Artemedica n.61

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POSTE ITALIANE S.P.A. - SPEDIZIONE IN ABBONAMENTO POSTALE AUT. N.0736 PERIODICO ROC DL.353/2003 (CONV.IN L.27/02/2004 N.46) ART.1 COMM1 I, DCB MILANO 5,50€

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ANTR FIA O OPOSO GGI

Un’agricoltura di salute

Vaccini tra passato e futuro

Noi genitori che ci identifichiamo con i figli

La Madonna Sistina di Raffaello


Dalla natura VROX]LRQL HǁFDFL SHU VDOXWH benessere e bellezza. Rimedi sviluppati secondo i principi GHOOţ$QWURSRVRƿD GDO

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EDITORIALE Secondo la teoria di Rudolf Steiner la nostra epoca, ossia la quinta postatlantica che stiamo attualmente vivendo, si chiuderà con la “guerra di tutti contro tutti”. E, affermava, che qualche assaggio di quel futuro evento lo avremmo avuto già in questi nostri tempi. Ciò viene tristemente confermato dall’atmosfera creatasi in conseguenza del coronavirus: il respingere, l’allontanare il prossimo, il vedere nell’altro il nemico che mi può contagiare, che mi può trasmettere il virus. Oltre a prendere coscienza della vitalità del coronavirus e delle sue conseguenze, un altro aspetto della “guerra di tutti contro tutti” lo possiamo trovare nel contrasto che si manifesta tra uomo e donna quale coppia e per estensione anche quali genitori. Un rapporto difficile da comprendere, forse perché tendiamo tutti a confondere la sessualità con l’amore? Non abbiamo certo la pretesa di trattare un argomento così complesso in modo esauriente in questo editoriale. Qui ci limitiamo a ricordare che nella dialettica Yin e Yang della filosofia cinese potremmo anche riconoscere gli elementi di base di quelli che possono essere definiti i “problemi della coppia”. Sappiamo tutti che per venire al mondo abbiamo bisogno del ventre di una donna e del seme di un uomo. Era quindi normale che nascesse l’istituzione del matrimonio, ma siccome un numero sempre maggiore di matrimoni fallisce significa che non sia un’istituzione così sana? Sarà anche normale ed etica ma non è sana perché non è realistica? Tuttavia esistono ancora uomini che si sentono superiori alle donne per il semplice fatto della loro appartenenza sessuale. Un atteggiamento ancora duro a morire, che relega la donna al ruolo, non certo facile, di moglie e madre circoscritto alla famiglia e le toglie la possibilità di trovare il giusto spazio nella realtà sociale e culturale. Ma per fortuna non tutti condividono questa superbia maschile e questi sono spesso uomini con una vita spirituale che prende in considerazione l’incarnazione per cui pensano che l’uomo di oggi potrebbe essere una donna in futuro e naturalmente viceversa. È così anche per la nostra appartenenza alle diverse “razze” e culture. Per approfondire l’argomento uomo-donna vi consiglio la lettura del libro Coniugi e partner dei quaderni di Flensburg dell’editrice Novalis. Steiner ci parla di una composizione dell’essere umano di corpo fisico e di corpo eterico, chiamato anche corpo vitale, poi di un corpo astrale e dell’Io. Di queste varie componenti il corpo fisico è l’unico visibile a tutti noi. Ci viene detto che il corpo eterico, ossia vitale, dell’essere maschio sia femminile e, viceversa, quello della donna sia maschile. Non lo possiamo controllare poiché vediamo con i nostri occhi solamente quello che è fisico sensibile e non quello che si chiama animico spirituale. À propos del corpo eterico: era conoscenza popolare in molte zone dell’Europa che la vera morte avveniva solo tre giorni dopo la morte fisica e quindi era importante tenere il morto in casa, circondato dalla famiglia e dalle persone a lui care. E questa cosa era confermata dalla trasformazione del viso in questi tre giorni, perché dopo tre giorni viene a mancare l’ultimo segno di vita. E il corpo dovrebbe andare alla terra senza l’impedimento di una cassa di zinco che impedisce il contatto del morto con la Terra. Così come avviene tanto nel mondo islamico che in quello ebraico dove il defunto è avvolto in un lenzuolo e posto direttamente nella terra.


ARTEMEDICA ANTROPOSOFIA OGGI n. 61 - primavera 2021 - anno XVI

iscritta al tribunale di Milano al n. 773 registro stampa, 12.10.2005 iscrizione al ROC n. 32904 Spedizione in abbonamento postale - Aut.n.0736 Periodico ROC

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Ringraziamo i nostri amici, collaboratori ed editori che, concedendoci di pubblicare gratuitamente i loro articoli, consentono ad ArteMedica di continuare a essere portatrice dei valori dell’antroposofia oggi. In particolare, gli articoli tratti da Das Goetheanum, Info3, Die Drei e dai Flensburger Hefte sono pubblicati su gentile concessione degli editori. Per testi e immagini di cui non è stato possibile rintracciare i detentori dei diritti, l’editore si dichiara sin d’ora disponibile a riconoscere i diritti a chi ne facesse legittimamente richiesta. Eventuali indicazioni terapeutiche presenti negli articoli sono da considerarsi esemplificative e generiche e non sono applicabili a singoli casi per i quali è indispensabile consultare uno specialista. Per gli abbonati In caso di mancato ricevimento entro le date sottoindicate inviare segnalazione alla nostra segreteria tel. 02.6711621 - info@fondazioneartemedica.it Primavera, 15 aprile; Estate, 20 luglio; Autunno; 15 ottobre; Inverno - 15 gennaio.


SOMMARIO 4 500 anni di meraviglia Storia della Madonna Sistina di Raffaello Alessandra Coretti

Un’architettura per l’uomo

28 Un ponte essenziale Tra sensibilità e lavoro concreto Stefano Andi

36° Convegno Internazionale dell’Associazione biodinamica

9 Un’agricoltura di salute Ricerca, innovazione e formazione per il futuro della Terra Maurizio Pietro Morisco

12 La Monda semina talenti

Le droghe e l’uomo da un punto di vista scientifico-spirituale

33 Nelle grinfie di Arimane: la cocaina e le amfetamine Orlando Donfrancesco Appunti di viaggio

Un nuovo progetto di inclusione sociale Roberta Tazzioli

38 Cheope e i codici segreti

SIMA

40 La Giornata delle Arti

14 Il Covid-19 secondo la medicina antroposofica Maria Luisa Di Summa

16 La pelle: memoria e confine del Sé in dialogo con l’esterno Cesare Donarini

20 Vaccini tra passato e futuro Tudor Popa Religione e libertà

23 Gli operai nella vigna Commento a Matteo 20, 1-16

25 Dermatite atopica Emilio Zavattaro Medicina Tradizionale Cinese

26 Ispezione: l’esame della faccia e degli occhi Gaudenzio Garozzo

Cris Thellung

Rita Martinelli

42 Siamo ancora capaci di parlare “chiaro”? Francesca Ghelfi Genitorialità

44 Noi genitori che ci identifichiamo con i figli Draupadi Piccini

46 Oscuro passato e luminoso futuro degli USA Celestine Stadnick

49 Da Pasqua a Pentecoste in compagnia della pandemia da Covid-19 Claudio Elli, Enrico Mariani


500 anni di meraviglia Storia della Madonna Sistina di Raffaello l

Alessandra Coretti

Considerato come una delle maggiori opere del Rinascimento e tra i massimi capolavori mondiali, questo famosissimo dipinto è stato studiato e riprodotto come pochi altri quadri nella storia dell’arte. Espressione tra le più elevate delle capacità artistiche del grande pittore urbinate, il fascino di questa tela – che apre una “finestra sul cielo” – non accenna a sbiadire, ponendola da secoli al centro di un intenso dibattito di natura storica, artistica, filosofica e letteraria. Tuttavia, nonostante l’inestimabile valore culturale dell’opera, restano ancora poco noti alcuni aspetti fondamentali della sua storia, che possono sicuramente contribuire a una migliore comprensione dei suoi elevati significati spirituali.

P

er ripercorrere le tappe dei 500 anni di storia del celebre dipinto, si deve iniziare immaginando il complesso contesto politico nel quale era inserita l’Italia alle soglie del XVI secolo. Tra i ducati e le repubbliche del Nord e i territori del Meridione assoggettati alla corona spagnola, si estendeva l’influente Stato Pontificio, profondamente coinvolto nelle vicende che determinavano la presenza di potenze straniere su suolo italico. All’epoca, alla guida della Santa Sede si trovava Giulio II, al secolo Giuliano della Rovere, un pontefice decisamente più votato alle armi che alla teologia, passato alla storia come il “papa terribile” o il “papa guerriero”; secondo Lutero, che visitò Roma nel 1510, l’incarnazione dell’abbandono della missione spirituale della Chiesa a favore della brama di potere e di ricchezza. Sempre attivo nelle più svariate trame politiche, tanto quelle di palazzo quanto quelle di respiro internazionale, avido di potere temporale e intento a fortificare il proprio prestigio più che le anime dei fedeli, Giulio II perseguiva con eccezionale determinazione un progetto politico molto ambizioso. Egli si prefigurava infatti di estendere i confini dello Stato pontificio e sognava di restituire Roma ai suoi antichi fasti, animato dal progetto di renderla la gloriosa capitale della cristianità. Con questo obiettivo fu un energico promotore di imprese militari, ma anche uno dei più grandi mecenati che si ricordino. Per l’edificazione del suo sogno, che prevedeva la riqualifica4

zione di Roma nel segno del suo grande passato, egli immaginava grandi opere: la ricostruzione della Basilica, la progettazione di nuove strade, la cura dei monumenti antichi e dei palazzi curiali, così come la progettazione di nuovi fasti, tra i quali la propria tomba. Al fine di realizzare tale visione, Giulio II assegnò committenze estremamente ambiziose ai massimi artisti e architetti dell’epoca, servendosi del genio di personalità quali i Sangallo, Michelangelo, Bramante e Raffaello. Una delle azioni politiche del pontefice portò alla lotta contro i francesi in Italia, in occasione della quale la città di Piacenza dichiarò la propria sottomissione al papa e partecipò ai festeggiamenti per la vittoria sui nemici stranieri. Fu così che alla fine del 1512, poco prima della propria morte, Giulio II volle premiare la fedeltà dei piacentini attraverso un dono di grande valore: commissionò, quindi, a Raffaello la rappresentazione di una Madonna con bambino, da destinare all’abbazia della città. Come racconta Giorgio Vasari a soli 50 anni da quei fatti, nel complesso abbaziale dei benedettini cassinesi si stava allora edificando la nuova chiesa dedicata a San Sisto; la tela di Raffaello donata dal pontefice sarebbe stata la pala dell’altare maggiore, o finestra al centro dell’abside. I dettagli della commissione sono poco noti, ma un dato certo è che la Madonna Sistina fu esposta per la prima volta a Piacenza nel 1514, e suscitò grande meraviglia per l’incantevole grazia delle sue figure

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Raffaello Sanzio, Madonna Sistina (Gemäldegalerie Alter Meister, Dresda)


e per la naturalezza con cui il maestro aveva ritratto un’immagine sacra. Quest’opera di Raffaello ha un forte tratto anticonvenzionale, un’originalità che la distingue dal genere di rappresentazioni dell’Immacolata cui pur appartiene. La tela funge come da finestra sulla dimensione ultraterrena, una dimensione in cui spazio e prospettiva sono assorbiti in un’atmosfera atemporale, puramente spirituale; chi osserva il quadro diventa spettatore di un’apparizione, e ha l’impressione di vedere avanzare verso di sé un fenomeno soprannaturale concentrato in delicatissime sembianze umane. La Madonna, in una verticalità e rilassatezza che rimanda alle pose classiche delle divinità greche, poggia scalza su un tappeto di nuvole e pare non avere peso, a differenza delle due figure adoranti che la incorniciano in basso: presumibilmente papa Sisto II (ritratto con le sembianze di Giulio II) a sinistra, in gesto di devozione e con la tiara poggiata sulla balaustra, e Santa Barbara con il bel viso rivolto “all’al di qua” della finestra sul Cielo. La staticità delle Vergine è percorsa dal gesto dell’incedere verso chi osserva, mentre le tende verdi che incorniciano la scena in alto sembrano aprirsi per svelarne la luminosa epifania. Impressionanti sono la frontalità della figura di Maria e l’intensità degli sguardi, di lei e del bambino, che “dall’al di là” della finestra sembrano osservare il mondo terreno; potente è l’effetto della combinazione tra l’umiltà dell’aspetto della Madonna (non ha attributi d’oro, le sue vesti sono povere) e la regalità del suo portamento. Una volta collocata a Piacenza, questa tela eccezionale rimase stranamente dimenticata nella chiesa dei benedettini per circa due secoli, come un tesoro ignoto ai più; fonti storiche riportano anche che i monaci permettessero solo raramente di visitare l’illustre quadro, e che al suo posto avessero esposto una copia. Accadde tuttavia che agli inizi del XVIII secolo un giovane straniero, il futuro re di Polonia, ebbe modo di rimirare il capolavoro, accompagnato in visita al monastero dal duca Francesco Farnese. Augusto III re di Polonia e Grande elettore di Sassonia fu un grande amante dell’arte, soprattutto di quella italiana, e coltivò con il massimo impegno la passione del collezionismo sulle orme del padre, Augusto II; quest’ultimo aveva fatto costruire la famosa pinacoteca di Dresda, fiorente città sassone nota come la “Firenze sull’Elba”, arricchendo la collezione di proprietà della casa reale con l’acquisto di opere di Giorgione, Tiziano, Rubens, Rembrandt e 6

altri. Il suo successore si impegnò con ancora maggiore energia ad ampliare ulteriormente il tesoro, aggiungendovi dipinti di Parmigianino, Bellotto, Veronese e Tintoretto, per nominarne solo alcuni. La sincera passione per l’arte fu forse l’unico merito di Augusto III, sovrano assolutamente poco incline alla politica e tanto meno alla guida di imprese militari; quanto era inadatto all’esercizio del governo, tanto era abile nelle difficili acquisizioni di opere d’arte. Egli sognava di fare della Madonna Sistina la punta di diamante della ricca collezione conservata a Dresda. Tramite i suoi intermediari era in stretto contatto con un’efficiente rete di esperti, composta da mercanti, artisti e intenditori attivi tra Roma, Milano, il Veneto e l’Emilia. Tra questi esperti figurava il sacerdote Giovanni Battista Bianconi, un coltissimo lettore di lingue orientali dell’università di Bologna, appassionato mercante d’arte, il quale nel 1752 era stato incaricato da un agente tedesco di sondare la disponibilità dei frati piacentini alla vendita del capolavoro. Si dava il caso che, a causa delle scarse rendite dei terreni dovute a guerre e siccità, ma soprattutto a causa della pessima amministrazione dei fondi e di anni di sperperi da parte dei monaci, l’abbazia di San Sisto si trovasse in grandi difficoltà economiche. L’abate superiore Caracciolo, intravedendo nella grossa vendita una possibilità di saldare parte dei debiti, acconsentì all’avvio delle trattative che si svolsero con gran discrezione e non senza difficoltà. Era infatti necessario occuparsi della contrattazione dell’alto prezzo preteso dai monaci (compito del mercante Bianconi) e dell’acquisizione dei permessi, prima da parte degli enti superiori dell’ordine benedettino e infine da parte del papa e del duca Filippo di Borbone (compito dell’abate Caracciolo). Dopo quasi due anni di lettere, discussioni e reiterati rischi di fallimento dell’impresa, per la gioia del tenace Augusto III, il prezioso quadro finalmente lasciò Piacenza a bordo di una carrozza con le insegne della casa reale di Sassonia. Scortato dal Bianconi, da un consigliere del sovrano e da un perito italiano, Gioannino Bolognese, nel gennaio del 1754, in pieno inverno e su strade poco sicure, il convoglio iniziò il lungo viaggio che attraverso il Brennero, Innsbruck e Augusta si sarebbe concluso a Dresda l’1 marzo. Si racconta che alla vista del capolavoro Augusto III fosse sceso dal trono per fargli posto, esclamando: “Largo al grande Raffaello!” Il sovrano si curò di riservare un posto d’onore alla tela nella pinacoteca di Dresda, e con la nuova collocazione della Ma-

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donna Sistina inizia di fatto un nuovo capitolo della sua fortuna. Nata su commissione papale e destinata al culto liturgico cattolico, la Madonna Sistina si ritrovò a quel punto al centro della collezione profana di un monarca europeo. Il nuovo contesto culturale che la ospitava, la collocazione in uno spazio museale accessibile e lo sguardo laico e protestante sul capolavoro rinascimentale furono fattori determinanti per una nuova ricezione dell’opera, che divenne da subito un emblema degli ideali di grazia e umanità. La fama del quadro, opportunamente valorizzato all’interno della pinacoteca, non conobbe più confini in Europa. Fu così che, a partire dalla fine del XVIII secolo, la Madonna Sistina attirò letterati e filosofi, per lo più di cultura tedesca ma non solo, i quali iniziarono a intessere attorno ad essa un profondo mondo di riflessioni, incessantemente ispirate e alimentate dalla potenza di quell’immagine. Essa fu contemplata e apprezzata in modo sempre nuovo da personaggi come Winckelmann, Goethe, Herder, Novalis, da Hegel, Schopenhauer e Freud, da Dostoevskij, Bulgakov e Florenskij. Svincolata dal contesto culturale cattolico, la Madonna Sistina si svelò a questo pubblico di intellettuali come l’immagine della purezza morale, della più alta forma di amore (che per i romantici consiste nell’unione di umano e divino), dell’eterno elemento femminile, del tratto più sublime dell’umano. Nel destino di questo quadro era però iscritto ancora un viaggio, di natura molto diversa da quello che l’aveva portato a Dresda. Verso la fine della Seconda guerra mondiale le sorti della Germania si delinearono in una bruciante sconfitta; il paese venne devastato dagli attacchi aerei degli Alleati, e i responsabili dei grandi musei tedeschi spesso si erano premurati con un certo anticipo di mettere al sicuro i propri tesori, nascondendoli per paura che andassero distrutti o trafugati. Questo accadde anche a Dresda, dove Hermann Voss, il direttore della famosa pinacoteca, a partire dal 1943 aveva ordinato di nascondere le tele in momenti successivi. Adeguatamente imballati in casse di legno, i quadri furono sistemati in vagoni merci, appositamente ammortizzati e climatizzati, posizionati all’interno di un tunnel ferroviario abbandonato. La decisione si rivelò provvidenziale, in quanto nella notte tra il 12 e il 13 febbraio del 1945 Dresda subì, da parte degli Inglesi, uno dei più feroci bombardamenti dell’intero conflitto, che rase al suolo la città. I pre-

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ziosi convogli, fortunatamente, scamparono alla distruzione. Non scamparono però alle mani dei Sovietici, che nel mese di maggio entrarono nella città devastata. Nell’esercito sovietico era incorporata una divisione speciale, che aveva lo specifico compito di trovare le opere d’arte nascoste per portarle in Russia come trofei di guerra. La Madonna Sistina, molto nota in Russia grazie ai racconti degli intellettuali che viaggiando in Europa l’avevano ammirata e ne avevano celebrato la bellezza, era uno dei bottini più ambiti e fu una squadra di specialisti a occuparsi per giorni della sua ricerca. Dopo il suo ritrovamento, giunse da Mosca il direttore dell’Ermitage, Michajl Dobroklonski, che selezionò circa seicento opere da spedire in patria con un treno speciale. Per dieci anni le tele trafugate ai nazisti rimasero custodite a Mosca, finché il governo sovietico, con un’azione funzionale alla propaganda politica, volle celebrare la restituzione delle opere a un popolo amico: dopo la sconfitta nella Seconda guerra mondiale, la Germania Orientale era infatti diventata uno stato comunista, la Repubblica Democratica Tedesca o DDR, sotto diretto controllo sovietico. Prima della acclamata restituzione nel 1955, si decise però di esporre i quadri per tre mesi a Mosca, in una grande mostra presso il museo Puskin, perché il popolo russo potesse vederli. L’iniziativa riscosse un enorme successo, la popolazione affluì in massa attratta soprattutto dalla cosiddetta Madonna di Dresda, che era il primo dipinto della mostra e il più ammirato. Ancora una volta, in un contesto distante dalla chiesa piacentina e dalla pinacoteca sassone, il capolavoro di Raffaello incantava i suoi visitatori e faceva parlare di sé, come attestano le commoventi pagine a esso dedicate da Vasilij Grossman, celebre corrispondente di guerra sovietico. Da Mosca, la Madonna Sistina venne inviata a Berlino Est e lì esposta insieme ad altre opere per alcuni mesi alla galleria nazionale, finché nell’aprile del 1956 fece finalmente ritorno nella celebre pinacoteca di Dresda, che nel frattempo era stata risanata dai pesanti danni subiti durante la guerra. Dopo una storia lunga 500 anni la grande tela di Raffaello continua, forse anche più di prima, a suscitare meraviglia con la sua straordinaria bellezza. Quella ritratta nella Madonna Sistina è la “bellezza che salverà il mondo”, e da Dresda sembra vegliare su tutta l’Europa. n (Fonte: Eugenio Gazzola, La Madonna Sistina di Raffaello – storia e destino di un quadro, Quodlibet)

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Il Covid-19

secondo la medicina antroposofica Intervista a Maria Luisa Di Summa (medico, presidente Società Italiana di Medicina Antroposofica) a cura della redazione ArteMedica Redazione - In questo periodo in molti si sono chiesti quali sia la posizione della medicina antroposofica e della SIMA rispetto al Covid-19. Cosa ci può dire a questo proposito? Di Summa - Parlare di una posizione della medicina antroposofica e ancor più di una posizione della SIMA, configura, a mio avviso, un’astrazione. SIMA è una società medico-scientifica italiana, che fa parte dell’IVAA, la federazione internazionale delle associazioni mediche antroposofiche, ma i medici che sono iscritti a questa o alle altre associazioni nazionali, non sono tenuti ad aderire a nulla che presenti aspetti dogmatici. Di fronte ad eventi come quelli in corso possono quindi avere anche opinioni differenti e fare diverse scelte professionali. Tuttavia l’aspettativa di avere dai medici antroposofi un aiuto, per orientarsi in questa particolare circostanza, sembra una richiesta legittima. Questa richiesta può essere legittimamente rivolta a qualsiasi medico. E ogni medico dovrebbe rispondere partendo dalle sue conoscenze e dalle sue esperienze, ossia dalla sua coscienza e non da conoscenze preconfezionate o da direttive etiche provenienti dall’esterno. Un medico non dovrebbe cadere in visioni dogmatiche della scienza ma deve restare fedele ai principi basilari del metodo scientifico, che esige aderenza al reale e assenza di pregiudizi nella raccolta dei dati. Ma allora in che cosa consiste la differenza tra un medico che pratica la medicina convenzionale e un medico antroposofo? Una prima differenza consiste proprio nel modo in cui il medico antroposofo raccoglie i dati, raccolta che rappresenta il fondamento di ogni indagine scientifica. Ma dobbiamo aver presente che i dati sono sempre raccolti attraverso un’osservazione, ossia da un punto di vista che inevitabilmente la condiziona. Quello che io vedo all’inizio di un sentiero che mi conduce in montagna è diverso da quello che vedrò una volta 14

giunto sulla vetta. Non posso pretendere di conoscere quello che vedrò da lassù analizzando le rocce e gli alberi che vedo sul momento, ai piedi della montagna.

tava di un’infezione batterica. Naturalmente anche l’empirismo presenta dei rischi, oltre ad avere i suoi limiti, per questo è necessario che la medicina vada oltre.

Questo significa che ogni raccolta di dati e dunque ogni indagine scientifica è inutile? Assolutamente no! Significa che in ogni raccolta di dati è necessario in primo luogo essere coscienti della loro parzialità e poi cercare una via attraverso la quale quella parzialità non sia un ostacolo, una via, ad esempio, che conduca dal particolare all’universale, o viceversa.

E la medicina antroposofica va oltre? Tutta la scienza medica è andata oltre e sta sempre più andando oltre, ma bisogna comprendere in che direzione questo conduce. La medicina antroposofica non sarebbe nata se non fossimo stati prossimi a questa necessità di andare comunque oltre, di ampliare cioè l’arte medica.

Usando la sua metafora, la cosa più corretta non sarebbe arrivare in cima alla montagna per poter raccogliere veramente tutti i dati che è possibile raccogliere? In un certo senso lei ha ragione, questo sarebbe il procedimento scientifico corretto, ma ciò richiede un lungo cammino e se parliamo di medicina non possiamo aspettare le scoperte scientifiche di domani: il paziente si ammala oggi e la terapia deve essere data oggi. Ma una terapia che nasce da conoscenze parziali non è pericolosa? Lo è, ma va considerato che in medicina sovente le terapie non poggiano tanto su conoscenze scientifiche quanto sull’empirismo. Voglio dire che il medico, in ultima analisi, offre quello di cui dispone, basandosi prima di tutto sulla sua esperienza e con la volontà di guarire. Anche la vecchia prassi dell’ex adiuvantibus, cioè della somministrazione di un possibile farmaco a scopo diagnostico non è finalizzata solo alla diagnosi, ma include la speranza di guarire. Ad esempio, se, nel sospetto di una infezione batterica, che in quel momento non riesco a diagnosticare, prescrivo un antibiotico e il paziente guarisce, ho trovato, contemporaneamente, sia una terapia sia una diagnosi, cioè la prova abbastanza plausibile che si trat-

Perché parla di arte? Già Ippocrate parlava di technè iatrikè, cioè di arte della cura, ma potremmo anche dire che, nel momento in cui la ricerca scientifica si contrappone alle pratiche empiriche, di fatto squalificandole, e si rende necessario andare oltre, ci si trova a dover gestire la discrepanza tra l’urgenza della terapia e i tempi della ricerca scientifica, che può solo fornire, di volta in volta, i suoi risultati più o meno parziali. La medicina vive entro questa discrepanza: risolverla è un arte, non una scienza. Ma cosa accade se non si risolve? Accade che ci si paralizza, come è accaduto in passato con il nihilismo terapeutico oppure si entra nel caos, come sta accadendo ora, dove il sistema dei protocolli terapeutici universalmente accettati è entrato in crisi. L’EBM, cioè la cosiddetta medicina basata sull’evidenza non sta in piedi dove le evidenze diventano confuse e di conseguenza svalutate. La discrepanza di cui stiamo parlando in fondo rappresenta quell’abisso tra diagnosi e terapia che ogni medico conosce bene perché configura per il medico una sorta di costante sofferenza esistenziale. La medicina antroposofica ha una soluzione per questo? La soluzione per questo nasce solo attraverso la relazione tra medico e paARTEMEDICA - n. 61 - Primavera 2021


ziente e dal riconoscimento della libertà del medico e del paziente. L’ aspetto più drammatico dell’attuale situazione sanitaria è il venir meno di questo elemento di libertà, che è essenziale per la salute dell’uomo. E questo accade in tutto il mondo, in una misura che non ha precedenti nella storia della medicina. Vuol dire che si stanno commettendo degli errori? Non rispettare la libertà del medico e del paziente è sempre un errore, anche se non possiamo dimenticare l’esistenza dei trattamenti sanitari obbligatori, che però, al di fuori delle situazione aberranti dei lager e di circostanze analoghe, sono sempre stati riservati a chi è, come si dice, “incapace di intendere e di volere”. Ma questo in che modo riguarda la situazione del Covid? Il fatto che il sistema giuridico consenta i trattamenti sanitari obbligatori, e non potrebbe essere altrimenti, apre le porte a una di quelle che, in campo giuridico vengono definite “zone grigie”, che sono quei margini entro i quali una norma è soggetta all’interpretazione. Chi auspica l’obbligo per un vaccino, si muove all’interno di una zona grigia, dove si rischia una grande confusione. Ogni buon medico e ogni buon giurista hanno sempre saputo che il campo medico e il campo giuridico devono essere il più possibile separati. Tuttavia, hanno sempre comunicato tra loro attraverso la medicina legale, che tutti i medici hanno studiato, ma che si è

sempre rivelata più utile per i morti che per i vivi. Stavamo però parlando dei possibili errori nell’affrontare la situazione del Covid… Che siano già stati commessi degli errori ormai è a conoscenza di tutti. Sono stati commessi dei gravi errori anche sul piano terapeutico, ma non si può addossare ai medici la responsabilità di questo, le emergenze non offrono molto spazio per i dubbi e le riflessioni e c’è sempre nell’evento della morte, qualcosa che va al di là della responsabilità degli uomini. Gli errori materiali poi, vengono per lo più corretti dalla realtà e dall’esperienza. Personalmente mi ribello maggiormente agli errori di pensiero, di fronte ai quali siamo impotenti, e che sono più contagiosi dei virus! Quali errori di pensiero ritiene che siano stati commessi per quanto riguarda questa pandemia? Il termine stesso di pandemia mi appare frutto di un errore di pensiero, o meglio causa errori di pensiero. È un termine che genera maggiore allarme della parola epidemia, ma in se indica solo una realtà geografica, non numerica. L’OMS, nel suo Health Emergency Dashboard del 26 febbraio scorso, quantifica in quasi 2 milioni e mezzo i morti nel mondo dall’inizio della pandemia. Ma sappiamo che ogni deceduto con tampone positivo al Covid è stato contato come morto a causa Covid. Questo è profondamente scorretto, è un fatto gravissimo.

Il grande convegno internazionale della Sezione di medicina, Crossing Bridges Being Human!, che si è svolto in Svizzera, dal 12 al 20 settembre, ha mostrato la grande volontà, che, in questo difficile momento, vive nel mondo medico antroposofico, di fare tutto il possibile affinché si possa continuare a incontrarsi di persona. Il gruppo dei giovani organizzatori è riuscito a portare nei grandi spazi del Goetheanum oltre ottocento persone, provenienti da tutte le parti del mondo dalle quali era possibile muoversi, nel rispetto delle regole previste nel cantone di Dornach. Il tema del convegno rispecchiava questo anelito all’incontro e a quella valorizzazione delle relazioni umane che consente veramente di “creare ponti”. Ponti tra medici, tra terapeuti, tra concezioni mediche diverse, ma anche ponti tra diversi paesi e infine ponti tra l’uomo e la natura, tra l’uomo e il cosmo. Con lo stesso spirito ha potuto svolgersi presso “Il Centro”, a Torino dal 9 all’11 ottobre, il Convegno annuale della SIMA. La presenza di Peter Selg e i contenuti da lui portati, legati alla figura di Primo Levi, sono risuonati come un appello, affinché in questo momento storico che vede nuovamente a rischio le libertà individuali, non venga dimenticato l’impegno e il dolore di chi, in passato, ha lottato per la dignità dell’uomo.

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Ma anche se sovrastimati siamo comunque di fronte a numeri molto alti. Sono numeri che andrebbero letti in un confronto con la usuale mortalità annua, non isolati. Anche l’età non è un fatto secondario, e si potrebbe considerare più drammatico il dato del milione e mezzo di persone, anche tra i giovani, che muoiono ogni anno di tubercolosi, che è anche essa una malattia infettiva. In passato abbiamo avuto epidemie di ben altra gravità. Erano davvero dei “venti di morte”, inarrestabili, che spazzavano via un numero incalcolabile di persone (sembra che la peste del Trecento abbia ucciso un terzo dell’umanità) e quando cessavano, non c’era famiglia che non piangesse i suoi morti. Siamo di fronte ora a una situazione molto diversa, che tuttavia ha avuto conseguenze sociali di una gravità mai vista. Conseguenze che rischiano di portare danni più gravi di quelli causati dal virus. Crede che questi danni si sarebbero potuti evitare? Sarebbe un atto di presunzione ritenere di poter rispondere con certezza a questa domanda, ma certamente molto si poteva evitare. Le malattie infettive sono sempre esistite e i medici le hanno sempre curate senza un’eccessiva paura di contagiarsi e di contagiare i loro familiari. Dovremmo chiederci perché non è più così. E dovremmo tanto più chiedercelo nel momento in cui ci troviamo alle porte del fenomeno dell’antibiotico resistenza, per il quale l’OMS ha già fatto previsioni estremamente allarmanti. Se non ce lo chiedessimo, saremmo condannati a un mondo in cui il cosiddetto distanziamento sociale non sarà un fenomeno passeggero ma diventerà il nostro modo di vivere. Credo che dovremo fermarci qui, ma di medicina antroposofica non mi sembra che ne abbiamo parlato… La medicina antroposofica è una medicina per l’uomo, nasce cioè dalla volontà di curare l’uomo a partire da una conoscenza dell’uomo. È una figlia dell’Antroposofia, ma è innanzi tutto medicina e per comprenderla è necessario cominciare col chiedersi cosa sia la medicina e cosa sia la malattia. Questa domanda è divenuta, con la situazione del Covid, più che mai urgente, se non vogliamo andare verso quello che oggi viene definito transumanesimo. n 15


Vaccini tra passato e futuro l

Tudor Popa

In questi tempi di incertezza e frustrazione trova terreno fertile la riapertura di un dibattito vecchio ormai più di un secolo, che era solo questione di tempo prima che riesplodesse.

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n un articolo apparso recentemente su “Info3”1, il medico e antroposofo tedesco Frank Meyer ha cercato di analizzare il tema dal punto di partenza, approfondendo quella che è la storia dei vaccini e il loro sviluppo attraverso i secoli e le civiltà. Perché quella dei vaccini, se così si possono chiamare i loro prototipi dell’era antica, è una tradizione vecchia di secoli, addirittura di millenni, e ha sempre seguito dappresso l’andamento epidemico di una delle malattie infettive più diffuse e letali del passato: il vaiolo. Questa patologia infettiva a eziologia virale, dall’esito spesso fatale, si accompagnava a vescicole e pustole diffuse su tutta la superficie corporea, donde il nome (dal latino variola: a chiazze, variegato), ed è stata la prima malattia (la seconda e ultima, per ora, è stata la peste bovina) a venir debellata completamente grazie a un’intensa campagna vaccinale, come dichiarato dall’OMS nel 1979. Tuttavia, i primi sforzi per curare il vaiolo sono molto più antichi e affondano le proprie radici nel Medio ed Estremo Oriente, dove, intuita l’importanza della trasmissione in forma blanda della malattia per stimolare quella che oggi definiremmo una risposta anticorpale, si incidevano le pustole di un soggetto malato con un bisturi per asportarne il contenuto purulento e trasferirlo così, mediante una seconda incisione, in un soggetto sano per immunizzarlo. Questa tecnica di inoculazione prende proprio il nome di “variolazione” o “vaiolizzazione”, e per secoli è stata un tentativo più o meno efficace di contenimento epidemico di vaiolo in diverse regioni del mondo, pur con un rischio di mortalità estremamente alto. L’approdo di questa tecnica in Occidente, molto più tardivo e non privo di controversie, lo si deve a un

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reverendo puritano americano di nome Cotton Mather (1663-1728), la cui famiglia era colonna portante della neonata Università di Harvard, e al suo schiavo africano, da lui battezzato con il biblico nome di Onesimus. Le controversie si debbono al fatto che il reverendo Mather amasse dedicare il proprio tempo a un’attività molto in voga nel New England del XVII secolo, ovvero la caccia alle streghe, passione che lo spinse a distinguersi in particolare nel noto processo di Salem nel 1692, dove contribuì alla condanna a morte di 20 persone e alla tortura di molte altre, quasi tutte donne. Un passatempo discutibile, ma evidentemente per il pastore allora ventinovenne, all’apice della carriera, con moglie e 15 figli a carico, tornare a casa la sera era particolarmente stressante. In ogni modo il reverendo coltivava anche ambizioni più nobili, in particolare in campo medico, dopo che lo schiavo Onesimus gli aveva riferito di aver subìto la variolazione da bambino nella natia Africa, dove la tecnica era impiegata abitualmente. Così, dopo che un’epidemia di morbillo portò con sé sua moglie e tre dei già citati quindici figli, il reverendo Mather capì che era giunto il proprio momento, e si attivò con molto impegno per promuovere l’impiego della variolazione nella Nuova ma anche nella vecchia Inghilterra. Incontrò notevoli opposizioni tra i dottori, innanzitutto perché la medicina ufficiale di allora, ancora di stampo galenico, non contemplava il ricorso a strumenti coi quali il medico promuovesse la malattia, seppur lieve, nel paziente; molte delle critiche erano inoltre dovute al fatto che anche in madrepatria il reverendo Mather si era fatto ormai conoscere come un fanatico religioso. Tra alti e bassi, alla lunga la vaiolizzazione giunse anche in Europa, dopo che alcuni fatti storici l’avevano portata ad essere adottata su larga scala in Ame-

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rica, in particolar modo nel corso della Guerra di Indipendenza, quando nel 1776 George Washington ne ordinò l’impiego di massa sui soldati per evitare che la nemica Inghilterra potesse utilizzare il vaiolo come arma biologica per decimare le truppe indipendentiste e mettere in ginocchio le colonie ribelli. Così, come fa notare Frank Meyer, possiamo vedere come già all’epoca i primi vaccini, se così si possono definire, stessero al centro di feroci conflitti. Bisognerà aspettare però un secolo per veder nascere il primo vero vaccino, opera di Edward Jenner, medico e chirurgo inglese, appassionato ricercatore in campo medico, botanico e zoologico. La storia è nota e viene insegnata a scuola: Jenner aveva notato come le mungitrici che avessero contratto in tenera età il vaiolo bovino, innocuo per le persone, fossero per tutta la vita immuni anche alla forma umana, ben più grave. Inoculando la forma bovina (cow pox) in pazienti umani (anche nel suo stesso figlio) alcuni dei quali avevano già subito, senza beneficio, la vaiolizzazione, constatò il raggiungimento dell’immunità anche contro il vaiolo umano (small pox). Pubblicati i risultati degli esperimenti2, incontrò un’iniziale opposizione da parte della Royal Society, che giudicava il suo operato “troppo rivoluzionario”; ma si sa, nessuno è profeta in patria. Dopo un po’ di tempo, tuttavia, la pratica venne accettata e il primo vaccino, così chiamato proprio in virtù della sua origine bovina, era quindi nato. In seguito sono stati sviluppati vaccini via via più

perfezionati, e se inizialmente si inoculava l’organismo patogeno, successivamente si è passati ai cosiddetti tossoidi, ovvero alla tossina opportunamente depotenziata e privata delle proprietà virulente, fino ad arrivare ai moderni vaccini a RNA o a DNA, come il tanto acclamato, ma forse non abbastanza discusso, vaccino distribuito dalla Pfizer, la cui tecnica di base, fino a novembre 2020, non era mai stata approvata per l’uso umano3. Arriviamo quindi a un punto importante: come dobbiamo comportarci di fronte a quelli che sono progressi sempre meno medici, e sempre più tecnologici? Ciò che stupisce della situazione attuale e del dibattito sui vaccini è che quasi nessuno parla più di medicina, sostituita da termini come biotecnologia e bioingegneria. Il futuro della salute pubblica è in mano a medici (pochi) di laboratorio e tanti giovani biotecnologi, bioingegneri, biologi che trascorrono il loro tempo chini a studiare una cellula o una molecola, e che loro malgrado poco hanno della versatilità e della poliedricità dei pionieri che li hanno preceduti, i quali conoscevano l’importanza di esplorare il mondo e la vita in tutte le loro forme, e possedevano il coraggio necessario per spingersi a farlo correndo in prima persona dei rischi, sotto il motto latino sapere aude!, che esorta ad avere il coraggio di conoscere. La conoscenza si guadagna solo con l’esperienza, e quest’ultima si conquista solo se si ha l’ardore di muovere dei passi verso l’ignoto. Spesso, e ancor di

Il dottor Jenner somministra la sua prima vaccinazione a James Phipps, un ragazzo di 8 anni, 14 maggio 1796. Ernest Board, pubblico dominio, via Wikimedia Commons

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più nell’attuale momento storico, ci si aspetta un messaggio dall’alto che suggerisca cosa è giusto fare e cosa no, e gli antroposofi non fanno eccezione: si cominciano allora indagini frenetiche alla ricerca di cosa possa aver detto Rudolf Steiner sui vaccini, cosa ne pensasse; ci si chiede se fosse contrario o favorevole, e allora i fautori di una teoria pubblicano citazioni dove si evince una cosa o l’altra, senza accorgersi che è un pretesto inconscio per sostenere un’opinione che forse, a volte, non si ha il coraggio di portare avanti da soli. La verità è che Rudolf Steiner, come tutte le persone di buon senso e ancora di più in quanto iniziato, non era né un sostenitore, né un oppositore: giudicava per sé, sulla base del momento corrente e della contingenza. Così, abbiamo prove che si sottopose al vaccino contro il vaiolo e ordinò una scorta di vaccini per un asilo antroposofico berlinese nel corso di un’epidemia. Ma, nel contempo, metteva in guardia dai rischi dei vaccini in quanto strumenti destinati a un utilizzo eccessivo e inadeguato, come molti altri farmaci e beni di consumo, in quella che lui già intravedeva essere la società moderna, con i suoi limiti e le sue esagerazioni; inoltre riconosceva nocivo il vaccino per coloro che considerano nella vita esclusivamente l’aspetto materiale, e che, tanto più si sarebbero affidati a dei vaccini, tanto più si sarebbero confinati nel proprio materialismo4.

che dinnanzi a noi sta l’ignoto: se lo vogliamo, abbiamo la possibilità di guardarci indietro e affidarci alla luce dei grandi del passato, come Rudolf Steiner, ma quel lume che ci viene affidato saremo noi a doverlo portare avanti per illuminare la strada. n —————— Note 1. Impfen in Geschichte und Gegenwart, di Frank Meyer, “Info3” giugno 2020, Info3 Verlag, Francoforte sul Meno. 2. An Inquiry Into Causes and Effects of the Variolæ Vaccinæ, Edward Jenner, 1798. 3. Could mRNA COVID-19 vaccines be dangerous in the long-term?, M. Jaffe-Hoffman, in “Jerusalem Post”, 17 novembre 2020. 4. Rudolf Steiner, O.O. 314, Editrice Antroposofica, 1993.

Disponiamo quindi di sufficienti elementi per costruire un sano giudizio che ci permetta di affrontare la situazione odierna. Quale sarà il futuro dipenderà certamente da avvicendamenti politici, economici e sanitari, nella continua lotta tra il bene e il male, ma non solo. È necessario comprendere Foto di BBC Creative da Unsplash

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