WORLD EXCELLENCE Novembre 2017
LA RIVISTA
N° 1DEI CEO
ISSN 2499-5282
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Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in Abbonamento Postale - 70% - LOM/MI/5193 - Prima immissione 10/11/2017 - Mensile | N°20 - www.worldexcellence.it
E ORA
MILANO
VOLA ALTO Il capoluogo lombardo sta acquistando un ruolo strategico centrale non solo in Italia, ma anche in Europa
FINANCE Stéphane Boujnah Ceo di Euronext
GIuseppe Sala
OPEN INNOVATION
CRESCE LA DOMANDA DI STARTUP TECNOLOGICHE
MERCATI FINANZIARI
CYBERSECURITY
Un mercato in forte espansione Le stime dicono che entro cinque anni nel mondo verrà speso 1 trilione di dollari per proteggersi dagli attacchi informatici. Ma i danni del cybercrime saranno sei volte superiori
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EURONEXT APRE LA CACCIA ALLE PMI ITALIANE Le piccole e medie aziende scalano le classifiche europee per dinamismo e competitività. Ma il mercato dei capitali nazionali arranca ancora e le imprese hanno difficoltà a trovare investitori. Intanto la Borsa paneuropea dell’hi-tech approda a Milano e promette soluzioni chiavi in mano per sbarcare sui listini internazionali
L’educazione finanziaria deve crescere
AL VIA LA RIVOLUZIONE INDUSTRIALE DEL FINTECH
EDITORIALE
L’educazione finanziaria materia d’obbligo nelle scuole Angela Maria Scullica @AngelaScullica
L’
ultimo rapporto della Consob sull’educazione finanziaria parla chiaro: “Le rilevazioni per il 2016 confermano che le competenze degli italiani in materia di investimenti finanziari rimangono limitate, sia per i profili attinenti alle conoscenze, sia per gli aspetti relativi ad attitudini e modelli decisionali. Oltre un terzo degli intervistati, ha difficoltà a valutare la rischiosità delle opzioni di investimento più note”. L’Italia insomma non è messa bene in fatto di conoscenze in materia finanziaria ed è quanto viene spesso sottolineato dai confronti internazionali. Prendiamo per esempio l’indagine Standard & Poor’s ‘Global Finlit Survey’ effettuata nel 2014 su 140 Paesi, citata al convegno “La ricchezza della nazione, educazione finanziaria e tutela del risparmio” dal Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, nella quale l’Italia si colloca all’ultimo posto tra i Paesi europei, con solo il 37% tra gli adulti che risponde correttamente ad almeno 3 delle 5 domande su concetti di base (interesse semplice e composto, inflazione, diversificazione del rischio). Dati confermati anche dal più recente sondaggio effettuato dalle Autorità di vigilanza (Banca d’Italia, Consob, Covip e Ivass) in collaborazione con il Museo del Risparmio, Fondazione per l’educazione finanziaria ed al risparmio e Fondazione Rosselli nel quale si ribadisce che solo un italiano su tre conosce il significato di almeno tre di questi concetti base. Il rapporto naturalmente va oltre documentando la frammentazione dei progetti di acculturamento, sinora messi in atto, molti dei quali «con un numero di partecipanti modesto» e «solo pochi» con «un significativo impegno economico». E sottolineando, tra le maggiori criticità, la mancanza di coordinamento tra le iniziative prese negli anni passati, «l’assenza di un quadro nazionale che definisca in modo unitario fabbisogni formativi, priorità e criteri di intervento», e «la carenza di valutazioni sulla capacità delle iniziative di incrementare e incidere sui comportamenti». Una presa di coscienza alla quale oggi, il Governo italiano, spinto anche dall’Europa nei cui programmi rientra l’accrescimento della cultura finanziaria nei vari Paesi dell’Unione, dagli avvenimenti che hanno coinvolto le banche venete e il Montepaschi (in seguito all’entrata in vigore delle nuove regole
europee sulla risoluzione e gestione delle crisi bancarie) e dalla Mifid 2 che imporrà agli intermediari finanziari una maggiore trasparenza e nuove regole per la product governance, ha voluto porre rimedio con l’istituzione del Comitato per la programmazione e il coordinamento delle attività di educazione finanziaria. Senza entrare nel merito della questione, né pronunciarsi su un lavoro, peraltro meritevole, che è appena all’inizio, occorre in questa sede porsi alcune domande. Innanzitutto perché si è arrivati a un punto così elevato di ignoranza finanziaria. E la risposta non può che venire dalla storia. Si sa che l’Italia è sempre stato un Paese elitario e conservatore, chiuso nel proprio recinto, con una scarsissima propensione ad aprirsi all’esterno e a valorizzare capacità e meriti. Un Paese nel quale gli equilibri economico-politici che si sono susseguiti negli anni, hanno nei fatti portato alla formazione di un sistema bancocentrico poco propenso a sviluppare realmente un mercato finanziario, a diffondere la conoscenza e comunicare con trasparenza e chiarezza. Le varie iniziative di educazione finanziaria prese nel tempo, come è stato sottolineato anche dalla Banca d’Italia, sono state numerose ma frammentate, poco coordinate, economicamente povere e non si sa quanto efficaci. E qui, aggiungiamo noi, molte di esse sono state prese più sulla base di interessi promozionali che su quella di una reale missione culturale che ponesse il cliente al centro dell’attenzione. Una missione di cui anche Visco, nella sua relazione alla giornata mondiale del risparmio, ne ha sottolineato l’assoluta importanza. “L’educazione finanziaria”, ha detto il Governatore, “non è solo una risposta alla crisi, ma è un requisito indispensabile a fronte dei cambiamenti nell’offerta di strumenti di investimento. Competenze finanziarie di base sono essenziali non solo per difendersi dai rischi di comportamenti scorretti o fraudolenti, ma anche per effettuare scelte coerenti con i propri bisogni e le proprie condizioni economiche”. Ora molta enfasi è stata riposta sull’attività che il Comitato dovrebbe svolgere. Vogliamo però aggiungere che, a nostro parere, sarebbe necessario integrare l’iniziativa inserendo con decisione le materie finanziarie e di risparmio nei programmi delle scuole d’obbligo. Novembre 2017 World Excellence
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WORLD EXCELLENCE
DIRETTORE RESPONSABILE Angela Maria Scullica angela.scullica@lefonti.it REDAZIONE Federica Chiezzi (federica.chiezzi@lefonti.it), REDAZIONE GRAFICA Valentina Russotti SEGRETERIA DI REDAZIONE segreteria@lefonti.it COLLABORATORI Filippo Cucuccio, Vanessa D’Agostino, Luigi Dell’Olio, Filippo Fattore, Antonio Maria Ferrari, Piera Anna Franini, Laura Lamarra, Mario Lombardo, Chiara Osnago Gadda, Paolo Tomasini, Gabriele Ventura, Donatella Zucca, RESPONSABILE COMUNICAZIONE E RELAZIONI ESTERNE Claudia Chiari COORDINAMENTO INTERNAZIONALE ( New York, Dubai, Hong Kong, Londra, Singapore...) Alessia Liparoti alessia.liparoti@lefonti.it
SCENARI 6
Una esplicita comunione di valori per avanzare
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Quando la scarpa diventa oggetto di desiderio
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Il ritorno dei nazionalismi
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Il trend in ascesa dell’open innovation
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La sovranità che conta veramente
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La crisi si evita se la cura è immediata
PRIMO PIANO
FINANCE
PROGETTI SPECIALI Alessia Rosa alessia.rosa@lefonti.it
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Made in Milano
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L’educazione finanziaria deve crescere
INNOVAZIONE E DIGITAL MARKETING Simona Vantaggiato simona.vantaggiato@lefonti.it
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Nascita di una nuova capitale finanziaria
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Euronext apre la caccia alle Pmi italiane
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Il collezionista di colori
REDAZIONE E STUDI TELEVISIVI Via Dante 4, 20121 Milano - tel. 02 8738.6306 Per comunicati stampa inviare a: press@lefonti.it EDITORE
Le Fonti S.r.l. Via Dante, 4, 20121, Milano
MERCATI E IMPRESE 26
Il mercato del vino italiano
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TECNOLOGIA
RUBRICHE 5 66
Mondo Nuovo Trend
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L’ESPLOSIONE DEL CYBERCRIME GUIDA LA CRESCITA DELLA CYBERSECURITY 60
Al via la rivoluzione industriale del fintech
MONDO NUOVO
La fine della diplomazia del dollaro? Barry Eichengreen
Professore di Economia all’Università di Berkeley, è stato consulente del Fondo monetario internazionale. Il suo ultimo libro è Hall of mirrors: the Great depression, the Great recession, and the uses - and misuses - of history
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ark Twain non ha mai davvero detto «La notizia della mia morte è alquanto esagerata», ma la falsa citazione è troppo simpatica per non riutilizzarla. E il concetto che ne è alla base non potrebbe essere più calzante che per il dibattito sul ruolo internazionale del dollaro. Gli esperti celebrano il funerale del dominio del dollaro a livello mondiale sin dagli anni Sessanta, ovvero da più di mezzo secolo ormai. Ciò è dimostrato dalla ricorrenza dell’espressione «demise of the dollar», che tradotta significa fine o morte del dollaro, in tutte le pubblicazioni in lingua inglese catalogate da Google. La frequenza con cui tale espressione ricorre, rapportata al numero di pagine stampate per anno, registrò un primo picco nel 1969, in seguito al crollo del London Gold Pool, un accordo di collaborazione tra otto banche centrali per fissare un tetto al dollaro rispetto all’oro. L’utilizzo della stessa aumentò vertiginosamente negli anni Settanta in seguito al fallimento del regime di Bretton Woods, di cui il dollaro era il fulcro, e in risposta all’elevata inflazione che accompagnò la presidenza di Richard Nixon, Gerald Ford e Jimmy Carter in quegli anni. Ma anche quel livello venne superato dall’intensificarsi dei riferimenti e delle relative preoccupazioni rispetto al dollaro a partire dal 2001, come risultato dello choc causato dagli attentati terroristici di settembre, dell’enorme crescita del disavanzo commerciale degli Usa e infine della crisi finanziaria globale del 2008. Malgrado tutto ciò, il ruolo internazionale del dollaro non è mai venuto meno.La quantità di dollari presente nelle riserve valutarie delle banche centrali e dei governi mondiali non ha praticamente risentito di questi eventi. Il biglietto verde resta la moneta più scambiata sui mercati delle valute estere e continua a essere l’unità di riferimento per la quotazione e il commercio del petrolio a livello mondiale, nonostante le proteste dei leader venezuelani per la «tirannia del dollaro». Con notevole costernazione di molti trader valutari, il valore della moneta statunitense è soggetto ad ampie fluttuazioni, come hanno dimostrato la sua ascesa, caduta e ripresa nel corso dell’anno passato. Ciò, tuttavia, incide appena sull’attrazione che esercita sui mercati internazionali. Le banche centrali continuano a detenere titoli di stato statunitensi perché il mercato su cui vengono scambiati è il più liquido al mondo. Inoltre, questi titoli sono considerati sicuri dal momento che il governo federale non ha problemi d’insolvenza sin dai tempi della disastrosa guerra del 1812. Inoltre, i legami diplomatici e militari con gli Usa incoraggiano gli alleati dell’America a detenere riserve in dollari. Gli Stati che possiedono un proprio arsenale
nucleare hanno meno valuta americana rispetto ai Paesi che dipendono dagli Stati Uniti per la propria sicurezza. Fare parte di un’alleanza militare con un Paese che emette moneta di riserva fa aumentare la quota di riserve valutarie in quella moneta del Paese partner di circa 30 punti percentuali. I fatti, dunque, suggeriscono che le riserve in dollari diminuirebbero significativamente in assenza di tale effetto. Questo legame sottovalutato tra le alleanze geopolitiche e la scelta valutaria internazionale riflette una combinazione di fattori. I governi hanno motivo di credere che il Paese della moneta di riserva considererà il servizio del debito dei propri alleati una priorità importante. In cambio, gli alleati, detenendo le sue passività, potranno contribuire a ridurre gli oneri finanziari dell’emittente. È qui, dunque, e non in un altro pasticcio sul tetto del debito federale il prossimo dicembre, che si annida la vera minaccia al dominio internazionale del dollaro. Come sostiene un anonimo funzionario del Dipartimento di Stato americano, il presidente Donald Trump «non sembra preoccuparsi delle alleanze e, di conseguenza, della diplomazia». Si pensa che le riserve internazionali del Giappone e della Corea del Sud siano costituite per circa l’80% da dollari. Si può ipotizzare, quindi, che il comportamento finanziario di questi e altri Paesi cambierebbe drasticamente, con implicazioni negative per il cambio del dollaro e i costi di finanziamento statunitensi, qualora le strette alleanze militari tra l’America e i suoi alleati dovessero logorarsi. E non è neppure difficile immaginare come ciò potrebbe accadere. Dal punto di vista strategico, il presidente Trump si è dato la zappa sui piedi da solo mettendosi nella condizione di aver bisogno di una concessione da parte della Corea del Nord sulla questione delle armi nucleari per salvare la faccia con la propria base, per non dire con la comunità globale. A dispetto della sua retorica e del suo atteggiamento aggressivi, l’unica via percorribile per assicurarsi tale concessione è quella della negoziazione. Ironicamente, il risultato più plausibile di questo processo sarà un regime di ispezioni non diverso da quello concordato dall’amministrazione Obama con l’Iran. Per raggiungere tale obiettivo, l’amministrazione Trump dovrà offrire qualcosa in cambio. La moneta di scambio più ovvia per rassicurare il regime nordcoreano è una riduzione della presenza militare statunitense nella penisola coreana e in Asia in generale. In tal modo, la garanzia di sicurezza offerta dagli Usa diminuirebbe, mentre la Cina avrebbe l’opportunità di riempire il vuoto geopolitico venutosi a creare. E laddove la Cina assumesse la leadership a livello geopolitico, è probabile che la sua moneta, il renminbi, farebbe lo stesso. Novembre 2017 World Excellence
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SCENARI
EUROPA/1
UNA ESPLICITA COMUNIONE DI VALORI PER AVANZARE La crisi ha accelerato il processo di integrazione europea. Ma ne ha anche esaltato diffidenze e ostacoli. E ora, per continuare il cammino, l’Europa deve dare risalto a un sistema di sentimenti profondi e aspirazioni nel quale i diversi popoli dell’Unione si riconoscano e si identifichino
Angela Maria Scullica
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l processo di integrazione partito con l’euro sta attraversando oggi una fase di profondo ripensamento intellettuale. Per troppo tempo infatti si è ritenuto che la creazione di una moneta unica e l’unificazione dei mercati economici e fi nanziari bastassero da soli a far convergere i singoli Stati in una grande area europea uniforme, coesa e democratica. D’altra parte i vantaggi di un’Europa unita, che ha cominciato a
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prendere forma dalla fi ne della seconda guerra mondiale (e che ha avuto un’accelerazione in seguito alla crisi di questi anni) erano evidenti agli occhi di molti. Una moneta unica, l’euro, e un sistema legislativo condiviso di diritti e doveri, uguale per tutti, avrebbero infatti potuto favorire la libera circolazione di idee, capitali, beni, servizi con tutte le conseguenze che ne sarebbero derivate in termini di crescita e be-
Molto si è fatto per affrontare le carenze istituzionali, vanno ora affrontate anche quelle motivazionali
nessere diffuso. L’evoluzione stessa della tecnologia che ha reso il mondo collegato e interrelato e la globalizzazione dei mercati spingevano in questa direzione. Un percorso che la crisi iniziata nel 2007, come si sa, ha da un lato accelerato sul fronte economico e fi nanziario e dall’altro reso molto più fragile e complesso. Se infatti all’inizio del cammino europeo era opinione diffusa che il fatto stesso di adottare un’unica moneta sarebbe di per se stesso stato sufficiente, o comunque avrebbe costituito una buona base di partenza, per creare un’area economica e finanziaria integrata, il prolungarsi della crisi, aggravato dall’ondata migratoria senza precedenti dovuta all’instabilità del Nord Africa e del Medio Oriente, sta dimostrando la fragilità di questo assunto. La crisi ha messo in evidenza non solo carenze nelle strutture istituzionali a sostegno dell’Unione economica e monetaria, ma anche nelle motivazioni. È a partire dal 2010 che la situazione cominciò in Europa a degenerare, da quando cioè vennero a galla le debolezze della Grecia. Da allora tutte le misure prese per arginare il fenomeno evitandone le peggiori conseguenze sono state decise e avviate in un clima di emergenza che ha richiesto una grande velocità di intervento. La gravità della situazione innescò infatti una profonda crisi di fiducia sulla possibilità del governo greco di restare insolvente. Nei mesi seguenti le agenzie di
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rating abbassarono i rating dei titoli greci a livello di titoli spazzatura. Decisione che fece schizzare in alto i tassi di interesse greci e lo spread rispetto ai Bund tedeschi.
Per evitare il default, la Grecia si impegnò con la Commissione europea e il Fmi ad adottare drastiche misure di risanamento fiscale. Ma il contagio ai Paesi europei, che presentavano cioè debiti pubblici peggiori e prospettive di crescita bassa, era diventato ormai irrefrenabile. Così subito dopo la Grecia entrarono in crisi Irlanda, Portogallo, Spagna e infi ne Italia. I mercati sembravano impazziti e per calmierare una situazione che stava ormai sfuggendo di mano tutti i Paesi furono costretti ad adottare misure di risanamento fiscale. In quelli a maggiore rischio di default, oltre ai tassi che lievitavano verso l’alto, aumentarono anche i premi pagati dai detentori dei titoli di Stato per assicurarsi contro la possibile insolvenza tramite lo strumento dei Cds. Ciò fece crollare il valore dei titoli di Stato che erano per la gran parte detenuti dalle banche. E le conseguenze per le banche furono pesanti: mentre l’attivo perse valore, salì il loro rischio di insolvenza e precipitarono le loro quotazioni di Borsa. Così la crisi, nata dalle banche, passò agli Stati sovrani, e ritornò alle banche, che si trovarono nella situazione di dover ricapitalizzare, con la difficoltà di trovare
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trovò costretta a emanare una Comunicazione in tema di disciplina degli aiuti di Stato vincolante in tutti i paesi. In essa si stabilì che da quel momento gli aiuti erano ammessi solo a condizioni molto stringenti e previa condivisione dell’onere da parte di azionisti e obbligazionisti subordinati: un principio somigliante a quello del salvataggio dall’interno, bail-in, posto al centro della nuova disciplina europea delle crisi bancarie che si andava preparando.
CLIMA DI EMERGENZA È a partire dal 2010 che la situazione in Europa ha cominciato a degenerare, da quando cioè sono venute a galla le debolezze della Grecia. Da allora tutte le misure prese per arginare il fenomeno evitandone le peggiori conseguenze sono state decise e avviate in un clima di emergenza
fi nanziamenti, poiché anche gli Stati stavano riducendo i loro deficit. L’Unione bancaria nacque in Europa nel clima di emergenza generato dalla crisi dei debiti sovrani. È stata, insieme alle politiche di quantitative easing della Bce, la risposta più immediata al contagio delle gravi bolle speculative che minacciavano la tenuta dell’Unione europea. C’è infatti un legame molto forte tra le banche e gli Stati nazionali. Queste investono in titoli pubblici del loro Paese e, se i tassi salgono, registrano da un lato perdite in bilancio e, dall’altro, si trovano a pagare di più la raccolta di fondi all’ingrosso. L’Unione bancaria è sorta dall’idea di sottrarre agli Stati nazio-
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nali la gestione delle banche in difficoltà per portarla in Europa in modo da calmierare la situazione evitando manovre speculative che avrebbero potuto mettere in gioco i sistemi nazionali. In molti Paesi erano dilagate crisi bancarie di varia natura per ragioni che andavano dallo scoppio di bolle speculative immobiliari (Spagna e Irlanda), al contagio di strumenti tossici di fi nanza strutturata (Germania). In Italia la perdurante recessione e scarsa crescita, aveva fatto scoppiare il problema delle sofferenze. A differenza di quelle italiane che cercarono prevalentemente di cavarsela da sole, le banche europee ricorsero agli aiuti pubblici che si esaurirono nella prima parte del 2013. Così, nel luglio di quell’anno, la Commissione europea si
La crisi delle banche spinse anche ad accelerare la strada verso l’integrazione e il rafforzamento del mercato dei capitali con l’obiettivo di accrescere le fonti di fi nanziamento per le imprese al di fuori dei canali bancari e di consentire ai fondi di affluire direttamente agli utilizzatori fi nali attraverso il mercato, saltando quindi l’intermediazione bancaria. Il 29 gennaio 2015 la Commissione Junker lanciò il progetto per la realizzazione di un mercato unico dei capitali a livello europeo, volto a porre le basi per un’unione, oggi molto frammentata, dei mercati dei capitali dei 28 Stati membri entro il 2019 (27 dopo la Brexit). Il 22 giugno 2015 il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker, il presidente del Vertice euro, Donald Tusk, il presidente dell’Eurogruppo, Jeroen Dijsselbloem, il presidente della Banca centrale europea, Mario Draghi, e il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, presentarono un piano ambizioso per approfondire l’Unione economica e monetaria (Uem). La relazione, cosiddetta dei cinque presidenti, «Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa», ha tracciato un percorso nel
quale si distinguono due fasi temporali, e quattro pilastri (Unione economica, fi nanziaria, di bilancio, politica). La prima fase che andava dal 1° luglio 2015 al 30 giugno 2017 prevedeva, tra le altre cose, il completamento dell’Unione fi nanziaria e bancaria con l’istituzione di un meccanismo di fi nanziamento ponte per il Fondo unico per la risoluzione delle crisi e il sistema comune di garanzia dei depositi; la possibilità di ricapitalizzazione diretta delle banche utilizzando il Meccanismo europeo di stabilità (European stability mechanism, Esm); l’avvio della costruzione dell’Unione dei mercati dei capitali, per diversificare le fonti di finanziamento dell’economia; la seconda fase che va dal luglio 2017 al 2025 prevede il completamento dell’Unione economica e fiscale
per arrivare a quella politica. Molto si è dunque fatto per affrontare le carenze istituzionali, vanno ora decisamente affrontate le carenze motivazionali. Sotto i colpi di una perdurante stagnazione, di un’ondata migratoria senza precedenti, di un riassesto degli equilibri mondiali, l’opinione pubblica appare sempre più distante e prevalentemente focalizzata su problematiche di breve termine. Il caso della Brexit prima, quello recente delle richieste di indipendenza della Catalogna, ma anche gli esiti delle votazioni in Germania che hanno visto avanzare la destra conservatrice e aumentare il vigore dei partiti populisti, fanno riflettere. Nei singoli Stati si rafforza la voglia di autonomia mentre diminu-
SPINTE AUTONOMISTE Nei singoli Stati si rafforza la voglia di autonomia mentre diminuisce l’identificazione in un’Europa che sembra chiedere ai più sforzi e sacrifici senza dare molto, o nulla, in cambio. Il caso Brexit ne è un esempio lampante
isce l’identificazione in un’Europa che sembra chiedere ai più sforzi e sacrifici senza dare molto, o nulla, in cambio. Dai dibattiti e dai confronti odierni, sembra emergere chiara l’idea che l’unificazione delle economie e dei sistemi finanziari da sola non basta a creare coesione e voglia di costruire insieme un’entità europea che oltrepassi e abbatta i confi ni nazionali. Va prendendo coscienza che questo processo di integrazione richieda non solo la comunione di beni e servizi ma anche l’identificazione di un sistema di valori che superi le differenze storiche e culturali dei popoli e le loro peculiarità. Per dare un senso di appartenenza a popoli diversi per storia, lingua e tradizione occorre infatti individuare quei valori comuni che stanno alla base delle nostre culture e radici storiche. Una identificazione che scaturisce dalla comprensione e dal rispetto delle diversità culturali, identità e memorie dei singoli Stati. È da questo approfondimento che possono emergere infatti quei valori condivisi a cui le guerre e i conflitti del passato non hanno impedito di diffondersi e di radicarsi in profondità negli animi e nelle coscienze di tutti. Così una palese ed esplicita dichiarazione dei valori comuni dei popoli, in cui ci si possa identificare e trovare un senso di appartenenza, diventa oggi, nel momento più critico per l’Europa, segnato dall’ingente flusso migratorio che arriva dal medio oriente e dell’Africa, la grande sfida strategica per affrontare quella profonda e radicale evoluzione sociale e culturale che la tecnologia digitale, l’intelligenza artificiale e l’economia della condivisione stanno provocando.
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LA RIVISTA DI RIFERIMENTO PER I CEO E TOP MANANAGEMENT DELLE IMPRESE DI ECCELLENZA PER INNOVAZIONE E LEADERSHIP
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