Tariffa R.O.C., Poste Italiane spa - Sped. in abb. postale, D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1,DCB Forlì - Reg. Tribunale Forlì 6/9/2011 n. 410
Anno XXXXIV - N. 2 - dicembre 2011 • Abbonamento annuo euro 19,00 - Sostenitore euro 26,00
IN PRIMO PIANO
I mosaici dell’ex Collegio Aeronautico.
ANDAR PER MOSTRE
Gino Del Zozzo. La scultura dell’invisibile.
DOSSIER
Forlì, quota 150.
SOMMARIO
IN PRIMO PIANO
editoriale
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I mosaici dell’ex Collegio Aeronautico di Gabriele Zelli
Forlì e la cultura ai tempi della crisi
dossier 10 Forlì, quota 150 di Mario Proli
Il “Pranzo Patriottico” discorso del Sindaco Roberto Balzani
ANDAR PER MOSTRE
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Gino Del Zozzo. La scultura dell’invisibile di Rosanna Ricci
MUSICA 20 Mazzini, la musica e la sua chitarra di Stefania Navacchia
PROCESSI DI LETTURA
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L’infanzia raccontata di Paolo Rambelli
Forlì underground 24 Punti di vista di Mario Proli
In cauda venenum 26 I clienti della cultura di Paolo Rambelli
C’è crisi. Lo sappiamo tutti. Una crisi che investe tutti i settori non escluse le manifestazioni culturali i cui promotori spesso ci rimettono di persona pur di mantenere uno spessore di qualità e dimostrare la non indifferente vitalità che Forlì possiede, anche se molti ripetono la ormai nota frase: “A Forlì non si fa niente”. A questo punto ci è sembrato assai pertinente riportare l’intervento dell’assessore alla cultura di Forlì, Patrick Leech, in data 13 dicembre, riferito ad un recente dibattito culturale relativo ad alcune opere d’arte: “Da qualche anno Forlì è luogo di importanti confronti culturali e filosofici di altissimo livello: da quelli promossi da associazioni quali ‘Nuova Civiltà delle Macchine’, ‘Francesco Barone’ o ‘L’Occidente nel Labirinto’ a quelli che hanno come motivo di ispirazione il Festival di teatro sperimentale Crisalide, un dibattito che si sviluppa sotto la direzione di Masque Teatro. Un altro festival di teatro contemporaneo, Ipercorpo, ha provocato di recente un dibattito sul possibile utilizzo degli spazi dismessi per fini culturali, scegliendo l’ex-deposito dell’ATR come luogo per ospitare il festival. Fra Forlì e Meldola, l’Associazione Area Sismica promuove un dialogo innovativo fra musica tradizionale e contemporanea che richiama un pubblico da tutta la Romagna e oltre. Inoltre, l’autunno del 2011 ha visto due momenti importanti di dibattito attorno al tema dell’industria creativa durante la rassegna sull’’Innovazione Responsabile’ e
durante la ‘Settimana del Buon Vivere’. Ho menzionato solo alcune iniziative ma potrei proseguire con le tantissime e apprezzate presentazioni di libri e con altre importanti iniziative teatrali, di danza, e di musica (come quelle che si svolgono presso la Fabbrica delle Candele). Esse vanno ad aggiungersi ad eventi culturali più noti come quelli promossi dalla Fondazione Cassa di Risparmi. Il dibattito sul ‘modello forlivese’ legato alle grandi mostre ospitate nei Musei San Domenico è oramai conosciuto a livello nazionale. Le mostre di artisti locali negli spazi della Fondazione in Corso Garibaldi, come quello dedicato a Del Zozzo, inaugurato sabato scorso testimoniano di una costante vitalità di dibattito e discussione sulle arti nella città… La città, si deve ricordare, è conosciuta fuori dell’Italia molto più di quanto non si pensi… In ogni modo, è meglio che la città inizi a scoprire quello che veramente produce, quasi quotidianamente, in termini di cultura: qualità della vita, innovazione, relazioni e anche occupazione”. Questa è Forlì. Tanti altri esempi si potrebbero elencare su persone che dedicano tempo e sostanze per la crescita della città. Forse quel che manca è la collaborazione, ossia la possibilità di creare quella grande “rete” che potrebbe significare incentivo, confronto e aiuto per tutti, soprattutto nei momenti di crisi.
La redazione
«IL MELOZZO» Già Periodico del Comitato Pro Forlì Storico-Artistica, Forlì Primo numero 14 marzo 1968 Direttore: Rosanna Ricci Edizioni In Magazine srl via Napoleone Bonaparte 50, 47122 Forlì tel. 0543 798463 - fax 0543 774044 Stampa: Grafiche MDM - Forlì Uscita trimestrale Reg. al Tribunale di Forlì il 6/9/2011 n. 410 Redazione: Rosanna Ricci, Roberta Brunazzi, Mario Proli, Paolo Rambelli, Giorgio Sabatini, Gabriele Zelli Ha collaborato a questo numero: Stefania Navacchia In copertina foto di Giorgio Liverani
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IN PRIMO PIANO
I MOSAICI DELL’EX COLLEGIO AERONAUTICO di Gabriele Zelli Colpisce chiunque si trovi a passare in Piazzale della Vittoria la presenza dell’imponente edificio che vi si affaccia, l’ex Collegio Aeronautico “Bruno Mussolini”. Il palazzo costruito fra il 1937 e il 1938 ha una storia singolare alle spalle e si caratterizza per l’architettura razionalista, che qui trova la massima espressione, oltre che per la presenza di opere decorative di un certo valore per il periodo in cui furono realizzate e oggi di grande interesse dal punto di vista storico. L’edificio fu concepito per i giovani che volevano abbracciare l’arte del volo e dell’ingegneria aeronautica. Nel 1934, al tempo della sua ideazione, però, doveva essere una scuola di preparazione propedeutica all’Accademia romana di educazione fisica, per 250-300 allievi, progettato dall’ingegner Cesare Valle. Il progetto, che non aveva precedenti in Italia e poteva essere paragonato solo ai collegi militari di Modena e di Roma, prevedeva un enorme edificio a U con un fronte imponente sul viale Roma di oltre 120 metri, contenente i due ingressi principali; l’ingresso d’onore era posto invece in uno dei lati corti, direttamente sul piazzale della Vittoria. Fu nel 1936 che sulla stampa locale venne annunciato un cambio di destinazione: non più un collegio di preparazione, ma una vera e propria Accademia femminile di Educazione Fisica e giovanile, sul tipo di quella già esistente ad Orvieto, più grande del progetto precedente, con un’estensione sulla zona compresa tra Viale Roma e il nuovo viale, che in un primo momento era stato intitolato allo stesso Mussolini e poi denominato “Corso XXVIII Ottobre”. Quando ormai la parte strutturale era compiuta, nel 1938 ebbe la definitiva destinazione di Collegio Aeronautico. L’intero complesso, che poteva ospitare 440 persone, faceva capo a due gruppi principali di attività, distinti nettamente in due blocchi architettonici: il gruppo residenziale (i dormitori, i guardaroba, le aule di studio e i servizi inerenti) si snodava lungo il viale Roma, mentre il gruppo didattico sportivo (le aule di insegnamento, i laboratori, la palestra, ecc.) fra il piazzale della Vittoria e l’attuale viale della Libertà. I due ingressi, uno all’imbocco di viale Roma e l’altro sulla piazza, avevano funzioni diverse e distinte. Il primo era l’ingresso di rappresentan-
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In questa e nelle pagine seguenti, i mosaici sulla storia del volo sulle pareti del quadriportico del “Cortile Italico�, realizzati su cartoni del pittore Angelo Canevari (foto Giorgio Liverani)
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za; il secondo, invece, avviava direttamente al “Cortile Italico”, punto nodale di distribuzione dell’intero edificio, portava al grande piazzale dei giochi, all’aula magna, alle sale di rappresentanza, alla grande palestra, a tutti i servizi didattici degli allievi. Nel 1942 la rivista “Architettura” diretta da Marcello Piacentini dedicò un intero numero all’opera di Cesare Valle, esaltandone, a vol-
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te con toni retorici, la funzionalità e l’espressività, l’austerità e la leggiadria e augurandosi nella presentazione iniziale che l’alta qualità di quella specifica architettura potesse imporre uno studio di riorganizzazione dell’intero piazzale. Nella rivista venne messo in risalto che le pareti del quadriportico del “Cortile Italico” erano state ornate con pannelli in mosaico (posti come arazzi in marmo bianco di Carrara e
Nero Assoluto) su cartoni del pittore viterbese Angelo Canevari, il quale illustrò senza soluzione di continuità i più significativi episodi della storia del volo e le vicende dell’aviazione italiana fino a giungere agli anni ’40. I pannelli furono eseguiti con il metodo indiretto su carta, realizzati quindi nei laboratori romani della ditta L. Rimassa e poi applicati sulle pareti. Un lavoro analogo a quello realizzato al
Foro Italico, dove lo stesso Angelo Canevari insieme ad Achille Capizzano aveva ideato i mosaici pavimentali per il viale delle iscrizioni nel piazzale della sfera presso la piscina. Dall’ingresso di rappresentanza (riservato al pubblico delle grandi cerimonie) si accedeva al salone del Rapporto e all’Aula Magna. Nell’atrio d’onore delle Costellazioni fu posto il monumento a Bruno Mussolini, realizzato dallo
scultore Domenico Rambelli. Il pavimento musivo bianco e nero (12x12m) tuttora presente riproduce la carta celeste dell’Emisfero Australe e fu eseguito dalla Scuola di Spilimbergo (allora provincia di Udine oggi di Pordenone) e spedito il 9 settembre 1938 diviso in 322 pezzi musivi su carta. Sul soffitto furono dipinti a tempera semplici motivi tratti dall’Emisfero Boreale. Anche le decorazioni delle pareti si ispira-
rono alle costellazioni fondamentali. All’esterno la statua di Icaro in marmo bianco di Carrara è opera dello scultore Francesco Saverio Palozzi. Il suo aspetto attuale non rispecchia perfettamente quello originario, poiché fu oggetto di vandalismo ed in seguito fu restaurata in modo assai libero (vennero infatti semplificate le ali e la parte basamentale, che simulava le rocce, fu trasformata in un massiccio dado).
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La professoressa Emanuela Bagattoni dell’Università di Bologna – Sede di Ravenna, che ha analizzato i mosaici sulla storia del volo, ha scritto: “Quello della documentazione delle principali tappe che portarono al definitivo e prolungato distacco da terra da parte dell’uomo e conseguentemente ai continui esperimenti aviatori che si susseguirono nei primi decenni del secolo scorso, è un motivo che suscitò grande interesse a livello mondiale e nei più svariati settori della cultura. L’ambiente culturale
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italiano, forte dell’affermazione del Futurismo, riservò particolare attenzione alla conquista dei cieli e ai relativi mezzi meccanici e ben presto il Fascismo volle farsene portabandiera soprattutto in seguito alla fondazione della nuova arma, la Regia Aeronautica Militare, avvenuta nel 1923, appena un anno dopo l’insediamento del regime”. Fu sicuramente una rivoluzione culturale che scosse non solo il settore delle comunicazioni civili e militari, ma seppe cercare una “sorta
di entusiastico vortice futurista che spaziava ed invadeva tutta la vita sociale e la cultura: dall’ingegneria alla letteratura; dalla moda alla pittura, dalla scultura alla musica, trasformando il volo, il mezzo aviatorio e i piloti in simboli della modernità, della vittoria dell’intelletto sulla natura. Non sorprende quindi che per un importante edificio quale il Collegio Aeronautico, da costruirsi nella città del Duce, si sia pensato ad un ciclo decorativo incentrato su questo specifico tema, da realizzarsi in mosaico, tec-
nica ampiamente utilizzata ed apprezzata in quegli anni”. Con la pubblicazione avvenuta poche settimane orsono dell’importante volume “Con gli occhi al cielo. I mosaici del Collegio Aeronautico di Forlì” di Cesare Sangiorgi, Risguardi Edizioni, si è voluto evidenziare l’importanza del complesso e di quei mosaici. Raccontando la storia del volo da Icaro fino alla seconda guerra mondiale, Sangiorgi ripercorre con una descrizione meticolosa e
precisa la fantastica vicenda della conquista dell’aria, ricordando storie di volo, di aerei e di piloti effigiati nei mosaici, con scritti e ricordi dei protagonisti e di coloro che sono stati con essi in contatto diretto; ineludendo molte storie aeronautiche forlivesi. Il libro riporta una cinquantina di pagine con bellissime fotografie di indubbio valore scattate da Giorgio Liverani all’opera di Canevari. Cesare Sangiorgi non è nuovo a queste fatiche. Nato nel 1934, profondo conoscitore
di Forlì e della Romagna, nonché appassionato cultore di storia locale ha fatto parte del “Gruppo Piloti Bandini” ed è stato membro dell’Aereo Club di Forlì. In precedenza ha curato insieme a Franco Fabbri: “Ilario Bandini. Una vita per l’auto da corsa”; con Sauro Tassinari; “Tutti i colori del cielo. Storia del volo a Forlì”. Ha pubblicato inoltre “C.A. Rose e gli altri. Cimiteri di Guerra in Emilia Romagna”; “Mussolini e la sua terra”, “Us fa scur in te canton. Sessant’anni vissuti a Forlì”.
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DOSSIER
FORLì, QUOTA 150 di Mario Proli La cronaca forlivese del 2011, l’anno del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, è stata caratterizzata da numerosi appuntamenti ammantati di tricolore che, in certi casi, hanno catturato un’attenzione nazionale. Tappa d’apertura è stata la visita ufficiale del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano che il 7 e 8 gennaio ha inaugurato da Forlì, insieme a Reggio Emilia e a Ravenna, il calendario istituzionale delle celebrazioni. Due giorni intensi, iniziati con gli incontri in Consiglio comunale e in Prefettura e proseguiti con l’omaggio solenne al monumento di Aurelio Saffi e l’incontro al Teatro “Diego Fabbri”. Spicca poi la giornata del 17 marzo, anniversario della proclamazione dell’unità italiana e festa nazionale. Forlì si è data appuntamento in piazza Saffi alle sei del mattino con “L’Alba della nazione”, manifestazione che ha salutato il sorgere del sole con le note dell’Inno di Mameli. Centinaia le persone presenti fin dalle prime ore che hanno poi condiviso una colazione a base di biscotti “tricolori” e la visita guidata del sindaco Roberto Balzani alle memorie risorgimentali del Palazzo municipale. Oltre tremila le persone che hanno partecipato all’alzabandiera avvenuta, a Forlì come nel resto d’Italia, alle ore nove. Il programma ha anche proposto un concerto dell’orchestra giovanile del Liceo musicale “Angelo Masini”, l’animazione di figuranti in abiti ottocenteschi e il concerto del coro Città di Forlì. Grande clamore hanno suscitato le manifestazioni del 2 e 4 giugno, con la Festa della Repubblica, l’iniziativa “Facciamo gli italiani” organizzata dall’associazionismo cattolico giovanile e il “Pranzo Patriottico”, momento conviviale che ha unito la rievocazione di un banchetto del 1849 con i valori democratici della Repubblica italiana. Tanti i protagonisti dai complessi bandistici (Banda Città di Forlì, Giuseppe Verdi di Carpinello e Musicanti di San Crispino) alle associazioni ambientaliste e di volontariato che hanno trainato in piazza l’Albero della libertà. A proposito del “Pranzo Patriottico”, il Melozzo pubblica nelle pagine seguenti il discorso del sindaco Balzani. All’insegna del 150° dell’Unità si sono svolte le manifestazioni del 25 aprile e 9 novembre e tantissime iniziative che hanno visto ampia partecipazione e lasceranno una traccia profonda nella memoria della comunità forlivese.
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7-8 gennaio: il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano inaugura a Forlì le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia e rende omaggio al monumento di Aurelio Saffi
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DOSSIER
7-8 gennaio: il Presidente Napoletano in visita a Forlì accompagnato dalle autorità locali (in alto a sinistra)
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17 marzo: i figuranti in abiti ottocenteschi (in alto a destra e in basso a sinistra); il concerto dell’orchestra del Liceo musicale “A. Masini” (in basso a destra)
16 marzo: incontro delle scuole medie presso il Teatro “Diego Fabbri” con il Sindaco e le autorità scolastiche ed esibizione dei musicisti dell’ensemble “P. Zangheri”
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DOSSIER
Il pranzo patriottico Forlì, 4 giugno 2011 discorso tenuto dal Sindaco di Forlì, prof. Roberto Balzani Quello che ci apprestiamo a compiere non è un rituale inventato e non è propaganda. È il ricordo di una cosa accaduta davvero, a Forlì, il 4 marzo del 1849. Essa ci è stata tramandata dalle cronache. E noi da lì l’abbiamo ripresa. Ma, prima di arrivare al punto, dobbiamo dire due parole sul contesto. Agli inizi del 1849, tutto, in Italia sembrava perduto. La primavera degli statuti e poi dell’insurrezione di Milano, cui aveva fatto seguito la guerra di Carlo Alberto contro l’Austria, era terminata con una disfatta. Molti sovrani, dopo la stagione delle riforme, avevano fatto marcia indietro, abbandonando il movimento patriottico. Anche Pio IX che pure, appena un anno prima, era parso il faro del grande movimento di risurrezione dell’Italia. Solo Venezia resisteva. Ma per quanto tempo ancora? Il malessere e la delusione erano palpabili, soprattutto in Toscana e nello Stato pontificio. Nel sud, la repressione borbonica era stata durissima sul continente, mentre la Sicilia continuava a combattere e a sperare. Insomma, un quadro fosco. I giovani reduci dai campi lombardo-veneti, partiti fra l’entusiasmo generale, rientravano alla spicciolata, malconci e feriti. Chi aveva tradito? Chi aveva abbandonato i patrioti? In quel clima di risentimenti e di paura – risentimento contro i temporeggiatori e i moderati, paura per l’arrivo degli austriaci –, i governi più deboli si trovarono privi di sostegno da parte dell’opinione pubblica: quell’opinione pubblica che essi stessi avevano contribuito a creare pochi mesi prima, con la concessione della libertà di stampa e degli statuti. Fu così che tanto il Granduca a Firenze quanto Pio IX a Roma cominciarono ad essere pesantemente contestati; e le proteste e le violenze crebbero fino al punto di sfociare, a Roma, nell’omicidio del primo ministro Pellegrino Rossi, nel novembre 1848. Il papa, allora, decise di abbandonare la capitale, lasciandola in mano al Consiglio dei deputati, che provvide a costituire un governo provvisorio. Il quale, però, fu travolto dalla marea montante della protesta, animata soprattutto dagli ambienti della Roma-
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4 giugno: il “Pranzo Patriottico� con figuranti in costume dell’epoca e la cittadinanza a raccolta per rievocare il banchetto del 1849
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DOSSIER
4 giugno: volontari dell’organizzazione del “Pranzo Patriottico” (a sinistra)
gna e delle Marche, fra i più attivi nella prima fase della mobilitazione patriottica, al tempo della guerra per l’indipendenza. A Forlì, il 13 dicembre 1848, i Circoli Popolari, organizzazioni spontanee del notabilato liberale e democratico, sotto la presidenza di Aurelio Saffi – un giovane che aveva creduto nelle riforme, ma che ora non voleva fermarsi –, si pronunciarono per la convocazione di un’Assemblea Costituente, che avrebbe dovuto decidere il destino degli Stati romani. Alla fine di dicembre furono indette elezioni a suffragio universale (potevano votare i maschi con più di 25 anni), che si effettuarono il 21 gennaio 1849. I comizi, a Forlì, si tennero nel palazzo municipale, dalle otto del mattino alle sette della sera, dopo che le campane della civica torre avevano suonato ininterrottamente per un’ora, dalle 7 alle 8: i cittadini potevano scrivere fino a 14 nomi; gli analfabeti potevano utilizzare una scheda prestampata. Le elezioni erano molto diverse da quelle di oggi. Per molti era la prima volta: essi scoprivano il senso della parola cittadinanza, aderendo ad un gesto che non aveva ancora il contenuto di una scelta precisa e consapevole. Ci si abituava ad una ginnastica: la ginnastica democratica e elettorale.
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Il primo degli eletti, nel collegio dell’area forlivese, fu il ventinovenne Aurelio Saffi; seguiva l’élite del patriottismo del territorio. A Roma, la Costituente si trovò di fronte a un dilemma: quale forma dare agli Stati pontifici? Il papa era re, è vero, ma si trattava di una monarchia tutta speciale, elettiva; e d’altronde, nessun nobile casato europeo avrebbe mai avuto il coraggio di sedere sul trono di Roma. L’ultimo a pensarlo era stato Napoleone I, e la cosa non gli aveva portato fortuna. La Repubblica, quindi, proclamata il 9 febbraio 1849, fu per alcuni deputati una scelta precisa, diremmo ideologica, per altri una soluzione tecnica inevitabile. Ma apparve subito chiaro che la Repubblica, proclamata a Roma dopo che il deputato Giuseppe Garibaldi l’aveva proposta, rompendo gli indugi, non poteva essere solo “romana”: essa costituiva la speranza di un modo nuovo di unire l’Italia, partendo da un’assemblea eletta a suffragio universale, dal basso. Là dove aveva fallito Carlo Alberto, forse gli uomini dello Stato pontificio potevano riuscire. Ecco perché, a Roma, ai primi di marzo, arrivò poi Mazzini, chiamato da Goffredo Mameli, e, via via, i più bei nomi della gioventù lombarda, genovese, veneta, emiliana,
17 marzo: il violino che ha suonato l’inno di Mameli al sorgere del sole in piazza Saffi (a destra)
napoletana: lì rinasceva la scommessa della nazione. Furono mesi intensi e indimenticabili. Saffi triumviro, lo sbarco dei francesi e l’assedio della Capitale, la resistenza eroica e impossibile (mura troppo vaste per troppo pochi abitanti e difensori), la proclamazione di una Costituzione mai attuata, diventata matrice della nostra attuale; la morte di tanti, tantissimi ragazzi, che riempiono i nomi delle nostre strade (Mameli, Manara, Dandolo, Daverio…). E poi, per noi, la ritirata rocambolesca di Garibaldi, nel luglio-agosto 1849, l’avventura incredibile e romantica della “trafila” e del salvataggio del Generale. A Forlì, città che esprimeva ben due leader nel governo repubblicano del 1849 – Saffi e Giovita Lazzarini alla Giustizia – la spinta patriottica prese la forma di una grande festa. La fecero il 4 marzo 1849, qui in piazza. Dopo un Te Deum in Cattedrale, che si tenne alle ore 11, vi fu prima la restituzione dei piccoli pegni custoditi dal Monte di Pietà, quindi, narra Pellegrino Baccarini (uno che c’era) “ad un’ora pomeridiana… in questa pubblica Piazza ebbe luogo un Banchetto Patriottico”. Il menù ormai è ormai noto: “Un antipasto, un Rosto con Croccanti, Frutta, Pane, e Vino. I Socj al Banchetto oltrepassavano i 1.500, e
17 marzo: i biscotti “tricolori” offerti dagli alpini durante la manifestazione “L’Alba della nazione” (a sinistra); l’alzabandiera avvenuto in tutta Italia alle ore nove (a destra)
la tassa che pagarono furono di bajocchi 20 per ogni individuo. I posti… furono tutti contrassegnati con un numero progressivo dall’un capo all’altro delle tavole, e furono a tal’effetto estratti a sorte i posti”: che non ci si poteva scambiare. “Ogni ceto di persone siedé alla mensa repubblicana al suono della Campana della Torre del Pubblico… L’Albero della Libertà sorgeva maestoso in mezzo alle ben disposte ed apparecchiate tavole, quell’albero circondato dal suo Popolo pareva raggiare di una luce divina”. Quindi due bande, e un coro che cantava un inno patriottico, che diceva, fra l’altro, così: “Tre colori è l’insegna; e il Vessillo, / Nuovo foco ci desta nel cor: / delle trombe forriere lo squillo, / di vittoria trionfi il valor. / Libertà, Libertà, Libertà”. Tommaso Zauli Sajani, “cittadino avvocato” e intellettuale di rango, parlò “da vero italiano”; seguì il giuramento di Carabinieri, Dragoni e Finanzieri, e poi tricolori ovunque, nei palazzi pubblici, nelle case private, sulle carrozze. “Fu una scena commovente, dice il nostro cronista, una scena di festa popolare, che strappava le lagrime”. Ebbene, quella festa, che poi piacque a tal punto che fu replicata in altri quartieri, nelle settimane successive (se ne tennero in tutto 7,
dal 4 marzo al 29 aprile), è stata poi dimenticata. La ripresero, durante la monarchia, solo i repubblicani, cioè gli eredi di Mazzini, che l’associavano al 9 febbraio, proclamazione della Repubblica. Ma perché il grande banchetto di piazza Maggiore, momento costitutivo della nazione a Forlì – perché lì si trovarono per la prima volta, poveri e ricchi, a migliaia e pubblicamente, collettivamente, per dire che la città era per l’Italia, per il tricolore e per la Repubblica, una e indivisibile (come ci ricorda sempre il nostro Presidente Giorgio Napolitano) –; questo momento straordinario e commovente, tutto nostro, che non ha avuto eguali nelle altre città per dimensioni e per consenso, è rimasto sepolto nelle cronache della nostra biblioteca? Forse perché gli austriaci arrivarono subito dopo, e poi perché per dieci lunghi anni non ci fu più spazio per il tricolore; e, quando tornò, il tricolore aveva la croce di Savoia al centro. Scomodo ricordare l’albero della libertà, al tempo di Vittorio Emanuele. Nel 150° abbiamo pensato di rifarlo, il pranzo, a partire dal Comune, perché fu il Comune a promuoverlo, nel 1849, e con modalità molto simili: posti assegnati in base a un criterio casuale per assicurare il principio di
uguaglianza, albero della libertà, bandiere, musica (la banda di Forlì c’è ancora, come nel 1849, insieme con le altre, ovviamente) e un’idea di Costituzione da difendere. Questa piazza impavesata è bellissima! E voi, che siete qui, siete gli eredi di quelle donne e di quegli uomini del 1849. Ed io spero, davvero, che questa possa tornare ad essere una tradizione forlivese; ma soprattutto che le parole che risuonarono allora nei discorsi – dignità, virtù, e onore – e che poi si tradussero nella difesa di Roma, nel sacrificio di tanti, possano scendere nel cuore di ognuno di voi, di ognuno di noi. Sono parole che debbono essere pronunciate a bassa voce, con discrezione: perché sono importanti. Esse vivono solo se diventano comportamenti, atti, forza di battersi insieme, uniti dalla solidarietà, dall’umanità, da un autentico spirito di fratellanza. Cittadini, quella di oggi non è una sagra paesana, un’occasione di ricreazione come tante: per me, è un momento sacro della comunità, nel quale possiamo riprodurre e toccare la nostra radice più lontana. Una cosa che non era mai capitata prima. Per questo, augurandovi buon pranzo, avrei piacere che ciascuno, in cuor suo, ripetesse con me: viva l’Italia! Viva la Repubblica, una e indivisibile!
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Andar per mostre
GINO DEL ZOZZO La scultura dell’invisibile
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A sinistra, Gino Del Zozzo, “Martire coreano”, 1951 (granito)
di Rosanna Ricci ‘Vergine roccia’/ il mio scalpello/ fonde / e / manda scintille./ Non cede/ si / stempera./…” Questi i versi di Gino Del Zozzo (1909-1989) che sono stati scritti nel 1955 riassumono la caratteristica e la qualità della sua arte (disegno, scultura e poesia): la sintesi. “I suoi, ha scritto, sono pensieri fatti di roccia. I suoi pensieri, scriviamo noi (le parole sono di Andrea Brigliadori) sono rocce fatte di parole”. Questo si percepisce in modo immediato visitando la mostra di Del Zozzo, allestita fino al 15 gennaio 2012 nel palazzo del Monte di Pietà di Corso Garibaldi 37 a Forlì, dove sono esposte soprattutto sculture (ricavate dai sassi raccolti nei fiumi), ma anche disegni e alcune sue poesie. I disegni concentrati in una sola purissima linea, i sassi raccolti nel fiume che già nella forma primordiale lanciano messaggi sulla interpretazione che lo scultore darà loro evitando però di alterarne troppo l’aspetto naturale, i versi di cui si diceva all’inizio, danno un quadro assai chiaro delle scelte estetiche di Del Zozzo. “Nel perfetto equilibrio di materia e forma inizia per la pietra una nuova, impensabile era – scrive Orlando Piraccini –. Nata dalla terra e dalla terra forgiata, essa viene accolta nel regno dell’immaginazione: dove si formano e prendono corpo, secondo precisi atti creativi, specialissime visioni che chiamiamo, appunto, immagini dell’invisibile”. Il sasso mantiene la
Sotto, lo scultore e la sua opera “Capo tribù n.1”
sua forza, il suo colore, la sua compatta forma, ma la grande qualità tecnica e la sensibilità di Del Zozzo sanno tradurre, con pochi colpi di scalpello e martello, un’immagine di animale, di figura umana. Una poesia piena, la stessa che l’artista trasferisce nella parola scritta e che ha trasmesso agli altri, in particolare agli estimatori, agli studenti, ai giovani che hanno frequentato il suo studio. A Forlì tutti conoscevano Gino Del Zozzo, per parecchi anni docente di materie artistiche, ma non molti sono stati quelli che hanno compreso i profondi significati della sua arte che, pur avendo meritato ambìti premi, non era molto conosciuta anche per la naturale riservatezza dell’autore. La sua opera resta un messaggio modernissimo di colloquio intimo con la natura In occasione della mostra è stato presentato anche il libro “Vergine roccia” scritto da Pierluigi Moressa, il quale, grazie anche ai numerosi scritti dello scultore, ha raccontato e indagato sulle tappe della vita di Del Zozzo. Una vita che “si configura – scrive Moressa – come un’incessante progressione seguita sempre da fecondi ritorni verso i luoghi dei primi affetti”. Un’arte, la sua, “che valica le epoche e resta sempre attuale”. Concludiamo con alcuni versi che dichiarano il profondo amore di Del Zozzo per l’arte: Scalpello, scalpello,scalpello da quarant’anni chiedo una vita al fantasma che affiora.
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MUSICA
Mazzini, la musica e la sua chitarra
Sopra, la chitarra di Mazzini; sotto, una stampa ottocentesca che raffigura Mazzini nella scuola di Hatton Garden con la sua chitarra in basso a destra
di Stefania Navacchia Per celebrare “La Giornata Nazionale della Bandiera”, il 7 gennaio 2012 alle ore 15 presso la sala mostre del Comune di Forlimpopoli verrà inaugurata la mostra “Romagnoli nel mondo, storie di emigrazione”, organizzata dalla sezione “Corrado Matteucci” di Forlimpopoli dell’Associazione Mazziniana Italiana. Sempre nell’ambito di queste celebrazioni venerdì 13 gennaio alle 20,45 al Teatro Verdi si terrà un concerto che vedrà come protagonista la chitarra di Giuseppe Mazzini. A suonare il prezioso strumento saranno Pier Luigi Colonna e Paolo Benedetti, insegnanti dell’Istituto A. Masini di Forlì. L’Orchestra di Chitarre dell’Istituto A. Masini di Forlì (formata da 15 studenti di chitarra) completerà la serata introdotta dalla dottoressa Raffaella Ponte. I documenti parlano del grande interesse di Mazzini per la musica che, al pari delle altre arti, non fu estranea al suo pensiero politico. Le riflessioni su questa tematica risalgono soprattutto agli anni dell’esilio e furono raccolte in Filosofia della musica pubblicata a Parigi ne “L’Italiano” nel 1836. Il pensiero mazziniano risulta estremamente attuale poiché attribuisce alla musica una grande importanza civile: in questa nuova ricerca egli guarda al passato e in particolare alla Grecia antica nelle cui leggi la musica rivestiva un fondamentale ruolo nell’educazione dell’uomo e del cittadino. La riflessione di Mazzini si rivolse anche al suo presente e soprattutto al futuro e trovò una realizzazione concreta nella scuola che fondò durante il lungo periodo del suo esilio trascorso a Londra e che accolse anche diversi bambini italiani, vittime della miseria e dello sfruttamento. Attraverso un concerto annuale, a cui partecipavano numerosi cantanti e strumentisti amici di Mazzini, tra cui il chitarrista Giulio Regondi, venivano raccolti fondi per sostenere la scuola. Mazzini si soffermò poi sulla produzione e individuò nel melodramma quell’integrazione tra musica e letteratura in grado di fornire unità culturale ed etica al popolo italiano. Una tale finalità si doveva raggiungere attribuendo nuova importanza ai testi, adottando una vocalità più sobria e meno virtuosità, dando nuova importanza al coro in quanto espressione delle masse e scegliendo soggetti di argomenti storici e politici che fossero verosimili e che risultassero attuali
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per la propria epoca al fine di parlare a tutto il popolo. Benché Filosofia della musica sia stata pubblicata tre anni prima di Oberto, esordio operistico di Giuseppe Verdi, sembra che l’estetica musicale di Mazzini si sia concretizzata nel teatro del compositore di Busseto. E proprio a Verdi, come testimonia la corrispondenza, il patriota genovese aveva affidato i versi di Goffredo Mameli da cui doveva nascere l’inno italiano. Le riflessioni di Mazzini sulla musica erano anche il frutto della grande attenzione che, come ricorda Aurelio Saffi, egli aveva per ciò che accadeva nel mondo musicale, un’attenzione che possiamo comprendere proprio attraverso il culto e la passione che egli aveva per la chitarra. Dalle richieste di partiture di Giuliani, Legnani, Moretti, contenute nelle lettere alla madre scritte dall’esilio, possiamo comprendere quanto fosse approfondita la sua conoscenza del repertorio per questo strumento la cui letteratura ebbe proprio nell’Ottocento un periodo di grande fioritura. Sappiamo quindi che nei suoi esili Mazzini era seguito dalla sua chitarra con la quale era solito accompagnarsi; si ricorda anche che, nel 1836 a Grenchen, egli compose il “Canto delle mandrie bernesi”, ispirata alla musica popolare dei pastori svizzeri. Nel 1833 ricevette il prezioso strumento da Josephine Shaen, figlia di William Shaen che fu fondatore dell’Associazione “Amici d’Italia”, amico e biografo dello stesso Mazzini. Questa chitarra oggi si trova al Museo del Risorgimento – Istituto Mazziniano di Genova, dove nel suo studio, ricostruito al secondo
piano, sono conservati la sua scrivania ed altri oggetti a lui appartenuti Si tratta di una chitarra del 1821 realizzata a Napoli da Gennaro Fabbricatore, figlio di Giovanni Battista Fabbricatore che introdusse la sesta corda: solo dalla fine del XVIII secolo infatti le chitarre avevano assunto l’aspetto e le caratteristiche che hanno mantenuto fino ad oggi. Nel 1997 la chitarra di Mazzini è stata restaurata a Genova dal laboratorio di Pio Montanari. Da una dicitura a matita posta sotto il piano armonico è emerso che nel 1880 il liutaio londinese Edwin Richards foderò l’interno della tavola armonica in abete di fibra molto fitta e sostituì il ponticello. Il recente restauro ha conservato le parti originali e le caratteristiche dell’intervento della fine dell’Ottocento. Anche dal punto di vista musicale, da qualche decennio è cresciuto l’interesse per questi strumenti antichi: e questo ulteriore aspetto renderà la serata del 13 gennaio particolarmente affascinante.
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PROCESSI DI LETTURA
L’infanzia raccontata di Paolo Rambelli I racconti non si vendono. Delle innumerevoli teorie sulle leggi che regolerebbero il mercato editoriale questa sembra essere l’unica a mettere d’accordo tutti: i racconti sono stati una delle prime forme di codificazione del discorso letterario della nostra tradizione, e rappresentano ancor oggi uno dei primi banchi di prova per chi vuole dedicarsi alla scrittura, ma per il mercato risultano poco appetibili. A riscattarli deve intervenire perlomeno una cornice unificante, nella forma conclusa propria della tradizione occidentale (sul modello di Boccaccio e di Chaucer) o in quella aperta tipica della tradizione orientale (sull’esempio delle “Mille e una notte”, in cui interviene un gioco di specchi che rimette costantemente in gioco le medesime novelle impedendo di porre termine alla narrazione). Insomma, per vendere, i racconti devono fingere di essere dei romanzi. Non sfugge a questa legge nemmeno “Purché una luce sia accesa nella notte” di Patrizia Zappa Mulas, protagonista il 15 novembre scorso di un’emozionante interpretazione del melologo “Enoch Arden” di Alfred Tennyson, su musiche di Richard Strauss, presso la Sala Sangiorgi. Il fascino di questi quattro racconti non sta però nei rimandi interni, bensì nella loro dolente leggerezza, nel loro difficile – ma spesso riuscito – tentativo di fissare il momento preciso della “prima morte”, l’unica di cui possiamo dare testimonianza, ovvero il passaggio dalla giovinezza alla maturità, il momento in cui del futuro si comincia a non avere più desiderio ma nostalgia. Di questa frattura necessaria e insanabile Patrizia Zappa Mulas riesce talora a dare una resa vividamente fisica, facendo del corpo – lei che è prima di tutto un’attrice – il teatro della sua narrativa, lo spazio in cui registrare l’irrigidimento, ovvero l’estenuazione, dell’anima ancor prima che della carne e dei muscoli. Un dolore tutto interno alla giovinezza è invece quello descritto da Romano Bilenchi nei cinque racconti che compongono “Il proces-
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Libri ricevuti
Benedetta Bianchi Porro. Un cammino di luce, di Piersandro Vanzan (Torino, 2011) La mia terra, a cura del Gruppo Polaser (s.l., 2011) Rumànz. Un’epica famigliare in dialetto santarcangiolese, di Gianni Fucci (Cesena, 2011) Vergine Roccia. Vita e opere di Gino Del Zozzo scultore, di Pierluigi Moressa (Bertinoro, 2011) Gino Del Zozzo. La scultura dell’invisibile (Bertinoro, 2011) Gli Ordelaffi. Signori di Forlì e Cesena, di Sergio Spada (Cesena, 2011) Qualcosa come l’amore, di Lena Papadaki e Mauro Marino (Modena, 2011) I Bentivoglio. Signori di Bologna, di Marco Viroli (Cesena, 2011) Il Purgatorio di Dante, illustrato da Mario di Cicco e curato da Andrea Brigliadori (Cesena, 2011)
Libri letti
Il grande cacciatore, di Carlo d’Amicis (Palermo, 2011) Registro di classe, di Sandro Onofri (Torino, 2000) Benedetta Bianchi Porro. Un cammino di luce, di Piersandro Vanzan (Torino, 2011) Foravia, di Dario Voltolini (Milano, 2011) Qualcosa come l’amore, di Lena Papadaki e Mauro Marino (Modena, 2011) Il processo di Mary Dugan, di Romano Bilenchi (Torino, 19722) Tu, sanguinosa infanzia, di Michele Mari (Torino, 2009) Purché una luce sia accesa nella notte, di Patrizia Zappa Mulas (Milano, 2011) Parola di cadavere, di Andrea Vitali (Milano, 2011) La quarta rivoluzione. Sei lezioni sul futuro del libro, di Gino Roncaglia (Roma-Bari, 2010) Viaggio attraverso l’Italia, di Tobias Smollet (Roma, 2003) Chiedimi l’amicizia, di Mauro Evangelisti (Forlì, 2011) Racconto d’inverno, di Tommaso Landolfi (Firenze, 1963) so di Mary Dugan”, cui è dedicato il terzo appuntamento, in programma il 13 gennaio 2012, del neo-costituito “Circolo del Lettori” coordinato dal prof. Natali presso il ridotto del teatro “Diego Fabbri”. Formatosi alla scuola strapaesana de “Il Selvaggio” di Maccari, Bilenchi mette a frutto in questi racconti degli Anni Trenta la lezione del conterraneo Tozzi affidando ad una scrittura tersa fino alla spietatezza i timori, gli impacci e i turbamenti dell’adolescenza. Tutti i racconti sono illuminati da un’ottica interna all’adolescenza e interna, in particolar modo, a quei rapporti di amicizia e di complicità tra coetanei che possono proteggere e confortare le singole personalità in formazione con la stessa facilità e leggerezza con cui le possono isolare e schiacciare.
A Michele Mari, ospite l’11 febbraio 2012 dell’“Artista Caffè”, il salotto letterario del ridotto del teatro Diego Fabbri, l’infanzia appare, invece, sanguinosa, e “Tu, sanguinosa infanzia” si intitola infatti la raccolta pubblicata nel 1997 da Mondadori (e riediti nel 2009 da Einaudi); sanguinosa perché crudelmente si insinua nell’età adulta, rivendicando le proprie prerogative e rianimando le antiche passioni, tanto insignificanti quanto violente e totalizzanti. Se ne “I giornalini” la Divina Commedia, Moby Dick e i Rerum Italicarum Scriptores devono quindi cedere il passo ad un album di Cocco Bill, ne “E il tuo dimon son io” l’odio per i rivali in amore dei tempi della scuola continua a rinnovare la sua carica vanamente distruttiva. Più originalmente l’infanzia si rileva anche l’età del continuo sconfinamento tra finzione (letteraria) e realtà, con gli orrendi mostri de “Le copertine di Urania” che fanno da sfondo alla ben più «orrenda vita da vivere» e le diverse traduzioni de “La freccia nera” (felicissimo omaggio all’arte stessa del tradurre) che offrono invano all’adolescenza un’occasione di dialogo con l’età matura. Da un’amicizia adolescenziale prende il via anche “Chiedimi l’amicizia”, l’ultima fatica del giornalista forlivese trapiantato a Roma Mauro Evangelisti, che pubblica con la forlivese Carta Canta (con la quale ha vinto lo scorso anno il Premio Carver per il noir “Johnny Nuovo”). Costruito come un girotondo di storie conclu-
se (in cui non a caso la prima e l’ultima si prendono per mano), testimonia attraverso la difficoltà del genere (che da raccolta di racconti vuol farsi romanzo) la difficoltà di restituire un’immagine unitaria del mondo giovanile ed in particolare di quella generazione dei social network cui fa riferimento il titolo. I singoli protagonisti si richiamano e si perdono da una storia all’altra con la stessa facilità con cui si intrecciano e si sciolgono le relazioni sui social network, ultima frontiera di una ricerca fallimentare di legami profondi che continua a passare (con crescente noncuranza) anche attraverso l’alcool, la droga e il sesso. “Foravìa”, ovvero fuori strada, ci porta anche l’ultima raccolta di Dario Voltolini, ospite a sua volta il 14 gennaio dell’“Artista Caffè” del Fabbri, con tre racconti che cercano di prendere coscienza dei varchi nella realtà verso ragioni più profonde – o forse semplicemente più convincenti – del nostro errare quotidiano. C’è così la storia che è certamente accaduta, ma che – da calendario – non può esserlo affatto (e del resto non vi accade, di fatto, nulla), così come c’è la storia che è apparentemente destinata a non lasciare traccia, ma che pure, per un attimo, scalda il cuore, e soprattutto c’è la storia di “Fabio”, quella che conduce più perfidamente, perché meno percettibilmente, “foravìa”, là dove l’uomo si eleva (si riduce?) con la scienza al freddo distacco del predatore.
P.S. – è Natale. E a Natale non ci si può lasciare con l’odore d’anestetico di “Fabio”. Ci piace quindi segnalare ai lettori una delicata raccolta di idilli di Lena Papadaki (forlivese d’origine cretese) e Mauro Marino (pescarese di Popoli) edita da Almayer: “Qualcosa come l’amore”. Si tratta di 19 aforismi in forma di terzine (e relativa illustrazione, come si confà a degli idilli) che ci ricordano come sia “la grazia / della parola giusta / la cosa più nuova del mondo”. Una grazia ricercata per sottrazione, mirando ad una cosciente leggerezza, la più difficile da conseguire. Spesso riuscendoci.
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Forlì underground
Punti di vista di Mario Proli
Un mercoledì da polacchi Ogni mercoledì lo sguardo rigido di Giuseppe Gaudenzi, il grande sindaco democratico della Forlì di inizio ‘900, non ne perde una. Lui è fermo lì da chissà quanto, con il busto fissato su un capitello all’ingresso dei giardini pubblici. Sono loro che gli si piazzano davanti a parlare. Si raccontano le loro vite, si confortano e passano momenti distesi. È da qualche anno che le donne polacche, per lo più badanti, si danno appuntamento al mercoledì nello spazio che anticipa il dipanarsi dei vialetti nella parte antica. A volte sono appena una decina, in altre giornate superano la mezza centuria. Il vecchio Gaudenzi non comprende quello che dicono e come lui non lo capiscono neppure quegli uomini, baldi d’animo nonostante l’età, che fra curiosità e speranze vanno a sedersi nelle panchine vicino a “e spiaz dal gagini”. Gli amici li chiamano “i pulech”.
Uomini col turbante Il 22 agosto la comunità sikh dell’Emilia Romagna è convenuta, per il terzo anno consecutivo, al cimitero di guerra indiano di Forlì per rendere omaggio agli avi caduti in terra di Romagna durante la Seconda guerra mondiale e il cui spirito riposa ai bordi della Ravegnana. Facevano parte delle truppe coloniali inquadrate nell’Ottava Armata Britannica e sono morti per liberare l’Italia dal nazismo e dalla dittatura fascista. Vecchi, adulti e bambini col turbante, provenienti in gran parte dalla zona di Reggio Emilia, si sono avvicendati per rendere il rispettoso omaggio ai soldati di religione sikh morti in battaglia e cremati in grandi pire accese proprio dove adesso sorge il camposanto. Sotto il sole dell’estate 2009, un popolo vestito con i colori sgargianti delle cerimonie si è stretto attorno alla propria memoria portando il saluto al monumento commemorativo.
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continuano le storie della forlì di oggi con tre racconti pubblicati nel 2009. Per far questo sono passati accanto alle tombe dove riposano soldati musulmani della terra pakistana e gurka del Nepal ed hanno sfiorato i nomi incisi sulla pietra di altri soldati di religione indù. A testimoniare la riconoscenza delle istituzioni emiliano romagnole sono intervenuti gli Assessori del Comune di Forlì, Patrick Leech, e quello del Comune di Novellara, Youssef Salmi.
I tortelli della nonna Nonna Claudia è una dinamica forlivese quarantasettenne alla quale la vita ha assegnato il destino di diventare madre a vent’anni di una figlia che, a sua volta, è diventata madre a vent’anni. Tempo fa cominciò a cercare tortelli come quelli che faceva la sua nonna, in grado di trasmettere al nipote quel patrimonio gastronomico a lei tanto caro ma del quale non era riuscita a carpire regole, dosi e segreti. Finalmente, dopo molta ricerca, trovò un negozio di pasta fresca che faceva i tortelli con un sapore veramente uguale e cominciò a frequentarlo. Un giorno la signo-
ra che serviva al banco lasciò la postazione e, attraverso una porta alle sue spalle, s’infilò nel laboratorio. Mentre rientrava con un cabaret di tortelli, il movimento lasciò intravedere un contrasto fra mani color mogano e bianco della farina. Una donna africana lavorava, curva sul tavolo. Accanto alle sue mani un impasto giallo già pronto, compenso di spinaci e una ricotta intonsa. La giovane nonna prese i tortelli, pagò e tornò a casa attraversata da inquietudine. La tradizione, la nonna, i tortelli... Mise l’acqua sul fuoco e la portò a bollore. Quando il nipote entrò in casa con il consueto frastuono lei buttò malvolentieri la pasta. Il piatto arrivò fumante sul tavolo insieme ai dubbi che frullavano nel suo cervello circa la coerenza di quei tortelli. Come li preparavano? Da dove veniva chi tirava la sfoglia?... e gli ingredienti? Aveva praticamente deciso di rimettersi in cerca di un altro negozio quando il nipote richiamò la sua attenzione. “Nonna, sei la cuoca più grande del mondo” esclamò e dall’entusiasmo lanciò un’onda energetica come fanno i protagonisti di “Dragon Ball”: “Kame-kame-ah!!!”.
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IN CAUDA VENENUM
I CLIENTI DELLA CULTURA di Paolo Rambelli Inauguriamo con questo intervento una nuova rubrica, che, come rivela il titolo, vuole porre sul tavolo, senza infingimenti, i problemi che ci sembrano affliggere il mondo cultura forlivese. “Il Melozzo” fu fondato dal “Comitato Pro Forlì Storico Artistica” per promuovere la rinascita culturale della città alla fine della Seconda Guerra Mondiale e, volendo dar seguito a quell’impegno, non possiamo limitarci a segnalare le “buone pratiche” già in atto, ma dobbiamo assumerci anche l’onere di segnalare le cose che – a nostro avviso - non vanno. Confidiamo che questo spazio diventi anche vostro, cioè dei vostri suggerimenti e delle vostre obiezioni. Il 15 novembre abbiamo assistito ad una scena cui non avremmo mai pensato di dover assistere (e davvero non avremmo dovuto): quella della platea del teatro Diego Fabbri completamente vuota in occasione della finale del Premio di Scrittura Teatrale intitolato allo stesso Fabbri. Facciamo un passo indietro per chiarire – per chi non lo conoscesse - che il Premio “Diego Fabbri” è uno dei più importanti premi di scrittura teatrale a livello nazionale, non solo per il prestigio della figura cui si richiama e l’autorevolezza della giuria che effettua le selezioni, ma anche perché a differenza della maggior parte della miriade di premi e premiucoli che (dis)animano la scena culturale italiana (una recente indagine ha rivelato che ogni giorno, in Italia, vengono assegnati 5 diversi premi letterari) il “Diego Fabbri” non si esaurisce in un premio in denaro al vincitore (comunque inferiore al bottino raccolto con le tasse di iscrizione…) ma assegna un contributo oggettivamente consistente (50.000 euro) alla sua produzione, condizionandone la liquidazione alla messinscena in almeno 3 regioni diverse, per non meno di 30 repliche in 3 anni. In poche parole l’obiettivo non è solo quello di stimolare la scrittura di nuovi testi (lo fanno già in troppi…) ma di assicurare – al migliore – la produzione e la circuitazione, in un sistema teatrale che – per tante ragioni – continua a premiare il tradizionale ed il già visto (possibilmente in televisione). Insomma un premio lungimirante e controcorrente, che assomma anche il merito di dare l’ultima parola – e quindi di coinvolgere nel processo di selezione – il pubblico, affidando ad una giuria popolare il compito di scegliere il vinci-
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tore fra i tre finalisti individuati dalla giuria tecnica, assistendo alla loro messa in scena in forma di oratorio a cura di attori e registi locali (non privi di talento) presso il teatro “Diego Fabbri” ad ingresso libero. Ed è proprio a queste messe-in-scena che non si è presentato nessuno. Nemmeno chi si era prenotato. Un fiasco di questa natura non può essere derubricato a mero incidente di percorso. Il premio non era alla sua prima edizione, e Forlì non è comunque una città priva di un pubblico e di una tradizione teatrale, tutt’altro. Nel solo territorio comunale vi sono 3 teatri dotati di una stagione regolare che contano complessivamente più di 1.000 posti a sedere ed oltre 3.000 abbonati. In città operano poi non meno di 4 compagnie professionali di rilievo nazionale che spaziano dal teatro per ragazzi a quello di ricerca, per tacere della miriade di formazioni teatrali giovanili, amatoriali e dialettali che possono vantare a loro volta un folto pubblico. E tutte queste persone dov’erano il 15 novembre? Dov’erano tutti i sedicenti intellettuali forlivesi che hanno assicurato alla città il record del maggior numero di associazioni culturali (col minor numero di soci: del resto per diventare presidenti di un’associazione basta essere in uno)? Dov’erano tutti i paladini della cultura che sono pronti a stracciarsi le vesti (possibilmente in pubblico) ogni volta che s’adombra la possibilità di un taglio dei contributi pubblici ad un’associazione culturale (possibilmente la loro)? Dov’erano i sostenitori della nuova drammaturgia contemporanea che disertano la stagione del teatro comunale perché ospita solo il teatro di tradizione? Dov’erano tutti i cultori della drammaturgia di Diego Fabbri che lamentano pressoché quotidianamente lo scorso impegno della città nel celebrarlo (a partire dai suoi familiari)? Butto là un’ipotesi? A casa, davanti al PC, a scrivere ai giornali o su qualche blog che a Forlì non c’è mai niente? Professionisti del lamento a parte, il problema rimane molto serio. Non si tratta, infatti, solo del fatto che – come ha osservato più che plausibilmente qualcuno – ai forlivesi di Diego Fabbri non importa nulla, che il suo nome torna utile quando si vuole sollevare qualche polemica di parte ma ad approfondirne seriamente figura e ruolo non è interessato nessuno, se non – forse – gli ultimi mohicani del Centro e degli Incontri “Diego Fab-
bri”. Il problema è che a Forlì si è sviluppata ed affermata una visione della cultura “per bande”. A muovere il pubblico – ma sarebbe più corretto a questo punto dire i pubblici – non è tanto l’evento in sé, ma chi lo propone. E non per ragioni di autorevolezza e, quindi, di implicita garanzia di qualità (a quale evento – per quanto irrilevante – gli enti pubblici se la sentono di rifiutare il patrocinio gratuito?), ma per spirito d’appartenenza o di clientela. Il medesimo evento spettacolare proposto nel medesimo spazio da due realtà diverse (pubbliche o private che siano) muove due pubblici completamente diversi e non sovrapponibili. O non li muove affatto, nel senso che questo senso d’appartenenza funziona anche a rovescio, convincendo a starsene a casa anche chi sarebbe potenzialmente interessato a quel dato evento. Il risultato è il panorama culturale polverizzato che tutti abbiamo davanti, in cui ogni associazione cerca di prevalere sull’altra, quando non si limita ad ignorarne le proposte, con buona pace del fatto che sono entrambe teoricamente nate per valorizzare quella data disciplina artistica. E non perché non ne condividano scelte e modalità operative – che spesso sono le stesse – ma per mero personalismo dei dirigenti e perché la torta dei contributi pubblici e dei pochi sponsor privati rimasti si fa sempre più piccola e si infiamma la guerra tra poveri. Con buonissima pace della natura volontaria che dovrebbe avere l’associazionismo culturale. Ecco allora che in una città con 3 teatri (per 3.000 abbonati), 4 compagnie professionali e decine di gruppi semi-professionali o più che dignitosamente dilettantistici non si trovano 50 persone interessate a fare da giuria popolare per un premio di drammaturgia contemporanea di livello nazionale intitolato al più importante uomo di teatro forlivese nel centenario della sua nascita. “Non l’ho promosso io, non l’ha promosso un possibile partner o sponsor, non ci sono soldi da tirare su: non ci vado”. A questo è ridotta la vastissima platea di associazioni culturali forlivesi: al solipsismo e all’autoreferenzialità, alla guerra per bande e alle clientele. Possibili soluzioni? Bisognerebbe comprendere prima le ragioni di questa deriva; ma mettiamo che tra le ragioni vi sia stato un sistema di finanziamento a pioggia (sia pubblico che privato) che non ha distinto tra esperienze di qualità e mere occasioni di gratificazione personale. Beh, in questo caso la soluzione potrebbe non essere troppo complessa. E la crisi aiuterebbe.
WILDT L’anima e le forme
FORLÌ
Informazioni e prenotazioni mostra
Musei San Domenico
tel. 199.75.75.15 - www.mostrawildt.it Riservato gruppi e scuole tel. 02.43.35.35.20 - servizi@civita.it
28 gennaio 17 giugno 2012
Orario di visita
Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì
in collaborazione con
Comune di Forlì
da martedì a venerdì: 9.30-19.00; sabato, domenica, giorni festivi: 9.30-20.00. Lunedì chiuso. 9 e 30 aprile apertura straordinaria.
Alberghi e ospitalità tel. 0543.378075 - cell. 389.5824286 turismo@romagnafulltime.it www.romagnafulltime.it