno, a mettere le basi e a fare il salto di qualità. Ad un certo punto ci ha incoraggiati, dicendoci che fosse arrivato il nostro turno: eccoci. Prontissimi. Il risultato? Siamo riusciti a crearci una clientela straordinaria, da Carlo Cracco a Vittorio, da Perbellini a Roberto Conti, da Felice Lo Basso a Taglienti. Siamo entrati in questo mondo grazie a quest’ultimo, a quei tempi era da Trussardi. Ligure come noi, voleva proporre dei piatti del suo e del nostro territorio. Poi ha raccontato di noi a Cracco e di conseguenza è stato tutto un passaparola. - In quanti siete, in azienda? - 22, compresi i familiari. Nostro padre dà sempre un occhio, mentre la madre, Pinuccia, sta ogni giorno in ufficio a gestire l’amministrazione. - Come si svolge la vostra attività? - Abbiamo dei rapporti stretti con i pescatori, non sempre facili. Come idea base si salda il conto settimanalmente, alcuni però chiedono il pagamento anticipato. - A che ora vi svegliate? - Alle due e mezzo del mattino. Un’ora dopo siamo al mercato del pesce, per controllate tutto. Io mi occupo delle barche e dei clienti, il mio fratello invece sceglie il prodotto, ha delle super conoscenze in materia. Stiamo lì fino alle 5,30, poi partono le consegne, 2530 ogni giorno: siamo presenti e guardiamo tutto, ogni cassetta di
pesce. Arriviamo dal Piemonte fino alla Toscana e in Veneto. Verso le 6 del mattino chiamiamo le barche, ci confrontiamo, chiediamo loro cosa hanno pescato, non è detto che ogni giorno ci siano delle quantità che possano bastare. A volte ci sono più moscardini, altre dei polipi, oppure dei calamari. Il gambero viola di Santa Margherita non lo si trova sempre. - Fermiamoci un momento: che tipo di caratteristiche ha, il gambero viola? - E’ molto dolce, non come quello che arriva dal Marocco. - Perché un ristorante di alto livello dovrebbe acquistare da voi? - Perché a noi preme la qualità, non vendere a tutti i costi. Siamo molto competitivi, in meno di 24 ore il prodotto è a tavola mantenendo la catena del freddo. In più, chi vuole del pesce pescato deve rivolgersi ad aziende come la nostra, in caso contrario li tocca il pesce allevato. Verifichiamo tutto, non deleghiamo, siamo davvero intransigenti al massimo. - A te personalmente cosa piace in maniera particolare? - Il morone ed i crostacei. Quando vado al ristorante Porto di Milano mi piace prendere il loro risotto alla pescatora, sanno trattare come pochi il pesce fresco. Poi vado matto per il Sanpietro, pesce di grande personalità, anche se problematico, come il rombo, perché lo scarto è impressionante, quasi la metà.
Roberto Conti
Lasagna di Sanpietro
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Siamo riusciti a crearci una clientela straordinaria, da Carlo Cracco a Roberto Conti, da Felice Lo Basso a Taglienti
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robabilmente il miglior Sanpietro mai assaggiato, semplicemente perché il Sanpietro meglio cucinato. Lo fa Roberto Conti, chef che ha innescato la quinta e non intende togliere il piede dall’acceleratore. Il suo Sanpietro in lasagna di carciofi “spacca”. “Come base abbiamo una besciamella classica con all’interno un fumetto di pesce. Sopra, carciofi trifolati, poi ancora sopra una pasta all’uovo saltata all’olio. Uno strato sopra mettiamo il Sanpietro arrostito e dei carciofi cotti. Per chiudere, soffiamo una cialda di pasta all’uovo, facendo finta che il Sanpietro fosse chiuso in una lasagna”. A sentir Roberto è tutto facile e semplice. Di sicuro incide la sua mano sicura e decisa, ancor più sicuro incide la qualità della materia prima: difatti il Sanpietro lo prende da Morenpesca di Genova, gente di mare famosa per la serietà e per la qualità dei propri prodotti.
La sostenibilità trova nuove prospettive.
Le celle ipogee: il frutto più unico di chi coltiva il rispetto per la natura.
Da sempre siamo impegnati in un virtuoso percorso di sostenibilità con un’attenzione costante per l’innovazione e la ricerca. È così che abbiamo raggiunto per primi un traguardo unico al mondo: le celle ipogee per la frigo-conservazione delle mele. Un grande impianto scavato nelle grotte sotterranee della Val di Non per conservare le mele Melinda preservando il nostro amato paesaggio trentino. Un esempio di sostenibilità che permette di ottenere numerosi vantaggi, come il risparmio energetico e idrico con minori emissioni di CO2 nel rispetto del nostro ambiente. Perché con una natura così deliziosa No non 49 si è mai abbastanza buoni. www.melinda.it