Gli artisti di Olivetti. Il dovere della bellezza

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VIA JERVIS/17

RENZO ZORZI

GLI ARTISTI DI OLIVETTI Il dovere della bellezza

EDIZIONI DI COMUNITÀ


Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.


Gli artisti di Olivetti

A differenza di altri settori della sua attività – e vorrei indicare per primi quelli del disegno industriale, dell’architettura e di una grafica applicata soprattutto alla comunicazione di cui si può dire che abbia creato in certo modo un genere, nei quali essa ha operato secondo indirizzi chiaramente intenzionali ed esplicitamente espressi – l’azione Olivetti in ambito artistico è stata meno unitaria, meno continua e incisiva, talvolta prodotta da particolari occasioni, e si è andata svolgendo, con qualche sforamento di cui si dirà, nel ventennio seguito alla fine della seconda guerra mondiale – quello dominato dalla personalità di Adriano Olivetti – attraverso scelte decise da una pluralità di persone e perseguite secondo indirizzi, gusti e attitudini non identici e obbedienti ad altre logiche rispetto a quelle riscontrabili nei settori sopra indicati. La ragione è molto semplice e può essere subito detta. Sull’indirizzo di questi altri settori ha operato in modo non solo palese ma si può dire senza quasi discontinuità l’azione diretta di Olivetti, dal momento in cui cominciò ad assumere nell’impresa responsabilità operative (grossomodo dai secondi anni Trenta del ventesimo secolo e fino alla morte, nel 1960). Si


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trattava in primo luogo di settori in cui egli vedeva manifestarsi in modo immediato, e che quindi non poteva non essere limpidamente percepibile, non solo i valori essenziali e in certa misura costitutivi, l’individualità e l’identità dell’impresa, i suoi prodotti, la specificità dei suoi insediamenti, perfino il suo linguaggio e lo stile della sua comunicazione, ma la sua stessa essenza, la moralità e coerenza, la ragione profonda del suo essere, e la funzione culturale e sociale che la sua stessa esistenza la chiamava a svolgere. Questo in particolare quando l’azione industriale non era semplicemente motivata dalle ragioni economiche che l’avevano indotta, ma intendeva assolvere a scopi in certo modo più cogenti e sentiti come necessari di sviluppo umano e di progresso tecnico a cui non le era lecito sottrarsi. Non c’è dubbio che tali motivazioni sono state presenti nelle intenzioni degli Olivetti, e non solo del fondatore Camillo, ma dei suoi figli e in particolare di Adriano: la loro stessa vita, le idee che propugnarono, l’impegno personale che misero in ogni loro azione, la disperata determinazione dei momenti difficili, il disinteresse, la passione civile che vissero con semplicità ma a un grado che non si può non chiamare eroico, sono la dimostrazione che nel dare vita a una impresa che, nel 1908 e decenni seguenti, in Italia, produceva scrittura e calcolo meccanici, comunicazione attraverso tutti gli alfabeti del mondo, trasmissione di dati, arredamenti di ufficio, e via via elettrificazione delle macchine che riduceva sensibilmente la fatica dell’operatore, e all’ultimo affrontava la rivolu-


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zione elettronica e informatica che ne erano seguite — trasformazione immensa e rivoluzionaria che ha costituito la base e ha prodotto l’avvento di una nuova civiltà umana, fornendo lo strumento operativo a tutte le scienze e tecniche quali ora stanno svolgendosi – tutto questo non obbediva solo a speranze di investimento remunerativo, seppur necessario perché il profitto è nell’impresa una misura dell’efficienza e la condizione dello sviluppo, ma vi era anche la consapevolezza e la volontà di rendere un servizio alla società e al Paese, alla sua modernizzazione, al suo progresso, al suo stesso prestigio internazionale. La fabbrica rappresentava insieme il presupposto per la trasformazione sociale di un territorio e per migliori livelli di vita materiale e spirituale per migliaia di persone che sarebbero affluite nei suoi stabilimenti, alle quali si doveva provvedere, anche al di là del lavoro, radicandole alla loro terra, creando le opportunità per una nuova vicenda umana, ponendo le condizioni di un altro destino. Se questi erano i sentimenti e i compiti, espressi del resto in numerose occasioni, ciò rendeva necessarie scelte coerenti con quella specifica imprenditorialità. Prodotti che per la loro stessa funzione e per le caratteristiche che presentavano, sarebbero stati a contatto quotidiano e per molte ore al giorno con l’utilizzatore, richiedevano soluzioni non solo di più gradevole apparenza, e con qualità che permettessero di affrontare la concorrenza di giganti industriali, quali allora dominavano il mercato mondiale, ma studiate e progettate per adattarsi all’organizzazione più avan-


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zata del lavoro, alla produzione di grande serie (basterà ricordare che qualcuno di questi prodotti, come la Lettera 22/32, ha superato i quindici milioni di esemplari venduti), alle esigenze di mercati diversi e molto sofisticati, alle variazioni continue che lo stesso progresso tecnico imponeva. Perché non avrebbero dovuto, anche nelle forme, corrispondere a una cultura del design che cominciava a tener conto di tutti i fattori della produzione industriale senza dimenticare i valori estetici che alcuni propugnatori del nuovo e qualche scuola avanzata di arte applicata stavano elaborando? Perché non farsene promotori attraverso sistemi produttivi che inglobassero i valori formali nel progetto applicandoli con lo stesso rigore e metodo con cui si applicavano i risultati delle ricerche tecniche che l’impresa ogni giorno promuoveva? Ma se un approccio di disegno industriale era la soluzione razionale del lavoro di serie nell’epoca in cui le macchine erano prodotte da altre macchine e questo condizionava le strutture delle attrezzature negli spazi industriali, perché non rivedere la forma degli stabilimenti, non renderla coerente con questa necessità, perché non adottare nella nuova architettura industriale le forme, le materie, i suggerimenti tecnici e funzionali che avrebbero trasformato i luoghi di lavoro, il cui impatto incideva così pesantemente sulla realtà dell’organizzazione urbana, ne degradava le periferie, teatro della prima e della seconda rivoluzione industriale? Perché edifici dove lavoravano intelligenze tecniche e scientifiche spesso di avanguardia, e che costituivano un evidente luogo di emancipazione


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sociale, di innovazione produttiva e di conquista culturale, non avrebbero dovuto contribuire a ricreare le forme fisiche del vivere civile, un rinnovamento delle città, un arricchimento estetico del territorio? Perché l’industria, elemento evidente di progresso, non avrebbe dovuto avere una funzione interamente positiva, creare ambienti di agio, di benessere fisico e morale che alleviasse il peso comunque ineliminabile del lavoro, la noia dei ritmi costrittivi, la routine ripetitiva del lavoro di serie? E perché paesaggi spesso privilegiati come quelli italiani, centri storici su cui i secoli avevano lavorato determinando proporzioni, atmosfere, armonie, creando spazi veramente a misura d’uomo, venivano abbandonati a costruzioni indecorose, volgari, capaci di produrre solo solitudine ed estraneità? E ciò quando le nuove tecniche edilizie, i nuovi materiali, una rinata creatività progettuale, l’uso delle grandi macchine, la stessa strutturazione del lavoro, le esigenze sanitarie di chi dentro quelle mura vedeva sfiorire la vita, stavano rendendo possibili mutamenti radicali nelle forme, e istituzioni di ricerca e nuovi maestri del costruire e dell’ordinare il territorio stavano proponendo e attuando insediamenti che per essere possibili si presentavano per ciò stesso come moralmente imperativi? E così, in tutti gli altri settori della vita industriale. Poteva una impresa fondata sul prodotto scrittura, su tecnologie che permettevano leggibilità, perfezione formale dei caratteri quali la tipografia aveva istituzionalizzato – contro le singolarità spesso disordinate e oscure della scrittura a mano, frequentemente illeggi-


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Renzo Zorzi, Gli artisti di Olivetti © Edizioni di Comunità 2018 © Eredi Renzo Zorzi ISBN 978-88-32005-05-9 In copertina: Costantino Nivola, Studio per il pannello decorativo per lo showroom Olivetti di New York, 1953-54. © Courtesy Fondazione Nivola Redazione: Angela Ricci, Andrea Crisanti de Ascentiis Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab

Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino facebook.com/edizionidicomunita twitter.com/edcomunita www.edizionidicomunita.it info@edizionidicomunita.it


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