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soldati quando la storia si racconta con le caserme Sala espositiva della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia 30 ottobre 2015 – 28 febbraio 2016

Mostra promossa e realizzata da:

Presidente Gianluigi Chiozza Segretario Generale Giuseppe Bragaglia Coordinamento editoriale Roberto Collini Coordinamento organizzativo mostra e catalogo Elena Vidoz Coordinamento comunicazione e promozione mostra Martina Franco

Associazione Culturale “Isonzo” – Gruppo di Ricerca Storica Presidente Bruno Pascoli In collaborazione con

Comune di Gorizia Sindaco Ettore Romoli Con il patrocinio di Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia Provincia di Gorizia

Comitato scientifico Simonetta Brazza Sergio Chersovani Martina Franco Antonella Gallarotti Mariateresa Grusovin Bruno Pascoli Elena Vidoz Immagine allestimento Corde Architetti Associati, Venezia Coordinamento generale allestimento e direzione lavori Mariateresa Grusovin Coordinamento amministrativo e segreteria organizzativa Tiziana Battistutta Antonella Bergomas Grazia Cenni Martina Degano Federica Marchesan Mara Papa Allestimento illuminotecnico Studio tecnico Sergio Marega Realizzazione pannellature, apparati didascalici e riproduzioni fotografiche ArtOk, Bicinicco (UD) Serimania, Gorizia Video “Un paese di Primule e Caserme” per gentile concessione di: Cinema Zero Dmovie s.r.l. Tucker Film Assicurazione Axa Art


Testi in catalogo, in mostra e apparato didascalico a cura di Sergio Chersovani [SC] Roberto Collini Bruno Pascoli [BP] Simonetta Brazza Corde Architetti Associati Alessandro Ruzzier Progetto grafico Elisabetta Fava, Corde Architetti Associati, Venezia Editore Edicom s.a.s., Monfalcone Direttore editoriale Ferdinando Gottard Editing Anna Raspar Ufficio stampa e promozione Martina Franco Assunzioni fotografiche e stampa Bruno Pascoli, Associazione Culturale “Isonzo” – Gruppo di Ricerca Storica, Gorizia ArtOk, Bicinicco (UD) CHERINFOTO, Trieste Serimania, Gorizia Giovanni Viola, Circolo Fotografico Isontino Cornici studiofaganel, Gorizia Referenze fotografiche Archivio Comune di Gorizia Archivio storico Foto Altran, Gorizia Associazione Culturale “Isonzo” – Gruppo di Ricerca Storica, Gorizia Associazione Nazionale Alpini, sez. di Gorizia Associazione 4° Stormo, Gorizia Biblioteca Statale Isontina, Gorizia Fondo Mischou, Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia Goriški muzej, Nova Gorica Roberto Ballaben, Gorizia Giovanni Belli, Gorizia Flavia Bisiach, Gorizia Sergio Chersovani, Gorizia Ruggero Comelli, Gorizia Pietro Marcello Compagno, Anagni (FR) Daniela Cuschie, Gorizia Gianpaolo Cuscunà, Ronchi dei Legionari (GO) Bruna Gherardini, Gorizia Jurko Lapanja, Gorizia Antonio Lauriti, Gorizia Natale Maccarrone, Castelfranco Veneto (TV) Giuseppe Marchi, Gorizia Marco Nitti, Gorizia Bruno Pascoli, Gorizia Anna Perzan, Gorizia Rinaldo Roldo, Gorizia Mario Villani, Monfalcone Stefano Zucchiatti, Gorizia

Prestiti Comune di Gorizia Fondo Mischou, Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia Sergio Chersovani, Gorizia Giovanni Cossar, Gorizia Daniela Cuschie, Gorizia Bruna Gherardini, Gorizia Jurko Lapanja, Gorizia Antonio Lauriti, Gorizia Bruno Pascoli, Gorizia Anna Perzan, Gorizia Nereo Tavagnutti, Gorizia Stampati Grafica Goriziana Sas, Gorizia Poligrafiche San Marco, Cormòns (GO) Sorveglianza e accoglienza in mostra Musaeus – Servizi per i Beni Culturali, Gorizia Erika Bader Simonetta Brazza Iris Busilacchio Giada Piani Elisa Tofful Ringraziamenti Comune di Gorizia Ettore Romoli Rinaldo Roldo Emanuela Uccello Biblioteca Statale Isontina, Gorizia Marco Menato Goriški muzej, Nova Gorica Matjaž Brecelj Per il supporto nelle ricerche in archivi fotografici: Comando della Brigata di Cavalleria “Pozzuolo del Friuli”, 13° Reggimento Carabinieri “Friuli Venezia Giulia” di Gorizia Si ringrazia inoltre Arduino Altran, Donatella Altran, Lorenzo Altran, Luciano Altran, Roberto Ballaben, Giovanni Belli, Selvino Ceschia, Raffaele Chianese, Agostino Colla, Ezio Cociancig, Claudio D’Angelo, Michele Di Bartolomeo, Massimo Donadio, Biagio Liotti, Maddalena Malni Pascoletti, Elvira Martellani, Manlio Miniussi, Domenico Pace, Antonio Pecile, Renata Poiani, Ezio Romano, Federico Sancimino, Paolo Verdoliva, Rodolfo Ziberna, Livia Zucalli Vietata la riproduzione anche parziale di testi, disegni e foto se non espressamente autorizzata. Tutti i diritti sono riservati a norma di legge e delle convenzioni internazionali. Prima edizione ottobre 2015 ISBN 978 88 96386 48 4


“Soldati. Quando la storia si racconta con le caserme” è il titolo della ventesima mostra che, dal 2007 ad oggi, viene realizzata negli spazi del palazzo sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia, proseguendo un’attività espositiva che in questi otto anni è stata, e tuttora è, intensa e sempre improntata alla valorizzazione del territorio. In continuità con le precedenti rassegne – in particolare con “Oltre lo sguardo. Fotografi a Gorizia prima della Grande Guerra”, svoltasi tra il settembre 2014 e il giugno 2015 – questa esposizione persegue uno degli scopi statutari maggiormente rilevanti nell’operato della Fondazione: quello di promuovere la conoscenza della storia della nostra provincia, documentata con l’ausilio di immagini d’epoca attraverso un progetto condiviso con altre realtà locali. “Soldati” nasce, infatti, da una proficua collaborazione instaurata con l’Associazione Isonzo – Gruppo di ricerca storica, che ha fornito gran parte dei materiali esposti e dei contenuti della mostra, e con il Comune di Gorizia, che ha messo a disposizione preziose fotografie inedite, consentendo di illustrare con dovizia di dettagli alcuni aspetti del nostro passato ancora poco noti. La rassegna ripercorre la storia di Gorizia con riferimento alla costante presenza militare che, per la sua natura di territorio di confine, ha interessato la città nel corso del Novecento con ripercussioni a livello sociale, ricadute positive sul piano economico e influssi evidenti sul tessuto urbanistico della città, per i numerosi siti militari che vi sorgono e vi sorgevano. Le immagini che compongono l’itinerario offrono un quadro storico che si snoda dal periodo asburgico, all’epoca del Regno d’Italia e poi della Repubblica Italiana, fino alla conclusione della Guerra Fredda e all’introduzione dell’esercito professionale, quando le forze armate di stanza in città si sono via via ridotte. La mostra offre l’occasione di individuare la dislocazione delle caserme in città, soffermandosi anche sui luoghi della socializzazione frequentati da militari e cittadini, come gli eleganti caffè “Al Teatro”, “Al Corso”, “Alle Ali”. Vengono descritte inoltre le trasformazioni d’uso e i cambi di denominazione che alcune caserme hanno subito nei decenni e ripercorsi alcuni momenti della storia della città che hanno coinvolto le forze armate, come manifestazioni e cerimonie pubbliche.


Uno sguardo sul passato che nasce però da un’attenta osservazione del presente: il percorso espositivo sfocia, infatti, nel censimento dei siti militari del Friuli Venezia Giulia e negli studi sul possibile riutilizzo di alcuni di questi luoghi effettuati dallo studio Corde Architetti di Venezia. A questo lavoro si ricollega la parte conclusiva della mostra, nella quale il visitatore è riportato ai giorni nostri ed ai seri problemi posti dalla dismissione dei luoghi militari ancora presenti in grande numero a Gorizia e nella nostra regione. La mostra pone dunque l’accento su un fenomeno, quello della considerevole presenza militare, che rappresenta una costante nella storia goriziana del Novecento: un aspetto peculiare di cui crediamo valga la pena conservare il ricordo, per riscoprire e valorizzare l’identità delle nostre terre di confine. Gianluigi Chiozza Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia


Nel corso della sua storia, in considerazione della sua particolare collocazione geo-politica, Gorizia si è trovata da sempre a convivere con la presenza di numerose Forze Armate entro il suo territorio. Basti pensare, per esempio, come lo stesso Castello, affascinante e storico monumento–simbolo di questa città, nato come residenza dei Conti di Gorizia e sede delle funzioni amministrative e giudiziarie della Contea, dopo la metà del Seicento, durante il dominio degli Asburgo, sia stato trasformato in prigione e poi in caserma, unitamente ad altri edifici (come, per esempio, quello di piazza della Vittoria – poi demolito o quello di via Santa Chiara – oggi adibito a museo). In questo senso, è emblematico come, in epoca ben più recente, nel secondo dopoguerra, Gorizia sia divenuta il luogo più permeabile dell’intero schieramento occidentale (la cosiddetta Soglia di Gorizia), trasformandosi in una vera e propria “città di guarnigione” per l’insediamento di parecchie caserme dell’Esercito, con la contestuale imposizione di molte servitù militari che, inevitabilmente, nel bene e nel male, hanno influenzato lo sviluppo di questo territorio. I goriziani non possono certo avere dimenticato quei giorni, quando le strade e i locali della città erano affollati di giovani militari, soprattutto di leva. Oggi, la realtà in cui ci troviamo a vivere è del tutto diversa: la conclusione della Guerra Fredda (che ha portato alla distensione delle relazioni tra i Paesi del blocco occidentale e quelli del blocco sovietico), la recente entrata in vigore del Trattato di Schengen (che ha implementato e concretizzato la cooperazione tra Stati europei, e non, in svariati settori e attività) e la successiva caduta delle frontiere all’interno dell’Unione Europea hanno letteralmente stravolto gli scenari internazionali. Gorizia, in quanto strategica città di confine, ha vissuto da protagonista anche questi cambiamenti epocali ed è stata (anche grazie alla presenza del Comando della Brigata di Cavalleria “Pozzuolo del Friuli”, la cui ipotesi di trasferimento ha tanto preoccupato la cittadinanza) privilegiata testimone della trasformazione intervenuta negli ultimi anni all’interno dell’Esercito Italiano, fatto oggi di uomini e di donne, prima che di soldati, in cui la forza non si misura più esclusivamente attraverso la potenza del numero, quanto piuttosto attraverso la professionalità, lo spirito di sacrificio, il rispetto della vita umana e la difesa della pace. Si tratta di nobili valori che i cittadini possono


riscontrare, ogni giorno, anche nell’impegno con cui Carabinieri, Guardia di Finanza, Polizia di Stato eseguono il loro dovere al servizio delle persone. Nelle varie epoche, dunque, i goriziani hanno avuto modo di conoscere molti aspetti di quella che è la vita militare di un Paese: hanno osservato i soldati combattere lungo le strade della città (per difenderla, ma anche per conquistarla) durante le due Guerre Mondiali; hanno visto edificare prima e demolire poi, o comunque abbandonare, le tante caserme presenti sul territorio, dove, per molti anni, consistenti rappresentanze dell’Esercito (e non solo) hanno avuto le proprie sedi operative; hanno “adottato” i militari rimasti in zona, facendoli divenire, assieme alle loro famiglie e alle loro abitudini, parte integrante e attiva della comunità che si è, di conseguenza, plasmata per rispondere alle loro esigenze. Ecco, quindi, come Gorizia, nel corso dei secoli, abbia di fatto intrecciato il proprio destino a quello dei soldati (quasi in una sorta di simbiosi), trasformandosi letteralmente, sia dal punto di vista urbanistico che sociale ed economico, a seconda dell’evoluzione del mondo militare. Nell’anno in cui si commemora il centenario della Grande Guerra, il Comune di Gorizia è particolarmente lieto di avere partecipato a questo interessante progetto della Fondazione Cassa di Risparmio, mettendo a sua disposizione alcune fotografie, anche inedite, recuperate dal Presidente del Consiglio comunale Roldo all’interno degli archivi comunali: perché chi osserva le immagini di “Soldati. Quando la storia si racconta con le caserme”, soffermandosi con un po’ di attenzione sui paesaggi ritratti o sui volti dei protagonisti, può effettivamente scoprire la storia, complessa ma altrettanto avvincente, della nostra città, per meglio comprendere le molteplici sfaccettature che la caratterizzano e che hanno contribuito a renderla una realtà di confine del tutto speciale.

Ettore Romoli Sindaco del Comune di Gorizia


Indice

1. LE CASERME STORICHE 1.1 Aeroporto “Amedeo Duca d’Aosta” 1.2 “Armando Diaz” 1.3 “del Fante” Metamorfosi di un monumento 1.4 Ospedale militare 1.5 “Antonio Cascino” 1.6 “Montesanto” 1.7 “Oslavia” I leoni degli alpini 1.8 “Podgora” 1.9 “San Michele” 1.10 “Sabotino” 1.11 “della Vittoria” La meridiana della Vittoria 1.12 Castello 1.13 “Federico Guella” 2. MILITARI E SOCIETÀ 2.1 Incontro al nuovo secolo 2.2 “Una città davvero carina” 2.3 La difficile transizione 2.4 L’economia dell’ospitalità 2.5 La libera uscita

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3. LE VISITE ILLUSTRI 3.1 Gli Asburgo 3.2 I Savoia

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4. TRA LE DUE GUERRE 4.1 Stellette e demografia 4.2 Il turismo della memoria Il Parco della Rimembranza 4.3 Undici soldati ignoti 4.4 Il Duca aviatore 4.5 Il Duce a Gorizia 4.6 Al servizio della città 4.7 I riflessi del conflitto

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Indice

5. IL VALZER DELLE BANDIERE 5.1 La guerra entra in casa 5.2 Una pace tormentata

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6. IL SECONDO DOPOGUERRA 6.1 L’accoglienza 6.2 Le Casermette 6.3 Il Villaggio dell’Esule

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7. LA SOGLIA DI GORIZIA 7.1 Il confine provvisorio 7.2 La vigilanza alla frontiera 7.3 La crisi italo-jugoslava del 1953

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8. UNA NUOVA PRESENZA 8.1 L’esercito si trasforma

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9. BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA DI RIFERIMENTO

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LE CASERME STORICHE


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1. Le caserme storiche

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AEROPORTO “AMEDEO DUCA D’AOSTA” Istituito nel 1911 come campo di volo militare austro-ungarico, dal 1925 al 1943 fu sede di squadriglie da ricognizione e del 4° Stormo caccia della Regia Aeronautica, del Comando di Brigata Aerea e infine della Divisione Aerea “Aquila”. Negli anni 19431944 fu base di aerosiluranti della Repubblica Sociale Italiana. Nel dopoguerra divenne scalo per l’aviazione civile e, infine, fu adibito al volo sportivo. Dal 1942 è intitolato al duca Amedeo d’Aosta.

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“ARMANDO DIAZ” L’edificio, sorto nella seconda metà dell’Ottocento per accogliere l’Istituto Bacologico Sperimentale, dal 1913 al 1915 fu sede dell’imperialregio Dipartimento di Polizia. Dal 1924 al 1943 vi operò il Comando di Circolo della Regia Guardia di Finanza e poi della Guardia di Finanza (1947-1975). La caserma, intitolata nel 1949 ad Armando Diaz, fu sede dal 1975 al 2000 del Comando Gruppo di Gorizia, da quella data mutato in Comando Provinciale. [SC]

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sopra: aeroporto “Egidio Grego”, fine anni ’20 (coll. Associazione 4° Stormo); sotto: Comando della Guardia di Finanza, inizi anni ’30 (coll. Sergio Chersovani); nelle pagine precedenti: pianta del territorio comunale di Gorizia, metà anni ’30 (coll. Bruno Pascoli); in apertura: veduta di Gorizia dal Castello (particolare), estate 1916 (Fondo Mischou, Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia).

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1. Le caserme storiche

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“DEL FANTE” La caserma fu costruita dall’imprenditore Antonio Polli verso la fine dell’Ottocento per alloggiare, a fronte di una pigione, un battaglione della milizia austriaca (Landwehr). Il complesso fu intitolato all’arciduca Ranieri (Rainer) d’Asburgo. Rimediati tra il 1919 e il 1920 i gravi danni subiti durante la guerra, divenne “Caserma del Fante” ospitando dapprima parte del 13° reggimento fanteria “Pinerolo” (1919-1921) e il 23° “Como” (1921-1943) e, dopo la guerra, battaglioni del 114° “Mantova” (1947-1965), del 82° “Torino” (1965-1975) e unità ausiliarie della Brigata Meccanizzata “Gorizia” (1975-1995). Ora la caserma è dismessa e in stato di avanzato degrado. [SC]

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sopra: “Rainer-Kaserne”, inizi del ’900 (coll. Sergio Chersovani); sotto: reparti del 23° Fanteria “Como” schierati nella piazza d’armi della caserma “del Fante”, 1938 ca. (coll. Roberto Ballaben); nella pagina accanto: Messa solenne nel cortile della caserma “Rainer”, 9 aprile 1899 (coll. Sergio Chersovani).

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METAMORFOSI DI UN MONUMENTO

Il cortile della caserma “Arciduca Ranieri” era ornato da un’erma con il busto di Francesco Giuseppe, dono di Antonio Polli, costruttore e proprietario della caserma stessa, in ricordo dei cinquant’anni di regno del monarca. Lo scoprimento, rinviato di alcuni mesi in seguito al lutto per la morte dell’imperatrice Elisabetta, ebbe finalmente luogo il 9 aprile 1899 con la benedizione del principe-arcivescovo di Gorizia cardinale Missia e grande partecipazione di autorità civili e militari. Il busto bronzeo dell’imperatore fu modellato dallo scultore viennese Tilgner e poggiava su un piedistallo a obelisco, alto quasi tre metri, realizzato in marmo rosso dall’impresa udinese di Girolamo D’Aronco. Ai due lati dello stesso vi erano incastonate delle epigrafi in tedesco: in una il donatore celebrava il giubileo imperiale e nell’altra sé stesso, rivolgendo all’imperatore il proprio ossequio e attaccamento. Il busto scomparve nel corso della Grande Guerra, forse asportato e fuso per il suo prezioso metallo. Il 4 novembre 1920, anniversario della Vittoria, il 13° fanteria “Pinerolo” che occupava l’edificio riattato con il nuovo nome di “Caserma del Fante”, inaugurò solennemente quattro epigrafi lapidee applicate ai lati del vecchio obelisco. Sulla prima stava inciso: “NEL GIORNO 10 MARZO / FANTI DELLA PINEROLO / CONSACRANDO LA VECCHIA CASERMA AUSTRIACA / ALLA NUOVA GIOVENTÙ D’ITALIA / DEPONEVANO LE LORO BANDIERE LACERATE NEL TURBINE / DI CENTO VITTORIOSE BATTAGLIE”. Sulla seconda: “O GIOVINE SOLDATO / DICONO I MORTI DAL SABOTINO ALL’HERMADA / NON TI SEMBRI DURO VIVERE / NELLA DISCIPLINA DELLA CASERMA / POICHÉ PER QUELLA DISCIPLINA / NOI ABBIAMO SAPUTO MORIRE”. Sulla terza: “SENTINELLA AVANZATA DELLA PATRIA / QUELLI CHE MORIRONO / NON TI DOMANDANO DI ANDARE AVANTI / MA DI MANTENERE I CONFINI SEGNATI DALLE LORO CROCI”. Sull’ultima: “O GIOVANE SOLDATO FATTI AMARE / NELLA NUOVA TERRA DA COLORO CHE CI ATTENDEVANO / DA COLORO CHE CI CONOSCONO MALE / LA NOSTRA CIVILTÀ / HA UNA SOLA DIVINA FORZA: / AMORE”. Frasi che oggi suonano retoriche, ma allora erano perfettamente in linea con l’idea di nazione che si aveva. L’obelisco con il piedistallo originale, circondato da una catena di ferro sorretta ai quattro angoli da altrettante granate di grosso calibro, resistette fino a tutta la Seconda guerra mondiale. La sua rimozione avvenne alla fine degli anni Quaranta, appena insediato il 114° fanteria “Mantova”, forse perché ostacolava il passaggio carraio del portone principale.

in queste pagine: reparto del 27° reggimento “Landwehr” nel cortile della caserma “Rainer” (particolare), 1912 ca. (coll. famiglia Martellani).



1. Le caserme storiche

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OSPEDALE MILITARE

L’ospedale militare, edificato a cura e spese della Provincia con soluzioni modernissime per l’epoca, fu inaugurato nel 1913 con intitolazione all’arciduca Francesco Ferdinando d’AsburgoEste. Il regio esercito italiano ne mantenne la funzione denominandolo dapprima “Ospedale militare 079” (1918-1921), poi “Infermeria Presidiaria” (1921-1943). Dopo le occupazioni straniere degli anni 1943-1947 il complesso ospedaliero fu riconvertito in alloggi per ufficiali e sottufficiali, in parte ancora utilizzati.

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“ANTONIO CASCINO” La prima caserma in città, costruita espressamente in funzione di truppa e quadrupedi, ospitò l’artiglieria da campagna austroungarica (1883-1914). In seguito, con il nome di “Caserma Savoia”, fu sede dell’artiglieria da montagna (3° Gruppo, 1921-1926 poi 3° Reggimento, 1926-1943) oltre che della 2ª Compagnia Treno e di reparti automobilistici. Denominata “Caserma Antonio Cascino” dal 1948, è in uso ai Carabinieri, dapprima del XIII Battaglione Mobile, dal 1978 ribattezzato “Friuli-Venezia Giulia”, elevato a reggimento dal 2001.

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sopra: ospedale militare, anni ’30 (coll. Sergio Chersovani); sotto: “Artillerie-Kaserne”, inizi del ’900 (coll. Sergio Chersovani).

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1. Le caserme storiche

sopra: autieri e motociclisti schierati sul piazzale antistante la caserma “Savoia”, metà anni ’20 (coll. Sergio Chersovani); sotto: vigili urbani con il gonfalone della città di Gorizia e reparti dei Carabinieri in grande uniforme sul piazzale della caserma “Antonio Cascino”, 5 giugno 1970 (Archivio Associazione Culturale “Isonzo”).

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1. Le caserme storiche

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“MONTESANTO” Dal 1911 al 1914 accolse “Dragoni” della cavalleria austroungarica. Con il nome di “Caserma Aosta” fu sede del 6° Regg.to Artiglieria da campagna e del Gruppo someggiato della 14ª Divisione di fanteria “Isonzo” (1921-1943). Nel 1947, assunto il nome “Montesanto”, ospitò reparti esploranti della divisione “Mantova” e poi del “Torino”. Il 12° Gruppo Squadroni “Cavalleggeri di Saluzzo” vi rimase dal 1976 al 1991. Attualmente vi sono dislocate unità della Brigata “Pozzuolo del Friuli”.

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sopra: “Dragoner-Kaserne”, 1912 ca. (coll. Sergio Chersovani).

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sopra: caserme di via Trieste dopo la presa italiana di Gorizia, inizi 1917 (coll. Sergio Chersovani); sotto: artiglieri e muli del 6° Regg. Artiglieria da Campagna schierati sul piazzale della caserma “Aosta”, fine anni ’20 (coll. Sergio Chersovani).

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1. Le caserme storiche

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“OSLAVIA” Impostata su due distinti edifici risalenti al 1912, fino al 1914 la caserma ospitò unità del Genio austro-ungarico. Intitolata a Vittorio Emanuele III, dal 1920 al 1933 fu sede del 24° Regg.to fanteria “Como” e, dal 1935 al 1943, del 9° Regg.to Alpini (Comando e deposito reggimentale con il battaglione “L’Aquila”). Dopo la guerra, nell’edificio minore ribattezzato “Caserma Oslavia” e attualmente semidiroccato, s’insediò la Guardia di Finanza (1951-1959), mentre in quello maggiore, demolito nel 1964, si stabilì il Convitto “Fabio Filzi”.

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sopra: caserma di Sant’Andrea, 1913 (coll. Sergio Chersovani).

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I LEONI DEGLI ALPINI

Con l’annessione al regno d’Italia Gorizia divenne terra di alpini e di alpinità. I primi furono quelli del battaglione “Aosta” che in poche settimane di duro lavoro rimisero in condizioni di abitabilità, ribattezzandola “della Vittoria”, la vecchia caserma austriaca della piazza omonima, ridotta a rudere dalla guerra e dalle intemperie. Nel luglio del 1921 agli alpini dell’“Aosta” subentrò il comando del neo-costituito 9° Reggimento con il battaglione “Bassano”. L’anno successivo ricorreva il cinquantenario della fondazione del Corpo e anche il Comando del 9° Alpini non volle essere da meno nel ricordare al meglio l’evento. Nello stile tipicamente alpino del “fai-da-te”, nel cortile della caserma fu realizzato un monumento ai Caduti, ideato e disegnato dal tenente colonnello Carlo Rossi, che vi prestava servizio, futuro generale comandante della “Julia”. Gli elementi costitutivi furono all’insegna dell’economicità e del facile reperimento. La base consisteva in un cubo di laterizio smaltato e ornato ai quattro lati da residuati bellici con quattro bombarde da 420 mm poste agli angoli. I governali di queste reggevano la linda della piattaforma superiore al centro della quale svettava un proietto da 305 mm con il suo bossolo di ottone poggiante su di un capitello ionico. Alla base degli angoli sporgevano dei parallelepipedi su ciascuno dei quali poggiava un leone sdraiato, realizzato a calco in pasta cementizia ricoperta di vernice color bronzo antico. Le figure leonine risultavano accoppiate grazie all’opposto orientamento dello sguardo. Il monumento era circondato da un’aiuola circolare ripartita in quattro spicchi, ognuno dei quali riportante in graniglia di sasso il nome di un battaglione del reggimento (Bassano, Cividale, Feltre e Vicenza), il tutto entro un recinto costituito da quei paletti di ferro arricciati che in guerra reggevano i reticolati. Il monumento fu solennemente inaugurato il 15 ottobre 1922 davanti a una quinta di grandi tricolori appesi a un filo di ferro teso da un capo all’altro del cortile, all’altezza del terzo piano. L’opera rimase al suo posto finché, dovendo essere nel 1937 demolita la caserma “della Vittoria”, non ne fu deciso lo smontaggio e la ricostruzione, con qualche variante al basamento, presso la caserma “Vittorio Emanuele III” di Sant’Andrea, nuova sede del 9° Alpini. I leoni sopravvissero con il loro monumento fin oltre la Seconda guerra mondiale nella caserma ribattezzata “Oslavia” e assegnata in uso fino al 1959 alla Guardia di Finanza. Nella prima metà degli anni Cinquanta, con la demolizione e lo smembramento del monumento, gli ornamenti presero destinazioni diverse: i residuati bellici finirono al Museo della Guerra di Gorizia, mentre i quattro leoni furono presi in consegna dal Comune che ne depositò parte nel magazzino di via Barzellini e parte nel giardinetto della scuola elementare “Pitteri”, sul lato opposto della medesima via. Lì rimasero dimenticati per decenni, finché non giunse all’amministrazione civica una memoria documentale sulle origini illustri delle figure leonine e sull’opportunità che le stesse venissero opportunamente valorizzate. Il riscontro risultò positivo e la cerimonia di ricollocamento ebbe luogo il 20 settembre 2012 nella ricorrenza dell’89° anniversario di fondazione della sezione goriziana dell’Associazione Nazionale Alpini. Da allora i vecchi leoni, ormai privati per le ingiurie del tempo del primitivo rivestimento color del bronzo, sono in bella vista adagiati sul manto erboso del parco municipale. [SC]

in queste pagine: monumento ai Caduti Alpini sul piazzale della caserma di Sant’Andrea (particolare), fine anni ’50 (coll. Associazione Nazionale Alpini, sez. di Gorizia).



1. Le caserme storiche

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“PODGORA” Già convitto “Aloysianum” sloveno, negli anni Venti l’edificio fu adibito a sede della 6ª Compagnia Treno e a magazzino viveri col nome di “Caserma Podgora”. Nel 1936 fu acquisito dal demanio militare per insediare il Comando e la batteria-deposito del 9° Reggimento artiglieria Guardia alla Frontiera (1937-1943). Dal 1949 fu utilizzato dalla Guardia di Finanza come sede di tenenza e brigata e, dal 1962, come autorimessa. La caserma fu demolita nel 1987. [SC]

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“SAN MICHELE” Sorto come ospedale alla metà dell’Ottocento e ritenuto non più adeguato a tale funzione già ai primi del XX secolo, l’edificio fu riconvertito nel 1913 in caserma per truppa dell’artiglieria da fortezza austro-ungarica. Rimessa in funzione dal regio esercito italiano con il nome di “Caserma San Michele”, ospitò fino al 1943 distaccamenti del 23° Regg.to fanteria “Como”. Fu demolita negli anni Sessanta.

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sopra: caserma “Podgora”, anni ’50 (coll. Roberto Ballaben); sotto: caserma “San Michele”, anni ’30 (coll. Roberto Ballaben).

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1. Le caserme storiche

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“SABOTINO” Dopo essere stato monastero delle Clarisse, il complesso seicentesco divenne Magazzino di vettovagliamento austriaco comprendente un panificio che riforniva tutta la guarnigione di Gorizia. Ripreso come Magazzino viveri e casermaggio oltre che come panificio, e denominato “Caserma Sabotino”, ospitò il Distretto militare di Gorizia (1927-1934 e 1941-1943), la Polizia Civile del Governo Militare Alleato (1946-47) e infine il Comando Gruppo Guardie di Pubblica Sicurezza (1947-1981). Attualmente è sede in parte universitaria, in parte museale.

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“DELLA VITTORIA” Nel 1773 papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù e tre anni dopo il seicentesco collegio dei Gesuiti, adiacente alla chiesa di Sant’Ignazio, fu confiscato dall’erario imperiale e trasformato in caserma. Non avendo un proprio nome, era nota come “casermone” o anche “Travnik-Kaserne”, dal nome della piazza che in sloveno significa “prato”. Ospitò solo fanteria, anche napoleonica, ininterrottamente fino al luglio 1914. Convertita in ospedale della Croce Rossa austriaca, fu abbandonata un anno dopo. A guerra conclusa l’edificio fu riparato e intitolato “Caserma della Vittoria”. Dal 1921 e fino quasi alla demolizione avvenuta nel 1938, fu sede del Comando del 9° Regg.to Alpini con i Battaglioni “Bassano” e poi “L’Aquila”.

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sopra: Magazzino di vettovagliamento austriaco all’angolo tra corso Verdi e via Santa Chiara, inizi del ’900 (Archivio Associazione Culturale “Isonzo”); sotto: entrata in Sant’Ignazio dei fanti austriaci di stanza nella caserma di Piazza Grande, inizi del ’900 (coll. Sergio Chersovani).

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LA MERIDIANA DELLA VITTORIA

Nel 1922 il quasi ottantenne Enrico Alberto d’Albertis, grande navigatore ed esploratore ligure con il talento per le meridiane, donò alla città di Gorizia un orologio solare da lui personalmente calcolato e fatto affrescare. Fu murato all’altezza del primo piano della caserma “della Vittoria” prospiciente la piazza e nella parte superiore compariva lo stemma cittadino seguito dai versi: “GORIZIA, LA TUA CORONA È SANGUINOSA / MA IL MONTE SANTO, IL SAN MARCO E IL PODGORA / SON PURE GEMME CHE TI FAN GLORIOSA. / IO QUI DELLA VITTORIA ETERNO L’ORA”. Nel quadrante solare risaltava il motto “HORA IUSTITIAE MEMENTO” e chiudeva il tutto il Bollettino della Vittoria (primo e ultimo capoverso). La bella meridiana scomparve con la demolizione di tutta la caserma nel 1938 e, lentamente, anche dalla memoria dei goriziani. [SC]


sopra: momenti della demolizione della caserma “della Vittoria�, 1938 (Archivio Comune di Gorizia); nella pagina accanto: scorcio di piazza della Vittoria con l’omonima caserma (particolare), 1937 (Archivio Comune di Gorizia).

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1. Le caserme storiche

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CASTELLO Già utilizzato dalle milizie cittadine, acquisì stabile funzione di caserma con la radicale ristrutturazione eseguita durante l’occupazione napoleonica. Ospitò poi distaccamenti di fanteria austriaca con sede nella caserma di Piazza Grande, due compagnie del Genio in attesa che venisse ultimata per loro la caserma di Sant’Andrea (1908-1912), il tribunale militare di brigata e una stazione colombofila (1913-1914). In rovina con la Grande Guerra, cessò ogni uso militare.

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“FEDERICO GUELLA” Il palazzo, costruito nel 1876 per i soggiorni climatici dei conti Mels-Colloredo, fu acquisito dalla Società delle Ferrovie Meridionali nel 1890. Trasformato nel più lussuoso hotel della città, fu gestito da Theodor Gunkel, imprenditore austriaco noto per la classe e la raffinatezza della sua catena alberghiera. Con la ricostruzione postbellica e il passaggio al demanio nel 1927, l’edificio conservò l’originale aspetto esteriore, ma fu ristrutturato per ospitare alti comandi militari. Dal 1947 al 1951 accolse numerose famiglie di profughi istriani. Intitolato alla Medaglia d’Oro Federico Guella, è attualmente sede del Comando della Brigata di Cavalleria “Pozzuolo del Friuli”.

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sopra: veduta del Castello da Piazza Grande, inizi del ’900 (coll. Bruno Pascoli); sotto: Comando della XI Divisione in piazza Battisti, 1925 (coll. Sergio Chersovani).

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MILITARI E SOCIETÀ


2. Militari e società

Incontro al nuovo secolo Al volgere del secolo XIX Austria-Ungheria e Italia erano in pace da trentaquattro anni e dal 1882 i due stati erano anche vincolati, assieme alla Germania, da un patto di alleanza militare. A questo nuovo assetto geopolitico e all’assenza di gravi perturbazioni internazionali – se si eccettua la crisi balcanica del 1878 con l’occupazione da parte austro-ungarica della Bosnia e dell’Erzegovina – conseguì una stabilizzazione degli insediamenti militari lungo il confine del Friuli imperiale in una dimensione che già era di basso profilo, soprattutto a causa delle ristrettezze di bilancio, appena compatibile con i compiti di normale presidio e vigilanza del territorio. Secondo i dati statistici forniti dal censimento generale della popolazione e delle attività economiche che lo stato austriaco rilevava ogni dieci anni, alla fine del 1900 il comune di Gorizia contava, compresi i militari, 25.432 residenti, distribuiti su un territorio di quasi 23,5 chilometri quadrati, proiettato a oriente fino al corso del torrente Lijak presso Aisovizza. Lucinico, Podgora, Salcano, San Pietro e Sant’Andrea erano allora comuni autonomi e non rientrano pertanto in questo computo. Gli insediamenti militari – quattro caserme – erano concentrati nel nucleo urbano di Gorizia: per la fanteria in Piazza Grande con il distaccamento al Castello, per la Milizia territoriale o Landwehr nell’attuale via Duca d’Aosta e per l’artiglieria in via Trieste. Esistevano, inoltre, un vecchio ospedale militare in Piazzutta, il Magazzino delle sussistenze militari con il panificio in via del Mercato (attuale area tra via Boccaccio e il Museo “Santa Chiara”) e i comandi di presidio e di piazza in via Alvarez (ora via Diaz). I militari censiti erano 1.761 (il 6,92 % della popolazione residente) e tra di loro il tedesco era la lingua d’uso dominante (da non confondere con quella di servizio), parlato da 1.121 individui (63,66 %), seguito dallo sloveno con 493 (28 %) e dall’italiano con 68 militari (3,86 %). Le lingue di altre nazionalità assommavano al 4,48 %. La predominanza del tedesco e dello sloveno si spiega con l’area di reclutamento della compagine più numerosa, quella dei tre battaglioni del 47° reggimento di fanteria stiriano che reclutava nel distretto di Marburg an der Drau (Maribor) e del battaglione della Milizia che reclutava in Istria, a Trieste e sul Carso triestino (Sesana). In quest’ultimo era presente la modesta componente italiana. Artiglieri e truppa dei servizi provenivano in genere da un vasto territorio formato da Stiria, Carinzia, Carniola e regione del Litorale, quindi a maggioranza linguistica tedesca e slovena. Gendarmi e guardie non venivano conteggiati come militari. La militarizzazione del Goriziano – e del capoluogo in particolare – aumentò progressivamente a partire dalla seconda metà del primo decennio, soprattutto per impulso di Franz Conrad von Hötzendorf, il nuovo capo dello 38


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Stato Maggiore Generale che diffidava profondamente dell’Italia e del suo ruolo in seno alla Triplice Alleanza. In questo arco di tempo si insediarono in città due squadroni di cavalleria con i comandi di gruppo e reggimentale, due compagnie di pionieri del Genio e un comando di brigata. Inoltre i due battaglioni di fanteria rimasti nella caserma di Piazza Grande furono portati ad organico pieno dopo che erano stati tenuti quasi alla metà della forza mentre il reggimento di artiglieria fu ristrutturato con nuovi pezzi da campagna ripartiti su cinque batterie ippotrainate. All’aumento della forza combattente fece da naturale riscontro quello del personale impiegato nei servizi logistici e di sussistenza. Fu avviata, inoltre, l’edificazione di altre due caserme e di un moderno ospedale militare, strutture entrate in servizio nel biennio 1911-1912. Il censimento generale del 31 dicembre 1910 rilevò per il comune di Gorizia un incremento sia della popolazione sia dei militari. A quella data i residenti erano saliti a 30.995 individui, di cui 2.642 erano militari (8,52 % del totale, 881 in più). Di essi 1.198 avevano il tedesco come madrelingua (45,34 %), 971 lo sloveno (36,75 %) e 92 l’italiano (3,48 %). Seguivano altre presenze di madrelingua diversa per un totale di 280 unità (10,60 %). Da considerare anche 101 militari “stranieri”, cioè pertinenti al regno d’Ungheria, per lo più ufficiali dell’esercito comune. Tra il 1900 e il 1910 la percentuale della popolazione civile scese dell’1,60 % a favore di quella militare e si verificò un decremento della componente tedesca a favore di quella slovena e di altre nazionalità, mentre rimase praticamente stabile quella italiana. Il maggior apporto di elementi sloveni era dato soprattutto dall’immissione dei due squadroni di cavalleria, dei pionieri e dall’incremento di fanti, tutti reclutati nelle attuali regioni nord-orientali della Slovenia, un tempo parte della Grande Stiria. Quelli del 1910 sono gli ultimi dati statistici ufficiali rilevati prima della guerra. Nei quattro anni successivi la guarnigione crebbe ulteriormente con l’istituzione di una scuola di pilotaggio aerei presso il campo di volo di Merna (ma ufficiali e truppa provenivano da Gorizia), con l’arrivo da Vienna di un battaglione di artiglieria da fortezza di circa 400 uomini, con una stazione colombofila e con un tribunale militare sistemati nel castello. Inoltre il battaglione di fanti della Milizia cedette il posto a uno di truppe da montagna, formato da sloveni della Carniola e del Litorale. [SC]

in apertura: foto ricordo dei Dragoni austriaci, 1913 (coll. Sergio Chersovani); pagine successive: interno del Caffè al Corso, inizi del ’900 (coll. Roberto Ballaben).

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“Una città davvero carina” “Gorizia è una città davvero carina, del buon tempo antico, con vecchie case, vecchia gente e vecchie insegne. Sembra quasi una bottega di anticaglie; ma qui si parla, mangia e beve italiano. Qui degustammo di nuovo il vinaccio nero del sud, una vera e propria pozione che accende la voglia e fa venir l’acquolina in bocca, e ancora tutto il resto alla seconda bevuta.” J. Ebersberger, Aus dem Wanderbuch eines jungen Soldaten, Wien 1853

Così Julius Ebersberger, giovane tenente nell’armata di Radetzky, ricordava Gorizia allorché vi fece tappa durante una marcia di trasferimento per la campagna d’Italia del 1849. Era del resto una consuetudine che nelle serate della libera uscita – in particolare di quelle che coincidevano con il “soldo” decadale – la truppa austriaca, fino allo scoppio della Grande Guerra, fosse solita ordinare in compagnia i “ferai” (nella parlata goriziana venivano

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simpaticamente chiamati così, come i fanali dell’illuminazione pubblica, i bottiglioni da due litri di vino serviti nelle osterie) riempiti con i robusti vini del Collio e del Vipacco. La frequentazione delle numerose osterie e “private” cittadine non poteva non portare ad alterazioni del comportamento, notoriamente forgiato nella rigida disciplina dell’esercito imperiale e regio. Nel quinquennio 1905-1910 le cronache cittadine registrarono con una certa frequenza il ripetersi di provocazioni e aggressioni nei confronti di civili, di ragazze e signore importunate, di risse in strada e nelle balere; tutti episodi che vedevano protagonisti gruppi di soldati in libera uscita, per lo più dragoni e fanti stiriani. Anche il periodico lealista Eco del Litorale si sentì in dovere di farsi portavoce delle proteste della cittadinanza sollecitando a più riprese un energico intervento del Comando di Piazza per far cessare tali prepotenze, ma solo un omicidio, commesso la notte del capodanno 1910 davanti all’osteria “All’Armonia” in piazza Duomo, poté sortire l’auspicata cessazione. Autore fu un fante della caserma di Piazza Grande reso alticcio dalle bevute

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e, vittima innocente, trafitto da un colpo di baionetta alla schiena, risultò Lorenzo Mareschi, un giovane lavorante immigrato da Spilimbergo, che era intervenuto per soccorrere un soldato rimasto ferito in una rissa tra commilitoni. Il fattaccio suscitò profonda emozione tra la popolazione e se ne resero interpreti gli amministratori civici con la scelta del podestà Bombig di partecipare con l’intera giunta comunale al lunghissimo corteo funebre che si snodò attraverso una città con le serrande dei negozi abbassate. I comandi militari ben intesero il significato di quel comportamento, tanto che da quel momento le relazioni tra truppa e popolazione ritornarono nell’ambito della normalità, salvo alcuni casi isolati di scarsa importanza accaduti alla vigilia della Grande Guerra. Se esistevano qua e là, anche a livello popolare, atteggiamenti di diffidenza, e forse anche di insofferenza, bisogna tuttavia dire che i goriziani in genere non percepirono mai la presenza della guarnigione austro-ungarica come quella di un esercito di occupazione. Salvo il periodo delle effimere dominazioni napoleoniche, essi vivevano ormai da secoli all’ombra dell’aquila bicipite. Gorizia con le sue attrattive era una destinazione gradita non solo alla truppa. Clima salubre, quieto vivere, buone e dirette comunicazioni ferroviarie con l’interno della monarchia, stampa anche in lingua tedesca e altri vantaggi avevano invogliato nel tempo numerosi esponenti dell’aristocrazia e vecchi ufficiali e funzionari a stabilirsi nella “Nizza austriaca” per il buen retiro. Anche per quelli ancora in servizio la città possedeva i requisiti per soddisfare pienamente la loro particolare condizione, la quale esigeva un contegno consono al prestigio dell’uniforme unitamente a tutti quei riguardi dovuti al rango. A un ufficiale era consentita la frequentazione di locali pubblici e alberghi purché questi godessero di specchiata reputazione come potevano essere i caffè “Al Teatro” e “Al Corso” (il futuro “Garibaldi”), con la raffinatezza tipica dello stile viennese. Se era disdicevole consumare i pasti in trattoria, o peggio ancora in una locanda, ecco allora restaurants frequentati da clientela signorile, come i rinomati “Al Corso” e quello del “Südbahnhotel”, con i tavoli nei bei giardini interni. Quest’ultimo lussuoso albergo, che vide ospiti anche arciduchi d’Asburgo e alti generali in visita d’ispezione, era quanto di meglio la città potesse offrire in materia di ricettività, seguito dall’“Hotel de la Poste” e da altri ancora di ottimo livello come il “Cur Pension Wiener-Heim”. Il decoro di un ufficiale esigeva che i suoi spostamenti avvenissero in carrozza, mai con il tram, e

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che in treno dovesse viaggiare con la prima classe, con l’eventuale bagaglio portato dall’attendente, un soldato cui aveva diritto per la cura della persona, retaggio moderno degli antichi vincoli servili. All’interno delle caserme esisteva un mondo tutto a sé, scandito dai regolamenti militari e dagli obblighi di gerarchia. Qui gli ufficiali comunicavano con la truppa mediante ordini e locuzioni di servizio e i rispettivi luoghi di aggregazione, come mense e alloggi, erano tenuti ben distinti. Il codice d’onore e l’etichetta erano di prammatica all’interno dell’ambiente militare in cui anche la presenza delle consorti aveva un ruolo importante. Tra queste emergeva una figura-icona, quella di “Frau Oberst”, ovvero della “signora colonnello”, moglie del comandante di un reggimento. A volte la “signora colonnello” e le altre consorti di ufficiali organizzavano serate musicali e balli, mentre al di fuori dello stretto ambiente militare queste dame erano spesso affiliate a locali comitati femminili di beneficenza o con finalità patriottiche. Gli ufficiali, specie se di grado elevato, quasi mai dimoravano all’interno dei complessi militari. I celibi stavano a pensione in qualche decoroso meublé e quelli con famiglia risiedevano in palazzine ubicate per lo più nelle vie di recente urbanizzazione, a sud della città, le più vicine alle nuove caserme. Se avevano figli maschi, e se la rendita famigliare lo consentiva, avevano la possibilità di iscriverli all’elitario “Istituto Waldsee” del conte Mels-Colloredo, i cui allievi vestivano un’uniforme di tipo militare. Per consolidata tradizione la carriera delle armi si tramandava spesso di padre in figlio e, il passo successivo, compiuta l’ottava classe popolare, era l’ingresso in una scuola per cadetti, propedeutica all’accademia militare. Per le bambine e le ragazze esistevano appositi educandati gestiti da ordini religiosi. L’impero d’Austria, al quale la contea di Gorizia e Gradisca apparteneva, dal 1850 era retto da una monarchia costituzionale con un parlamento elettivo, al cui interno province e comuni godevano di larghe autonomie. La società civile si presentava stratificata, dominata dall’aristocrazia del sangue, del servizio e del capitale, tuttavia negli ultimi anni un lento processo di democratizzazione aveva consentito alla borghesia e al proletariato di ritagliarsi spazi sempre maggiori grazie ai partiti politici di riferimento. Persisteva però un’inveterata mentalità classista che condizionava con le sue regole anche le relazioni interpersonali. Le occasioni d’incontro tra la buona società goriziana “lealista” e il

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corpo ufficiali non mancavano: si poteva spaziare dalla mondanità delle rappresentazioni al Teatro Verdi all’ufficialità delle cerimonie con parate militari o patriottiche per l’inaugurazione di qualche monumento, a quel tempo molto frequenti in città. La Grande Guerra alla fine spazzò via il bel mondo dorato con i suoi valori e le sue ipocrisie, ma la trincea e la morte, per quanto accomunassero i combattenti nel disagio e nel sacrificio, non riuscirono a diventare “democratiche”. Gli ufficiali ebbero propri ricoveri e perfino proprie latrine, la truppa doveva accontentarsi di tane interrate e fossa biologica. La morte poteva arrivare a tutti indistintamente, ma i sopravvissuti tenevano ben a distinguere i caduti a seconda del loro grado e in base a questo li deponevano in fosse comuni o tumuli con semplice croce di legno o cemento, oppure in tombe singole con accurate composizioni lapidee. [SC]

La difficile transizione Già al principio del secolo esisteva a Gorizia una nutrita colonia di italiani cittadini del Regno, attratti da opportunità di impiego e da migliori occasioni di guadagno offerte dall’economia austriaca, allora in forte espansione. Nel 1910 il censimento generale della popolazione registrava circa 1.500 immigrati definiti “regnicoli”, originari per lo più dalle aree depresse del Friuli e del Veneto; molta laboriosa manovalanza, ma anche soggetti con il dono dell’imprenditorialità e della fantasia che hanno contribuito a rendere variegata l’offerta nel campo del commercio, dell’artigianato e dei servizi. Con l’inizio del conflitto, nel 1914, la comunità italiana dell’immigrazione iniziò a dissolversi rimpatriando e, nel maggio del 1915, le autorità militari austro-ungariche, che nel frattempo avevano assunto il controllo della città divenuta retrovia del fronte, ordinarono l’internamento dei pochi “regnicoli” ancora rimasti in quanto sudditi di uno stato nemico. Allo stesso modo furono arrestati o internati quegli esponenti più in vista dell’irredentismo cittadino che non avevano voluto o potuto attraversare in tempo il confine con il Regno. Altri sospetti finirono confinati con le famiglie in località lontane, godendo di un regime di semilibertà. Secondo alcune fonti, pare che a Gorizia gli irredentisti convinti non arrivassero al 2% della popolazione – di quella

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avente lingua d’uso italiana, beninteso – che contava circa 15.000 persone a inizio guerra. Gli altri goriziani o si sentivano appagati dall’appartenenza alla monarchia multinazionale, o erano indifferenti, o erano tedeschi, sloveni e serbo-croati, questi ultimi due gruppi nazionali con circa 10.000 abitanti, divisi a loro volta tra lealtà all’impero e attrazione verso il nascente jugoslavismo. Nell’agosto del 1916 arrivarono a Gorizia altri italiani, questa volta in uniforme e con un approccio verso la residua popolazione locale – circa 3.500 persone – improntato a una certa diffidenza per l’ossessione dello spionaggio che si portavano dietro fin dal principio della guerra. Con il pretesto della sicurezza delle truppe, le autorità militari internarono subito i cosiddetti austriacanti e le persone considerate sospette e poi, allo scopo di sgomberare la retrovia goriziana da quanti più civili possibile, 456 cittadini furono evacuati nel Regno o col proprio consenso o perché indigenti, infermi o rimasti privi di alloggio. Successivamente fu eseguita la conta e l’identificazione dei rimasti. Dedotte le donne e i bambini dai 2.652 abitanti censiti, restavano 668 maschi maggiori di quattordici anni, tra i quali furono riconosciuti come infidi ulteriori 67 persone, da internare o sorvegliare. Questi opportuni provvedimenti furono intrapresi dal Commissario governativo maggiore Sestilli dei Carabinieri Reali, che agiva con poteri amministrativi e di pubblica sicurezza praticamente illimitati allo scopo di garantire alla città il ripristino delle condizioni minimali di esistenza e la tutela dell’ordine nel retro-fronte. Per la cura della pubblica igiene e per il sostentamento della striminzita popolazione rimasta, il Commissario si servì del personale dei servizi municipali e operò con il supporto logistico del Comando militare della piazza di Gorizia, retto dal generale Cattaneo. Come prima misura urgente fu ordinata la distribuzione, inizialmente gratuita per tutti, di generi di prima necessità e, dopo il censimento, mediante tesseramento e a prezzi calmierati, mantenendo la gratuità per i soli poveri, circa 750 persone. Fu inoltre dato ordine che i beni e le proprietà abbandonate venissero sorvegliate contro i saccheggi da ronde di Carabinieri, ma, nonostante questa vigilanza, spesso accadeva quanto scritto da una goriziana rimasta nella città ritornata austriaca con l’offensiva di Caporetto: “[...] Anch’io aveva una bella casa [...] ora è distrutta, in via Leoni Gorizia son venute le granate a rovinarla e gl’italiani l’han tutta vuotata, asportando via tutte le mobiglie le porte le stufe, non han lasciato che le mura, sopportiamo

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per amor di Dio.” È noto che in guerra non ci si fanno molti scrupoli e con tutto quel viavai di reggimenti dell’uno e dell’altro esercito che percorsero Gorizia tra il 1915 e il 1917, le ruberie furono prassi ordinaria e quotidiana. La tentazione di far bottino personale si affiancava a volte alla necessità di rinforzare barricate e sbarramenti stradali con materiali e mobilia tratte da case lesionate dai bombardamenti, mentre era consuetudine presso i combattenti rendere più confortevoli i propri ricoveri o baracchini a ridosso della prima linea con infissi, arredi domestici e suppellettili asportate dalle abitazioni abbandonate. La guerra, che intanto si era trasferita sul Piave, aveva lasciato macerie sull’Isonzo. Delle quasi tremila case che contava il comune di Gorizia, praticamente nessuna rimase intatta. Gli stabilimenti industriali di Podgora e Strazig erano rasi al suolo e le strade e i campi erano in gran parte sconvolti da chilometri di trincee e camminamenti abbandonati e cosparsi di residuati bellici inesplosi. Mancava il cibo, l’acqua, l’elettricità; padroni incontrastati della città erano divenuti i ratti, proliferati in quantità impressionante. Con il duplice scopo di favorire il recupero della città e di rimuovere dalle località situate vicino ai campi profughi le tensioni e le ostilità nei loro confronti innescate dalla carestia, le autorità austriache avviarono il rimpatrio degli sfollati, rimettendo in piedi un minimo di burocrazia amministrativa e annonaria per sopperire ai bisogni più urgenti dei molti goriziani rientrati dalla profuganza e dei pochi che erano rimasti sfidando le bombe. A tutti apparve chiaro che per sopravvivere e ricostruire bisognava rimboccarsi le maniche e, magari, avere anche qualche buon aggancio nell’ambiente militare, tanto che a guerra da poco terminata, il 15 gennaio 1919, il quotidiano locale La voce dell’Isonzo così scriveva: “Se in città si vede qualche piccolo lavoro eseguito durante il regime passato, lo si deve non all’ufficio di ricostruzione, ma all’Autorità militare, che oltre ad interessarsi degli edifici destinati ad uso militare, venne incontro, per quanto stava nelle sue forze, anche alla popolazione civile. Si trattava più che altro di favori che venivano fatti a singoli privati dal Gruppo ingegneri Generale Pelzl, chiamato esclusivamente a ricostruire realità destinate a servizi militari.” Il 7 novembre 1918 arrivarono in città le avanguardie del regio esercito, festosamente accolte dalla popolazione italiana, timorosa che la dissoluzione dell’impero potesse sfociare in un nuovo conflitto su base nazionale per la questione della sovranità sul Goriziano. Preoccupazione pienamente

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giustificata anche dal fatto che in città era ancora presente un reggimento ex austriaco di fanti sloveni chiamato da Lubiana per supportare in armi il neocostituito Comitato provvisorio jugoslavo che aveva esautorato quello italiano. Sette giorni dopo il Governatorato militare della Venezia Giulia, oramai padrone della situazione, rimise in piedi l’amministrazione civica con quasi tutti gli esponenti liberal-nazionali dell’anteguerra e Giorgio Bombig, ritornato a Gorizia con l’aureola del perseguitato politico, come sindaco. Quella che la nuova Giunta si trovò ad amministrare sotto la tutela dei militari italiani era ora una città ridotta in macerie, materiali e morali, con i suoi infiniti problemi. La situazione era ulteriormente aggravata dal ritorno degli abitanti profughi in Italia, circa 2.000, e in Austria, circa 10.000, ma non essendovi disponibilità di alloggi per tutti, l’esercito costruì urgentemente alcune baracche. All’indigenza dei molti che con la guerra avevano perduto i propri beni e i mezzi di sostentamento (per un certo periodo i dipendenti pubblici erano rimasti senza stipendio) si aggiunse la perdita di valore della vecchia moneta austriaca nella conversione forzosa e svantaggiosa con la lira, per contro lucrosa occasione per improvvisati cambisti a strozzo. Assieme al baratto, ritornato in auge, e alla borsa nera, andava inoltre diffondendosi un’illegalità da sopravvivenza fatta di prostituzione clandestina, di rapine, di furti con scasso e di borseggi, a livelli mai riscontrati finora in una comunità ordinata e civile qual era quella goriziana. Particolarmente presi di mira dai ladri furono i carri ferroviari con derrate alimentari e articoli di quotidiana necessità fermi sugli scali. Neppure vettovaglie, coperte e mantelline custodite nei magazzini militari erano al sicuro, complici militari infedeli in combutta con ricettatori del luogo. La crisi del dopoguerra aveva generato anche una nuova figura occupazionale, quella del recuperante abusivo. La città e i suoi dintorni erano disseminati di ordigni bellici inesplosi e di matasse inestricabili di filo spinato; i rottami di ferro, rame e altri metalli recuperati e rivenduti costituivano una fonte di guadagno, anche se ad altissimo rischio, tanto che non passava giorno che la stampa locale non riportasse la notizia di qualcuno rimasto dilaniato o mutilato a causa della sua attività. In quei difficili momenti non mancò la solidarietà di altri italiani e delle autorità militari. A Milano, a Biella e in altre città sorsero appositi comitati di soccorso e raccolta fondi a beneficio degli abitanti più provati. Anche il regio esercito fece la sua parte con il Comando del XI Corpo d’Armata che occupava il Goriziano e, dopo di questo e fino al giugno 1920, con il Comando di Zona,

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mediante la distribuzione ai bisognosi di letti, biancheria, coperte e viveri tratti dai magazzini in quanto esuberanti il fabbisogno militare. Allo stesso modo le aste pubbliche a prezzi convenienti di autocarri e quadrupedi resi disponibili dalla smobilitazione di gran parte dell’esercito costituirono un incentivo alla ripresa economica. Gli autocarri con targa militare circolavano comunque in buon numero in città, ma l’indisciplina dei loro conducenti che pigiavano sull’acceleratore senza alcun rispetto per i luoghi e le persone, balzò ben presto in cronaca per i frequenti incidenti causati a pedoni, ciclisti e vetture civili. Per non parlare del polverone che sollevavano con il passaggio del mezzo, violando puntualmente il limite di velocità che il Comune aveva fissato con appositi cartelli stradali in 10 km all’ora proprio perché le strade carrabili erano quasi ovunque “bianche”. Fu denunciato anche il comportamento non meno deplorevole di alcuni ciclisti militari che, in barba al divieto, sfrecciarono per i vialetti del giardino pubblico urtando i pedoni e che nei confronti delle guardie cittadine manifestarono atteggiamenti irridenti, convinti che con l’uniforme italiana potessero commettere ogni sorta di trasgressione. Indubbiamente le difficoltà e i disagi del primo dopoguerra provocarono a Gorizia delle ripercussioni nei rapporti sociali e interpersonali, facendo registrare un aumento della litigiosità e dei delitti contro la persona; ma forse fu proprio per questi motivi, per le gravi preoccupazioni personali di ordine quotidiano, che la popolazione goriziana nel suo complesso non si lasciò travolgere dalle passioni nazionali e dalle rivendicazioni politiche che attraversavano con esasperata conflittualità il resto del Paese e città anche vicine come Trieste, uscita però dalla guerra in condizioni materiali oggettivamente migliori. Neppure la lotta politica che precedette le elezioni del 1921 ebbe a Gorizia la forza di mobilitare la piazza, tanto che il confronto restò confinato a livello di polemica giornalistica e di scontro ideologico tra opposte tendenze, non immune comunque da occasionali episodi di violenza, anche gravi, opera del nascente squadrismo. Dopo tutto quel che aveva passato, la gente comune null’altro desiderava che di poter finalmente vivere in pace per costruire un futuro migliore nel contesto della raggiunta unità nazionale, salutata il 6 febbraio 1921 da notevole partecipazione popolare. Patria e nazionalismo non costituivano però sinonimo per i più, né era possibile pretendere che il sentimento nazionale degli sloveni si unisse a quello di coloro che salutavano l’annessione al regno d’Italia, mentre

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solo il proletariato aveva una visione politica transnazionale. Se ne ebbe conferma alle elezioni parlamentari del 15 maggio1921 in esito alle quali nel capoluogo prevalse il voto italiano del Blocco Nazionale (senza alcun deputato eletto), mentre il collegio elettorale di Gorizia nel suo complesso (territorio provinciale) espresse un solo deputato italiano, Giuseppe Tuntar, eletto per il Partito Comunista d’Italia anche coi i voti slavi, e ben quattro nella Concentrazione slava. Perfino la marcia su Roma che si replicò a Gorizia lo stesso 28 ottobre 1922 con una plateale presa di possesso degli edifici pubblici e delle sedi istituzionali, fu un atto di forza importato, perché compiuto con squadre d’azione fatte confluire dal Friuli e dal Monfalconese sotto lo sguardo dei militari dell’XI Divisione, non possedendo lo squadrismo goriziano, formato per lo più da ex combattenti e reduci dell’impresa fiumana, né il numero né i mezzi per attuarlo autonomamente.

[SC]

L’economia dell’ospitalità La linea del fronte che nel giugno 1915 si attestò tra la piana di Lucinico e il Sabotino non causò a Gorizia la repentina cessazione della vita cittadina. L’esodo che avrebbe coinvolto gran parte della popolazione era appena agli inizi e i danni da cannoneggiamento, almeno fino a quell’autunno, non apparivano ancora così gravi da comprometterne la vivibilità. Restavano coloro che avendo delle proprietà esitavano a separarsene, ma soprattutto restavano, con la prospettiva di trarre qualche guadagno e a beneficio della scarsa clientela ormai fatta quasi tutta di soli militari, proprietari e gestori di esercizi pubblici, locande o stanze da affittare finché ancora agibili. Dai più rinomati alberghi frequentati dagli alti ufficiali, come il “Südbahnhotel” e l’“Hotel de la Poste”, fino alle camere affittate, l’attività proseguì comunque, pur in tono sempre minore, bombe e danni permettendo, almeno fino ai giorni di Caporetto. Tennero aperti i battenti anche alcune caffetterie e qualche trattoria del centro. Tra questi locali il “Caffè al Teatro” e il “Caffè al Corso” dovettero la loro sopravvivenza alla vicinanza dei citati alberghi, a quella del Palazzo di Giustizia, nel quale si insediò il comando della 58ª Divisione austro-ungarica che difendeva la testa di ponte di Gorizia, e a quella di un comando di brigata che aveva sede in via Tre Re, l’attuale viale

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XXIV Maggio. Quando le stasi dei combattimenti abbassavano la tensione, questi locali si rianimavano grazie alla presenza di qualche gruppo di ufficiali liberi dal servizio. Guerra e privazioni ridussero gradualmente anche il numero delle osterie e delle bettole, luoghi popolari in cui poteva trovarsi della truppa smontata per il cambio dalle vicine trincee o appartenente alle riserve. Tra queste l’osteria Tausani di piazza Grande acquisì una certa notorietà per essere stata nel novembre 1915 teatro della zuffa tra alcuni soldati austriaci e il fruttivendolo Emilio Cravos che aveva replicato alle loro provocazioni con un fermo e sonoro “viva l’Italia! – abbasso l’Austria!”. Subitamente processato per alto tradimento dal tribunale militare della 58ª Divisione e condannato a morte mediante fucilazione, Cravos divenne per l’Italia il martire goriziano per eccellenza. Neppure l’infuriare della battaglia che portò alla conquista italiana di Gorizia ebbe la forza di distogliere i coraggiosi esercenti dai loro banconi. Leggiamo nelle memorie di Aurelio Baruzzi, primo ufficiale italiano a mettere piede in città in quel fatidico 8 agosto 1916, che egli rimase piacevolmente sorpreso dal trovare aperto il ristorante “Al Corso”, dove sostò giusto il tempo per mandar giù una birra fresca (austriaca), vantandosi di averla pagata con le prime lire della “redenzione”. Poi, consolidata la conquista del centro, chi ancora vi abitava scese in strada per andare a conoscere i nuovi venuti e alcuni offrirono anche ospitalità agli ufficiali. Esiste ancor oggi in corso Italia, una palazzina nel cui atrio è murata una lapide che immortala il proverbiale riposo del guerriero, nella fattispecie del generale Fortunato Marazzi, comandante della 12ª divisione appena sceso vittorioso dal Podgora. L’epigrafe così recita: “In questa casa / nella notte memorabile / dall’8 al 9 agosto 1916 / sostò / il Tenente Generale Marazzi conte Fortunato / Duce della XII Divisione / giunta prima nella redenta città.” Per soddisfazione sua personale e di quella della propaganda, il giorno 9 giunse anche il duca Emanuele Filiberto di Savoia-Aosta, comandante della vittoriosa Terza Armata. Fanno ormai parte della memoria storica cittadina le immagini che lo ritraggono attorniato dal suo Stato maggiore e dai carabinieri della scorta davanti all’ingresso spalancato del “Caffè al Corso”, dove nei giorni a seguire fecero tappa il conte di Torino, fratello minore del duca e comandante del Corpo celere di truppe lanciate all’inseguimento del nemico, nonché corrispondenti di guerra e rappresentanti della politica nazionale come l’on. Bissolati, anch’essi immortalati con il loro seguito sul quadrivio antistante nella pagina accanto, sopra: ingresso delle truppe italiane a Gorizia all’altezza del Caffè al Teatro, 7 novembre 1918 (Archivio Associazione Culturale “Isonzo”); sotto: Caffè Garibaldi, anni ’20 (Fondo Mischou, Fondazione Cassa di Risparmio di Gorizia).

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l’ormai celebre locale. Alla truppa dei reggimenti che facevano frettolosa spola tra gli accantonamenti oltre l’Isonzo e il nuovo fronte fra il San Marco e Vertoiba, non fu invece concesso di assaporare il frutto per la cui conquista fu versato tanto sangue. Non stupisce quindi che, in risposta alla propaganda costruita attorno ai trionfalismi del momento, si udisse quella voce anonima fuori dal coro che cantava con rabbia “Gorizia tu sei maledetta”. Opposti sentimenti, come “passione” e “redenzione”, trovarono invece sintesi poetica nei versi di Vittorio Locchi La Sagra di Santa Gorizia. Il 21 ottobre 1917 il Teatro Verdi si riempì per l’ultima volta di popolo e militari per ascoltare l’editore e scrittore Ettore Cozzani venuto a declamare in anteprima La Sagra in una sala pervasa da autentico entusiasmo patriottico. Appena in tempo prima di Caporetto, dopo di che il caffè e il teatro furono convertiti dagli austroungarici in “Soldatenheim”, cioè in “Casa del Soldato”. Erano questi dei locali ricavati nelle zone di tappa affinché i soldati potessero riunirsi nel tempo

sopra: Casa del Soldato di corso Verdi (a destra), seconda metà anni ’20 (Archivio Comune di Gorizia).

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libero e in cui avessero la possibilità di trovare un modesto spaccio, letture, giochi da tavolo e a volte anche qualche grammofono, penne, calamai e cartoline in franchigia per corrispondere con i propri cari. Alle proiezioni cinematografiche provvedeva l’apposita unità militare “Feldkino”, in pratica un cinema ambulante che si spostava su carrozzoni attrezzati. Le “Case del Soldato” esistevano anche nelle retrovie italiane, ricavate in genere in edifici requisiti o costruite appositamente in legno. Quelle italiane sorsero partendo però da presupposti diversi e si configuravano più come oratori parrocchiali che come circoli ricreativi alla maniera austriaca. L’idea di realizzarle venne ad un sacerdote, don Minozzi, con un passato da cappellano militare nella guerra di Libia, cui stava a cuore soprattutto l’anima dei soldati e la necessità per questo di distoglierli nel tempo libero dalla frequentazione dei postriboli e delle osterie. L’iniziativa fu condivisa e attivamente concretizzata dai comandi militari e le Case del Soldato divennero così anche luoghi in cui plasmare le menti semplici dei fanti con sermoni, spettacoli di burattini e teatrini, quasi sempre impostati sull’amor patrio e sul ludibrio del nemico, piuttosto che con libri e pubblicazioni, tanto la truppa era quasi tutta analfabeta. A Gorizia l’idea di erigere una Casa del Soldato si fece strada appena a guerra da poco terminata, quando le caserme lasciate dall’Austria, riparati i danni, riprendevano ad essere popolate di truppa e la città ridiventava sede di una rispettabile guarnigione militare. Sul terreno pertinente al Magazzino della sussistenza posto all’angolo tra via del Mercato (odierna via Boccaccio) e corso Verdi, fu eretta una costruzione di legno impregnato, ma dall’architettura gradevole, che resistette fino ai primi anni Cinquanta. Regole e costumi erano intanto cambiati e nelle libere uscite la truppa veniva attratta piuttosto dalle sale cinematografiche, dalle ragazze da tampinare per le vie cittadine e dalla frequentazione di osterie, queste ultime preferite dagli alpini. Quella “Ai Tre Amici” di via della Caserma (oggi via Oberdan), possiede tuttora l’originale insegna metallica, restaurata qualche anno fa, sulla quale si intravedono due borghesi e un alpino seduti attorno al tavolo con un fiasco di vino. Scena facilmente intuibile, visto che dall’altra parte della strada correva il perimetro laterale della caserma del 9° Alpini, poi demolita nel 1938. Nel gennaio 1920 il benemerito generale Paolini, Comandante della Zona militare di Gorizia, saggiamente decise di trasformare la vecchia piazza d’armi di Campagnuzza in un moderno campo sportivo militare, con campo

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di calcio, pista podistica e ciclistica e una palestra coperta per fare ginnastica, scherma e boxe. Il 7 agosto 1920, nel corso dei festeggiamenti civili e militari per il quarto anniversario della Redenzione, fu inaugurato con il nome di “Campo sportivo divisionale”, essendo da giugno il Comando della XI Divisione divenuto la massima autorità militare territoriale al posto del disciolto Comando di Zona. In seguito il complesso sportivo fu ampiamente utilizzato anche per i ludi ginnici del “sabato fascista”. Superate le iniziali diffidenze seguite ad alcuni riprovevoli episodi del primo dopoguerra, l’inserimento nella comunità dei “macaroni” (com’erano chiamati nella parlata goriziana i meridionali immigrati) che vestivano la divisa divenne un fatto pacifico ed accettato. Non altrettanto si verificò nella cintura slovena e ancora peggiore fu la situazione nei remoti villaggi dell’Alto Isonzo, dell’Idria e della vallata del Vipacco, dove il regio esercito aveva dislocato una rete di capillari presidi per il controllo di un territorio ritenuto infido e ostile alla pari del confinante regno jugoslavo. Sentimento esattamente ricambiato dalla popolazione con la totale mancanza di fraternizzazione, motivata dalla percezione di questa scomoda presenza vista come il vae victis di un occupatore estraneo per stirpe, lingua e cultura. In questa sorta di resistenza passiva quasi ovunque i soldati incontravano difficoltà a relazionarsi con la popolazione e qualche volta nell’osteria di sopra: ingresso del Cinema Savoia in corso Verdi, 1933 (coll. Sergio Chersovani).

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paese finiva a botte con gli avventori locali. Per tutto il corso degli anni Venti, nel territorio provinciale a nord e a est del capoluogo si registrarono aggressioni e agguati, anche sanguinosi, specialmente in danno di militi della Milizia volontaria per la sicurezza nazionale e della regia Guardia di Finanza. In città l’economia incentrata sull’ospitalità sorse già in contemporanea con l’arrivo dei primi contingenti militari italiani nel biennio 1918-1919 e subito costituì un’insperata risorsa per quei proprietari di immobili ancora agibili che avevano la possibilità di affittare delle stanze a ufficiali del regio esercito, anche se le cronache del tempo riportano che alcuni, al momento del congedo o dell’ordine di trasferimento per altra sede, si dileguavano senza saldare il conto. Neppure la reputazione dell’autorità militare si salvava, visti i ripetuti e inesitati solleciti di pagamento che la Cassa Civica per gli acquartieramenti militari indirizzava al Comando di Presidio, facendo rimpiangere a più di qualcuno la serietà dell’amministrazione austriaca che pagava puntualmente i propri debiti fino all’ultima corona. Lentamente la situazione si normalizzò e Gorizia, negli anni tra le due guerre, conobbe la massima consistenza ricettiva grazie all’ampliamento della presenza militare, al rifiorire dei commerci tra l’hinterland e il capoluogo, e all’affermarsi dell’economia turistica incentrata su campi di battaglia della Grande Guerra e sui frequenti raduni d’arma. Benefica per tutta la città risultò sia la ricaduta economica diretta dovuta all’esercizio di affittacamere, locande, pensioni e alberghi, che quella generata dall’indotto. L’insediamento presso l’aeroporto di Merna di una cospicua componente aeronautica che raggiunse il suo apice attorno alla metà degli anni Trenta, impresse un salto quantitativo e qualitativo all’utenza dei locali pubblici cittadini. La maggior disponibilità finanziaria dei sottufficiali e ufficiali piloti, nel caso di questi ultimi spesso per condizione familiare, consentiva loro di passarsela oltremodo bene nel tempo libero dal servizio. I piloti che sciamavano dal lontano aeroporto fino alla città con “squadriglie” di biciclette (qualcuno più abbiente anche con la “Topolino”), presero a prediligere per i loro convegni un caffè dell’allora corso Vittorio Emanuele III, prospiciente il Parco della Rimembranza, che prontamente si adeguò a questo genere di clientela con l’insegna “Alle Ali”, tuttora consacrata a quel glorioso passato. Diversi ufficiali scelsero di risiedere al di fuori della palazzina per loro appositamente edificata all’interno della base aerea, preferendo al suo posto

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la discrezione offerta dalle numerose pensioni o camere affittate esistenti allora in città. Il primato di albergo più lussuoso era intanto passato dall’hotel della “Meridionale”, o “Südbahnhotel” al “Posta” di via Garibaldi, uscito abbastanza bene dalla guerra a differenza del primo, talmente in rovina, che poi, lentamente recuperato, venne definitivamente convertito a uso militare come sede di alti comandi. Anche il “Posta” acquisì il suo momento di fama, avendovi ospitato il principe ereditario Umberto venuto per l’inaugurazione del monumento ai Caduti Goriziani (agosto 1929) e per il grande raduno nazionale dell’Arma di Fanteria (giugno 1938), della quale egli era ispettore generale. A suo tempo girava voce che nel 1942 vi avesse soggiornato in strettissimo incognito pure il re Vittorio Emanuele III. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale le unità militari presenti nelle caserme di Gorizia erano ancora più o meno le stesse già dislocate negli anni Venti. In questo lungo arco temporale diversi ufficiali e sottufficiali raffermati, per lo più sergenti maggiori e marescialli, sia dell’esercito e dell’aeronautica sia dei carabinieri e della guardia di finanza, ebbero occasione di intrecciare amicizie fino a prender moglie e mettere su famiglia, spesso continuando a risiedere in città anche dopo aver ottenuto il congedo o il collocamento a riposo. Gli ufficiali di carriera e con incarichi di comando spesso avevano anch’essi famiglia, ma prestavano servizio per un periodo di tempo molto limitato prima di venir destinati ad altra sede. Per gli ammogliati, incentivati al grande passo anche dalla politica demografica sopra: foto ricordo del servizio militare, metà anni ’30 (coll. Sergio Chersovani); sotto: foto ricordo del servizio militare, inizi anni ’40 (coll. Sergio Chersovani).

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del regime, la condizione militare si coniugava con le apparenze piccoloborghesi di provincia fatte di mariti in uniforme con signora a braccetto per le passeggiate pomeridiane o domenicali lungo i corsi, magari sostando per un caffè o una bibita, giusto per il decoro, dato che lo stipendio poteva in molti casi non essere congruo. Alla fine il contributo dei militari assieme a quello della forza lavoro immigrata per il funzionamento dell’ipertrofico apparato statale e di regime, risultò determinante nel ridisegnare la fisionomia della comunità goriziana apportando nuovi stili di vita, in sostanza un nuovo modo di essere e di sentirsi goriziani. [SC]

La libera uscita Più che con l’entrata in guerra dell’Italia nel giugno 1940, fu con l’apertura del fronte jugoslavo l’anno successivo che Gorizia, in quanto immediata retrovia di quello scacchiere, riprovò l’esperienza di città sempre più coinvolta in avvenimenti bellici. L’aumentato afflusso di truppe e comandi per l’accennata esigenza portò un po’ di movimentazione nelle strutture ricettive compensando in parte la perdita della clientela causata dalla rarefazione dei commerci e del cosiddetto “turismo della memoria”, dato che dall’estate del 1941 i territori a nord e a est della città si rivelarono sempre più insicuri per l’intensificarsi dell’attività partigiana. Il perdurare dello stato di guerra con tutte le ristrettezze, anche alimentari, che comportava, diede infine il colpo di grazia al comparto. Voltate le tragiche pagine delle occupazioni tedesca e jugoslava, e scomparsa anche ogni presenza militare italiana, toccò agli Alleati l’immane compito di risollevare le sorti di una città ridotta con le risorse economiche praticamente azzerate e per di più in un contesto sociale devastato. Come liberatori i britannici non si fecero granché amare e la loro presenza fu di breve durata. A differenza dei militari statunitensi che con i bambini erano amichevoli e generosi, quelli spesso negavano loro anche le più elementari soddisfazioni fatte di cioccolata, dolciumi, chewing-gum e altro, mentre nei confronti della popolazione italiana gli ufficiali mantenevano un approccio quasi di tipo coloniale, se non addirittura ostile. Quando gli americani

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avvicendarono in città le truppe del Commonwealth, un ottimismo generale prese fin da subito il sopravvento sulle angosce dei mesi di guerra, sostenuto oltre che dalla disponibilità degli aiuti alimentari e dalla creazione di posti di lavoro al servizio del Governo Militare Alleato e nell’indotto in generale, anche dalla “american way of life” che, importata a Gorizia sulle ali della libertà, alimentava il sogno di una nuova e migliore vita negli States. Un sogno avveratosi soprattutto per quelle fidanzate che avevano conosciuto i futuri mariti nelle numerose occasioni d’incontro, non solo nei ricevimenti danzanti, tenuti al ritmo del boogie woogie, dello swing e di altri generi musicali travolgenti e gioiosi, ancora poco noti dalle nostre parti. In centro, l’italica e severa “Casa del Soldato” fu convertita per l’occasione in una sala da ballo a stelle e strisce e, a suo tempo, ospitò anche un concerto del noto clarinettista Benny Goodman in tournee presso le truppe U.S.A. di stanza in Europa. Nell’incompiuto ospedale civile di via Vittorio Veneto – ove stazionavano alcuni reparti della 88ª Divisione “Blue Devils”, che rappresentò

sopra: Primo Carnera attorniato da ammiratori davanti al Bar alle Ali, estate 1944 (coll. Nereo Tavagnutti).

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a Gorizia il Governo Militare Alleato dal settembre 1945 al 16 settembre 1947 – esisteva un circolo ricreativo cui le signorine goriziane erano ammesse in occasione di qualche festa esibendo un pass nominativo con il quale l’ufficiale o il sottufficiale invitante si rendeva garante della serietà (e moralità) della persona. Ai militari veniva per contro intimato, pena severe sanzioni disciplinari, di non frequentare una determinata area (quartiere, via, edificio), ritenuta dalle autorità alleate pericolosa per la salute fisica, nonché morale delle truppe. In pratica, aree di concentrazione di prostitute, di mercato nero o locali infimi e di dubbia reputazione per la qualità dei cibi e bevande servite, o ancora per la loro scarsa cura dell’igiene; erano inoltre considerati “off limits” anche edifici abitati da personaggi di nota fama ed avversi alle attività politico-amministrative del Governo Militare Alleato. A Gorizia era preclusa ai militari la frequentazione di strade malfamate come la via Tunisi (oggi via Ascoli), di qualche caseggiato in Piazzutta e nel centro storico della città e inoltre di edifici esplicitamente adibiti all’esercizio di “casa chiusa”, come l’elegante villa in stile liberty situata sulla via Trieste in prossimità delle caserme e quello più modesto, in piazza del Cristo. L’inosservanza di tali disposizioni comportava l’intervento dell’inflessibile Military Police che provvedeva ad affiggere sulla porta l’infamante cartello con la croce cerchiata e la scritta “off limits”, o a tamponarla a stencil nero e indelebile sulla facciata accanto al portone, marchio che in alcuni casi si è conservato fin quasi ai giorni nostri. In aderenza alla clausole del Trattato di Pace, il 16 settembre 1947 Gorizia fu ricongiunta all’Italia. Al seguito delle avanguardie motorizzate costituite da reparti di Carabinieri e Guardie di Pubblica Sicurezza giunte già il 14 settembre con il compito di assicurare l’ordine pubblico nella delicata fase di trapasso dei poteri tra il Governo Militare Alleato e lo stato italiano arrivò, festosamente salutato dalla popolazione assiepata lungo corso Italia, un reggimento del ricostituito esercito italiano, il 114° fanteria della Divisone “Mantova”, il quale, voltato l’angolo con via Buonarroti, entrò dritto alla caserma “Del Fante” di via Duca d’Aosta per prepararsi in vista delle grandi manifestazioni e sfilate dei giorni 16 e 17. La cessione alla Jugoslavia dell’Istria, di Fiume e di Zara provocò il noto e doloroso esodo della popolazione italiana in direzione della Penisola. A Gorizia arrivarono circa quattromilatrecento profughi e la città si dimostrò con essi

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generosa e solidale pur nella grave crisi economica che stava attraversando, accentuata dalla cessazione del Governo Militare Alleato con la sua economia assistita. Di questi profughi molti presero altre destinazioni e quelli che si fermarono ebbero delle sistemazioni provvisorie in attesa che venissero completati appositi insediamenti abitativi. In tale circostanza il nord e il sud dell’Italia s’incontrarono ancora una volta, o meglio, furono non pochi quelli tra Carabinieri, Guardie di Pubblica Sicurezza e di Finanza catapultati nel cul de sac della residua Venezia Giulia con il non facile compito di garantire l’ordine e la sicurezza entro e lungo un confine calato come una cortina di sopra: interno del Bar alle Ali, metà anni ’30 (coll. Ruggero Comelli).

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ferro, che qui trovarono modo di mettere su famiglia e accasarsi. I fanti del 114° “Mantova”, che prestarono servizio a Gorizia, rappresentarono, assieme ai Carabinieri del XIII Battaglione Mobile, la rassicurante presenza dell’esercito italiano nei momenti più difficili del secondo dopoguerra. Alla fine degli anni Quaranta e nei primi Cinquanta le libere uscite a Gorizia nei diciotto mesi che durava la “naia” mal si conciliavano con la miserrima “decade” corrisposta ai soldati di leva. Nel 1947 la paga giornaliera di un soldato di leva era di 40 lire, cioè 400 a “decade”, e ancora per tutti gli anni Cinquanta si sarebbe mantenuta ad un livello di poche centinaia di lire, insufficienti perfino per le sigarette da acquistare una volta finite le micidiali “MILIT” distribuite in caserma. Così accadeva che terminato il rancio serale somministrato alle 18, i vialetti del Parco della Rimembranza in quanto situati sulla direttrice più breve tra l’asse viario delle caserme e il centro città, si animassero di truppa in libera uscita a gruppi a volte sguaiati e chiassosi con il risultato di infastidire più di qualche goriziano ancora educato ai modi pacati della Mitteleuropa. Poi, una volta in città, l’avanti e indietro lungo i due corsi fino alla ritirata delle 22, con il risultato di incontrare inevitabilmente le stesse facce già viste in caserma qualche ora prima. L’andare al cinema era desiderabile come alternativa alla monotonia dello “struscio” ma non sempre fattibile, pur con la tariffa ridotta del biglietto d’ingresso. Quando avevano qualcosa da spendere i soldati entravano in quelli più popolari, dove l’aria non era più tale ma solo una nube azzurrognola che ristagnava ammorbando di nicotina gli abiti e il pubblico. Questi cinema erano ubicati tutti lungo i corsi: il “Centrale”, già “Savoia”, ricavato da un’antica balera popolare chiamata dai goriziani “ballo cassòn” e il “Cine Italia”, noto anche come “Bigolòn”, che dopo una radicale ristrutturazione diverrà il lussuoso “Cinema Corso”. In seguito entrò a far parte della fascia popolare il “Moderno” e, nelle domeniche pomeriggio, c’era anche l’opzione del cinema “Stella Matutina” che proiettava pellicole dal contenuto positivo preventivamente sdoganate dalla censura dei padri gesuiti. Ai soldati arrivavano ogni tanto i vaglia spediti con gran sacrificio dai genitori, i quali raccomandavano sempre di risparmiare. Raccomandazioni non sempre tenute in debito conto se si tiene presente che già dagli anni Sessanta il cinema non era tutto, poiché in città stavano aprendo le prime pizzerie gestite da meridionali che avevano intuito l’attrazione esercitata verso i militari in libera uscita da questa specifica forma di ristorazione a relativo buon mercato, fino ad allora quasi del tutto sconosciuta in questi luoghi, ma molto familiare alla gran parte dei coscritti. Inoltre Gorizia non costituiva un luogo di grandi tentazioni a parte l’annuale fiera di Sant’Andrea e qualche bar con i flipper e i juke-box. [SC] 61



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