IL DON CHISCIOTTE Numero
Il Don Chisciotte - Periodico dell’Associazione Culturale Don Chisciotte Via Zanone, 3 - Autorizzazione n°1105 della Segreteria di Stato agli Affari Interni della Repubblica di San Marino del 26/03/2004 Direttore Responsabile Roberto Ciavatta Copia depositata presso il Tribunale della Repubblica di San Marino 15
L’anniversario:
Dalle sale l’ultimo film di Salvatores:
Come dio comanda Un finale sbagliato
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Es...cogitando
Rubrica di Roberto Ciavatta
Socrate Vita e morte di un pensatore libero e anticonformista
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gennaio 2009
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1 gennaio 1959 - 1 gennaio 2009 A 50 anni dalla rivoluzione cubana
L’essere senza tempo “La vita quotidiana è un gioco grottesco, futile, dovuto solo alla speranza di passare il tempo”
Appunti di psicologia
Rubrica a cura di Davide Tagliasacchi
Il momento della
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Il seguito delle denunce
pubblicate sul n.11 del Don Chisciotte
Sprechi nella P.A. II 492.000 euro in un anno per carta e inchiostri
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Maschera di specchi
Rubrica a cura di Valentina Pazzini
illuminazione creativa
La decima musa
Le idee non sono generate per deduzione, ma da un’immagine artistica creativa
La figura di Saffo tra storia e mito
J. Bronowski (1956) dichiara che “esiste una singola attività creativa che si svolge egualmente nelle arti e nelle scienze”. L’essenza di quest’attività, afferma sempre Bronowski, consiste nel mettere insieme i due aspetti dell’attività e, con la scoperta di una somiglianza fra loro, creare una nuova unità. La scienza, la poesia, la pittura e il culto, sono tutti una ricerca dell’unità nella varietà. Artisti e scienziati hanno descritto nei loro idiomi differenti modi in cui le nuove scoperte pervengono alla coscienza. La prima fase consiste in una sensazione, o premonizione che qualcosa di nuovo sta per emergere, qualcosa di appena accessibile alla coscienza. Questa esperienza può essere un vago senso di mancanza o d’incompletezza, o una più esplicita indicazione, una direzione da seguire, un campo da esplorare. Questo primo movimento interiore talvolta è seguito da un difficile lavoro (pensare, sperimentare, studiare) o all’opposto da un semplice lasciar accadere. Continua a pag. 6
Il personaggio di Saffo è forse uno dei più travagliati e torturati nella storia della letteratura mondiale. Purtroppo con “storia” parliamo di un periodo che inizia nel VI sec a.c., che si propaga fino ai giorni nostri e che sembra ancora non avere fine. Personalmente, sono contro ogni tipo di estremismo e fanatismo, e per questo ritengo insopportabile l’uso parassitario di prendere a icona la vita di una persona, la sua anima e la sua arte; perché dopo millenni di ingiustizie, i movimenti femministi e molte associazioni lesbiche, come ogni gruppo estremo, hanno preso di Saffo e di tante altre artiste, la parte più superficiale spacciandola per la più profonda. Sono contro l’ignoranza quando questa umilia l’essenza intima delle cose. Nata nel 612 ad Efeso, da una famiglia aristocratica, rimasta presto, insieme ai tre fratelli, orfana di padre, trascorse la maggior parte della sua vita a Mitilene, nell’isola di Lesbo. Continua a pag. 2
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Maschera di specchi: Rubrica di Valentina Pazzini
La decima musa La figura di Saffo tra storia e mito
Dalla prima Della sua vicenda biografica è rimasto ben poco, molto è avvolto nella leggenda o nella satira, tanto altro è stato distrutto. Sappiamo del suo breve esilio in Sicilia, per le lotte politiche nell’isola di Lesbo; dicono che era sposata con un certo Cèrcilia di Andro (nome sospetto che allude alla virilità: “cercilia” è un gioco su “kerkos”, “pene” e il provenire da Andros lo comprova), sappiamo che da lui ebbe una figlia di nome Cledi, che amò profondamente; dicono che era bassa e scura di carnagione, crediamo nella sua bellezza raccontata da chi l’ha vista; sappiamo che si uccise buttandosi giù dalla scogliera, dicono intorno al 580 a.c. per l’amore non corrisposto da un certo Faone (una divinità minore appartenente al culto di Afrodite, al quale dedicò qualche verso, fra cui “non ti chiedo di amarmi, ma di lasciarti amare”). Il Tiaso che lei dirigeva era una sorta di collegio cultuale, dedicato al culto di Afrodite, alle Muse (di cui lei si riteneva ministra) e alle Cariti; qui istruiva le giovani promesse spose nell’arte del ricamo, del canto, della poesia, e
di tutte quelle discipline che si ritenevano essenziali per prendere marito; qualcosa di paragonabile al Kamasutra, ovvero un ricettacolo delle arti che una donna doveva imparare per essere una brava compagna; sia in questo che nei dettami greci, veniva compreso solo in ultimo posto l’arte dell’amore, e brevemente anche l’omosessualità, considerata necessaria per il processo spirituale dell’individuo e per il totale appagamento della vita coniugale. Per quanto riguarda la produzione letteraria, l’opera di Saffo è composta nel dialetto eolico della sua patria. Venne curata da grammatici alessandrini e suddivisa in nove libri, a seconda dei diversi metri usati. Attualmente abbiamo a disposizione un’intera ode, parti di altre odi, giunteci anche tramite citazioni indirette, e un considerevole numero di frammenti più brevi. Nell’intera opera è possibile individuare due gruppi, differenti per tematiche e stile: il gruppo numericamente più ridotto è composto soprattutto da epitalami, canti corali eseguiti in occasione delle nozze di una delle fanciulle del tiaso; al contrario nelle poesie del
Sir Lawrence Alma-Tadema, Saffo e Alceo.
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Giovanni Dupré Saffo abbandonata, 1857
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secondo gruppo, quello più importante e numeroso, Saffo parla in prima persona, rivolgendosi a Dei e uomini per esprimere in forma autobiografica le proprie emozioni e riflessioni, riguardanti soprattutto l’esperienza amorosa. Riconosciuta e osannata già dai suoi contemporanei, definita da Platone la decima musa e Saffo la bella, da Strabone una creatura meravigliosa, le dicerie sulla sua vita iniziarono poco dopo la sua morte. Divenne in poco tempo bersaglio di commedie e poesie burlesche, ad opera di scrittori che non riuscirono mai ad accettare che una donna potesse possedere un’arte infinitamente migliore della loro; da loro le venne attribuita una falsa bruttezza ed un’altrettanto falsa quanto ignobile viziosità. La diffamia che l’accompagnò da allora, unita ai pregiudizi sulle sue indoli sentimentali, sfociarono nella distruzione ordinata nel 1073 dal papa Gregorio VII, della maggior parte delle sue opere. Questo ennesimo affronto perpetrato nei confronti non solo della letteratu-
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ra, ma anche e soprattutto nei confronti della storia e sociale della Grecia antica, perdura fino ai nostri giorni, conficcato nell’animo della poetessa; se il termine lesbismo deriva dal nome dell’isola dove lei viveva, ben pochi sanno che il termine saffico è riferito ad una ben definita ed importantissima forma metrica, da lei ideata ed usata da tutti i poeti a seguire. Questoa violenza nominativa è ben evidente se si pensa che a nessun scrittore omosessuale è stato storpiato il nome a scopo ideologico. A me personalmente, quando penso a quel poco che ci è dato sapere veramente di Saffo e a tutto quello che le abbiamo fatto e che le stiamo ancora facendo, viene un forte senso di tristezza: lei è stata semplicemente una donna che ha amato profondamente, e che a causa del suo amore ha sofferto tremendamente: amava suo marito, la figlia Cledi e la lontananza da quest’ultima la distruggeva; amava le fanciulle alle quali dedicava i suoi versi, e con il cuore devastato guardava la loro partenza; amava sinceramente, profondamente. Grazie a questa sensibilità straordinaria, è riuscita a penetrare nell’animo e nelle cose, cogliendone l’intima essenza, con una potenza espressiva che permette, unitamente al pieno possesso di una lingua musicale e duttile, di dare concretezza ai sentimenti e alle sensazioni più sottili e delicate. Il frammento che segue è noto anche con il titolo assolutamente fuori luogo di “Ode alla gelosia”; questa è la versione tradotta da Salvatore Quasimodo, a mio parere uno dei migliori traduttori di Saffo e di Catullo: il termine “lirica” deriva da un antico strumento a corde, la lira, usato per accompagnare musicalmente poesie che venivano cantate; il metro saffico oltre ad avere in origine una sua intrinseca musicalità e ritmo, ben si accordava a questa linea monodica soave; Quasimodo è stato uno dei pochi a riuscire a trasportare queste caratteristiche essenziali nelle versioni tradotte, senza alterare, credo, i sublimi sentimenti della poetessa: A me pare uguale agli dei chi a te vicino così dolce suono ascolta mentre tu parli e ridi amorosamente. Subito a me il cuore si agita nel petto solo che appena ti veda, e la voce non esce e la lingua si lega. Un fuoco sottile sale rapido alla pelle, e ho buio negli occhi e il rombo del sangue alle orecchie. E tutta in sudore e tremante come erba patita io scoloro: e morte non pare lontana a me rapita di mente.
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Non parla di gelosia, ma anzi credo che chiunque, me compresa, trovandosi in una situazione simile, abbia paragonato la persona che possa star vicino al proprio irraggiungibile amore, a tutto fuorché ad una divinità. Chiunque però, riesce facilmente a riconoscersi nei febbricitanti sintomi dell’innamoramento: uno dei tanti è stato Dante Alighieri, di cui credo sia utile riportare il sonetto: Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand’ella altrui saluta, ch’ogne lingua deven tremando muta, e li occhi no l’ardiscon di guardare. Ella si va, sentendosi laudare, benignamente d’umilta’ vestuta; e par che sia una cosa venuta da cielo in terra a miracol mostrare. Mostrasi si’ piacente a chi la mira, che da’ per li occhi una dolcezza al core, che ‘ntender non la puo’ chi no la prova; e par che de la sua labbia si mova uno spirito soave pien d’amore, che va dicendo a l’anima: Sospira. L’anno della sua morte è molto approssimativo, poiché non sappiamo con certezza se raggiunse effettivamente la tarda età; i riferimenti nei suoi frammenti sulla giovinezza sfiorita, possono essere infatti riconducibili ad un bisogno puramente poetico, non necessariamente autobiografico. Tramontata è la luna e le Pleiadi nel cuore della notte anche giovinezza già dilegua, e ora nel mio letto resto sola. Come ho già spiegato, quasi tutta l’opera di Saffo è andata distrutta; molto è stato recuperato attraverso alcuni ritrovamenti pergamenacei del secolo scorso, e credo che per quanto laconica possa esserne la lettura, sia comunque forte, semplice e profondamente meravigliosa di per sé. In fondo è inutile riportare alcuni frammenti e spiegarne il chiaro contenuto, cosa che toglierebbe comunque la necessaria intimità che questo genere di legami, fra scrittore e lettore, richiederebbe. Si dice che classico sia qualcosa che è sopravvissuto a lungo i secoli. Come lei, come ognuno, anche io ho una sola voce: la sua ha cantato l’amore, ha continuato anche se singhiozzando, a parlarne per quasi tremila anni; oggi attraverso la mia, infinitamente più debole, vorrei che ognuno riprendesse a riascoltare la sua. Valentina Pazzini
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L’essere senza tempo
“La vita quotidiana è un gioco grottesco, futile, dovuto solo alla speranza di passare il tempo”1 Per Heidegger l’uomo è un “essere-gettato”. La sua esistenza non è più frutto di un disegno divino, ma è del tutto casuale. Eppure riesce a trovare uno scopo per cui agire: comprendere e rivendicare la casualità della sua vita diviene un nuovo progetto d’azione. Visto che l’unica caratteristica che accomuna la casualità di ogni uomo è la morte (unica certezza umana), la morte stessa diviene l’unica forma di interdipendenza tra gli uomini, l’essere-gettato diviene un “essere per la morte”. Oggi, però, non siamo più in grado di fare progetti sulla nostra vita, né capaci di intuirci casuali: ognuno si sforza, per quanto sia alienato, di credere che quanto gli succede segua un “disegno”. L’uomo contemporaneo è, insomma, incapace di essere nichilista. Siamo esseri astratti (cioè abstracti, sradicati), in un mondo sulle cui “logiche” non possiamo incidere. Il mondo attuale aliena, rende incapaci di scelte autonome, succubi dei musts pubblicitari: compriamo ciò di cui “non si può fare a meno”, pensiamo ciò che ci viene imposto dai media. Questa incapacità di pensare ed agire (cioè programmare) autonomamente, rende anche l’idea del suicidio, liberazione per tanti martiri del passato (e per tanti sciagurati per
cui vivere è peggio che morire – viene in mente l’attuale dibattito sull’eutanasia), una chance inaccettabile: il must è divertirsi… continuare a vivere anche senza alcun senso. Ma se cancelliamo la morte dal nostro orizzonte, è evidente che l’uomo di oggi non è più “essere per la morte” ma “essere contro la morte”. Una vita, svuotata di senso, diviene la stampella su cui ergere l’ideologica lotta contro la morte. Vivere diviene sinonimo di “non uccidersi”. Eppure se voglio continuare a vivere nonostante la mia insensatezza, significa che credo di avere delle “aspettative”. Non nel senso che non pongo fine alla mia vita senza senso perché aspetto qualcosa, ma, al contrario, che fingo di aspettare qualcosa per poter giustificare il mio continuare a vivere. “L’esistenza che continua senza senso crede erroneamente di essere un’aspettativa”. Se è vero che resto, ci deve essere un motivo per cui resto. Ma quale? L’illusione di un’aspettativa: una ricompensa per i patimenti subiti, una vincita all’enalotto… una vita post-mortem! In quest’ottica si pone il problema di Dio. Dio è la nostra aspettativa illusoria, il senso che vogliamo ad ogni costo darci per evitare di “essere-gettati”. L’oggetto-Dio è perfetto per fungere da aspettativa: perché non si fa mai vivo, quindi non smentisce mai il nostro aspettare: Dio, in questa ottica, esiste proprio perché non appare, ma ci lascia in un’indefinita attesa priva di senso. Così non si tratta più di una fede in qualcosa, ma di una fede che crede in null’altro che in se stessa, ovvero nella speranza di trovare un senso che obiettivamente non abbiamo. Se la nostra vita è priva di scopi, se non siamo più in grado di progettare nulla che ci riguardi perché sottomessi ai musts del mercato, che fine fa il tempo? Il tempo è ciò che separa la volontà di qualcosa dal suo ottenimento, perciò esiste solo se ci sono degli scopi e dei programmi per coglierli; se non agiamo più per uno scopo ma solo per non mo-
rire, non per la volontà di cogliere qualcosa ma nella speranza che qualcosa “ci colga”, allora il tempo si atrofizza. Per la dialettica hegeliana, il reale è una lotta per il dominio tra uomo e uomo, classe e classe. Chi vince (il signore), domina chi perde (il servo). Secondo Hegel è questa lotta per il dominio a muovere il tempo, ovvero la storia (tanto che se non ci fosse più antagonismo tra classi, la storia “si fermerebbe”). Il tempo è allora un residuo della lotta per il dominio, e negare questo antagonismo tra classi sociali blocca il tempo. Oggi l’antagonismo tra le classi non è finito, ma solo “scansato”, negato per interessi di mercato. Il tempo, perciò, non è fermo (l’antagonismo c’è ancora), ma “ristagna” (perché nessuno è in grado di agire progettualmente per muovere la storia). Continuiamo a fare “attività”, cioè a tenerci in moto, ma non sono più “azioni” mirate, non si sa più quale sia lo scopo finale, non c’è più un disegno globale di lotta ma si naviga a vista, si contrasta il quotidiano con azioni velleitarie, prive di scopo. Se le azioni non servono più a cogliere un fine (che non abbiamo) ma solo a tenerci in vita in attesa di un dopo che non verrà, allora quelle azioni servono solo a muovere il tempo con l’unico scopo di non lasciarlo fermare ed evitare di morire. Questo significa che l’assunto hegeliano si è capovolto: il tempo non è più un residuo della lotta per il dominio (l’azione); è l’azione stessa ad essere un residuo del bisogno di “fare tempo” per evitare che si fermi, e con esso le nostre aspettative illusorie di avere un senso. Ma quali attività continuiamo a svolgere? In primis il lavoro, qualunque sia; alienante, meccanizzato, ripetitivo, che non ci dà modo di intuirne lo scopo (al di là del renderci possibile la sopravvivenza - di non morire - come tante piccole prostitute) ma ci occupa solo il tempo. In secondo luogo, le azioni con cui cerchiamo di ricreare un senso nelle ore libere: gli hobby, che sono una fittizia ri-produzione di scopi apparente-
numero 15 - gennaio 2009 mente reali, attraverso la ri-creazione di modelli di produzione antiquati (ad es. coltivare un orticello, fare un pic nic, montare una tenda), oppure i passatempi, la socievolezza. Già, perché rimanere soli, incapaci di riempire il nostro tempo autonomamente alimentando quella che i greci chiamavano “anima”, ci fa temere che il tempo si fermi, mentre giocare a carte o chiacchierare con gli amici ci permette di ravvivare il tempo con rimandi continui, scherzi o chiacchiere, che fanno “passare” il tempo più semplicemente, altrimenti “ristagnerebbe”. Rimane esclusa ogni possibilità di confronto con se stessi, cioè di conoscersi per quello che si è: ancora e sempre “esseri per la morte”. Per questo agli occhi dell’uomo contemporaneo non solo il signore, ma anche il servo appare privilegiato. All’uomo di oggi, senza tempo, senza scopi, senza capacità di scelta, perduto in un mondo di cui non può comprendere le logiche, non rimane altro che sperare in un Signore (un Dio, metafisico o terreno, religioso o dittatoriale, poco cambia) di cui divenire servo, affinché sotto la sua frusta, costretto ad agire per non morire,
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possa finalmente tornare a “fare tempo” come residuo della sua azione, ad avere uno scopo (seppur servile). Di qui, oggi, il rischio di tornare a forme dittatoriali. Ma c’è un ulteriore problema: se il mondo, là fuori, non esiste per il fatto che non possiamo agire su di esso, (perché siamo incapaci di progettualità) non possiamo nemmeno scontrarci con esso: anche la dimensione tragica (in fondo la tragedia non è che una collisione col mondo) non è più alla nostra portata, e per intuire la nostra situazione disperata non ci resta che la farsa. Don Chisciotte, inadatto al mondo in cui viveva, ne inventò un altro nella sua mente e divenne un cavaliere errante. Era uno spostato, la sua era una farsa. Oggi il mondo non è più inadatto, ma inconsistente, non siamo più spostati ma derelitti, estromessi dal disegno del mondo che ci sfugge e che segue regole (di mercato, della tecnica…) che ci sovrastano, a cui possiamo solo adeguarci. L’odierna farsa che può lasciarci intuire la nostra situazione è quindi privata pure di qualsiasi progetto di rivalsa (alla Don Chisciotte), e si risolve nella mera esposizione farsesca della nostra miserrimità.
Ti ti ti ti (di Rino Gaetano) A te che sogni una stella, ed un veliero, che ti portino su isole dal cielo più vero. A te che non sopporti la pazienza, o abbandonarti alla più sfrenata continenza. A te che hai progettato un antifurto sicuro, a te che lotti sempre contro il muro e quando la tua mente prende il volo… ti accorgi che sei rimasto solo!
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È questo l’unico linguaggio a poterci trasmettere un senso di complicità degli sconsolati incapaci di risollevarsi ed assuefatti al proprio essere inutili. È nella farsa, nell’immedesimazione con i perdenti che abbiamo un ultimo conforto con chi ci appare “simile”. Ma se ancora abbiamo bisogno di un conforto. Se ancora è con gli Charlot (chi meglio di lui è mai riuscito ad ispirarci tanta con-miserazione, a farci intuire un immenso amore per il prossimo) che riusciamo e vogliamo immedesimarci, è segno che l’ultima parola spetta a coloro che sentono amore per l’umanità, ed è a loro che gli uomini vorrebbero affidarsi per condividere la loro mancanza! Roberto Ciavatta ____________ 1: Günther Anders, “L’uomo è antiquato”, vol. 1. Le osservazioni sviluppate in questo articolo sono interamente ispirate in maniera aderente al pensiero che Anders ha espresso nel suelencato libro
La canzone del mese
A te che ascolti il mio disco, forse sorridendo: giuro che la stessa rabbia sto vivendo! Stiamo sulla stessa barca, io e te… ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti… A te che odi i politici imbrillantinati che minimizzano i loro reati, disposti a mandare tutto a puttana pur di salvarsi la dignità mondana. A te che non ami i servi di partito che ti chiedono il voto: un voto pulito! Partono tutti incendiari e fieri ma quando arrivano sono tutti pompieri… A te che ascolti il mio disco, forse sorridendo: giuro che la stessa rabbia sto vivendo! Stiamo sulla stessa barca, io e te… ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti ti…
Dedichiamo alla memoria di Rino Gaetano, e della sua lucida follia, lo spazio dedicato alla canzone di questo mese. Da allora, non è che sia cambiato granché (o almeno così pare!).
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Appunti di Psicologia Rubrica a cura di Davide Tagliasacchi
Il momento della illuminazione creativa
Le nuove idee non sono generate per deduzione, ma da un’immagine artisticamente creativa Dalla Prima Una caratteristica ben riconosciuta del processo creativo è l’inconscio “periodo d’incubazione”, durante il quale fatti, percezioni, immagini e sentimenti fluiscono e reagiscono reciprocamente nella mente più profonda. Talvolta il periodo d’incubazione può coincidere nel tempo con la primissima premonizione o sensazione, oppure, come avviene più comunemente, segue o si alterna con altri periodi di ininterrotto lavoro cosciente. Essa può essere una connessione o un’immagine non prevista; oppure la visione di una concezione o di un’entità completamente nuova. Poincarè mette in rilievo il grande numero di nuove, possibili relazioni che può produrre un periodo creativo: “l’Io subliminale… è stato capace in breve tempo di fare più combinazioni diverse di quante ne potrebbe abbracciare tutta la vita di un essere conscio” [Ghiselin, 1955,p.41]. La selezione delle nuove combinazioni significanti fra tutte quelle prodotte è infatti in gran parte inconscia. Egli ipotizza una “sensibilità emozionale” nella persona creativa, costruita attraverso anni di ricerca di soluzioni significative; codesta sensibilità deriva da quel senso estetico di poetica bellezza e armonia che “tutti i poeti conoscono”. Gli enti poetici che stimolano questa sensibilità sono quelli i cui elementi si trovano ad essere armoniosamente disposti, cosicchè la mente può senza sforzo abbracciarne la totalità, pur rendendosi conto dei particolari. Così, fra il grandissimo numero di combinazioni proposte dalla mente inconscia sotto la superficie, solo quelle che promettono di soddisfare nel poeta qualche bisogno profondo, troveranno la loro strada verso la superficie della mente. L’epistemologo Michael Polanyi ricorre ai concetti della psicologia gestaltista per spiegare tale scoperta parzialmente inconscia di nuove relazioni o unità. I gestaltisti insegnano come solitamente noi conosciamo un tutto senza essere in grado di specificarne le parti: nel riconoscere una faccia, ad esempio, non possiamo specificare i segni dai quali la conosciamo, eppure la nostra conoscenza è del tutto persuasiva. Noi ci concentriamo sull’insieme, e consciamente lo conosciamo; eppure siamo nel contempo consapevoli dei particolari che lo compongono. Concentrarsi sui dettagli distruggerebbe però la sua totalità, nondimeno senza di essi non potremmo riconoscerne l’insieme stesso. Polanyi ha documentato come la maggior parte della nostra conoscenza rimanga tacita, vale a dire al di sotto del livello della specificazione, o livello di chiarezza. Essendo uno scienziato, ha cercato di applicare le sue scoperte in molti settori del campo scientifico, mettendo in rilievo la dimensione creativa o immaginativa della scoperta scientifica stessa, tentando d trovare un possibile collegamento con la conoscenza estetica o religiosa, come sosteneva ad esempio Einstein ritenendo “che il mondo come un’unità ordinata e comprensiva equivale ad un sentimento religioso”. Quindi, il momento dell’intuizione creativa è il punto finale dell’esperienza e dell’attività preparatoria. L’inizio è l’accenno, o suggerimento che qualcosa sta per essere scoperto, ovvero l’impulso euristico. Ne segue quindi, il lungo e difficile lavoro intorno al problema (esame profondo dei dati e dei concetti relativi, chiarimento dei risultati, sforzo verso la soluzione), e l’incubazione subliminale, favorita dall’abbandono di ogni sforzo e dalla
Davide Tagliasacchi
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distrazione di altre attività. Finalmente, presto o tardi, giunge l’illuminazione stessa, il centro germinale dell’attività creatrice; in qualsivoglia settore o campo, sia esso scientifico, psicologico, religioso o etico, esso comprende sempre le stesse identiche fasi, fino a questo punto non esiste alcuna distinzione. Per concludere, vorrei trascrivere una lunga citazione del poeta Brewster Ghiselin, che riguardo alla questione sin qui trattata, è riuscito ad indicare i vari gradi di lucidità con cui viene afferrata ogni nuova intuizione o immagine. “La creazione - scrive Ghiselin - comincia Jacob Bronowski come un’oscura nube di un’idea, che sento dovrà essere condensata in una pioggia di parole... In alcune invenzioni vi è coscienza di uno stadio ancor più primitivo, una condizione di indecisione completa, in cui niente tende alla determinazione, niente che abbia un carattere sembra essere coinvolto in cui, perciò, tutto è ancora apparentemente libero… paradossalmente appare come un accrescimento di certezza. È come se la mente, liberata dalla preoccupazione dei particolari, fosse data in sicuro possesso della sua intera sostanza e attività. Questo abbandonarsi alla coscienza oceanica può essere una gioia sconvolgente che, come ha osservato Jacques Maritain, può distrarre il lavoratore dal completamento formale. In questo estremo l’esperienza confina col religioso… essa si definisce come niente più di un senso di resa volontaria a una necessità interiore appartenente a qualcosa di più grande dell’Io o che prende la precedenza sull’ordine stabilito. Spesso il lavoratore creativo non prova dapprima né questo senso di esser pronto per il nuovo, né quel vago presentimento di qualche nuovo sviluppo che si intuisce specifico, ma è ancora indefinito. L’invenzione può apparire spontaneamente e senza preliminari evidenti, talvolta nella forma di un mero barlume che serve da traccia, o di un germe da sviluppare, talaltra essenzialmente completo, sebbene abbia ancora bisogno di espansione, verificazione”. [Brewster Ghiselin, the creative process, 1952]
C’è una lotta tra la destra e quello che solo per carità di patria chiamiamo “centro-sinistra”. Del resto l’evoluzione anche delle terminologie è quella che è: prima si chiamavano “Democratici di Sinistra”, adesso cos’han tolto? Non la “D”, han tolto la “S”! Buonanotte alla Sinistra, cioè Democratici e basta… in attesa di aggiungere la “C” della vecchia “Democrazia Cristiana”, perché tanto questo è quello che sta succedendo! Gianni Vattimo (Festival di filosofia di Roma, 2007)
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Il seguito delle denunce pubblicate sul numero 11 (set 2008) del nostro giornale
Sprechi nella P.A. II capitolo 492.000 euro in un anno per carta e inchiostri Nel settembre 2008, sul numero 11 di questo giornale, in un articolo dal titolo: “Sprechi nella pubblica amministrazione: chi paga?” mi lamentavo di come la pubblica amministrazione sammarinese scialacquasse apparentemente senza senso ingenti somme di danaro. Avevo indicato a mo’ di esempio questo: alla P.A. (più precisamente alle poste) il toner per una stampante viene fatturato a più di €140 mentre io, come semplice e privato cittadino, tramite internet sono in grado di comperare l’originale a €77 (la metà!) e €33 il toner rigenerato (un quarto!). Rimando a quell’articolo (che come sempre potete reperire sul nostro sito) per ogni approfondimento, in ogni caso mi chiedevo come mai lo stato dovesse spendere quattro volte tanto rispetto un semplice cittadino. Ebbene, la ditta che aveva fatturato quella cifra è la “Pitagora” di Domagnano. In questi giorni scopro che nel corso del 2008 (attraverso le Delibere: 7/01/2008 n.11 - 14/01/2008 n.10 9/12/2008 n.22 e 23) il Congresso di Stato ha autorizzato una spesa complessiva pari a 492.000 euro (quasi un miliardo delle vecchie lire!) “per la fornitura di consumabili per stampanti agli Uffici e Servizi dello Stato” e “per canoni, copie, assistenza tecnica, materiali di consumo ecc. [a fotocopiatori e stampanti] noleggiati ed in proprietà” . Non so, forse la spesa è motivata, ma a me pare davvero esorbitante! Questa spesa è così suddivisa: in favore della “Pitagora” 261.000 euro, in favore della “Computek” 77.000 euro, in favore della “Xerox” 154.000 euro. Ora, le domande che restano sono le seguenti:
1) Come mai gli appalti per la fornitura di questi materiali non vengano concessi tramite apposita asta online, aperta a tutta la rete e con possibilità di vedere le altrui offerte, di modo che chi vuole opttenere l’appalto debba forzatamente proporre costi più competitivi dell’ultimo offerente? In questo modo, nella regione Toscana sono stati ottenuti risultati strabilianti, tanto che Federico Gelli, il Vicepresidente della Regione Toscana (potete trovare informazioni sul sito www.regione. toscana.it), arriva a dire: «Abbiamo deciso di impegnarci su questo terreno [quello degli appalti online n.d.r.] con la consapevolezza che questo produrrà cospicui vantaggi, in sintonia con la nostra idea di riforma della pubblica amministrazione. Penso a quanto questo può significare in termini di trasparenza nelle varie fasi della gara, di possibilità di partecipazione delle imprese e quindi di maggiore concorrenza, semplificazione e riduzione dei tempi delle procedure, nonchè di risparmio». Perché da noi, ci si chiede, tutto questo non succede? Perché è evidente che ben altra cosa è se gli apalti avvengono a busta chiusa: ognuno sa di cosa parlo. 2) Se un fornitore vince una gra d’appalto in base alla sua offerta, come nel caso di queste 3 aziende, perché nel corso dell’anno si dà loro la possibilità di richiedere (ed ottenere) ulteriori stanziamenti sotto il nome di
“Aumenti di spesa”? Per spiegare meglio faccio un esempio. Poniamo che io dichiari di fornire del materiale al costo di €100 in un anno, e che il secondo offerente (che quindi perde l’appalto) dichiari di fornire lo stesso materiale a €120. Bene, siccome costo di meno vinco l’appalto. Ma se nel corso dell’anno mi faccio versare altri €25 come aumento di spesa, complessivamente verrò a costare 125, e il secondo fornitore avrebbe potuto fornire lo stesso materiale ad un prezzo più competitivo. Insomma, uno stato dovrebbe pretendere che la cifra dichiarata alla vincita dell’appalto non possa in nessun caso essere aumentata (tutt’al più diminuita) nel corso dell’anno. Invece che cosa è successo? Per le voci di spesa di cui sopra, Pitagora ha vinto le sue gare al costo di 219.000 euro, ma a dicembre ha ottenuto (come risarcimento ulteriore per l’aumento di spesa) altri 42.000 euro! Anche Xerox, che ha vinto il suo appalto a 150.000 euro, ne ha poi ottenuti ulteriori 4.000! Insomma, c’è qualcosa che non va, che andrebbe chiarito, e per quanto ci riguarda su questo tema (istituzione di aste online aperte alla rete e a rilancio pubblico) abbiamo già pronta un’istanza d’Arengo che presenteremo ad Aprile. Perché ogni eruo sprecato (o che anche solo si sarebbe potuto risparmiare) è un euro tolto alle spese di cui il paese ha bisogno con urgenza: per costruire asili nido, rappezzare le strade, aumentare le pensioni minime ecc ecc. Roberto Ciavatta
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La statua del Che a Santa Clara
il cinquantenario della vittoria dei rivoluzionari castristi cubani
La locandina Il primo gennaio 1959 terminava la guerriglia iniziata poco più di due anni prima (nel novembre del 1956) da Fidel Castro, Ernesto “Che” Guevara e un’ottantina di compagni. I combattenti, anche chiamati “Castristi” oppure “Barbudos” (perché non avendo a disposizione rasoi e lamette si fecero crescere tutti la barba), combatterono con la precisa volontà di abbattere il governo dittatoriale di Fulgencio Batista, una specie di bordello e di “porto franco” americano, direttamente sostenuto dagli stessi USA. Il piccolo drappello di rivoluzionari combattenti godette da subito della simpatia e dell’appoggio della popolazione civile, stanca di fungere da tirapiedi del dittatore e dei suoi mandanti. Il 31 dicembre 1958 Batista fuggì dall’isola, e il giorno successivo i rivoluzionari vinsero la decisiva battaglia di Santa Clara (ove campeggia il mausoleo e la statua del Che). Una volta instaurato il governo rivoluzionario (8 gennaio 1959) seguirono innumerrevoli esecuzioni capitali, ordineate dal nuovo governo. La popolazione cubana passò dal regime di Batista a quello rivoluzionario, che si aggravò in seguito alla decisione, assunta da Castro nell’agosto 1960, di statalizzare tutte le proprietà straniere dell’isola. A questa misura del governo castrista, con cui si intendeva ridistribuire ciò che era stato messo in vendita in passato dai governi filo-americani, gli USA risposero con un embargo che dura ancora oggi. Fidel Castro ha governato Cuba fino al 18 febbraio 2008, il “Che”, dopo una breve esperienza come ministro, ha continuato a combattere fino a trovare la morte in Bolivia il 9 ottobre 1967. Da allora è diventato un’icona del combattente per la liberazione. Infine una curiosità: nel 2009, in occasione del cinquantenario della rivoluzione cubana, uscirà un film (Dal titolo “Che”) dedicato alla vita di Guevara (interpretato da Benicio Del Toro).
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Es...cogitando: Rubrica di Roberto Ciavatta
S ocrate Vita e morte di un pensatore
“La morte di Socrate” - Louis David (1787)
libero e anticonformista
Scrivere di Socrate non è mai facile. Anche perché il farlo significa scrivere più di quanto non abbia scritto lui stesso. Socrate, infatti (vissuto tra il 470 e il 399 a.c. ad Atene, in un’epoca di rivolgimenti sciali e di battaglie feroci), è una figura di difficile comprensione soprattutto perché non scrisse mai nulla di suo pugno. Ciò che ne sappiamo (o cerchiamo di saperne) è dovuto a quanto scrissero di lui alcuni discepoli (Platone e Aristotele), ed alcuni contemporanei (Senofonte e Aristofane). Senofonte, però, ebbe poco spessore, Aristofane (un commediografo) ci lascia un’immagine “caricaturale” di Socrate, e sia Platone che Aristotele in un certo qual modo “usarono” la figura di Socrate per legittimare le loro proprie tesi filosofiche. Questo non ci aiuta nel compito. Tuttavia, da un raffronto tra quanto ci è tramandato di Socrate, è possibile tracciare una sua biografia, e l’interesse della sua figura è talmente ampio da legittimare questa ricerca. Il fatto che Socrate non scrisse mai nulla fa parte del suo stesso modo di intendere la filosofia. La filosofia non dev’essere una chiacchiera con cui cercare di imporre le proprie opinioni agli altri (è quanto all’epoca facevano i sofisti), ma un metodo attraverso cui, dialogando con gli altri, si riesce a trovare infine, escludendo ogni ipotesi infondata, una comune concezione della realtà umana. Per questo Socrate non trascende mai il terreno umano. Dell’aldilà non sa nulla, e pensa che non se ne possa sapere nulla. Ciò che rimane da comprendere all’uomo è come possa convivere nel migliore dei modi in una società, e ciò
lo può capire solo attraverso il dialogo, di modo che infine tutti condividano un’unica definizione di che cosa sia il giusto, il bene, l’etico. Se tutti sanno ragionare correttamente (e Socrate cerca proprio di realizzare questa capacità di ragionare correttamente in ogni cittadino ateniese), allora da premesse comuni si deve poter giungere a definizioni del bene che siano valide per tutti, cioè in modo universale. È bene però chiarire che Socrate non intende per “universale” ciò che successivamente verrà inteso, cioè l’“in sé”, la “vera essenza” di un concetto, quanto invece ciò che può valere come definizione di un dato concetto accettata intersoggettivamente in un dato contesto sociale e storico. L’universale è sempre umano, è sempre legato ad una comunità. Per giungere a questi universali del discorso, Socrate si serve del metodo maieutico e dell’ironia che si esprime con il famoso “Ti esti?” (cos’è?). Discorrendo con i presunti dotti che incontra in Atene, Socrate si pone c o m e l’ignorante (“so solo di non sapere”) e chiede loro spiegazioni sulle loro conoscenze. Poi, però, inizia a smontare la loro presunzione di conoscere con continue domande
(appunto il “Cos’è?”), fino a metterne in dubbio la solidità delle concezioni. A questo punto, dialogando insieme a loro, fa in modo che gli stessi interlocutorei “partoriscano da sé” le vere definizioni che solo per superficialità in un primo momento non riconoscevano. È questo il metodo maieutico, o della levatrice, che consiste nel fare in modo che chiunque “partorisca” da solo, con ragionamenti propri seppur spronati dalle continue domande di Socrate, la vera e unica virtù: la conoscenza di che cosa siano il bene e il male in un dato contesto storico e sociale. In tutto questo, cosa può motivare la condanna di empietà con cui Socrate venne condotto a morte? Anch’essa va collocata nell’Atene dell’epoca. Nel 403 a.c. in Atene si riafferma un governo “de-
mocratico” dopo una breve parentesi di terrore dei così detti “Trenta tiranni”. Socrate viene denunciato per “non aver riconosciuto gli dei dello Stato e aver corrotto i giovani”. A sostenere l’accusa è Anito, che aveva contribuito a far tornare i democratici al potere. Le accuse sono pretesti: quella di “corrompere i giovani” pare connessa al fatto che lo stesso figlio di Anito volesse entrare nella cerchia dei discepoli di Socrate, disinteressandosi così degli affari del padre. Quella di non accettare le divinità del tutto infondata: come detto Socrate non diceva di non credere agli dei, ma semplicemente che degli dei non sapeva nulla, perciò preferiva occuparsi degli uomini. La verità pare essere che Socrate, per via della sua attività libera, senza essersi mai schierato con i democratici o con altri ma essendosi sempre limitato a ridurre le pretese di dominio di una o dell’altra fazione in semplici dispute prive di fondamento, dialetticamente sbagliate, basate su pregiudizi e opinioni non vere, era una minaccia per il mantenimento del potere di chi governava. Inoltre, nella sua “cerchia” vi erano stati alcuni dei maggiori oppositori dei democratici
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Appuntamenti imperdibili di gennaio e febbraio Tutto gennaio e febbraio: “Rimini al cinema”, rassegna di cinema d’autore e cortometraggi d’autore, alla Cineteca del Comune di Rimini, Palazzo Gambalunga, via Gambalunga 27. (PER INFO VAI SUL NOSTRO SITO, ALLA PAGINA NEWS) Sabato 10 gennaio: “Sabrina Salerno live”, al Velvet Club, Santaquilina di Rimini. Info liste e prevendite: 328.2610098 www.velvet.it/txp/ Domenica 11 gennaio: “Compagnia del serraglio”, rassegna teatrale: “Ammazziamo la domenica”, Teatro Comunale Malatesta di Montefiore. Oggi in programma per l’area teatro ragazzi “Il bambino sottovuoto”, del “Laboratorio stabile di alcantara”. Alle ore 17. Info su www.compagniadelserraglio.com Mercoledì 14 gennaio: “Gomorra”, lo spettacolo teatrale firmato da Saviano. Teatro Ermete Novelli, Rimini. Biglietteria tel.0541/24152 www.teatroermetenovelli.it Venerdì 16 gennaio: “Le fiamme e la ragione”, al Teatro Nuovo di Dogana (RSM), l’ultimo spettacolo teatrale di e con Corrado Augias. Prevendite su www.sanmarinoteatro.sm (si pensi a Crizia e Carmide – due dei trenta tiranni – o ad Alcibiade). Socrate sostenne in tribunale la sua innocenza, adducendo che la sua virtù non potesse essere valutata in base all’uso che fecero gli appartenenti alla sua cerchia del metodo discorsivo che lui aveva insegnato loro. Condannato, sfidò i tribunale dicendo che a suo avviso per quello che aveva fatto ad Atene lo avrebbero dovuto “condannare” ad essere ospitato a vita nel pritaneo (essere ospitati per una volta alla mensa dei pritani, ovvero i “senatori”, era la maggior onorificenza cui un ateniese potesse ambire), e in un secondo momento si rifiutò di fuggire (come i suoi discepoli gli chiedevano) sostenendo che avendo sempre educato al rispetto delle leggi, non avrebbe potuto lui stesso contravvenire ad esse. Dell’ultimo momento della sua vita ce ne parla Platone nell’“Apologia”, con parole – attribuite allo stesso Socrate – piene di commozione e di spessore poetico. Con esse concludiamo questa breve recensione. “Ma ecco, è tempo di andare: per me a morire, per voi a vivere. E quale di noi vada verso il meglio, a tutti è oscuro fuorché al dio”.
Domenica 18 gennaio: “Compagnia del serraglio”, rassegna teatrale: “Ammazziamo la domenica”, Teatro Comunale Malatesta di Montefiore. Oggi in programma per l’area teatro ragazzi “Burdél”, della “Compagnia del Serraglio”. Alle ore 17. Info su www.compagniadelserraglio.com Domenica 25 gennaio: “Compagnia del serraglio”, rassegna teatrale: “Ammazziamo la domenica”, Teatro Comunale Malatesta di Montefiore. Oggi in programma per l’area teatro ragazzi “Agenzia viaggi giromondo”, della “Officina teatrale creativa”. Alle ore 17. Info su www.compagniadelserraglio.com Lunedì 26 e martedì 27 gennaio: “Paolo Conte live”, Teatro Europa Bologna, tel. 051.372540 www.teatroeuropa.it Giovedì 5 febbraio “Negrita live”, Palasport Speca, San Benedetto del Tronto. www.ticketone.it Sabato 7 febbraio: “Beppe grillo - Delirio tour”, 105 Stadium, Rimini, ore 21. Prevendita su www.vivaticket.it Venerdì 13 febbraio: - “Il tempo delle susine verdi”, di e con Paolo Hendel. Teatro Ermete Novelli, Rimini. Biglietteria tel.0541/24152 www.teatroermetenovelli.it - “The Damned live”, all’Estragon di Bologna. Info su www.goth.it/event Sabato 14 febbraio: “Sabina Guzzanti - Vilipendio tour”, BPA Palas Adriatic Arena, Pesaro. Prevendita su... 20 febbraio “Tiamat + 69 eyes live”, all’Estragon di Bologna. Info su www.goth.it/event 26 febbraio: “Franco Battiato live”, al Carisport di Cesena. Prevendite su www.ticketone.it Imperdibili al cinema: “Sette anime”, di G.Muccino, con W.Smith. Dal 9 gennaio “Un matrimonio all’inglese”, di S:Elliott. Dal 9 gennaio “Lasciami entrare”, di T.Alfredson. Dal 9 Gennaio
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Dalle sale, l’ultimo film di Salvatores
Come dio comanda Un finale sbagliato!
Non siamo soliti fare recensioni sui film in uscita nelle sale, ma nel caso di “Come Padre (Filippo Timi) e figlio (Alvaro Caleca) in un’immagine del film Dio comanda”, l’ultimo film di Gabriele Salvatores, ci sentiamo di provarci. Se ancora non lo avete visto (ma intendete farlo), non leggete questo articolo che parla anche (e soprattutto) del finale; se invece lo avete visto vogliamo provare con voi a discutere sul difetto più allarmante che secondo noi lo macchia, e provare a fare come Slavoj Žižek, che tanto spesso nei suoi libri si diverte a cambiare i finali dei film più famosi per renderli (a suo modo di vedere) veramente perfetti. “Come dio comanda” ci mostra uno spicchio di vita di un padre e suo figlio, che vivono tra cave di pietra nel nord-est italiano, in un paesino desolato. Il padre, disoccupato e fascista, educa il figlio Cristiano al culto fascista e xenofobo dell’onore, dell’orgoglio, del razzismo e della forza. Il loro unico amico, “quattro formaggi”, è un ragazzo reso deficiente da un incidente con l’alta tensione: è ossessionato da Dio, dal presepio e da una pornodiva. In una notte di pioggia una ragazzina, violentata ed uccisa da quattro formaggi, pone fine al sottile equilibrio. Il padre, corso a soccorrere l’amico, quando si rende conto dell’accaduto ha un attacco violento, rischia di ucciderlo, poi cade preda di un infarto. Quattro formaggi fugge, lasciando la ragazzina uccisa e l’amico morente in mezzo al bosco. Prima di perdere del tutto conoscienza, il padre riesce a chiamare al cellulare il figlio, che corre in suo soccorso, e una volta arrivato, credendo che sia stato lui a violentare ed uccidere la ragazza, ne occulta il cadavere buttandolo in un fiume, fa in modo che il padre venga ricoverato e viene affidato ai servizi sociali. Il finale (che ci lascia perplessi) vede il padre risvegliarsi, “quattro formaggi” suicidarsi sentendosi braccato dalla poizia, e Cristiano rendersi conto che il padre non era colpevole per quell’omicidio. Cosa non va in questo finale? Beh, l’implicito messaggio trasmesso! Salvatores ha sceneggiato l’omonimo libro di Niccolò Ammaniti (vincitore del premio Strega). Purtroppo non abbiamo letto il libro, ma da più parti leggiamo che è scritto facendo l’occhiolino al cinema, quasi in funzione di esso - cosa di per sé disdicevole - e che il film di Salvatores non cambia nulla del testo di Ammaniti, per cui, in questo caso, il finale sarebbe da addebitare in pari misura a chi lo ha ideato e scritto, e a chi non lo ha modificato in funzione di una sceneggiatura. In ogni caso l’implicito messagio finale trasmesso è che la colpa è della società! Il nazista che insegna al bambino ad inneggiare Hitler, che si tatua croci celtiche addosso e vernicia svastiche in casa propria... è una povera vittima, e così, vendicando le offese patite dal figlio a suon di bastonate a chiunque lo importuni, e garantendosi un’omertà familistica con cui il figlio ben addestrato occulterà ogni traccia del coinvolgimento del padre in un omicidio, alla fine sono i violenti e gli omertosi a vincere. Il lieto fine (il padre vive e e non è colpevole), si tramuta in un finale amaro, non condivisibile, che potrebbe (e certamente lo farà) convincere qualche testa vuota che non importa cosa credi, che violenze provochi: l’importante è che trionfi l’omertà familistica (cameratesca) nella difesa “sempre e comunque” del suo onore. Salvatores, a cui qualche polemica in questa direzione evidentemente è stata mossa, cerca di difendere il suo operato sostenendo che il messaggio finale è che in ciascuno c’è qualcosa di buono. Bene, ma non basta! Il messaggio che fa passare è anche che “il destino”, la “provvidenza”, aiutano e difendono chi vive della propria violenza, chi si fa giustizia da sé; e la colpa e sempre e solo della società! Un finale degno sarebbe stato quello in cui il padre, in coma nell’ospedale, piuttosto che risvegliarsi fosse morto, pur senza colpe, e la famiglia in tal modo frantumata e con essa il culto dei valori neo-nazisti che la tenevano in vita. Il senso sarebbe stato: non importa se non hai colpe su un fatto contingente (in questo caso un omicidio e uno stupro); importa invece come ti comporti quotidianamente, e ogni ingiustiza, e ogni xenofobia, viene pagata. Il figlio avrebbe dovuto capire... mentre invece con il finale di Salvatores non solo non capisce, ma addirittura è confermato nei suoi pregiudizi. Peccato, perché sarebbe stato veramente un bellissimo film!