EDITORIALE
Non c’è crescita senza un forte impegno intellettuale Angela Maria Scullica @AngelaScullica
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egli ultimi anni il divario tra chi riesce ad avanzare, a produrre e a fare soldi e chi rimane indietro, e getta la spugna si è fatto sempre più ampio e profondo. A fronte delle poche imprese italiane che hanno saputo muoversi e innovarsi in un mondo globale e tecnologico, moltissime altre hanno invece dimostrato di non farcela dibattendosi in un pantano di improvvisazione, inefficienza, mancanza di fondi e di idee. Un duro processo di selezione che ha dato spazi e opportunità di crescita alle prime, alimentando così le distanze e le disuguaglianze sociali. Lo stesso dicasi degli individui. Anche qui si sono radicalizzate le divergenze tra una minoranza che si prepara, approfondisce, conosce ed è pronta a recepire l’innovazione in tutti i campi e una gran maggioranza che resta alla superficie delle cose senza trovare la forza e la volontà di entrare a fondo nella storia passata e presente per affrontare con sicurezza, energia e positività il mondo nuovo di oggi. Le cause che hanno provocato nel bene e nel male questa spaccatura sono molteplici, basti pensare solo al fatto che nel giro di pochissimo tempo il mondo è passato da un’era di limitato accesso all’informazione ad una di veloce e ampia fruizione e di stretta interconnessione nel tempo e nello spazio con tutti i relativi sconvolgimenti epocali che questa complessa transizione comporta in termini di mentalità, cultura, lavoro, relazioni, equilibri e gli immensi sforzi di adattamento e di innovazione che un cambiamento di tale portata richiede in tutti i campi. I Paesi più aperti all’innovazione sono riusciti ad affrontare meglio l’evoluzione e il progresso, quelli meno, come l’Italia, hanno avuto (e hanno tuttora) grosse difficoltà. Nel nostro caso poi, alla scarsa preparazione tecnologica si è affiancata anche un atteggiamento diffuso volto all’appiattimento culturale, alla mancata valorizzazione dei talenti, al basso interesse per la ricerca e l’iniziativa privata. Il risultato, sotto gli occhi di tutti, si manifesta in modo evidente in questo divario sempre più ampio tra chi riesce ad individuare
le opportunità e quindi a crescere e chi subisce passivamente le mutazioni in corso. In campo finanziario per esempio l’ultimo rapporto sugli investimenti delle famiglie italiane presentato dalla Consob conferma la scarsa cultura economica di base esistente in Italia. In questi anni di crisi, negli italiani è prevalso l’atteggiamento passivo di tenere i propri risparmi liquidi piuttosto che diversificarli in investimenti. Una situazione questa di appiattimento e decrescita che la deflazione e la forte ondata migratoria a cui siamo sottoposti potrebbe rendere esplosiva. È facile infatti in un terreno dove la povertà aumenta, la ricchezza si concentra nelle mani di pochi, possano facilmente attecchire idee populiste, estreme e radicali che potrebbero portare il Paese in una pericolosa spirale. Diventa quindi di estrema importanza oggi mirare a correggere questo modo di essere promuovendo, con ogni mezzo, cultura, conoscenza e preparazione. Azioni non semplici che, se non vengono affrontate in un’ottica globale, non riescono a raggiungere l’obiettivo come hanno dimostrato gli scarsi risultati raggiunti dalle varie iniziative di educazione finanziaria portate avanti da più parti senza una regia unitaria. Una strategia che premi i talenti e che, nello stesso tempo, aiuti i più deboli a trovare una strada. Gli sforzi in questo senso non mancano. Il piano del Governo “Industria 4.0” prevede, tra le varie cose, un incremento medio annuo della spesa privata in ricerca e sviluppo-innovazione di 7 miliardi, per passare da 13 a 20 miliardi incentivi per il venture capital e per le startup, un Fondo dedicato a startup dell’Industria 4.0, detrazioni fiscali fino al 30% per investimenti fino a 1 milione in startup e pmi innovative, assorbimento da parte di società “sponsor” delle perdite di startup per i primi 4 anni. Occorre però ricordare che in un mondo sempre più globale non c’è crescita economica senza un forte impegno intellettuale. Impegno che va perseguito con vigore e determinazione. Una grande sfida culturale a cui la tecnologia offre numerosi mezzi.
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MONDO NUOVO
Più sicurezza per tutti in Europa Frank-Walter Steinmeier
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Ministro degli Esteri della Germania
a sicurezza dell’Europa è minacciata. Mentre alcuni anni fa questo potevamo appena immaginarcelo, oggi la preoccupazione per la sicurezza dell’Europa si colloca in primissimo piano nella nostra agenda politica. Già prima del conflitto in Ucraina si era fatta di nuovo percepire una contrapposizione tra i blocchi a lungo ritenuta superata. Non più come antagonismo tra comunismo e capitalismo, bensì come confronto sul giusto ordine sociale – su libertà, democrazia, stato di diritto e diritti umani – e come competizione per le sfere di influenza geopolitiche. Annettendo la Crimea contro il diritto internazionale, la Russia ha messo in questione i principi fondamentali dell’architettura della pace europea. Le strutture dei conflitti sono cambiate drammaticamente: acquistano importanza forme ibride di contrapposizione e soggetti non statali. Le nuove tecnologie celano anche nuovi pericoli: capacità cibernetiche offensive, droni armati, robotica, sistemi di combattimento elettronici, armi laser e a distanza. I nuovi scenari operativi – unità più piccole, maggiore forza d’urto, dislocazione più rapida – non vengono contemplati dagli attuali regimi di trasparenza e controllo. Si rischia una nuova, pericolosa spirale di riarmo. Gli schemi di conflitto sono diversi, eppure è ancora vivo un ricordo: in mezzo ai giorni più freddi della Guerra Fredda Willy Brandt osò compiere i primi passi della politica di distensione, contro una forte resistenza. Al di là di tutte le divisioni, cercò gli elementi comuni e li trovò nei Trattati con i Paesi dell’est e nei principi contenuti nell’Atto Finale di Helsinki. La pace in Europa, l’eredità della politica di distensione, negli ultimi due decenni l’abbiamo data per scontata. Adesso è di nuovo tutto in gioco. Tra la Russia e l’Occidente si sono aperti profondi fossati che temo non potremo richiudere così velocemente, nemmeno con i massimi sforzi. Solo una cosa è certa: senza tali sforzi la pace in Europa e al di fuori di essa sarà fragile. Le ricette del passato non sempre servono , ma le lezioni della politica di distensione sono tuttora valide. La sicurezza non è un gioco a somma zero. Non dobbiamo nemmeno smettere di cercare possibilità e ambiti di sicurezza cooperativa. Pertanto abbiamo bisogno di concrete iniziative per la sicurezza. Nessuno dovrebbe farsi illusioni sulle difficoltà e su ciò che ora è possibile: soprattutto oggi, in un mondo uscito dai cardini, nel mezzo di tutti i conflitti, nell’Ucraina orientale, in Siria e in Libia, in un’epoca in cui non siamo immuni da una nuova escalation e ulteriori ricadute. Ma proprio per questo sostengo un rilancio del controllo degli armamenti come mezzo comprovato di trasparenza, prevenzione dei rischi e creazione di fiducia. Dal Rapporto Harmel del 1967 l’Occidente nelle sue relazioni con
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la Russia punta sulla doppia strategia della deterrence e della détente. Al Vertice di Varsavia la Nato ha riaffermato questa doppia strategia. Noi abbiamo stabilito la necessaria riassicurazione militare e al contempo abbiamo ribadito la nostra responsabilità politica per la sicurezza cooperativa in Europa. La deterrenza è concreta e visibile a tutti. Ma anche l’offerta di cooperazione dev’essere concreta! Altrimenti viene meno l’equilibrio, sorgono percezioni errate e rimane poco da contrapporre a una spirale di escalation. Gli esistenti regimi di controllo degli armamenti e disarmo stanno sgretolandosi da anni. Un rilancio del controllo degli armamenti convenzionali a mio avviso deve riguardare cinque settori. Necessitiamo di accordi che definiscano i limiti massimi regionali, le distanze minime e le misure di trasparenza (soprattutto nelle regioni sensibili sul piano militare, ad esempio i Paesi baltici), tengano conto delle nuove capacità e strategie militari (oggi non parliamo tanto di classici eserciti pesanti, quanto piuttosto di unità più piccole e mobili, pertanto dovremmo ad esempio considerare anche la capacità di trasporto), includano nuovi sistemi di armamenti (ad esempio i droni), consentano effettive verifiche: rapidamente realizzabili, flessibili e indipendenti in tempi di crisi e siano applicabili anche in regioni il cui status territoriale è controverso. Sono questioni complesse e difficili. Qui vogliamo un dialogo strutturato con tutti i partner responsabili della sicurezza del nostro continente. Un importante forum di dialogo a tal fine è l’Osce, di cui la Germania quest’anno detiene la presidenza. Una simile impresa può avere successo in questi tempi di erosione dell’ordine mondiale e volgendo lo sguardo alla Russia? Ammetto che non è certo. Ma rinunciare per questa ragione a fare un tentativo sarebbe da irresponsabili. Sì, la Russia ha violato fondamentali principi di pace. Questi principi – integrità territoriale, libertà di scegliere i propri alleati e accettazione del diritto internazionale – per noi non sono negoziabili. Tuttavia al tempo stesso deve accomunarci l’interesse di impedire ogni ulteriore inasprimento della spirale di escalation. Condividiamo l’opinione che il nostro mondo è diventato più pericoloso: il terrorismo islamista, gli aspri conflitti in Medio Oriente, gli ordini statali che si sfaldano e l’emergenza rifugiati ci mettono tutti in pericolo. Le nostre capacità nella politica di sicurezza, sia in Occidente che in Russia, sono ai limiti estremi. Nessuno vince, tutti perdono se ci stremiamo in una nuova corsa agli armamenti gli uni contro gli altri. Con un rilancio del controllo degli armamenti possiamo avanzare una concreta proposta di cooperazione, ossia a tutti coloro che vogliono assumere la responsabilità per la sicurezza in Europa. È ora di tentare l’impossibile…
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SCENARI
ECONOMIA E FINANZA
I dubbi di un mondo in affanno L’autunno si apre con una serie di pesanti interrogativi che non trovano facili risposte. La situazione in Medioriente e la stretta interconnessione delle economie lasciano aperti molti fronti Mario Lombardo
L’
autunno si apre su uno scenario in cui i dubbi in molti campi, dalla politica all’economia, prevalgono sulle certezze. Per esempio, quanto durerà ancora la crisi siriana e a che prezzo per la popolazione? E ancora, che cosa deve aspettarsi la Turchia di Erdogan dopo la soppressione della libertà di stampa, le epurazioni, gli arresti e migliaia di incarcerazioni? Che farà l’europa dopo Brexit e la Germania dopo l’affermazione dell’ultradestra in Meclemburgo?
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E c’è almeno una possibilità che quest’anno il nostro Pil riesca a guadagnare qualche punto percentuale e che si arrivi al referendum senza risse tra i partiti? Rispondere è difficile, bastano le domande per sottolineare la complessità dei problemi in essere e le poche probabilità che ci sono per risolverli. Nel mondo economico uno degli ultimi rebus riguarda l’oro, cresciuto del 28% dal 1° gennaio e improvvisamente calato dell’1,7% nella prima settimana di agosto mentre la sua ascesa sembrava
inarrestabile. Da che cosa è stato originato il deprezzamento? A chi ne ha cercato le cause, si offrono almeno due spiegazioni. La prima è che in quei giorni gli Stati Uniti hanno annunciato, spiazzando gli analisti, che l’occupazione aveva ripreso a crescere, tanto che a luglio si erano creati 255 mila nuovi posti di lavoro. Così, mentre Wall Street stabiliva un record, l’oro cedeva in conseguenza del timore che la Fed, la Federal Riserve americana, visti i risultati economici e occupazionali, accelerasse il rialzo dei tassi,
DISUGUAGLIANZE SOCIALI Sono troppi i Paesi che devono affrontare la crisi del lavoro e in cui aumenta il divario tra ricchi e poveri come al G20 di Pechino, a settembre, ha rilevato Christine Lagarde, a destra, direttore del Fmi, parlando di un ristagno dell’economia mondiale che provoca disuguaglianze sociali sempre più evidenti e un impoverimento del ceto medio in tutti i paesi occidentali
rafforzando il dollaro e rendendo altri investimenti più competitivi dell’oro. La seconda spiegazione è invece legata al fatto che Cina e India hanno ridotto (e ridurranno ancora) gli acquisti di oro, del quale sono i maggiori compratori. La sola Cina, in 12 mesi, ha speso il 24,1% in meno e nel secondo trimestre 2016 addirittura un -36% rispetto al trimestre precedente. Ora il rischio di altri deprezzamenti sembra scongiurato. Soprattutto perché il World gold council (Wgc) si è impegnato molto a sostegno
dell’oro, promuovendolo come forma di garanzia in caso di investimenti rischiosi. L’oro, sostiene il Wgc, agisce come una specie di assicurazione, serve a controbilanciare gli investimenti a rischio e costituisce una sicurezza grazie a un prezzo sostanzialmente stabile, se non in crescita. Un’altra mossa positiva del Wgc è stata poi quella di fare incetta di oro anche se in modo indiretto: in sette mesi infatti gli Exchange trade funds, fondi specializzati in investimenti sul metallo prezioso, e lo Sprd gold
trust fund, legato al Wgc hanno immesso nelle proprie riserve circa 630 tonnellate di lingotti. Preoccupa anche il mercato dei bond. Obbligazioni e titoli pubblici costituiscono una grande fonte di ricchezza, tuttavia 11 mila miliardi di dollari di titoli (una somma con 12 zeri, a seguire le prime due cifre) offrono oggi un rendimento negativo. Nonostante questo un buon numero di grandi investitori globali continua ad acquistare bond puntando su un ulteriore ribasso dei tassi: in pratica, se i tassi scenderanno ancora, come credono costoro, vendendo i bond realizzeranno un profitto. Perché in conto capitale il valore è inversamente proporzionale al rendimento dei bond,e se i tassi diventeranno più negativi i bond varranno di più. Una speculazione ad alto rischio e che può riservare brutte sorprese: se al contrario di quanto hanno previsto i tassi dovessero crescere invece di scendere, il conto capitale degli investitori potrebbe subire grosse perdite. Sul tavolo della finanza c’è anche la questione dei derivati. Una ricerca di Mediobanca ha rilevato che a fine 2015 il valore a prezzo di mercato dei derivati presenti nelle maggiori banche europee era di 4.300 miliardi e superava di tre volte e mezzo il patrimonio degli istituti. Deutsche Bank, Bnp Paribas e Barclays sono in testa alla classifica delle banche più esposte per un valore di 450-500 miliardi ciascuna, mentre in Italia sia Unicredit sia Intesa hanno una esposizione di circa 75 miliardi. Ma le regole di Basilea Settembre 2016 World Excellence
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3 hanno introdotto tuto commentare: un nuovo limite al «La vera questione leverage ratio, stasulla finanza eurobilendo che il rappea non sono i non porto tra capitale e performing loans attivi non potrà esitaliani ma i derivasere inferiore al 3% ti di altre banche». e, anche se questa Un’opinione che norma non entrenon sembra condirà in vigore prima visa da Giuseppe del 2018, è ormai Vita, presidente di chiaro che i nuovi Unicredit, che ha requisiti regolatori sostenuto: «Abbiaintendono porre dei mo davanti una selimiti alle attività firie di dossier da rinanziarie dei grandi TAGLIO STRUTTURALE solvere. La matrice Per ridurre il tasso di gruppi bancari come disoccupazione e sostituire comune è la quantia quelle degli istituti il bonus assunzioni che decade, tà di crediti in soffedi medie o piccole il ministro del Lavoro e dello sviluppo renza delle banche Giuliano Poletti, sopra, propone il dimensioni. taglio strutturale del costo del lavoro. italiane, che credo Così nei paesi eurosia meglio risolvere pei i portafogli dei derivati si sono con l’intervento dello stato». Vita contratti nel corso del 2015, con un ha poi spiegato che, secondo lui, il –30% rispetto al 2014. Credit Suiscrollo delle quotazioni bancarie in se, per esempio, ha ridotto del 57% Borsa: «Non è legato al fatto che le il valore dei derivati che deteneva e banche generano meno utili: ma al Ubs ha fatto lo stesso per un valore fatto che molti investitori internadel 34%. I regolatori svizzeri, degli zionali puntano su altri settori più Stati Uniti e del Regno Unito hanno remunerativi. Qui il ruolo dei regotra l’altro deciso di adottare misure latori è fondamentale: non si capiancora più pesanti rispetto a quelle sce a cosa serve l’enorme liquidità previste da Basilea 3 per scongiuche la Bce cerca di far giungere ai rare i rischi di credito e di mercacittadini, se poi regole sempre più to che, solo quattro anni fa, hanno stringenti rendono nei fatti più difprovocato perdite di 12 miliardi per ficile il sostegno delle banche all’ela banca americana JP Morgan. conomia». Sarà quindi compito del nuovo amministratore delegato di Nel 2016 è però la Deutsche Bank, Unicredit, il francese Jean Pierre una delle maggiori banche tedeMustier, spiegare al proprio presche, a preoccupare gli osservatori sidente come dovrebbe funzionare internazionali per il suo portafogli il meccanismo di finanziamento di derivati, come ha ammesso il all’economia reale da parte degli Fondo monetario internazionale istituti di credito. (Fmi) sostenendo addirittura che Riguardo al lavoro le preroccupa«Deutsche Bank sembra essere la zioni in Italia continuano restare banca che contribuisce di più al elevate. In agosto l’Istat, con il rilerischio sistemico», anche in convamento riferito al secondo trimesiderazione della sua attività e dei stre 2016 ha denunciato la crescita suoi interessi internazionali. Così, zero del Pil ed il calo di fiducia dela fine luglio, Matteo Renzi ha pole imprese e dei consumatori. Dal
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canto suo l’Eurostat avverte che nei primi tre mesi del 2016 l’Italia ha toccato il 37% di disoccupati scoraggiati (+53.000), cioè coloro che il lavoro non lo cercano neanche più e che nelle statistiche vengono definiti “inattivi”, un dato percentuale che è il doppio della media europea. Così per ridurre il tasso di disoccupazione, che secondo l’Istat è dell’11,6%, e sostituire il bonus assunzioni che decade, il ministro del Lavoro e dello sviluppo Giuliano Poletti, propone il taglio strutturale permanente del costo del lavoro. Nelle rilevazioni dell’Ocse l’Italia occupa il quarto posto, in una classifica che prende in esame 34 paesi quanto a peso delle tasse e contributi sui lavoratori dipendenti che da noi è pari al 49%, con una crescita percentuale dello 0,76 nel 2015 rispetto alla media Ocse che è del 35,9%. Al responsabile dell’Economia Pietro Carlo Padoan detto Pier Carlo tocca far luce sullo stato dell’arte così, dopo aver assicurato che rispetto al Pil il deficit continuerà a scendere, sostiene: «Non penso ci sia una stagnazione secolare, ma credo ci siano i sintomi di un malessere profondo: tutto questo però non deve essere causa di rinuncia e di pessimismo». Il ministro, che un tempo criticava da sinistra le teorie keynesiane, ora respinge anche quelle sulla stagnazione nate con la scuola austriaca degli Anni Trenta e riprese recentemente dall’americano Larry Summers, però a Bratislava, al vertice europeo di metà settembre ha proposto un fondo comune da 50 miliardi per aiutare a superare crisi economica e aumento della disoccupazione. Il progetto,chiamato “Fondo europeo per l’indennità di disoccupazio-