Karl-Martin Dietz
Iniziativa individuale e impresa
Il testo ripercorre una conferenza tenuta presso l’Università di Heidelberg, qui rivisto e ampliato. Il suo obiettivo è porre, sia pur in forma concisa, le basi della “conduzione dialogica” e della “cultura dialogica d’impresa” quali sono state sviluppate a partire dalla metà degli anni Novanta presso l’Istituto Friedrich von Hardenberg di Heidelberg e che da allora hanno trovato applicazione pratica in aziende e organizzazioni culturali.
Per una cultura dialogica
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In copertina: copertina: foto di foto di Mariaelisabetta MariaelisabettaRealini Realini
ISBN 978-88-88444-81-9
€ 12,00 10,00
9 788888 44481 9
POLIS
Karl-Martin Dietz è nato nel 1945 a Heidelberg. Ha compiuto studi di filologia classica, germanistica e filosofia ad Heidelberg, Tübingen e Roma, ha inoltre frequentato la facoltà di scienze economiche. Si è laureato con una tesi sulla filosofia pre-socratica. Dal 1974 al 1980 ha svolto attività di insegnamento presso l’Università di Heidelberg. Nel 1978 ha fondato con Thomas Kracht l’Istituto Friedrich von Hardenberg für Kulturwissenschaften dove, oltre a lavori legati alla scienza dello spirito e a pubblicazioni volte a una presa di consapevolezza del momento attuale, viene sviluppata una “cultura dell’iniziativa basata sul dialogo” che nel corso del tempo si è concretizzata in intraprese economiche e in organizzazioni culturali.
Collana di studi e ricerca per la formazione individuale e sociale
(dall’Introduzione di Karl Martin Dietz)
18/11/13 08:42
POLIS Collana di studi per la formazione, la ricerca, la socialitĂ
Karl-Martin Dietz
Iniziativa individuale e impresa Per una cultura dialogica
EDITRICE
NOVALIS
Titolo originale: Eigenständig im Sinne des Ganzen. Zur Intention einer dialogischen Unternehmenskultur II Edizione tedesca: 2013 Menon Verlag im Friedrich von Hardenberg Institut Traduzione dal tedesco: Daniela Castelmonte Tutti i diritti anche di traduzione riservati
© 2013 Editrice Novalis, via Angera 3, 20125 Milano www.librerianovalis.it ISBN 978-88-88444-81-9
Questo volume è stato stampato presso Andersen SpA Via Quarta Brughera, 28010 Boca (NO)
Indice
Operare in modo autonomo con la percezione della globalità…………………………………………………………………9 Conduzione nell’epoca dell’individualizzazione…………………………………………… 10 Sul concetto di dialogo – un excursus necessario……………………………………… 12 Logos o crescita personale?…………………………………………………………………………………………… 14 Le questioni di fondo della conduzione dialogica……………………………………… 15 Che cosa mi aspetto dal mio collaboratore?…………………………………………………… 18 Processi dialogici…………………………………………………………………………………………………………………………20 Cultura dialogica d’impresa………………………………………………………………………………………………23
I quattro processi dialogici………………………………………………………………………………… 27 Incontro individuale………………………………………………………………………………………………………………… 27 Trasparenza………………………………………………………………………………………………………………………………………34 Discussione………………………………………………………………………………………………………………………………………42 Decisione……………………………………………………………………………………………………………………………………………46
Bibliografia………………………………………………………………………………………………………………………………… 57
Il seguente testo ripercorre nella sua prima parte una conferenza tenuta nel 2007 presso l’Università di Heidelberg ed è stato pubblicato per la prima volta nel 2009. Nell’attuale seconda edizione è stato riveduto e ampliato. Il suo obiettivo è porre, sia pur in forma concisa, le basi della “conduzione dialogica” e della “cultura dialogica d’impresa” quali sono state sviluppate a partire dalla metà degli anni Novanta presso l’Istituto Friedrich von Hardenberg di Heidelberg e che da allora hanno trovato applicazione pratica in aziende e organizzazioni culturali. Anche in Italia, mi è stato più volte chiesto nel corso degli anni di approfondire questo tema. Sono felice che oggi sia possibile iniziare a farlo grazie all’iniziativa della Signora Paulette Prouse e delle Edizioni Novalis. Ringrazio sinceramente Daniela Castelmonte per la traduzione. Heidelberg, luglio 2013 Karl-Martin Dietz
Operare in modo autonomo con la percezione della globalità
L’individuo ideale non è più valutato per la sua malleabilità, ma per la sua iniziativa. È questo uno dei cambiamenti più radicali del nostro modo di vivere.
alain ehrenberg
Un numero sempre maggiore di imprese sperimenta come i modelli di conduzione abituali non facciano quasi più presa. Nei cambiamenti che si rendono necessari non si tratta di correggere dettagli, ma di un capovolgimento vero e proprio. Quel che prima competeva alla direzione dell’impresa, si trasforma in una sfida nei confronti dei lavoratori perché sviluppino un “sé imprenditoriale”. In tal modo non si rivoluziona solo il contributo del singolo nel mondo del lavoro, ma viene ordinata secondo nuovi criteri l’intera struttura lavorativa. Verrà qui in seguito brevemente delineato un concetto di conduzione che accetta questa sfida, la “conduzione dialogica”1 da cui consegue una “cultura dialogica d’impresa”. Da tempo la conduzione dialogica ha dato buoni risultati anche nella pratica.2 I tratti principali che la contraddistinguono sono:
– il singolo lavoratore viene considerato e pagato come persona, indipendentemente dal suo ruolo nell’impresa. – per questo è importante, oltre che trovare il cosiddetto “posto fisso”, poter strutturare il proprio lavoro con uno sguardo sull’insieme. 1. Karl-Martin Dietz, Jeder Mensch ein Unternehmer: Grundzüge einer dialogischen Kultur, Karlsruhe 2008 2. Karl-Martin Dietz / Thomas Kracht, Dialogische Führung. Grundlagen – Praxis. Fallbeispiel: dm-drogerie markt, Frankfurt / New York 2002, iii ed. 2011
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Iniziativa individuale e impresa
– non solo è apprezzata la competenza specifica e quella sociale del singolo, ma anche la sua originalità. Così nasce un’impresa “che apprende”, ma che è al contempo innovativa. – l’operato dei lavoratori non attinge a misure prestabilite che vanno eseguite, ma nasce dall’iniziativa individuale e con responsabilità individuale. Secondo il grado di realizzazione raggiunto da questi intenti può essere valutato il successo della conduzione dialogica. Solo alcuni decenni or sono idee del genere suscitavano brusche reazioni sia presso i dirigenti, sia presso i dipendenti. Nel frattempo sono aumentate le voci che chiedono un rinnovamento della vita lavorativa in questa direzione. Rimane comunque aperta la questione su come si possa riuscirvi nel dettaglio. Nelle esperienze e punti di vista che saranno qui esposti, il discorso verterà su questo. Viviamo oggi una simile trasformazione del mondo del lavoro perché da circa cinquant’anni nella società in generale stanno mutando i rapporti fra il singolo e la comunità. È questa realtà, descritta innumerevoli volte dai sociologi, che rimane sullo sfondo della cultura dialogica.
Conduzione nell’epoca dell’individualizzazione? Viviamo nell’epoca dell’individualizzazione. I vecchi pilastri sociali, le tradizioni e i valori, non sostengono più. L’individuo cade preda di un disorientamento quale prima non era mai stato sperimentato. Come raggiungo nuovi valori e orientamenti? Ma che non provengano ancora dall’esterno! E tuttavia: come mi oriento basandomi solo su me stesso? Ecco le questioni centrali oggi in gioco. “È richiesto un modello per l’agire, valido nella vita di tutti i giorni, che abbia l’io come centro”, è la formula espressa dal sociologo Ulrich Beck che per primo ha descritto l’individualizzazione3. La conduzione dialogica si occupa della questione così formulata per quel che concerne la pratica. 3. Ulrich Beck, Risikogesellschaft. Auf dem Weg in eine andere Moderne, Frankfurt/ Main 1986, pag. 217
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Operare in modo autonomo con la percezione della globalità
La questione principale della conduzione dialogica si potrebbe formulare così: come possono operare in modo autonomo e allo stesso tempo in connessione con quanti più lavoratori possibile? – Si è capito da tempo che occorre un contributo consapevole. Così nel 1989 il giapponese Konosuke Matsushita, fondatore della Panasonic, rivolgendosi alle forze imprenditoriali dell’Occidente, disse: “Noi vinceremo e l’Occidente industrializzato perderà. Contro questo fatto non potete fare molto, perché la ragione del fallimento risiede in voi stessi. Non solo le vostre fabbriche sono strutturate secondo il modello tayloristico, ma ancor peggio lo sono le vostre teste. I vostri capi si preoccupano di pensare e i lavoratori di far funzionare gli attrezzi. Nel più profondo del vostro animo siete ancora convinti che sia l’unica strada giusta per far funzionare un’impresa. Per voi il management consiste nell’affidare alle mani dei dipendenti le idee che escono dalla mente dei manager”4. Matsushita espresse così un aspetto cruciale. La conduzione è, correttamente intesa, un impulso per un contributo individuale consapevole; formulato nel senso della conduzione dialogica: uno stimolo all’auto conduzione. Diventa sempre più chiaro che non si tratta solo di richieste che giungono dalle imprese, per così dire “ dall’alto”, ma allo stesso tempo di intenzioni dei lavoratori stessi. Così uno studio americano5 si interroga sui criteri secondo i quali si misura la qualità di impresa dal punto di vista dei lavoratori. I tre più importanti sono: 1. Il lavoro deve essere piacevole. Per questo ci deve essere un clima sociale cordiale. 2. Le condizioni di lavoro devono essere flessibili perché rispecchino la sensazione di essere apprezzati come individui dall’impresa. 3. Il lavoro deve avere valore per l’insieme. Ciò che io faccio deve dare un contributo significativo per il tutto. 4. Gerhard Hesch, Das Menschenbild neuer Organisationsformen, Aachen 2000, pag. 147 5. Secondo quanto riferito da Reinhard K. Sprenger, “Spaß oder Fluchtgedanken?” in: Wirtschaftswoche n. 39, 23.9.1999
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L’aspetto remunerativo non è menzionato fra i primi venti criteri! Come si crea però una cultura d’impresa che soddisfi tali aspettative? – Anche a questo risponde la conduzione dialogica. E tanto meglio vi riesce, quanto più nettamente diminuisce la differenza fra interessi dell’impresa e interessi dei lavoratori dal punto di vista degli obiettivi prefissati e delle caratteristiche del lavoro. La mancanza tante volte deplorata di un “lavoro” non autenticamente “uomo” verrebbe ridotta. Come possa avvenire in dettaglio cercherò di chiarirlo in seguito.
Sul concetto di dialogo - un excursus necessario Prima però va aggiunto ancora qualcosa sul concetto di “dialogico”. La parola “dialogico” viene purtroppo spesso fraintesa. Contemporaneamente alla nostra prima pubblicazione sul tema6, si diffuse in Germania un diverso significato di dialogo che si rifà a Martin Buber e David Bohm. Così oggi coesistono concetti diversi, uno accanto all’altro, e questo porta sempre a equivoci. Nella nostra accezione di dialogo, parlare con gli altri è solo un aspetto ovvio della questione. Nella parola “dialogo” vi è la radice greca “Logos” che non significa affatto solo “parola” o “discorso”. Con il logos rispose il filosofo Eraclito nel v secolo a.C. alla domanda su come nel mondo tutto fosse reciprocamente collegato. Il logos è quella istanza operante che genera i molteplici fenomeni del mondo. Se guardiamo alla natura, vediamo forti singolarità. Ma è meraviglioso – lo notavano già allora i Greci – come stiano bene insieme e formino un tutto. Chi fa in modo che sia così? La risposta di Eraclito è: il Logos. Molti secoli più tardi fu ripreso nel Vangelo di Giovanni: “In principio era il Logos…” Queste parole del resto sono state scritte nel medesimo luogo dove fu attivo Eraclito, a Efeso. 6. Karl-Martin Dietz, Dialog, Die Kunst der Zusammenarbeit, Heidelberg 1998, III ed. 2010
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Operare in modo autonomo con la percezione della globalità
Un altro, affascinante aspetto del Logos in Eraclito è che non va trovato solo in natura, ma anche nell’uomo. Le realtà naturali sono opere del Logos. In esse si è manifestato. Nell’uomo non si manifesta, è all’opera: “È proprio dell’anima un Logos che accresce se stesso”, che è in crescita a partire da se stesso (Eraclito – Frammento 115). È per questo che l’uomo può stabilire un legame con il mondo, può cercarvi tracce del logos operante, e non percepire solo particolarità, e può farlo con i mezzi che si trovano in lui – perché in lui vi è ciò che genera le realtà esterne. Questo è un affascinante tratto nel panorama presocratico: il concetto di un “mondo” che non proviene semplicemente dal nulla, ma che non è neppure una costruzione umana; con il quale tuttavia l’uomo è sostanzialmente “imparentato” e perciò ha una via d’accesso ad esso. Gli Stoici, alcuni secoli più tardi, si sono basati su questa concezione. Hanno messo in evidenza e accentuato il logos nell’uomo: si deve vivere in modo che il logos si erga in noi. Hanno parlato di orthos logos, del logos che si innalza. È una splendida formulazione. Vivo in modo che il logos s’innalzi in me? Oppure lascio che si indebolisca e ricada? Questo concetto di logos avevamo in mente, quando abbiamo scelto il termine “dialogico”, che comprende una seconda parola greca: dia, “attraverso”. Con “Dialogo” ci riferiamo a un pensare, a un agire, a un parlare attraverso i quali “passa” il logos. È il senso più letterale possibile di “Dialogo”. Questo excursus storico del concetto dovrebbe chiarire perché in una conduzione dialogica non si tratta solo di un elemento dialogico nel senso più recente, di uno scambio reciproco nella conversazione. Il concetto più diffuso, molto simile a quello di Martin Buber o di David Bohm, il logos fra gli uomini, comprende solo una parte di quel che noi intendiamo con “dialogo”. La conduzione dialogica, vista così, si pone il compito: come possiamo lavorare insieme in modo tale che il logos possa ergersi nel singolo e nella comunità? 13
Iniziativa individuale e impresa
Logos o crescita personale? Cercare il logos nell’uomo – è in un certo senso il contrario di ciò che oggi si intende come “crescita personale”. In proposito Oswald Neuberger, l’autore del più noto manuale per lo sviluppo della persona, scrive: “Personale è un concetto collettivo o una somma, un collettivo singolare, un neutro. Il personale. Un tempo l’anonimo personale di servizio veniva contrapposto o meglio subordinato al padrone identificato come persona.” Quindi anche la parola ‘personale’ è impropria. Ma prosegue: “Personalità che si esprimono liberamente sono un’opportunità per l’impresa. Nel loro aumento vi è però anche un rischio che si cerca di controllare attraverso la crescita personale.” Troviamo qui l’ambivalenza di un’individualizzazione formulata per la vita professionale. Personalità che si esprimono liberamente sono vantaggiose, ma non devono diventare troppe. Per incanalare la “personalità che si esprime liberamente”, serve, secondo Neuberger, l’evoluzione personale. Infatti il lavoratore conta come fattore di costo e di produzione, lo si impiega se produce più di quanto costa e se non è più conveniente sostituirlo con l’automatizzazione. “La limitazione della libertà, se percepita, provoca delle contro-mosse, dunque la limitazione non dovrebbe diventare cosciente. Sono quindi da preferire metodi di controllo indiretti e, anche per questa ragione, la cultura imprenditoriale predilige un controllo di terzo livello. Nella prospettiva di chi controlla l’ideale è che le persone vogliano liberamente e spontaneamente ciò che devono fare. Diviene allora visibile la retorica occulta per cui non importa tanto che siano libere, quanto piuttosto volonterose”7. Di queste idee si è impregnato fino ad oggi il senso attribuito al termine “conduzione”. In questo contesto si è sviluppato il tema della “motivazione”, balzato in primo piano dalla metà del xx secolo. Offro all’altro qualcosa (per esempio denaro o prestigio), perché egli faccia cose che non farebbe senza questa offerta. La 7. Tutte le citazioni sono tratte da Oswald Neuberger, Personalentwicklung, Stoccarda 1994, pagg. 9 e seg.
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Operare in modo autonomo con la percezione della globalità
motivazione divenne un tema centrale della conduzione, poi smascherata con vivacità nel libro di Reinhard Sprenger: “Il mito della motivazione” (Mythos Motivation). Sprenger ha mostrato la falsità della motivazione, il vuoto interiore che è alla base della tecnica motivazionale. Ma che cosa può prenderne il posto? Come si può giungere a lavorare insieme senza ingannare nessuno?
Questioni di fondo della conduzione dialogica Conduzione significa molto in generale che io mi sento responsabile di una totalità perché vita e lavoro si svolgono connessi a un tutto. Non devo mai perdere di vista la mia intenzione. A che cosa dovrò badare specialmente? Innanzi tutto guarderò in direzioni diverse. Nel lavorare insieme, soprattutto nel vivere insieme, ho sempre a che fare con esseri umani. Può essere naturale che mi siano indifferenti. Li tratto allora come collaboratori di un “collettivo” o li strumentalizzo come interpreti di un ruolo o prestatori d’opera. Ma posso invece considerarli seriamente come individui. La seconda questione è: devo accorgermi della situazione nella quale si trovano la mia impresa e il mio lavoro. Con lo sguardo devo abbracciarla nella sua totalità. Un’impresa non è semplicemente la somma delle persone che vi lavorano. Vi sono risorse e fabbricati, condizioni generali e abitudini. Sono tutte fondamentalmente modificabili, ma per ora sono così come sono e hanno la loro influenza. Il tutto va inteso così, quando dico che compito della conduzione è tener conto della “situazione data”. Il futuro inoltre fa parte di qualunque attività significativa. Nelle mie riflessioni non sono importanti solo le situazioni attuali, ma soprattutto quello che produrrà effetti nell’anno successivo o nel successivo decennio. Un imprenditore ha sempre il futuro in mente. Altrimenti ben presto non sarebbe più un imprenditore. Alcuni compratori acquistano già in estate la collezione di Natale dell’anno successivo. Non sono affatto in atmosfera natalizia, il sole è caldo – ma va pianificato il Natale e addirittura non il prossimo, 15
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ma quello dopo ancora. Infatti se non si sceglie in quel momento, la collezione non potrà essere consegnata a settembre dell’anno successivo. Al futuro è collegato un compito essenziale per la conduzione. Si deve avere consapevolezza di qualcosa che non si può ancora vedere. Non si può vedere il futuro. Se gli occhi percepiscono qualcosa, allora è già presente. Proprio negli affari si devono sviluppare idee per il futuro. Se non si producono in proprio, le si può forse comprare da qualche parte; in ogni caso agli uomini di affari servono continuamente idee. Questa è la terza prospettiva che si apre, prendendo seriamente i compiti della conduzione. Il quarto punto di attenzione è di un altro tipo ancora. Io posso (e devo) elaborare ulteriormente le idee, anche con più opzioni. Ma poi arriva il momento in cui si deve diventare operativi. Fra le diverse informazioni devo decidere quali siano per me essenziali e fra le varie idee formulate scegliere quelle che intendo realizzare. Quando ho preso una decisione, devo restarvi coerente. Non posso dire: oggi proverei così per una volta; forse domani agirò in modo del tutto diverso. Chi procede così non resterà molto a lungo in una posizione di responsabilità. Qui dunque va osservata l’operatività reale, che ha sempre luogo – anche se non vi presto particolare attenzione. Ma nel senso della conduzione è necessario prendere decisioni consapevoli. Questo comporta una preparazione di base, così come uno sguardo preveggente sulle conseguenze. Queste quattro direzioni dello sguardo sono come tali tutte necessarie. Ma vi sono modi del tutto diversi di considerarle. Spesso oggi si procede ancora secondo questi modelli: Le persone Come motivo le persone (i miei collaboratori) perché lavorino secondo la mia intenzione? Questa questione fu sollevata alla fine del xix secolo dal taylorismo e ha caratterizzato per tutto il xx secolo la conduzione di tipo personale. Ma ben presto ci si accorse: è un risultato che si raggiunge sempre meno, se non si riescono a conquistare i cuori. Le persone devono anche volere ciò che dovreb16
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bero fare. Devono in una certa misura sentirsi bene. Nonostante tutte le tendenze all’umanizzazione, si rimane però allo scopo tradizionale: come catturo la gente perché faccia ciò che voglio? Dwight D. Eisenhower, il presidente degli Stati Uniti dopo la seconda guerra mondiale, definì così la conduzione: “Conduzione significa che l’altro fa ciò che io voglio, come lo voglio, quando lo voglio – perché egli lo vuole.” Così una bella fetta di ipocrisia si inserisce nel rapporto di conduzione.
I rapporti Come mantengo, quale capo, la visione d’insieme? Come posso fare in modo che nulla mi sfugga? Come inserisco il particolare nel quadro dell’insieme che osservo e di cui sono responsabile? In situazioni divenute più complesse, non è più così semplice garantirlo, e serve la cooperazione di molti.
Il futuro Come stabilisco una relazione con il futuro che sia prima di tutto appropriata e in secondo luogo praticabile? Faccio un progetto e poi lo cambio? È consuetudine, in ambito economico, attenersi alla programmazione, ma non sempre è efficace. È di ostacolo alla flessibilità e a un agire in base alle circostanze. Che cosa sarebbe accaduto altrimenti?
Capacità decisionale Come tengo in mano le redini del comando? Come mi faccio valere? È un aspetto che si cerca già negli annunci di lavoro: collaboratori che siano ricchi di idee, capaci di adattarsi, e di imporsi. Seguendo la massima dei Principi Elettori oggi non si va più molto lontano, se si vuole collaborazione. Si proclamava: “È fatto divieto ai sudditi di applicare la misura della loro limitata visuale all’operato dell’autorità.” Questo principio di conduzione – anche senza riferimenti ai Grandi Principi Elettori – è tuttavia ancora riscontrabile nella vita economica, in quella legge non scritta: non devono pensare, devono agire. 17
Iniziativa individuale e impresa
Che cosa mi aspetto dal mio collaboratore? Si pone a questo punto la questione basilare: che cosa mi attendo dal mio collaboratore? Voglio che faccia esattamente ciò che gli dico? Questo suonerebbe bene, ma solo se lo fa realmente. Però con tale atteggiamento sono proprio io alla fine a ostacolare l’assunzione di responsabilità. Devo ordinare ogni singolo provvedimento, oppure condizionare a lungo termine chi lavora per me. Avviene abbastanza spesso che si segua una linea o l’altra, benché oggi si sappia che entrambe servono a poco quando le situazioni divengono più complesse. Un’aspettativa nei confronti del lavoratore perché questi funzioni e basta non ha grande futuro né per gli intenti dell’azienda, né per quelli del lavoratore. Una seconda possibile aspettativa sarebbe che il lavoratore agisca autonomamente. Gli dico di che cosa si tratta. L’impulso ad agire proviene da me, ma di quel che avviene in seguito non occorre che mi preoccupi. Entra in gioco la capacità di pensare del lavoratore: si conta sulla sua intelligenza, ma in una sfera circoscritta. I confini sono stabiliti da indicazioni, abitudini, tradizioni, da manuali sull’organizzazione aziendale o sulla “crescita personale”: mi aspetto un agire competente. Che cosa potrei volere altrimenti dai miei collaboratori? – Ad esempio che essi pensino unitamente alla totalità della situazione; dunque non solo al lavoro che devono svolgere direttamente, ma anche al suo significato per l’insieme. Così ad esempio un direttore di filiale non può solo organizzarla nel modo migliore al suo interno; deve al tempo stesso avere presente come ciò che fa lì (ad esempio l’uscita dal listino di un determinato articolo) si ripercuota sulla totalità dell’impresa. Perché egli sa che la sua filiale può esistere soltanto come parte di un insieme più grande. Dell’assortimento non può occuparsi ogni direttore di filiale in modo autonomo, ognuno di loro deve poter fare affidamento su un reparto acquisti centrale. Deve avere fiducia nei colleghi della lontana “sede centrale”. Infatti, sarà chiaro se va davvero bene il prodotto che gli hanno inserito in negozio, solo 18
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in seguito, quando sarà tardi per un cambiamento. Il personale del reparto acquisti rinforza questa immagine di fiducia, coinvolgendo tempestivamente i colleghi dei punti vendita nell’elaborazione dell’assortimento-merce e fornendo loro tutte le necessarie informazioni sui nuovi prodotti. In questo modo il direttore di una filiale può sentirsi responsabile del suo assortimento, anche se non l’ha ideato lui. E anche molte altre procedure si comprendono allora da sé. Così ad esempio vi è una differenza se io semplicemente ricevo l’assegnazione di un rinnovo dell’assortimento (le 70 nuove tinte per i capelli devono essere ordinate entro il prossimo sabato) oppure se ad esempio vengo informato quando partirà la pubblicità dei nuovi prodotti. Infatti – ed è chiaro a tutti e non richiede spiegazioni – dal momento in cui parte la pubblicità la merce deve essere disponibile. Però posso organizzarmi con autonomia. In questo caso il singolo opera partendo dalla relazione con il tutto e non solo sulla base di richiami e direttive. Riassumendo: il responsabile locale in tutto ciò che fa non deve pensare solo al proprio negozio, ma deve essere consapevole dei molteplici nessi con la totalità dell’azienda. Altrimenti non avrebbe operato bene neppure per quel singolo negozio. Ma vi è ancora un’ulteriore aspettativa che posso avere nei confronti dei lavoratori: che in modo autonomo si sentano responsabili della globalità. Anche lo stimolo all’operatività non arriva più dai superiori, ma nasce dalla cosa stessa. È lo scopo ultimo della conduzione dialogica, quando è possibile giungere fino a lì. Ancora l’esempio del direttore di filiale: è nella condizione di occuparsi adeguatamente non solo di ciò che lo riguarda direttamente? Si sente responsabile anche di ciò che manca? Di qualcosa che non c’è (ma forse dovrebbe esserci) oppure per un elemento carente in un reparto che andrebbe migliorato? Si interroga anche su aspetti per i quali in quel momento non vi sarebbe alcun “motivo”? In tal modo l’attività del singolo viene orientata al risultato e alla produttività. Questo gli dà uno spazio d’azione e d’altra parte rende più efficiente il contributo all’insieme. È totalmente nell’impresa e allo stesso tempo del tutto autonomo. 19
Iniziativa individuale e impresa
Questa sarebbe la massima forma possibile di “autonomia nella percezione dell’insieme”. Riassumendo si può dire: “conduzione dialogica” descrive il tentativo di costruire una collaborazione fra personalità mature. Non è un metodo riproducibile, un sistema o una raccolta di “tools” che si possano imparare in un corso teorico e poi “introdurre” a una data precisa. Riguarda piuttosto l’intenzione di aprire, in modi diversi, una propria via alla realizzazione e di farne partecipi quanti più lavoratori sia possibile. Si può solo domandare: vogliamo davvero la conduzione dialogica? E in tal caso, qual è la cosa importante? Come possiamo aiutarci a vicenda perché abbia successo? – I mezzi pratici sono diversi da situazione a situazione, anche perché non tutti sono coinvolti allo stesso modo. Nel tempo ad esempio si aggiungono nuovi lavoratori. La conduzione dialogica non si accompagna all’uniformità. Per questo diventa stimolante e interessante dal punto di vista umano.
Processi dialogici Ai compiti e alla volontà di conduzione va ancora aggiunta l’efficienza della conduzione. La si può descrivere esattamente in relazione a quelli che indichiamo come “processi dialogici”, seguendo le direzioni prima delineate. Un primo processo dialogico è “l’incontro individuale”. Ha come scopo rendere possibile l’evoluzione del singolo nel divenire comune. Chi riesce a evolversi farà anche la cosa giusta rispetto al tutto, e non perché è condizionato a un determinato comportamento. Anzi i singoli si trovano reciprocamente nella condizione di sollecitare, di mettere alla prova, di ampliare il loro potenziale interiore e le loro capacità. Un’evoluzione del singolo nel divenire comune è possibile solo se lo si considera seriamente come individuo, se cioè si cerca innanzi tutto di capire i suoi pensieri e le sue azioni, prima di giudicarlo o di criticarlo. “Perché hai agito come hai agito?”, domande di questo tipo possono spegnere 20
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all’origine antipatie e conflitti. E porre la collaborazione su basi di reciproca fiducia. Un secondo processo dialogico è la “trasparenza”. È necessaria perché i singoli si mostrino all’altezza dei rapporti e delle situazioni date nella loro complessità. In tal senso si incontrano duplici sfide. Da un lato devo sperimentare quanto è necessario, ricevere informazioni per operare autonomamente nel senso del tutto. Come responsabile di settore devo per esempio sapere quali sono i risultati delle mie vendite. Devo conoscere le cifre e non solo quelle del mio settore. Solo così posso giudicare come procede ciò che è di mia competenza e trarre delle conclusioni. Prima le cifre della definizione del valore erano uno strumento di potere nelle mani dei dirigenti. Oggi gli interessati possono leggere le stesse cifre e metterle a confronto con quelle generali, con quelle dei settori vicini e con tutto ciò che le concerne. Questo è un lato della trasparenza: che si informi senza riserve e in modo completo. Vi è poi l’altro lato. Non solo devo ricevere le informazioni, devo anche comprenderle. Devo saper riconoscere che cosa emerge dalle cifre del conto di definizione del valore, per aver presente la complessa totalità degli eventi. Questa capacità non nasce spontaneamente. Posso però apprenderla: un autentico compito di formazione nell’impresa.8 La trasparenza ha quindi due facce. L’una è che io sappia tutto, l’altra che sia in grado di rielaborarlo nella mente. In modi diversi è stato analizzato anche da altri, per esempio da Peter Senge nel suo libro “La quinta disciplina” (The Fifth Discipline: The art and practice of the learning organization)9 Egli pone al centro la domanda: come devo trasformare il mio modo di pensare per lavorare innanzi tutto con successo? 8. Per un approfondimento cfr.: Karl-Martin Dietz, Führung: Was kommt danach? Perspektiven einer Neubewertung von Arbeit und Bildung, Studienhefte des Interfakultativen Institut für Entrepreneurship (iep) del Karlsruher Instituts für Technologie, vi vol., kit Scientific Publishing, Karlsruhe 2011 9. Peter Senge, La quinta disciplina: L’arte e la pratica dell’apprendimento organizzativo, Milano 1992.
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Un terzo processo dialogico lo definiamo “discussione”: si tratta del rapporto con il futuro, del trovare idee. Una discussione, un dibattito per trovare idee ha luogo in effetti in ogni convegno, in ogni ambito di lavoro. Non ci incontriamo mai avendo come primo scopo accertare come è ancora bello fra noi (oppure come è insoddisfacente), ma sempre per domandarci: vogliamo fare qualcosa di diverso? Che cosa sta emergendo? Che cosa porta il futuro? Che cosa vogliamo fare? Il punto sulla situazione presente ne fa parte. Ma il futuro è motivo e scopo del trovarci insieme e di cercare idee. Se rendo partecipe il singolo della ricerca di idee, egli si porrà in modo diverso nella sua realtà lavorativa, imparando a riconoscere idee mature nelle linee direttive la cui attuazione gli è affidata. Per la partecipazione alla ricerca delle idee vi sono forme differenziate. Tanto più viene curato in modo vivente il processo della “discussione”, tanto più produttiva – spiritualmente ed economicamente – diventa l’impresa nella sua totalità. L’ultimo processo dialogico è la “decisione”: conduce a un agire che collega l’attività autonoma del singolo all’insieme. Questa esigenza ha parimenti due facce. La prima è: agisco a partire da me stesso, sempre più per iniziativa individuale e sempre meno per disposizioni “dall’alto”. Scopo della conduzione dialogica nella quotidianità del lavoro è che si operi il più possibile per iniziativa degli interessati – purché quindi il singolo sappia che cosa vuole fare, quando, come e perché lo vuole fare: potrà decidere lui stesso se prima, per maggior sicurezza, intende consultarsi ancora con qualcun altro. – L’altro lato della decisione è che le iniziative dei singoli si accordino fra loro per diventare un tutt’uno. Qui è contenuto un segreto della formazione di comunità. Qui cooperano i processi dialogici che abbiamo descritto. Appena si tenta di creare un insieme dall’esterno, la forza di iniziativa dei singoli viene paralizzata. Se però da incontro, trasparenza e consultazione emerge una comune cultura d’impresa, allora diverrà possibile che io, in modo autonomo, prenda decisioni tali che vadano bene per gli altri, anche senza un formale regolamento al riguardo. 22