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Cristina Borgogni ILDEGARDA la sibilla renana
Cristina Borgogni, attrice fiorentina, laureata in Giurisprudenza, vive fra Firenze e Roma. È autrice, regista e interprete dello spettacolo Ildegarda - la sibilla renana.
Ildegarda
La sibilla renana
foto di scena di Greta Lorimer
Poetessa, musicista, scienziata, mistica e guaritrice, Ildegarda di Bingen si propone come una delle figure femminili più originali e interessanti del Medioevo cristiano. Ma l’autorevolezza e il prestigio del suo pensiero travalicano i limiti della sua epoca per giungere fino a noi. Ildegarda - la sibilla renana presenta il testo di un’opera teatrale scritta e interpretata con successo da Cristina Borgogni. Ripercorrendo i momenti salienti della vita della monaca benedettina, Cristina Borgogni ricrea l’immagine di una donna forte e coraggiosa anche se umile, capace di confrontarsi con papi e imperatori. Infaticabile predicatrice della virtù come fonte di salute e armonia, Ildegarda appare ai nostri occhi come figura paragonabile per genialità ed eclettismo a Leonardo da Vinci. Il volume è corredato da una sintetica biografia e un’ampia bibliografia della religiosa e naturalista tedesca.
ISBN 9788888444703
9 788888 444703
9,50 euro
In copertina LeoNilde Carabba, Ispirato e dedicato alla IV visione di Ildegarda von Bingen, particolare.
Prefazione di Marie Noelle Urech, presidente del Centro Ildegardiano Viriditas. Introduzione di Sergio Givone.
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Cristina Borgogni
Ildegarda La sibilla renana
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Ildegarda, la sibilla renana Testo teatrale di Cristina Borgogni Biografia e bibliografia A cura di Margeaux Santarelli Impaginazione e grafica Andrea Astolfi Questo volume è stato stampato presso Andersen S.p.A. Via Brughera IV, 28010 Boca (NO) Prima edizione italiana Copyright © 2015 – Editrice Novalis, Via Angera 3, 20125 Milano www.librerianovalis.it ISBN 978-88-88444-70-3 In copertina LeoNilde Carabba, Ispirato e dedicato alla IV visione di Ildegarda von Bingen, acrilici, fluorescenti e fosforescenti su tela 100x100 cm, 2013, particolare
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Ai miei antenati... al mio babbo Romano, a mia mamma Rina, a mio marito Paolo, prezioso “Volmar�, e a tutti i collaboratori ed amici che mi hanno sostenuto in questa meravigliosa avventura.
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Introduzione
Che cosa vede, propriamente, Ildegarda? Qual è il contenuto delle sue mirabili “visioni”? Di che tipo di sapere vuol farsi tramite, sapere non meno luminoso che oscuro, sapere tratto fuori per illuminazione dalle profondità senza confini dell’anima? Ildegarda vede una cosa sola: l’unità dei tre che sono uno, l’unità di verobello-buono. Una cosa sola, ma una cosa che è riconoscibile in tutto ciò che è, una cosa che è sempre la stessa, ma al tempo stesso è sempre altra, dunque infinitamente varia e sempre nuova e sorgiva. Come se scaturisse da una fonte inesauribile. E come se il mondo intero ne fosse alimentato e vivificato. A questa cosa (che non è una cosa, ma molto di più, perché è il movimento stesso dello spirito), Ildegarda dà un nome: Viriditas. Vede, né più né meno, quel che secondo Platone vede l’anima che dopo aver attraversato tutte le regioni dell’esperienza raggiunge una sommità ultima e lì, nella “pianura della verità”, dove lo sguardo abbraccia l’intero orizzonte dell’essere, le appaiono le idee eterne, di cui non potrà più scordarsi. Vede quel che secondo Plotino ci è dato di vedere “lassù”, dove è all’opera il demiurgo, il creatore di tutto, l’Uno; quel che secondo Dionigi l’Areopagita si mostra a chi osi guardare nel “pozzo senza fondo delle ricchezze divine”, quel che secondo Scoto Eriugena risplende nelle tenebre che avvolgono l’intero universo, ma che non possono nascondere l’armonia e la sapienza che lo reggono. Un filo tenace e resistente, anche se invisibile, lega Ildegarda a tutti questi autori. Come sia avvenuto che culture tanto lontane fra di loro abbiano prodotto
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un tal gioco di influenze e di contaminazioni, non è facile da ricostruire. Ma a parte il fatto che si potrebbe anche farlo, pazientemente, sul piano storico, resta che, da quei contatti, è venuta fuori una corrente di pensiero – chiamiamola, in una prima approssimazione, mistica neoplatonica – che ha rappresentato per la filosofia dell’occidente un vettore formidabile di speculazioni e riflessioni in grado di saldare grecità e cristianesimo. Ildegarda vi appartiene a pieno titolo, non come figura marginale e di contorno, ma portando un suo contributo originale e inconfondibile. E se talvolta si schermisce, se si presenta come una “povera creatura priva di forze… che si accinge a scrivere con mano tremante”, impari al compito, e soprattutto manchevole degli strumenti concettuali necessari a far luce nel grande mistero delle rivelazioni che sembrano sopraffarla, tuttavia è perfettamente consapevole di stare ben salda su un fondamento che i maestri della tradizione cui si sente di appartenere le additano: quello per cui la conoscenza è anzitutto theorein, è saper vedere, è sguardo di verità gettato sulle cose in modo che le cose disvelino il loro segreto a coloro che abbiano occhi per “vedere”. Ma c’è di più. Ildegarda condivide con quei maestri la lotta spirituale contro un nemico particolarmente insidioso. Questo nemico è il dualismo. Ossia la concezione dominata dall’idea che un abisso separi bene e male, verità e menzogna, bellezza e orrore e niente e nessuno possa ricomporre l’originaria unità dell’essere. È l’essere stesso, nella prospettiva dualistica, ad apparire come originariamente diviso in due. È la realtà ad essere spezzata. Da una parte il principio buono, il volto luminoso dell’essere, Dio veritiero e giusto. Dall’altra il principio malvagio, l’essere nel suo aspetto tenebroso, Dio ingannatore e perfido. Da una parte lo spirito e la libertà. Dall’altra la materia e la necessità. Da una parte il signore dei cieli e di tutto ciò che si muove liberamente e armoniosamente nelle più disparate dimensioni della realtà. Dall’altra il signore di questo mondo, dove tutto sa di orrido carcere e di catene. Sono due principi equipollenti, condannati a farsi la guer-
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ra, mortalmente, ma senza che l’uno o l’altro possa mai prevalere. “Campo di battaglia – dirà Dostoevskij secoli dopo facendosi interprete di questa tradizione – è il cuore dell’uomo”. Lo sa bene Ildegarda. Però è proprio lì, nel cuore, nella mente, nell’anima dell’uomo che bisogna cogliere l’essenziale. Lì ci è dato di scoprire, se solo lo vogliamo, che Dio è uno, nasce in noi e a noi si rivela, così come si rivela in tutte le cose, sia le più piccole sia le più grandi, conferendo all’intera creazione la dignità di opera divina. Al punto che là dove le cose sono illuminate dalla luce che viene dall’alto, ma che è la stessa luce del cuore e della mente, luce dell’anima, tutte le cose possono ben dirsi benedette e sante. Non che Ildegarda ignori o sottovaluti l’immane potenza del negativo (come la chiamerà Hegel), la presenza nel mondo della sofferenza e della morte oltre che dell’ingiustizia, insomma la furia del male, sia il male che facciamo sia il male che patiamo. Ma nel quadro del suo misticismo, che è basato sull’unità dell’essere e in particolare sull’unità di vero, di bello e di buono, il negativo è già da sempre superato e vinto dall’atto con cui Dio pronuncia il suo “valde bonum”, “questo è bene davvero”, e investe la terra della sua gloria abbracciandola e facendola sua. Al punto che tutto, ogni gesto, ogni evento, ogni nuovo giorno può aver valore di sacramento, poiché tutto può essere occasione, segno, strumento della grazia divina. Certo, Dio evoca l’ombra del negativo, anzi, del male, ponendoli per esclusione, nel momento stesso in cui dice sì al bene. Ma è l’uomo che riattiva quest’ombra e stende il velo pauroso della negatività su tutto, tanto che non c’è nulla ai suoi occhi che non possa non esserne infettato. Ciò significa che il male c’è perché l’uomo lo vuole. Più precisamente: c’è perché l’uomo vuol vedere il male ovunque, dappertutto. È esattamente quanto accade in ogni prospettiva dualistica. Da questo punto di vista manichei, gnostici, catari si pongono agli antipodi della tradizione cui si
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ispira Ildegarda. Limitiamoci a considerare i catari, che Ildegarda contrasta ben al di là degli espliciti riferimenti contenuti nei suoi scritti. Per essi il mondo (citazione da san Paolo) “è tutto preda del maligno”. Dal mondo, che è una prigione in cui l’uomo spirituale si sente totalmente straniero, si può soltanto fuggire. Al mondo bisogna morire, per rinascere in cielo. Nel mondo non c’è niente che valga niente, perché nel mondo tutto è male. Male è anzitutto il sesso, che perpetua la caduta di generazione in generazione. Male è la vita, che non ha nulla in sé per cui valga la pena di vivere. Male è il peccato, da cui non c’è redenzione se non per chi si astiene da qualsiasi azione. Con la coerenza più estrema i catari, che disconoscevano i sacramenti non riconoscendo valore sacramentale a nulla, riconoscevano però questo valore, almeno in parte, alla endura, cioè al lasciarsi morire di fame come forma radicale e totale di rifiuto del mondo. Un contrasto irriducibile, si direbbe, fra la posizione di Ildegarda e la posizione dei catari. Eppure un luogo c’è, dove Ildegarda e i catari sembrano incontrarsi. Si tratta delle corti provenzali che a quel tempo davano generosa accoglienza sia ai testimoni di una fede dura, aspra, ascetica, e insieme dolcissima, sia ai nuovi cantori dell’amor platonico e cortese e dove, nonostante la contraddizione, era possibile trovare giovani patrizi che si dichiaravano devoti tanto ad un erotismo estremamente trasgressivo, e non solo per l’epoca, quanto ai principi della nuova eresia. Ildegarda era venuta in contatto con trovatori e poeti. Amava la musica e anche la danza. In quelle corti si respirava una libertà spirituale e si ragionava d’amore non diversamente da come Ildegarda insegnava a fare, quasi che in quel paese dove non era mai stata fosse possibile udire un’eco della sua voce. Verrebbe da concludere che Ildegarda, laggiù, in riva a un mare pieno di luce, si sarebbe sentita a casa. Sergio Givone
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Prefazione
Quando Cristina venne a trovarmi a Firenze, per parlarmi del suo progetto teatrale su Ildegarda, mi sentii di nuovo investita dall’immensità di questa figura femminile che va oltre il tempo. Anni addietro, ebbi un’esperienza speciale con Ildegarda, attraverso dei sogni. Questo evento segnò l’inizio di un mio lungo percorso interiore attraverso lo studio approfondito di questo eccezionale personaggio. Con Cristina, sin dal nostro primo incontro, potemmo condividere una passione comune per questa grande mistica la cui poliedricità sorprende e affascina tuttora. Insieme tessemmo le nostre percezioni di Ildegarda, una donna forte e fragile al contempo, piena di conoscenza ma anche di umiltà, battagliera e amorevole, una donna consapevole del suo ruolo sociale, ma anche arresa alla potenza fulgida delle sue visioni. Non è facile delineare il carattere, la spiritualità di una donna di quei tempi. Interpretare con gli occhi di oggi una mistica del XII secolo e la sua vita è una grande sfida. Ildegarda era una donna la cui prolificità delle opere teologiche, musicali, scientifiche, umane, sorprende quanto la forza, la determinazione, la natura pratica e la grazia della sua personalità. Se vi aggiungiamo le doti di veggenza e l’acume politico, ci troviamo davanti ad un fenomeno assolutamente sconcertante per la cultura di quel tempo. Lo è anche per la nostra epoca, se consideriamo che, da quasi duemila anni, i dottori della Chiesa sono stati esclusivamente uomini, e che da secoli non c’è stata alcuna altra donna, in seno alla Chiesa, ad avere i privilegi, l’autorevolezza, l’anticonformismo e la poliedricità di una Ildegarda di Bingen.
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“Luce del suo popolo e del suo tempo” fu definita da Papa Wojtyla nel 1979, in una lettera in occasione dell’ottocentesimo anniversario della sua morte, salutando in lei la “profetessa della Germania”, la donna che non esitò a uscire dal convento per incontrare, intrepida interlocutrice, vescovi, autorità civili e lo stesso imperatore Federico Barbarossa. E al genio di Ildegarda farà ancora cenno, nell’enciclica sulla dignità femminile Mulieris Dignitatem. La sua recente proclamazione a Dottore della Chiesa da Papa Benedetto XVI fu una decisione di grande impatto e acquisisce un significato preciso in tempi in cui molti valori stanno collassando. Compito difficile, quindi, ma brillantemente assolto dalla sensibilità e immedesimazione di Cristina. La prima rappresentazione di Ildegarda, la Sibilla renana, mi entusiasmò. Attraverso la voce e le parole di Cristina, potei avvertire il fuoco di Ildegarda, la potenza delle sue scelte, il coraggio di un pensiero indipendente ma anche la grazia del suo cuore, la sua meraviglia davanti alla bellezza del Creato. Era lì, davanti a me, tornata in vita! Ildegarda ritorna oggi con la forza di un Archetipo, come potente richiamo a riscoprire la nostra connessione naturale con il Tutto, con la Natura, con gli Altri e, soprattutto, con quello che lei definì la Luce Vivente, da cui proveniamo e a cui torniamo. I suoi ammonimenti contro il lassismo e la corruzione ritornano di perenne attualità, invitandoci ad operare un profondo rinnovamento, senza esimerci dalle sfide o dai pericoli del nostro secolo. La strada è impervia, ma come Ildegarda ci ricorda nell’antifona Quam mirabilis: Che meraviglia la prescienza del cuore divino, che previde tutto il creato. Quando Dio guardò il viso dell’uomo che aveva creato vide in quella forma umana tutte le sue opere. Che meraviglia questa inspirazione che sostiene l’umanità. Marie Noelle Urech Presidente del Centro Ildegardiano Viriditas
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Ildegarda La sibilla renana PERSONAGGI ILDEGARDA di BINGEN VOLMAR BERNARDO di CHIARAVALLE PAPA EUGENIO III FEDERICO BARBAROSSA
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Scena I Palcoscenico in semioscurità, Ildegarda, in piedi di spalle, canta, quando finisce la canzone, si sente la sua voce che dice: ILDEGARDA Il corpo è il vestito dell’a-
mo a Dio, il canto è la più gioiosa espressione della preghiera, la musica ricrea sulla terra l’armonia perduta e permette di immaginare quella della fine dei tempi.
nima, l’anima ha una voce viva, è giusto che il corpo attraverso la voce canti le lodi a Dio; la musica è il mezzo privilegiato che unisce l’uo-
Scena II Il palcoscenico è vuoto, un leggio antico e uno scriptorium sono posti in una zona avanzata della scena, in proscenio a destra una sedia. Volmar scrive, Ildegarda in piedi, detta. ILDEGARDA Allora Volmar, dove siamo
VOLMAR Linfa, sangue, bile gialla e bi-
arrivati? VOLMAR La salute. ILDEGARDA La salute è condizionata da quattro elementi: il secco, l’umido, il freddo, il caldo e dal loro interagire con i quattro umori.
le nera. ILDEGARDA I problemi fisici provoca-
no un immediato riflesso sull’equilibrio mentale delle persone; l’anima è per il corpo, come la linfa per l’albero. Siamo arrivati,
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mi sembra, al concetto di… melanconia. VOLMAR Tristizia seculi… ILDEGARDA La melanconia è uno stato di inaridimento interiore che impedisce l’azione. Chi si trova da un po’ di tempo in uno stato di tristezza deve cambiare vita radicalmente. Il corpo umano, per funzionare bene, ha bisogno di gioia e questa ci viene dall’amore, dall’amore per tutto quello che ci circonda. La tristezza viene da un comportamento sbagliato. Volmar, io sono felice quando riesco a guardare tutto con amore, con Viridità. La Viridità è la forza vitale immessa in tutta la creazione dal soffio divino. Oh, Viriditas nobilissima, che hai radici nel sole e, in candida serenità, riluci nella ruota, che nessuna altezza terrena contiene, tu sei circondata dall’amplesso dei divini misteri. Risplendi come la rossa aurora e ardi come fiamma del sole. VOLMAR Quando il corpo compie azioni distruttive…
ILDEGARDA L’anima diventa triste, si
crea una lacerazione fra anima e corpo e a un certo punto il corpo accusa dei dolori; questi dolori ti spingono a cercare un cambiamento, il dolore è un terribile ma efficace mezzo per compiere un’evoluzione, dobbiamo rivolgerci a Dio. L’apertura del cuore determina il processo di guarigione, dal cuore esce la salvezza o la perdizione, il cuore dell’uomo è il centro del creato. Scrivi: l’uomo è responsabile del proprio benessere ed è in grado, modificando il proprio modo di pensare e quindi di agire, di vivere in piena salute e in piena armonia con l’universo… VOLMAR Vai piano Ildegarda, non ce la faccio a starti dietro; dobbiamo scrivere dei rimedi che possono aiutare quando si è melanconici, io inizierei da quei biscotti che hai sperimentato… ILDEGARDA Sì, scusa, scusa, sono presa dall’entusiasmo e non tengo conto che stai scrivendo. Io sono
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ignorante Volmar, non conosco bene il latino, ho bisogno di te. Quindi torniamo alla melanconia; l’alimentazione è molto importante, anche per l’umore. Comincerei con questi biscotti; ingredienti: un chilo e mezzo di farina di farro; il farro è il cereale migliore, il più leggero, è nutriente e fa buon sangue, poi 45 grammi di cannella in polvere, riscalda e aiuta a digerire, 45 grammi di noce moscata, tonifica… VOLMAR Dieci chiodi di garofano, zucchero di canna… ILDEGARDA Burro, tuorlo d’uovo, un pizzico di sale, mandorle tritate, impastare, lasciar raffreddare e cuocere per 10 minuti, come li chiamiamo? VOLMAR Chiamiamoli “Biscotti della gioia”; due o tre la mattina e due o tre la sera prima di dormire. ILDEGARDA Bene, biscotti della gioia. Un altro rimedio contro la melanconia è l’elisir d’assenzio. Scrivi: tritare le foglie della pianta di as-
senzio, poi cuocerle nel vino bianco per due o tre minuti… VOLMAR La verbena. ILDEGARDA Ah certo, aggiungere la stessa quantità di verbena tritata, poi filtrare in un telo di lino… VOLMAR L’assenzio va bevuto addolcito con il miele perché è amaro. ILDEGARDA Un valido aiuto per la tristezza può venire anche dalle pietre, per esempio… VOLMAR L’onice. ILDEGARDA Bisogna guardarla con molta attenzione, poi metterla in bocca per dieci minuti, in modo che la saliva unita al calore della pietra riscaldi l’uomo da dentro. Ci vuole anche attenzione per il fegato, che quando è molto malato genera angoscia e rabbia, l’alimentazione deve essere leggera. Hai scritto? Caro Volmar, sei stanco? Fermiamoci, riposa, pretendo troppo da te, perdonami. cinguettio usignolo
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Senti l’usignolo? Viene tutti giorni alla stessa ora a trovarmi, è un messaggero.
mandato te, balsamo per me e le mie amate sorelle. Sei la mia guida, mio padre, mio figlio, il mio caro amico, quante lotte e quanta fatica insieme… cosa farei senza di te, solo a te ho avuto il coraggio di parlare delle mie visioni, senza di te, forse, non avrei avuto il coraggio di scrivere niente… VOLMAR Avresti scritto comunque, niente ti avrebbe fermata, ho cercato soltanto di darti coraggio. A proposito Ildegarda, quando ti decidi a leggere la storia della tua vita che abbiamo scritto? Dimmi se va bene, se abbiamo detto tutto, se vuoi aggiungere qualcosa. ILDEGARDA Va bene, stai tranquillo, la leggerò. Spero tu non abbia scritto di me come se fossi una santa, non lo sono… sono solo un piccolo strumento nelle mani di Dio, una tromba in cui un altro soffia, non so se abbia senso scrivere la storia di una tromba…
VOLMAR Non ti preoccupare, non so-
no stanco, è che… a volte sei come un fiume impetuoso, ma sei fatta così. ILDEGARDA Ti ricordi, quando sei arrivato al monastero, Volmar? Pioveva forte, forte, ma tu eri tranquillo, tutto bagnato, con il tuo volto nobile, bianco, venivi dalla scuola di medicina di Salerno, eri pieno di bagagli, libri, strumenti musicali, medicamenti; tutto per noi, niente per te, nemmeno una tunica di ricambio. Io avevo quattordici anni, tu venticinque; ero timida, ti guardavo ad occhi spalancati… capii subito che ti avrei amato per sempre e ringraziai Dio per avermi mandato te come padre spirituale. Sentivo che tu mi avresti portato la conoscenza di cui tanto avevo bisogno, ringraziai l’abate Kuno di aver finalmente ceduto e avermi
si sente una musica
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Ah!
no tre mesi… quasi tutti i giorni… a volte non riesco ad alzarmi dal letto, perché?
VOLMAR Che c’è? ILDEGARDA Volmar mi riprende… for-
te, la testa, c’è ancora l’impacco di aloe e mirra? VOLMAR No mi dispiace, oggi l’ho dato al figlio degli Swaize, siediti, come posso aiutarti? ILDEGARDA Portami vino caldo e assenzio, per favore, non resisto, so-
esce Volmar si sente una voce che dice: “Scrivi, scrivi, scrivi…”
Scena III Prima visione, la musica continua ininterrotta. ILDEGARDA Vedo una grande monta-
re della terra, cenere da cenere, grida e manifesta come si passa la soglia dell’incorrotta salvezza, affinché vengano istruiti coloro che pur conoscendo il significato profondo delle Scritture, non lo vogliono annunciare, perché sono fiacchi e pigri nell’osservare la giustizia divi-
gna ferrigna. Su di essa in trono un esser splendente di luce, il suo splendore acceca i miei occhi. Dalle sue spalle si stendono ali di immensa larghezza. Colui che siede sulla montagna, grida: “Fragile creatura, polvere nata dalla polve-
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na. Riversati, come una fonte sovrabbondante e stilla la misteriosa dottrina, affinché dal flusso di queste tue acque, vengano scossi coloro che, a causa del peccato di Eva, ti guardano con disprezzo in quanto donna. Tu, infatti, trai que-
sta lucidità di spirito e questa profondità, non da essere umano. Ti viene donata dall’alto, da quel luogo dove i raggi di luce, scintillano con luminosa chiarezza. Sollevati e racconta ciò che ti viene annunciato”.
Scena IV Ildegarda legge la sua biografia. ILDEGARDA Nell’anno 1141, all’età di
quando ci sono gli altri, sempre cosciente, quando le visioni si manifestano, le tristezze del mio cuore si allontanano ed io mi sento fresca, come una fanciulla, vedo, ascolto e comprendo contemporaneamente. Improvvisamente si schiuse in me il senso delle scritture, del Salterio, del Vangelo, eppure ero ignorante, conoscevo poco il latino e le forme grammaticali. Avevo una grande
42 anni, dal cielo scese una luce di fuoco con il bagliore del lampo, essa mi attraversò la testa e infiammò il cuore e il petto, con una fiamma che non arde, ma che riscalda. Queste visioni non le percepisco con i sensi, posso dire soltanto che le vedo nell’anima, non ho mai avuto il tremore dell’estasi, io le vedo di giorno e di notte, da sola; e
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paura e vergogna di dire ciò che avevo taciuto per tanti anni, mi rifiutavo di scrivere, non per ostinazione, ma per un senso di inettitudine, per paura del giudizio cattivo degli uomini, avevo paura di essere considerata pazza, o peggio, eretica, finché per volontà di Dio mi colpì una malattia che mi immobilizzò a letto, allora, finalmente, costretta dai molti dolori, misi mano alla stesura. Volmar mi consigliò di scrivere a Bernardo di Chiaravalle.
BERNARDO [Risposta dell’abate Bernar-
do di Chiaravalle a Ildegarda.] Tu sembri stimare la mia pochezza assai diversamente da quanto la mia coscienza stimi se stessa e questo credo di doverlo attribuire, unicamente, alla tua umiltà. Se possiedi la conoscenza interiore che lo Spirito Santo ti ispira, in cosa posso esserti utile io? È necessario piuttosto che tu preghi e possa ricordarmi a Dio, insieme a tutti coloro che si sono uniti nella comunione spirituale. Amen. ILDEGARDA Volmar consegnò all’abate Kuno le mie prime scritture; Kuno, riunito un gruppo di saggi, decise di mandare le mie parole all’arcivescovo Enrico a Magonza e poi a Papa Eugenio III, che mi inviò una lettera. EUGENIO III Noi siamo pieni di ammirazione figlia mia perché, per quanto non lo si possa credere, Dio mostra nuovi miracoli nella nostra epoca, dal momento che fa scendere su di te, il Suo Spirito, al punto che si dice
“Parlo a te, padre indulgente e mite, mi affido alla tua anima, poiché mai, fin dall’infanzia, vissi tranquilla, ma vidi cose grandi e terribili nelle mie visioni, che la mia lingua sarebbe impotente a pronunciare, se lo Spirito divino non mi istruisse su come devo narrare; mi vergogno ed arrossisco a scriverti, ma indaga nella tua saggezza ispirata e rivelami se io debba parlare, o se debba tacere ogni cosa, nel silenzio della mia anima”.
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che tu veda, comprenda ed esponga numerosi segreti. Conserva e custodisci dunque la grazia che è in te, cosicché tu possa vedere e sentire ciò che ti è rivelato in spirito e ne riferisca in tutta prudenza, ogni volta che Lo vedi e che Lo senti. ILDEGARDA Mente e cuore erano in tumulto; con il dolore della malattia Dio mi frustava, perché abbandonassi i miei timori, prendessi coraggio e cominciassi a volare come un’aquila che fissa il suo sguardo nel sole.
ILDEGARDA Adesso lasciami tranquil-
la, ti prego, dammi pace. VOLMAR Non sono io a toglierti la pace. esce Volmar ILDEGARDA Dovevo farlo e lo feci, una
notte andai in biblioteca, tremando intinsi la penna nel calamaio e scrissi. si sente una voce: “Scrivi, scrivi, scrivi.” ILDEGARDA Nel rileggere quello che
avevo scritto una grande emozione si impossessò del mio cuore, la parola e il mio Dio erano in comunione, pronti per essere portati nel mondo. Quando lasciai la biblioteca, nella quale ero giunta tremante, ero sicura, forte e colma di nuova Viridità, la malattia era sparita.
entra Volmar VOLMAR Tu hai ricevuto da Dio il do-
no della visione. Non puoi tenerlo per te, è un dono che deve essere portato al mondo; se non scrivi disubbidisci a Dio e privi della Sua parola tutti coloro che hanno bisogno di ascoltarlo.
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Scena V Ildegarda si spoglia ritualmente, rimane con un vestito di seta bianca, mette sulla testa una coroncina di fiori e danza. Arriva Volmar. VOLMAR La badessa di Andernacht ti
care il Signore con lo splendore. Le donne sposate devono vestire modestamente per non accendere il desiderio nei sensi degli uomini, noi siamo le spose di Cristo e sottostiamo soltanto al giudizio di Dio, non degli uomini; perciò Volmar mi sento in pace con me stessa e continuerò così. VOLMAR Testarda e cocciuta, ma come al solito hai ragione, speriamo di non provocare troppo l’abate Kuno, ora che ti deve dare il permesso per costruire un nuovo monastero. Le tue idee, le tue visioni, sono difficili da accettare. Ho paura per te.
ha denunciata all’abate Kuno perché la domenica, alla Santa Messa, fai danzare e cantare le sorelle senza velo, con i fiori tra i capelli e vestite di bianco. Che intendi fare? ILDEGARDA La bellezza di noi donne rispecchia quella della Madre Divina ed è tale che la mente umana non può coglierla; voglio che la bellezza risplenda nelle mie sorelle con i colori che madre natura ci ha dato, il bianco, l’oro, il verde e i fiori adornino la testa; il nero rappresenta l’assenza di luce, invece noi ne siamo piene e vogliamo glorifi-
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Scena VI Buio su Volmar, Ildegarda si rimette il velo e il vestito; riprende a leggere. ILDEGARDA Durante una visione vidi
messo ed io, insieme a diciotto monache e due fantesche, partii per costruire la nostra nuova sede. Avevamo pochi mezzi, dormivamo dentro delle tende, al freddo, in mezzo a mille patimenti, ma riuscimmo lentamente a costruire quella che sarebbe stata la nostra nuova casa. Fummo aiutati dalle donazioni di molti nobili, soprattutto la famiglia von Stade. Dall’età di 8 anni in cui ero entrata in monastero, fino ai 38 in cui ero diventata badessa, avevo vissuto in un piccolo spazio, una piccola cella con tre finestre, una che dava in chiesa, da dove ascoltavamo le preghiere e la messa dei monaci, una che dava in parlatorio, dove comunicavamo con il mondo, e una sul nostro piccolissimo giardino. Poca musica, pochi libri, poca
il monte di Ruperestberg, lì dove avrei dovuto costruire un monastero con le mie sorelle e staccarmi per sempre da Disinbodenberg. L’abate Kuno mi osteggiò in ogni modo, non voleva restituire le grosse somme di denaro e le proprietà che ogni sorella aveva portato prendendo i voti. Pensava che la nostra partenza avrebbe danneggiato il suo monastero; ormai venivano tanti pellegrini a cercarmi per avere consigli ed aiuti anche fra gli aristocratici e gli ecclesiastici, anche fra i crociati che venivano da terre lontane e ci portavano in dono notizie e usi di quei luoghi… era una lunga processione… Ma, dopo una malattia che mi aveva portato quasi alla morte, l’abate Kuno fu costretto a darmi il per-
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istruzione, poche possibilità di uscire fuori nella natura… solo la preghiera, la riflessione, ma ero felice. A Rupertsberg costruii un monastero con tre stanze da lavoro, una grande biblioteca, un’infermeria dove curavamo i malati; le sorelle cantavano e suonavano per loro, perché la musica alza il tono vitale. Curare i corpi era più facile che parlare alle loro menti, mi rivolgevo alla malattia usandole gentilezza, ed essa mi aiutava a sciogliere in quella gente, tutto il dolore che non era stato pianto. Succedeva che molti, guarendo, abbandonassero progetti di guerra. Cominciavano a vivere di puro presente, si affidavano; semplicemen-
te spostavano l’attenzione su quello che avevano di buono e ringraziavano. Avevamo un grande orto per coltivare più di cento varietà di erbe, un laboratorio e lo scriptorium per scrivere i libri, feci costruire due bagni con l’acqua corrente. Scrissi tutte le mie opere che parlano del cosmo, delle piante, degli animali, delle pietre, delle malattie e dell’alimentazione e altri tre libri sulle mie visioni. Feci tutto questo senza risparmiare le mie forze, anzi, più lavoravo meno ero malata. Amavo e mi sentivo amata dalle mie figlie; era difficile per il mio cuore rimproverarle, ma a volte, ero costretta a farlo… con dolore.
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Scena VII ILDEGARDA In questo faticoso periodo
aveva scelto di essere un’anacoreta. Attraverso la grata mi insegnava la musica, a leggere e a scrivere in latino, pregavamo insieme; la sua mano piccola, nervosa, bianca, a volte prendeva le mie e mi faceva una carezza. Dopo tanti anni, quand’era in punto di morte, disubbidendole feci buttare giù le mura della cella e la trovai piena di piaghe per il cilicio e per le pene corporali che si infliggeva; mentre moriva giurai che mai più avrei permesso alle mie sorelle di infliggersi pene corporali, mai più. Nel tempo sono diventata madre delle mie sorelle, senza essere stata figlia. Per lunghi anni mi ero abituata a essere sola, mi ero costruita come un muro intorno, da cui usciva l’amore, ma l’amore ricevuto mi arrivava debole e lontano, come un eco. Tu sapesti aprire un varco in questo muro e arrivasti scintil-
mi fu vicina sorella Riccarda… Riccarda… la tua voce… mi ha sempre commossa, limpida, come la cascata di un torrente di montagna. Ricordo il giorno in cui sei arrivata, i tuoi occhi brillavano; tutto in te era bellezza. Vedevo in te quello che ero stata io alla tua età e volevo tu avessi tutta l’educazione e l’incoraggiamento che a me erano mancati. I miei genitori, i nobili di Bermerscheim, mi affidarono al monastero benedettino di Disinbodenberg quando avevo 8 anni, nel Settembre del 1106… ero una bambina delicata di salute e avevo strane visioni fin dall’età dei tre anni; loro pensavano che all’interno di un convento sarei stata al riparo dalle insidie del mondo… non li vidi mai più; fui educata con amore da madre Jutta von Sponheim, lei si era fatta murare in una cella,
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lante e cosi piena d’amore che fui travolta; ti amavo come Paolo amava Timoteo… in quegli anni riversai nel tuo cuore tutto il mio amore e tutta la mia conoscenza, per te fu leggero imparare, quello che per me era stato difficile; passammo anni felici, io dettavo, Riccarda faceva le miniature e Volmar correggeva scrivendo in buon latino quel che gli dicevo, facevamo musica. Ma un giorno Riccarda mi hai abbandonata… la tua famiglia aveva comprato, per te, la carica di badessa di Bassum e tu avevi accettato, preferendo una carica mondana a noi. Impazzii quasi dal dolore, mi disperai, scrissi a tutti, a tua madre la baronessa Von Stade,
a tuo fratello, il vescovo Artwig, all’abate Kuno, persino al Papa, nessuno mi aiutò. Perché mi hai abbandonato? Ogni volta che ho amato qualcosa o qualcuno che non fosse Dio, ho sofferto moltissimo; di questo non accuso te, che non hai nessuna colpa, se non di essere amabile, ma la natura degli affetti terreni, che deperisce presto e lascia il fumo della malinconia che annerisce il viso; figlia del mio cuore, non oscurare la fede per quello che è soltanto una passione terrena. Bisogna guardare solo la Luce che non fa smarrire. Ricorda la tua povera madre Ildegarda e sii felice. Purtroppo non fosti felice, dopo pochi mesi, triste e piena di rimpianti moristi.
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