Alessandro
PASSERIN D’ENTRÈVES
OBBEDIENZA E RESISTENZA
Le leggi vanno sempre rispettate? EDIZIONI DI COMUNITÀ
Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.
Indice
Introduzione Scopo e necessità della filosofia politica
11
Capitolo 1 A chi obbedire?
28
Capitolo 2 Legalità e legittimità
53
Capitolo 3 Sulla natura dell’obbligo politico
68
Capitolo 4 Sul concetto di libertà politica
90
Capitolo 5 In difesa delle autonomie
108
Capitolo 6 Senso e limiti del laicismo
115
Capitolo 7 Obbedienza e resistenza in una società democratica
137
Note 159
Obbedienza e resistenza in una società democratica
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Una società politicamente organizzata, uno Stato che voglia realmente rispettare quei diritti inviolabili di cui parla la nostra Costituzione, dovrebbe a mio avviso, in tutti quei casi che coinvolgono principi, in cui sono in gioco cioè le convinzioni morali più profonde dell’individuo, spingere la tolleranza del dissenso fino all’estremo limite possibile, e ciò non soltanto per non venir meno al proprio principio ispiratore, ma nel suo stesso interesse, non avendo nulla da guadagnare da un’adesione forzata, da una sottomissione imposta e di conseguenza infida e precaria, ai propri comandi. So bene, ahimè, che la virtù che ho appena invocato, la tolleranza, non gode più oggi di molto favore, specie fra i giovani. Lo sviluppo attuale della società democratica, della “società industriale avanzata”, essi dicono, ha distrutto le basi stesse della tolleranza: ciò che si pratica in nome di essa è in realtà favoreggiamento delle opinioni dominanti e quindi repressione mascherata. Al suo posto, in vista della costruzione di una società nuova, viene invocata una nuova, santa, intolleranza, che, a quanto pare, potrebbe giungere fino alla soppressione della libertà “liberale”, alla censura preventiva e ad altri provvedimenti simili. Confesso che non posso pensare senza orrore all’avvenire che questi giovani si preparano, che anzi li attende se dovessero prevalere le dottrine da cui sembrano oggi sedotti. Da parte mia ritengo che la tolleranza, o meglio il rispetto di tutte le opinioni, sia una fra le maggiori conquiste del vivere civile, e che una società in cui tale rispetto sia assicurato e realmente praticato sia preferibile a qualsiasi altra. Ma so anche, per averlo appreso dall’esperienza e dalla storia, che tale conqui-
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Obbedienza e resistenza
sta è legata all’esistenza di un potere politico sufficientemente forte da saper insieme garantire il dissenso ed esserne garantito. Penso alla libertà religiosa, che lo Stato moderno ha potuto assicurare proprio e solo da quando non ha più avuto da sollecitare l’appoggio della religione né da temerne il richiamo. Penso al libero gioco dei partiti, inconcepibile in quei regimi assoluti che di solito e a torto vengono considerati i più saldi. Ne concludo che, rinunciando a imporre la volontà della maggioranza alla minoranza dissenziente, quando non sia minacciata la stessa convivenza pacifica dei suoi membri, una società democratica dà prova non di debolezza ma di forza. Mi sembra questo un argomento importante per la soluzione del problema che qui ci interessa. Ma queste mie considerazioni valgono soltanto se integrate con alcune altre, soltanto cioè a condizione che il problema stesso venga affrontato, oltre che dal punto di vista della società, anche da quello del cittadino. E qui dico subito che, per ammettere la liceità del rifiuto di obbedienza, mi pare ovvio che siano da richiedersi delle buone e valide ragioni. Se veramente, come notavo poc’anzi, le due sole fonti della certezza morale possono essere la voce della coscienza o il dettame di una norma superiore, è chiaro che l’appello all’una o all’altra dovrà essere accuratamente vagliato dalla società o dai suoi rappresentanti per ottenere la prova che, in determinate circostanze, disubbidienza e resistenza sono giustificate: prova che, nel caso della coscienza, non può essere altro che la sua autenticità, nel caso di una legge più alta, la sua universalità e autorevolezza. Certo, il secondo caso sarà più facile
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da risolvere del primo, come si può constatare paragonando la situazione degli obiettori di coscienza per motivi religiosi con quella degli obiettori di ispirazione razionalistica e laica. Ma in entrambi i casi l’accertamento della sincerità e del fondamento del rifiuto non dovrebbe essere troppo difficile a un giudice volonteroso e imparziale, il giorno in cui anche nel nostro paese, come in tutti i paesi civili, verrà introdotta l’auspicata legislazione a riguardo. Fatta questa premessa, quello che importa ora sottolineare, e ricordare se necessario agli obiettori e ai contestatori, è che la norma positiva alla quale si rifiuta l’obbedienza è pur sempre una norma posta democraticamente: non è il comando di un tiranno, ma l’espressione dei sentimenti, dei desideri, della volontà della maggior parte dei membri della società in cui ci troviamo a vivere: e come tale anch’essa, a sua volta, è meritevole di rispetto, o perlomeno di tolleranza. È proprio quello che notavo nella mia battuta iniziale: chi ha la vocazione del martire, cerchi il fatto suo sotto un tiranno piuttosto che in una democrazia. Disobbedienza e resistenza non possono essere considerate, in una società democratica, se non come l’ultima ratio: non solo perché, come ho già detto, l’una o l’altra possono trovare giustificazione soltanto nei casi che implicano questioni di principio, e non di semplice opportunità o convenienza; ma perché anche l’obiettore e il contestatore, in una società di questo tipo, rimangono soggetti a quella che ho chiamato la regola del gioco democratico, l’accettazione di tutte le norme democraticamente poste che non sollevano direttamente una questione morale: e tali sono in maggior parte le
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norme che commisurano la pena alla violazione o al rifiuto di quelle altre norme che prescrivono gli obblighi dei cittadini. A me sembra, in altre parole, che coloro i quali, in una società democratica, reclamano per sé il privilegio di disubbidire alle leggi, non possono legittimamente rifiutarsi di pagarne il prezzo: quale prezzo d’altronde potrebbe essere troppo alto per il beneficio di comportarsi secondo i propri principi e le proprie convinzioni? Si aggiunga che, in una società come questa, le pene non sono arbitrarie: sono anzi stabilite chiaramente e rese di pubblica ragione. Volere sospese anche queste non sarebbe chiedere un po’ troppo, quando già si è preteso di sospendere in proprio favore gli obblighi ai quali si sottomettono tutti gli altri cittadini? E non è del tutto arbitrario chiamare repressione quella che non è altro che la conseguenza prevedibile e certa del nostro atto e che anzi conferisce a quell’atto il suo valore morale? Con questa ultima osservazione credo veramente di essere giunto alla parte conclusiva, che sarà anche, temo, la più discutibile, di questo mio lungo discorso. Ho detto che, a parer mio, in una società democratica ci dovrebbe essere il maggiore posto possibile per il dissenso, per l’obiezione di coscienza, per la contestazione. Ma dico anche e l’ho d’altronde già detto implicitamente, che in questa società non ci può essere posto per la violenza, perché la sua regola non è la forza, ma la ragione. Ma se non c’è luogo qui per la violenza, per il tirannicidio, c’è pur luogo per qualche altra forma di resistenza, meno cruenta, ma pure efficace: la resistenza passiva, o, come anche si chiama, la disobbedienza civile. È una via che è stata indicata da uomi-
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ni nobili e generosi, i quali l’hanno seguita e praticata anche in circostanze che pure avrebbero giustificato ben altri mezzi, ben altre ribellioni. Ebbene, resistenza passiva non significa soltanto rinuncia alla violenza: significa accettazione volontaria della sofferenza, come strumento per il trionfo della giustizia e della verità. «Sotto un governo che imprigiona gli uomini ingiustamente», scrive Thoreau, il grande apostolo della disobbedienza civile, «il vero posto per l’uomo giusto è la prigione [...] Chi crede che la sua influenza vi andrebbe perduta, e che la sua voce non potrebbe più giungere a turbare l’orecchio dei governanti, non sa quanto sia più forte la verità dell’errore, né quanto più eloquentemente ed efficacemente può combattere l’ingiustizia chi l’abbia un poco provata su di sé»70. Una resistenza di questo tipo, sperimentata con successo in circostanze ben più gravi e difficili di quelle in cui ci troviamo oggi, è la sola consentita in una società libera, perché, paradossalmente, concilia la fedeltà ai principi con il rispetto della legge, i due pilastri su cui quella riposa. Tra i suoi molti meriti c’è anche quello, non certo indifferente, di permettere di distinguere il vero dal falso obiettore di coscienza, il vero dal falso contestatore. La nostra approvazione, la nostra stima, infatti, non vanno a chi vuole fare l’eroe senza correre rischi, a chi dopo aver violato la legge cerca o pretende addirittura di farla franca: vanno invece a chi, contro l’opinione dei più, ha il coraggio di denunciare apertamente la legge che considera ingiusta, invocando non già il diritto, ma il dovere di farlo, e contribuendo con il soffrire la pena che la legge gli commina, all’avvento di una legge migliore e di una società più libera.
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La conclusione che qui propongo vale quel che vale: non sono certo tanto ingenuo da credere di potere, con un semplice ragionamento, convertire alla nonviolenza coloro che, convinti della necessità di scalzare dalle fondamenta il vecchio ordine di cose, dichiarano di non accettarlo più né in tutto né in parte, e si considerano in stato di guerra aperta con l’attuale società. Il mio ragionamento, me ne rendo ben conto, può sperare di far presa soltanto su coloro che, come me, si pongono per così dire all’interno del sistema, che parlano la stessa mia lingua e considerano tuttora valide le regole di un certo gioco. Con gli altri, ovvero con coloro la cui contestazione è veramente “globale”, temo purtroppo che sia molto difficile stabilire un dialogo costruttivo. Tutto quello che si può fare è prendere atto dello stato di guerra o di guerriglia esistente; ma non già soltanto allo scopo, pur giustificato e legittimo, di stornarne i pericoli e di circoscriverne gli effetti, bensì anche per trarne motivo di riflettere sulla precarietà di certe conquiste che ci parevano sicure, e per tentare di compiere di queste una ragionata difesa.
Alessandro Passerin d’Entrèves, Obbedienza e resistenza © 2018 Comunità Editrice, Roma/Ivrea 1ª edizione © 1970 Edizioni di Comunità ISBN 978-88-98220-87-8 Redazione: Angela Ricci, Andrea Crisanti de Ascentiis Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab
Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino
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