La voce di Matera. Storie da La Martella

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FRANCESCO PAOLO FRANCIONE

LA VOCE DI MATERA Storie da La Martella

EDIZIONI DI COMUNITÀ


Ognuno può suonare senza timore e senza esitazione la nostra campana. Essa ha voce soltanto per un mondo libero, materialmente più fascinoso e spiritualmente più elevato. Suona soltanto per la parte migliore di noi stessi, vibra ogni qualvolta è in gioco il diritto contro la violenza, il debole contro il potente, l’intelligenza contro la forza, il coraggio contro la rassegnazione, la povertà contro l’egoismo, la saggezza e la sapienza contro la fretta e l’improvvisazione, la verità contro l’errore, l’amore contro l’indifferenza.


Indice

Matera: una stazione della Storia 7 di Giovanni Caserta Premessa 29 L’eco dei Sassi

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Una nuova casa

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I figli de La Martella

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Giuseppe, 1921

Sono nato e cresciuto a Rione Pianelle e lì trovai casa quando mi sono sposato: un cortile su cui si aprivano le porte di una decina di case, un bel vicinato, si litigava e ci si voleva bene. Le terre che lavoravamo in affitto, nella zona di S. Lucia, appartenevano ai Giura Longo, ma furono espropriate e mi misi a cercare altri padroni e altre terre per mantenere la famiglia. La fortuna mia fu che conoscevo Pasquale, un uomo molto attivo, simpatico e socievole, capace di buoni rapporti anche con il sindaco e con le autorità. Fu lui, devo riconoscere ciò che è giusto, a indicarmi la strada per trovare una soluzione alle mie preoccupazioni: «Perché non ve ne venite a La Martella?» mi disse «avrete una bella casa e tante buone terre che non vi faranno rimpiangere quelle che lavoravate». Anche lui, da alcuni mesi, se n’era andato nel borgo e avevano salutato con una grande festa il capo del governo, De Gasperi; ora stavano arando e seminando le terre a due passi da casa e stavano allevando animali da latte: era una vita nuova, mi spiegava tutto contento. Andammo insieme negli uffici dell’Ente Riforma, ma lì risultava che io ero già proprietario di terre, di quattro o cinque tomoli. “Compa’» dissi con gli occhi


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stralunati al capo azienda «ma che dite? Quelle sono terre in affitto, magari fossero nostre!». E mentre l’equivoco burocratico andava chiarendosi, mia moglie s’era già messa in movimento e stava facendo il diavolo a quattro. Avendo sentito che qualche vicina era andata a scegliere la sua tra le case nuove del borgo e che aveva già in mano le chiavi della sua abitazione, cominciò a spingermi perché mi dessi da fare per non rimanere senza. Sono proprio le donne che muovono il carro nei momenti decisivi! Io volevo le terre, ma avrei preferito restarmene a Matera per tanti motivi; capii, però, che bisognava trasferirsi e che non si poteva avere la botte piena e la moglie ubriaca, sicché, appena tutto fu chiarito, il Leoncino OM dell’Ente fu messo a nostra disposizione per scasare letto, armadio e poche sedie. Presi la vacca dall’Ente, ma mi morì, era impazzita e non voleva allattare il vitellino perché il veterinario non aveva dato il quarto. Decisi allora di comprare un’altra bella vacca da Marcangelo, il nostro vicino e, quando questa doveva partorire, mi fidai del veterinario. E per forza! Che ne capiamo noi! Le possiamo crescere le vacche, ma farle partorire, soprattutto se spunta qualche problema, non è compito nostro. Purtroppo anche questa vacca morì, al parto qualcosa non andò bene, ma il vitello se la cavò e lo facemmo allattare da una mucca dello stesso Marcangelo, pagandogli il latte; poi mia moglie imparò a dargli il latte mettendogli un dito in bocca, quasi come il biberon che si dà a un bambino e crebbe e diventò un vitello robusto che era un piacere a vederlo. Tanto lavoro e


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grandi sacrifici, non mancavano motivi di malcontento, ma non tutto può essere perfetto su questa terra e, ciò che è giusto, potevamo ringraziare il Padreterno per come stavano cambiando le cose per noi. Avevamo già due bambine e La Martella mi portò fortuna perché lì nacque il maschio che, inutile negarlo, volevamo assai. C’era stata assegnata una bella quota di terreni alle Matinelle, terre favolose, appartenute ai Malvezzi-Malvinni, che noi contadini mai avremmo potuto manco sognare; eravamo un bel gruppo, vicini di casa e di quota, sicché si aveva la sensazione d’essere un’unica grande famiglia. Davanti alle case, seduti sul marciapiede, d’estate, si facevano grandi discussioni, le donne, tra di loro pacifiche e ciarliere, si preoccupavano per i nostri toni di voce che talvolta preannunciavano litigi e rotture che avvelenavano l’aria del vicinato sul quale, comunque, per volontà di Dio, spesso calava il dolore. Quella mattina che morì Francesco, mia figlia tardò a convincersi che doveva venire con me in campagna e facemmo un po’ tardi; dovetti pregarla e insistere con lei che pure era mite di carattere, ma non era più una bambina e aveva i suoi problemi. Insomma, quando arrivavamo alle Matinelle, il sole s’era già alzato e pensavo che quel buon uomo, con la moglie, avevano già fatto alcune ore di lavoro, nel vigneto a raccogliere i sarmenti. Guardavo verso di loro per gridargli un saluto, quando mi accorsi che Francesco se ne stava cadendo a terra e la moglie non lo vedeva perché stava andando in senso contrario a depositare il suo fascio di sarmenti sul monticello che avrebbero poi fatto


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bruciare. Fermai il traino, dissi alla ragazza di badare a Martino che era un mulo tranquillo e mi precipitai verso di loro; la moglie cominciò a gridare preghiere straziate dal pianto, mentre io davo voce e chiamavo in aiuto Giovanni, ‘u ciuquaril che, distante qualche centinaio di metri, stava facendo lo stesso lavoro. Cercammo di sollevare il poveretto, lo caricammo sul traino, la moglie gli mise un sacco sotto la testa per cuscino, lo portammo a casa a La Martella e di lì all’ospedale. Ci dissero che se fossimo arrivati mezz’ora prima, si sarebbe forse potuto salvare. Un altro buon amico era Antonio, la casa poco più giù della nostra e le terre a fianco alle mie, separate solo da un tratturo. Era un po’ andato con la testa, la moglie prendeva botte e faceva figli ogni anno e lui si portava spesso i piccoli in campagna e lo vedevamo giocare con loro come un bambino. Dopo alcuni anni, la donna andò via con i figli e lo lasciò solo. Fu la sua fine. Abituato a vederlo sul cancello di casa e a scambiare qualche chiacchiera di saluto, mi insospettii non vedendolo da qualche giorno. Dissi a mia moglie che la cosa mi preoccupava e lei mi spinse ad andare a vedere; bussai, ma la porta era sempre aperta, giorno e notte. Seduto sulla sedia, con i mutandoni e le scarpe slacciate, gli occhi chiusi, una smorfia di dolore sulla faccia e un sottile filo di dolorosa cantilena, mentre si teneva con le mani pancia e stomaco. Cercai le medicine ma dal comò fuoruscivano cose indescrivibili. Andai a chiamare il medico, il dott. Pisciotta, che riceveva ogni sera in ambulatorio e poi passava per le case a visitare gli ammalati; fu gentile e venne subito con me


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a vederlo, prescrisse delle medicine e l’infermiera gli fece subito una puntura. Antonio quella notte riposò e poi lentamente si riprese, ma poco tempo dopo morì sull’autobus mentre andava a Matera per una visita di controllo. All’inizio degli anni Settanta i figli cominciarono a sistemarsi e nacquero i nipoti che portavano i nostri nomi; noi eravamo più sereni e ci siamo concessi un viaggio a New York per fare visita a una sorella di mia moglie che era venuta con la sua famiglia a La Martella, nel ’55. Volevamo anche noi vedere l’America e la visita in quel nuovo mondo mi fece capire che i tempi stavano cambiando anche per noi. Decidemmo di vendere il mulo e le vacche per comprare un piccolo trattore e continuare così ad arare l’uliveto e a seminare quegli ettari di terra che ora, con le macchine, ci si sbrigava in pochissimo tempo. Ma i motori, talvolta, sono più capricciosi delle bestie e ti fanno perdere i lumi: una volta, dopo aver arato tutta la giornata con la motozappa, la caricai sul motocarro per tornarmene a La Martella, ma quello non partiva e intanto calava il buio; cominciai a preoccuparmi, invocavo Dio e pregavo che non mi succedesse niente. Poi, finalmente, scoccò la scintilla della messa in moto, ma in cuor mio si spense la voglia di coltivare le terre. I figli si sarebbero accontentati di dividersi l’appezzamento di terra che stavo lasciando a ciascuno di loro allo jazzo del fico, alle porte del borgo, e per noi era tempo di tornarcene a vivere a Matera. Comprammo una casa nel quartiere popolare di Piccianello, vicino a una sorella di mia moglie, e non è stato difficile riprendere quella vita


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cittadina che avevamo sempre desiderato: potevamo far visita ai parenti e al compare Damiano che, anche lui, se ne era tornato a Matera, ma che ora cominciava ad avere qualche malessere di vecchiaia perché era più grande di me e gli volevo bene come a un fratello. A La Martella eravamo rimasti cinquant’anni, potevano bastare! Ma ci torno, da una quindicina d’anni, tutti i giorni, prendendo l’autobus, il n. 14, verso le 8.15 su via Nazionale: ho continuato a coltivare l’orto piantando ortaggi d’ogni genere e tengo un pensiero attento a una decina di galline per un uovo fresco e un po’ di carne genuina. E per non vedere chiusa la nostra casa, ho permesso a tutti i nipoti, man mano che si sposavano, di abitarla per qualche anno, completamente gratis, il tempo necessario per costruirsi una casa in cooperativa. È stato un bel regalo per loro perché ho continuato a pagare una tassa piuttosto salata, essendo considerata come seconda casa, ma sono contento perché spero che i nipoti si ricorderanno dei nostri sacrifici. Ho riservato per me una stanza, quella che era la stalla, in maniera da non disturbare nessuno quando vengo a lavorare nell’orto, e qui siamo tornati tutte le estati per continuare a fare la salsa e i pomodori per noi e per i figli. Ma ora avverto un po’ di stanchezza, ho superato i novant’anni e qualche acciacco comincia a farsi sentire. Sto attento, non salgo più sulla scala, ho il diabete e non mangio l’uva e volevo sradicare la vite cresciuta nell’orto e fattasi come un albero, ma Tonino mi ha assicurato che avrebbe tenuto lui il pensiero. Le mie pause dal lavoro sono sempre più lunghe e mi metto


Finito di stampare nel mese di settembre 2018 per ComunitĂ Editrice da Grafiche VD s.r.l., CittĂ di Castello (PG)


Francesco Paolo Francione, La voce di Matera. Storie da La Martella © 2018 Comunità editrice, Roma/Ivrea ISBN 978-88-98220-97-7 Per l’immagine di copertina © Fondazione Adriano Olivetti Redazione: Angela Ricci, Andrea Crisanti de Ascentiis Impaginazione e ebook: Studio Akhu Progetto grafico: BeccoGiallo Lab

Edizioni di Comunità è un’iniziativa in collaborazione con la Fondazione Adriano Olivetti www.fondazioneadrianolivetti.it Direzione editoriale: Beniamino de’ Liguori Carino facebook.com/edizionidicomunita twitter.com/edcomunita www.edizionidicomunita.it info@edizionidicomunita.it


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