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CHIEDETELO A

La rubrica “Chiedetelo a…” è uno spazio attraverso il quale i nostri lettori (ma anche la redazione stessa) possono avere risposte ad argomenti di diversa natura. Le domande devono essere inviate all’indirizzo email redazione@ecod.it I quesiti proposti saranno evasi da persone competenti negli specifici settori.

Mi è capitato di acquistare del prosciutto cotto che presenta colori disomogenei nella fetta e una parte ha un aspetto più flaccido e spugnoso. A cosa si devono queste difformità?

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Diciamoci la verità, quando acquistiamo del prosciutto cotto in vaschetta (o un salume in generale) ci aspettiamo che la fetta si presenti compatta, omogenea e di colore abbastanza uniforme; poi al palato ci piace che abbia una buona masticabilità e non ci dia la sensazione di un qualcosa di poco consistente e poco gradevole. Quando andiamo a fare la spesa ci facciamo condizionare anche dai nostri sensi: la vista e l’olfatto ci aiutano a scegliere un prodotto alimentare, giudicandolo positivamente se fresco e appetibile. Nel prodotto in vaschetta, solo la vista può aiutarci ma talvolta capita che buona parte del prodotto sia celato dall’etichetta, dall’immagine e dal logo del produttore. A volte poi – fatta salva la scelta della marca – diamo un’occhiata sommaria (fidandoci appunto dei nostri sensi) e se il colore ci va bene, di un rosa che siamo abituati ad accettare, prendiamo quella vaschetta di prosciutto cotto senza farci caso. Però poi a casa magari la fetta non si presenta perfettamente integra e uno dei muscoli pare essere più spugnoso – e appunto meno consistente – degli altri. Occorre innanzitutto ricordare che nel prosciutto cotto che troviamo in vendita preconfezionato affettato, sia nel tipo di “alta qualità” che in quello “scelto”, la fetta deve presentarsi avendo chiaramente identificabili almeno tre dei quattro muscoli principali (semitendinoso, semimembranoso, quadricipite e bicipite femorale) della coscia intera del suino (come specificato nel Disciplinare dei prodotti di salumeria: DM 21/09/2005 modificato dal DM 26/05/2016). La non uniformità e soprattutto la mancata compattezza in alcune parti della fetta, che si presenta come sbriciolata, spugnosa al contatto e di colore molto più pallido, è dovuta il più delle volte ad una alterazione che interviene nei muscoli dell’animale appena dopo la macellazione, nel passaggio che attraverso il rigor mortis e la successiva frollatura li trasforma in carne. È una condizione che si verifica soprattutto nel suino, quando gli animali sono esposti a stress prima della macellazione o è legata alle caratteristiche genetiche dell’animale (alcune specie come la Pietrain Belga e la Landrace sono più predisposte), che porta ad avere carni cosiddette PSE (pale, soft, exudative – cioè pallide, soffici, essudative) ed è dovuta esclusivamente al pH finale raggiunto nelle carni. Nelle normali condizioni, quando l’animale viene macellato, la circolazione sanguigna si interrompe e viene a mancare l’ossigeno necessario per stimolare l’aerobiosi muscolare. Le cellule in anaerobiosi utilizzano però ancora le riserve di glicogeno presente nel muscolo (fino ad esaurimento) per ricavare energia e come effetto secondario producono acido lattico, che porta a un progressivo ma lento calo del pH. Quando l’animale è in vita il pH nei muscoli è compreso tra 6,7 e 7,2; dopo il processo del rigor mortis (che si manifesta nell’arco di 12-24 ore), la carne ottenuta da animali in buono stato di salute e non stressati ha un pH finale di 5,5-5,8. Gli effetti della sindrome PSE si manifestano invece subito dopo la macellazione: quando gli animali sono stressati, rilasciano improvvise scariche di adrenalina che portano ad una rapida glicolisi post mortem e a un notevole accumulo di acido lattico, che porta il pH misurato a 45 minuti (pH45) a valori di 5,2-5,5 e a valori del pH finale più bassi del normale. Questo elevato tasso glicolitico che è correlato con l’elevata temperatura corporea della carcassa (35-40°C), porta ad una parziale denaturazione di alcune proteine muscolari. Ciò fa sì che sia compromessa la capacità delle proteine muscolari di trattenere l’acqua, poiché il pH è vicino al loro punto isoelettrico. La conseguente perdita di liquidi (essudazione) conferisce alla superficie dei tagli un aspetto umido e la consistenza risulta essere più flaccida. Quando l’acqua viene rilasciata dal muscolo anche i pigmenti (mioglobina) vengono rilasciati ed è questo il motivo per cui la carne presenta un colore più chiaro (pallido). La condizione PSE la si riscontra soprattutto nel lombo e in alcuni muscoli della coscia del suino, pertanto la carne PSE non è adatta per essere utilizzata nella produzione di prosciutti stagionati e tanto meno nei prosciutti cotti (a meno di utilizzare additivi che hanno la funzione di trattenere l’acqua e che nei tipi di “alta qualità” non possono venire usati). La carne PSE la si può utilizzare per la produzione di salsicce fresche

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e cotte in ragione di una percentuale di impiego limitata, rispettivamente e indicativamente del 30% e del 20%. Le carni PSE assumono un’importanza rilevante in termini economici per le industrie perché il loro impiego comporta: - un aumento delle perdite in stagionatura (maturazione) fino al 5%; - un aumento delle perdite di cottura fino al 20%; - un aumento dal 6 al 10% delle perdite di essudazione nella carne fresca. La carne PSE continua a essere uno dei principali problemi di qualità che colpisce principalmente le vendite di prodotti freschi, causando un rifiuto da parte dei consumatori e perdite economiche e di immagine di marca per i Innovative food solutions grandi produttori di carne. La variazione di pH, quando l’acidificazione dopo le 24 ore dalla macellazione si mantiene su valori superiori a quelli dell’indice di normalità attorno a 6-6,3, è alla base di un’altra anomalia, nota come DFD (dry, firm, dark – cioè asciutta, dura e scura). La carne DFD si osserva principalmente nei bovini e in misura minore nelle carcasse dei suini e si verifica quando gli animali sono esposti a stress prima della macellazione (animali stanchi, affaticati, trasportati su lunghe distanze, in carenza di alimentazione e abbeveraggio, ecc.), senza avere origine di tipo genetico. Ciò determina l’esaurimento delle riserve di glicogeno, così che – di conseguenza – la glicolisi post mortem sarà ridotta e la formazione di acido lattico più bassa, che porta ad avere un pH finale più alto (6-6,3). Questo fattore determina una minore possibilità di conservare la carne perché favorisce lo sviluppo di microrganismi deterioranti. La carne DFD, presentandosi asciutta e scura, non sempre è accettata dai consumatori; la qualità organolettica risulta compromessa anche dalla mancanza di sapore e aroma che determina una ridotta percezione del gusto. Inoltre la carne ha una minore capacità di diffusione del sale durante la stagionatura e questo fattore ne impedisce l’uso per la produzione di prosciutto crudo. Tuttavia conferisce alla carne una grande capacità di legare l’acqua, il che ne garantisce la possibilità di un impiego maggiore nella produzione del prosciutto cotto e delle salsicce cotte rispetto alla carne PSE perché il prodotto perderà meno acqua in cottura. A differenza della sindrome PSE che mantiene i suoi caratteri distintivi in modo permanente, l’incidenza della DFD può essere ridotta qualora gli animali – prima della macellazione – siano stabulati in recinti non troppo freddi, liberi da correnti d’aria e adeguatamente alimentati e abbeverati, in modo da ricostruire la loro riserva di glicogeno.

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