Il Melozzo 01/2012

Page 1

Tariffa R.O.C., Poste Italiane spa - Sped. in abb. postale, D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1,DCB Forlì - Reg. Tribunale Forlì 6/9/2011 n. 410

Anno XXXXV - N. 1 - marzo 2012 • Abbonamento annuo euro 20,00 - Sostenitore euro 26,00

IN PRIMO PIANO Novecento forlivese

ANDAR PER MOSTRE

Giovanni Pini: il colore vale più del segno

DOSSIER

Wildt, l’anima e le forme da Michelangelo a Klimt


Questa la frase con cui Il poeta Giosuè Carducci definì Villa Pandolfa e Paola Piscopo, attuale proprietaria, ha raccolto quest’eredità contribuendo con grande passione a mantenerne il fascino e la seduzione agreste del passato. Il suo impegno nel conservare le splendide sale, gli affreschi, l’ampio scalone, con una sapiente opera di restauro, rendono sicuramente La Pandolfa una delle residenze d’epoca più significative della Romagna. 1941

Merlot IGT 2009

Via Pandolfa, 35 - 47016 Fiumana di Predappio (FC) Tel +39 0543 940073 - Fax +39 0543 940909 - info@pandolfa.it - www.pandolfa.it

Seguici su Facebook Villa Pandolfa


SOMMARIO

IN PRIMO PIANO

editoriale

04

Novecento forlivese di Marino Mambelli

MUSICA 08

Forlì “capitale” del 150°: un percorso di cultura e identità

La chitarra eclettica di Andrea Benzoni di Stefania Navacchia La stagione musicale 2012 del Teatro Diego Fabbri di Rosanna Ricci

BELCANTO 10 Ines Lidelba: da contessa meldolese a cantante di fama mondiale di Roberta Paganelli

DOSSIER 12 Wildt, l’anima e le forme da Michelangelo a Klimt a cura di Paolo Rambelli

ANDAR PER MOSTRE

18

Giovanni Pini: il colore vale più del segno di Rosanna Ricci

RICORRENZE 22 La scienza e l’arte di Pellegrino Artusi di Mario Proli

Forlì underground 24 Le quattro stagioni dell’uomo nutria di Mario Proli

in cauda venenum 26 Impressioni non oggettive su un viaggio a Roma di Ivano Arcangeloni

«IL MELOZZO»

Che la storia di Forlì abbia fra i connotati principali la passione per l’amor di patria è un elemento consolidato della tradizione culturale. La città ha dato idee, sangue e sacrifici per affermare l’indipendenza e l’identità italiana, in una prospettiva forgiata anche dai valori di libertà, partecipazione e uguaglianza. Ciò detto, con lo sguardo rivolto al passato, era difficile immaginare che una tale tradizione potesse essere così fortemente attualizzata dalle iniziative tenute per il 150° anniversario dell’Unità nazionale. E, per di più, che grazie a questa ritrovata consapevolezza Forlì potesse affermarsi sulla scena italiana, conquistando un ruolo di primo piano grazie all’assegnazione da parte del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano di un riconoscimento speciale alla Città. La consegna è avvenuta in occasione della cerimonia solenne in Quirinale di sabato 17 marzo 2012, ad un anno esatto di distanza dal giorno in cui tutta l’Italia si è stretta al Tricolore per lo straordinario compleanno. Il prestigioso encomio è stato conferito dal Capo dello Stato al Sindaco Roberto Balzani, al quale è riconosciuto il merito di aver contribuito a rilanciare, a livello locale e anche nazionale, un confronto sui temi dell’identità italiana. Vivo in tutti noi è il ricordo della visita ufficiale del Presidente della Repubblica, avvenuta il 7 e 8 gennaio 2011, quando aprì il programma delle celebrazioni. In quell’occasione il Sindaco Balzani, come rappresentante di Forlì e in qualità di professore universitario di storia

contemporanea, propose al Teatro “Diego Fabbri” una lettura del Risorgimento in ambito romagnolo e internazionale che portò il Presidente Napolitano ad indicare la nostra Città quale esempio di come coltivare il confronto con la memoria. Dopo quella visita, Forlì ha vissuto con grande intensità l’anno del 150°, mettendo in campo un programma ricco d’iniziative ed eventi che ha avuto come momenti culminati “L’alba della nazione” in piazza Saffi, il 17 marzo, e il “Pranzo Patriottico” del 4 giugno (entrambi ricordati nello scorso numero del Melozzo). Chi ha seguito in diretta su Rai Uno la cerimonia in Quirinale, durante la quale è stato consegnato il riconoscimento, avrà colto il fatto che il sindaco di Forlì sedesse accanto a quelli delle tre capitali (Torino, Firenze e Roma), alla città natale di Mazzini e punto di partenza dei Mille (Genova), al porto d’approdo delle navi dei Garibaldini (Marsala) e alla città dove nacque il Tricolore (Reggio Emilia). In tutto pochissime città. Perché Forlì? Certamente per i tanti patrioti e per i personaggi autorevoli come Saffi e Maroncelli. Ma, soprattutto, per il contributo offerto oggi all’opera di attualizzazione di valori e ideali che non devono essere considerati reliquie del passato ma energie per il presente e il futuro. Un concetto fondamentale che quella stessa mattina è stato rimarcato dal Presidente Napolitano e, a modo suo, anche da Roberto Benigni, con interventi molto diversi che hanno animato passioni e sentimenti come solo la vera cultura sa fare.

Già Periodico del Comitato Pro Forlì Storico-Artistica, Forlì Primo numero 14 marzo 1968 Direttore: Rosanna Ricci Edizioni In Magazine srl via Napoleone Bonaparte 50, 47122 Forlì tel. 0543 798463 - fax 0543 774044 Stampa: Grafiche MDM - Forlì Uscita trimestrale. Reg. al Tribunale di Forlì il 6/9/2011 n. 410 Redazione: Rosanna Ricci, Roberta Brunazzi, Mario Proli, Paolo Rambelli, Giorgio Sabatini, Gabriele Zelli In copertina “Acquasantiera” di Adolfo Wildt Foto di Giorgio Sabatini Hanno collaborato a questo numero: Ivano Arcangeloni, Marino Mambelli, Stefania Navacchia, Roberta Paganelli

3


IN PRIMO PIANO

NOVECENTO FORLIVESE

4


Viale della stazione, vetrina forlivese del regime. Cartolina illustrata spedita nel 1936.

di Marino Mambelli

ADDIO VECCHIE TRACCE

Novecento, il secolo imprevedibile. Il più veloce, il più contraddittorio. Il più straordinario. C’è un’azienda storica forlivese di interesse internazionale che incarna l’evoluzione del ‘900, è la Bartoletti, azienda leader nella carrozzeria e nei rimorchi. Nata a Carpinello nel 1873, fu per lungo tempo costruttrice di carri, calessi e attrezzature agricole. Il Museo etnografico “Benedetto Pergoli” di Forlì possiede un prezioso “biroccio” costruito proprio dai Bartoletti (i Carradori) nel lontano 1905. Lo sviluppo e l’economia suggerirono il trasferimento dell’azienda in città, vicino alla ferrovia, ed ecco che negli anni ’30 nacque in via Andrea Costa un nuovo stabilimento capace di rispondere a importanti commesse dell’Esercito, della Fiat, delle Ferrovie... Ma poi di nuovo tutto cambiò. I piani regolatori trasformarono le zone industriali del centro in aree di riqualificazione e le aziende, quelle in grado di sostenersi, se ne andarono in periferia, vicino all’autostrada. A Forlì, come in tutt’Italia, quelle aree dismesse oggi sono oggetto di nuova urbanizzazione o, nei casi più importanti, di interesse archeologico industriale. Che storia, quella dell’archeologia industriale: archeologia significa antico, industria manifesta il moderno. Un termine coniato appositamente per rappresentare le contraddizioni del XX secolo e forse per suggerire qualche ripensamento. Ma torniamo al Museo etnografico “Benedetto Pergoli”. Nei suoi depositi c’è un pannello fotografico che ritrae un prodotto degli ex Carradori realizzato qualche anno dopo quel 1905. Era il 1983 e l’Italia intera stava vivendo il grande mito popolare di Azzurra, del forlivese Cino Ricci e della Coppa America. Il viaggio verso Newport (USA) dello scafo simbolo dell’intelligenza italiana fu realizzato utilizzando un rimorchio Bartoletti. Ora Newport e Carpinello sono affratellate da una stessa insegna, da uno stesso museo, da uno stesso secolo, il più bizzarro.

Il ‘900 forlivese in una parola? Emblematico. Erano i primi anni del secolo quando ebbe inizio la demolizione delle antiche mura fortificate forlivesi. Un percorso che ogni città italiana affrontò nella corsa verso lo status di città moderna, senza più divisione tra città e campagna, aperta. La nascita dei viali e delle aree di ampliamento urbano fu una conseguenza quasi irrinunciabile, ma la ragione degli abbattimenti non fu sempre quella legata alla necessità vera. A Forlì giocò una parte importante la cosiddetta modernità. Una legge del 1930 decretò la fine del Dazio e di conseguenza le barriere subirono ogni sorta di destinazione. Nelle loro stanze trovarono spazio banche, uffici pubblici, negozi, la biglietteria del tranvaj, i gruppi rionali fascisti, abitazioni. Poi servì altro spazio: per costruire, come nel caso di porta Cotogni, o semplicemente per liberarsi del vecchio, come in piazzale Ravaldino. Addio anche a sorpassate strutture come lo Sferisterio che nella nostra città costeggiava viale Corridoni. Si giocava il pallone a bracciale e il campo era uno dei più lunghi d’Italia. I lavatoi pubblici di via Andrelini e via Don Bosco seguirono il destino del vecchio da eliminare e così i vespasiani: decine e decine in tutta la città, in via delle Torri, in piazzetta San Crispino, in piazza del Duomo, in piazza Saffi. Oggi in tutta la penisola si rimpiangono i vespasiani.

LA MADONNA DEL FUOCO Quando Mussolini istigò la folla alla distruzione della colonna secentesca della Madonna del Fuoco in piazza Vittorio Emanuele a Forlì, lo fece sulle pagine dell’organo ufficiale socialista locale Lotta di classe di cui era direttore. L’assalto a quello che venne definito il monumento della superstizione portò alla rimozione dello stesso monumento nell’ottobre del 1909. Qualche anno dopo, in perfetta linea con il carattere instabile del ‘900, qualcosa era profondamente cambia-

5


IN PRIMO PIANO

Il biroccio costruito dai Bartoletti a Carpinello nel 1905. Forlì, Museo etnografico “Benedetto Pergoli”.

Un vespasiano in piazza del Duomo. Cartolina illustrata degli anni ’20.

to. La statua, nascosta per anni, fu collocata su di una nuova colonna marmorea in piazza del Duomo. Tra i promotori c’era un certo Benito Mussolini che su Lotta di classe non scriveva decisamente più. Era il 1928, il regime aveva disegnato una nuova Forlì sia dentro che fuori dal centro storico. Soprattutto fuori. Il viale della stazione diventerà la vetrina dell’architettura del ‘900.

LA RIVOLUZIONE SILENZIOSA Da un po’ di tempo, in una scuola elementare di un quartiere popolare di Forlì, il maestro Fratti si stava lamentando perché l’inchiostro dei calamai era letteralmente agli sgoccioli. Abbiate pazienza, aveva risposto più volte, seccato, il direttore. Ma l’inchiostro non arrivava e il maestro un giorno alzò la voce. L’anziana bidella cercò di calmarlo e poi sparì verso la porta del direttore sospirando una frase indimenticabile: stavolta e fa e geval (questa volta diventerà furibondo). Tornò dopo due soli minuti. Aveva una curiosa espressione. Si piazzò davanti al maestro e con tono ufficiale dichiarò: Il direttore ha detto di usare la birra. La birra? Ripeté il maestro. Sì, la birra! Girò i tacchi e uscì dall’aula lasciando all’insegnante il problema da risolvere. Ridemmo tutti, soprattutto per la goffa immobilità del maestro. Cos’ha detto? – pensammo noi bambini – Il direttore è matto. La birra è trasparente... Non può essere usata come inchiostro. Capimmo solo in seguito che il temuto direttore non aveva detto di usare la birra, ma la biro, la sconosciuta penna biro, la moderna penna a sfera inventata dall’ungherese Laszlo Birò. L’anziana bidella forlivese era rimasta simpaticamente vittima di una delle tante rivoluzioni che il ‘900 ha riversato silenziosamente sulla nostra vita trasformandola. Non avremmo mai più abbandonato la penna a sfera. Geniale. Geniale chi? L’inventore Birò o il francese nato a Torino Marcel Bich che comprò il brevetto e invase il mondo con la penna Bic diventando ricco e famoso? Geniale il ‘900. Geniale, imprevedibile. Unico.

6

Marino Mambelli. Marino Mambelli è uno scrittore e giornalista, profondo conoscitore di Forlì e della sua storia. Funzionario responsabile della conservazione immobiliare del Comune di Forlì, ha curato anche mostre, donazioni e cataloghi. La sua ultima fatica data alle stampe è “900 forlivese anzi italiano”, corposa raccolta di storie e immagini della città edita da La Mandragora, che si presenta come un saggio dal taglio giornalistico in cui convivono aneddoti e documenti ufficiali, costruzioni e devastazioni, sorrisi e paure. Il tutto raccontato con uno sguardo attento e appassionato, capace di cogliere le tante sfaccettature di questo formidabile secolo.


Il secondo volume delle “52 domenIche In Romagna” Un nuovo viaggio in un territorio che non smette di stupire

le cIttà e I boRghI, la natuRa e la stoRIa, la costa e l’entRoteRRa Le “52 domeniche in Romagna” tornano con un secondo volume che narra il “sapore” dei luoghi e accompagna il lettore verso le mete più insolite e affascinanti per il week-end.

Una guida, organizzata come sempre in 52 itinerari, arricchita dalla segnalazione di curiosità, luoghi nascosti e esperienze suggestive, perché ogni domenica diventi indimenticabile.

Per ordini e informazioni: Tel . 0543.798463 Fax 0543.774044 | info@inmagazine.it | www.inmagazine.it


MUSICA

La chitarra eclettica di Andrea Benzoni

Andrea Benzoni durante una performance alla chitarra.

di Stefania Navacchia Entrare in un mondo come quello della musica spesso significa perdersi in fiumi, canali e rivoli che si incrociano, si intrecciano, si avvicinano, si separano, formando idealmente i disegni più impensati, che sono la rappresentazione più autentica dell’esperienza di un artista che vuole immergersi in toto nell’universo musicale. Con queste premesse vogliamo cercare di descrivere il “disegno” del forlivese Andrea Benzoni che ha iniziato a studiare musica quasi per gioco. Durante le lezione private sentì la necessità di andare oltre gli schemi rigidi del suo primo insegnante, non troppo aperto alle soluzioni non convenzionali dell’allievo. Presto sentì l’esigenza di unire formazione e lavoro concreto con la musica: a sedici anni cominciò a suonar in varie orchestre da ballo e a diciotto si diplomò alla High School in Oregon, dove conobbe Howard Roberts, da cui fu introdotto agli studi jazzistici. Ventenne risiedette circa un anno a Parigi per eseguire la musica dello “Hot Club de France” (Grappelli-Reinhardt). Tornato in Italia, frequentò il conservatorio dedicandosi anche allo studio della chitarra classica, del pianoforte e della composizione. Nel suo vagare in questo universo in continua espansione Benzoni trovò “guide” importanti come G. Haus, con cui approfondì lo studio della musica elettronica, Tomaso Lama per il jazz e Giovanni Unterberger per il fingerstyle. Il suo rapporto con l’estero continuò frequentando diverse sessioni presso la Berklee College of Music e Boston e vari seminari con artisti come Jim Hall, John Abercrombie, Joe Pass. Parallelamente lo studio proseguì anche in Italia sia a Bologna con la laurea in Musica d’uso e in Musica elettronica (composizione moderna ad indirizzo multimediale), sia a Milano studiando direzione d’orchestra con Maurizio Dones. Grazie a questa formazione multiforme il rapporto “ad ampio raggio” che Benzoni ha con la musica gli consente di affrontare i più diversi generi. Se da un lato questo eclettismo è difficile da gestire perché costringe ad affrontare situazioni complesse, dall’altro propone sfide sempre affascinanti, nuove, profonde e ricche. Un simile approccio multidirezionale al mondo della musica si traduce concretamente

8

in una molteplicità di impegni lavorativi e di ruoli che Benzoni può assumere: si crea una situazione che egli considera nello stesso tempo “fortuna” e “dannazione”, ma in ogni caso gli offre occasioni di “giocare con la musica”, o meglio “giocare con il suono”. È interessante qui ricordare che nella lingua inglese il verbo “to play” ha il doppio significato di “suonare” e “giocare” e proprio questa duplice valenza si avverte ascoltando Benzoni: questo “giocare con il suono” appare evidente in alcuni suoi brani come Guitara, dall’omonimo cd del 2011, completamente costruito sul suono di una corda della chitarra elaborata elettronica-

mente in diversi modi. Questo atteggiamento eclettico lo ha portato a collaborare con artisti provenienti dalla musica colta come Danilo Rossi e Giuseppe Ettorre, rispettivamente prima viola e primo contrabbasso dell’Orchestra Filarmonica della Scala, con i quali nel 2003 ha realizzato il cd Amico Mio. Come solista ha partecipato a numerosi Festival ed è stato scelto per una raccolta della Mel Bay. Sta lavorando a una nuova performace, già presentata in Repubblica Ceca, dove è sul palco da solo con le sue chitarre e spera di portarla anche a Forlì per renderci partecipi delle sue esplorazioni degli universi musicali.


La stagione musicale 2012 del teatro Diego Fabbri

Il violinista Paolo Chiavacci (in alto) e l’Orchestra Maderna (in basso).

di Rosanna Ricci Una partenza col botto è la stagione musicale del 2012 al teatro Diego Fabbri di Forlì. La rassegna è stata aperta il 31 gennaio con un nome di eccellenza: il grande violinista Uto Ughi, nato a Busto Arsizio (Varese) nel 1944 e considerato tra i maggiori violinisti del nostro tempo con un percorso musicale che lo ha visto presente in tutto il mondo. A Forlì Uto Ughi viene volentieri “perché mi piace la spontaneità e la partecipazione emotiva del pubblico”, spiega il violinista. Poi, riferendosi all’attuale situazione musicale in Italia aggiunge: “C’è da salvare la tradizione della cultura musicale italiana. Oggi in Italia sono state chiuse oltre 200 associazioni musicali e 4 grandi orchestre sinfoniche, per mancanza di fondi. Ce n’è rimasta una sola, mentre, ad esempio, la sola Berlino ne ha dieci”. Ughi suona due splendidi strumenti: un violino Guarneri del Gesù del 1744 e uno Stradivari del 1701 ma, secondo il musicista, gli strumenti sono solo “un mezzo per trasmettere un messaggio che va al di là delle note e raggiunge il cuore. In questo caso i cuori dell’ascoltatore e del musicista battono assieme”. Assieme ad Uto Ughi sul palco c’era anche la forlivese Orchestra Maderna con Paolo Chiavacci (violino concertatore). Questa orchestra ha vinto, assieme all’Associazione Amici dell’Arte, il bando per organizzare gli eventi musicali al Diego Fabbri. A loro si è poi associato l’Istituto Musicale Masini con tre concerti fuori abbonamento da tenersi nella Sala Sangiorgi dell’Istituto. Molto attesa la serata del 2 aprile con “Rien De Rien”, le canzoni di Edith Piaf interpretate dalla voce della forlivese Daniela Piccari con interventi di danza di Giorgia Maddamma, concertatore ed arrangiamenti di Valentino Corvino. Il 21 aprile il musicologo e critico Angelo Foletto converserà sul concerto “La viola romantica” che verrà interpretato da Danilo Rossi (prima viola della Scala) e Stefano Bezziccheri (pianoforte). I brani scelti sono di Glinka, Schubert, Schumann. Il concerto del 23 aprile si terrà all’Abbazia di San Mercuriale e ve-

drà la presenza di Paolo Chiavacci, Alfredo Persichilli e Pier Narciso Masi che eseguiranno un concerto e sinfonia “Eroica” di Beethoven. Seguono due appuntamenti di jazz: il 4 maggio “Beatles in jazz” con Danilo Rea, Ellade Bandini e Ares Tavolazzi; il 17 maggio Enrico Pieranunzi (pianoforte), Fabio Petretti e Paolo Silvestri con la Italian jazz orchestra saranno gli autori di “Per piano e orchestra”. I concerti fuori abbonamento realizzati in collaborazione con l’Istituto musicale “Masini” si sono tenuti il 1° marzo con Ombretta Macchi (soprano) e Filippo

Bulfamante (pianoforte) che eseguiranno melodie russe. Il 24 marzo il duo pianistico di Firenze (Sara Bartolucci e Rodolfo Alessandrini, considerati il duo pianistico fra i più originali ed eclettici degli ultimi tempi) ha eseguito brani di Czerny, Piazzolla, Addinsell, Rossini. Il 13 aprile concluderà la rassegna, alla Sala Sangiorgi, il chitarrista Claudio Marcotulli con musiche di Sor, Tarrega, Mangore, Ponce. Per prenotazioni e informazioni: tel. 0543712168, 054362821 cell. 3284604732.

9


Belcanto

Ines Lidelba: da contessa meldolese a cantante di fama mondiale di Roberta Paganelli Proseguendo nel mio itinerario romagnolo di riscoperta delle voci che hanno dato lustro alla Romagna, ho ritenuto doveroso rievocare la raffinata soubrette forlivese Ines Lidelba (Forlì 1893 - Bologna 1961), perché era stata ingiustamente dimenticata. In occasione del cinquantenario della morte ho dato alle stampe la lunga ricerca, che ha messo in luce le rare doti artistiche e gli altissimi livelli di gradimento raggiunti, la popolarità insomma. Il volume Ines Lidelba, la contessa soubrette (Ed. Risguardi, Forlì) è stato presentato il 16 dicembre 2011 nella Biblioteca “A. Saffi” di Forlì, dove ha avuto luogo anche la commemorazione alla presenza dell’Assessore alla Cultura Patrick Leech. Il titolo vuole rispecchiare volutamente i nobili natali della famiglia di origine meldolese, i Conti Fronticelli Baldelli. L’artista aveva adottato lo pseudonimo di Lidelba ricavandolo dall’anagramma imperfetto del secondo cognome, Baldelli, per evitare situazioni di spiacevole imbarazzo ai suoi genitori che non condividevano la scelta artistica intrapresa, in quanto, come lei stessa dichiarò nell’autobiografia, per la loro rigida formazione cattolica non potevano approvare che frequentasse un mondo così effimero e pieno di tentazioni. Non si deve però dimenticare che anche se la Lidelba fece parte della “lirica minore”, considerata a torto un genere inferiore, per la grazia, l’eleganza, l’aspetto aristocratico si distinse sempre tra le altre interpreti coeve, quali Nanda Primavera, Isa Bluette, Nella Regini, artiste di quel mondo sfavillante di lustrini, di piume e di ricercate toilettes che si erano pienamente affermate quando il genere stava ormai avviandosi al tramonto. Dalla ricerca emergono non solo un ritratto e uno spicchio di storia e di costume, ma il modello di una femminilità signorile, altera, sensuale e insieme luminosa nel brio e nella comunicativa. La quartina del poeta romanesco Umberto Asquini dedicata alla Lidelba compendia i plurimi talenti della soubrette: Nobile, bella, brava, seducente, fiore sbocciato in tera romagnola, lei sa fa’ tutto in modo sorprennente: recita, canta, balla, scrive e vola!

10


Un ritratto fotografico di Ines Lidelba in abiti di scena (a sinistra).

Si sono pure rintracciati gli autografi di illustri compositori, come Franz Lehár, colui che ha legato il nome in particolare al successo trionfale dell’Operetta par excellence, ovvero La Vedova Allegra: A Ines Lidelba, deliziosa Clo-Clo, Gigolette suggestiva, Sonia vibrante di passione e di umanità, felice di averla finalmente conosciuta; con ammirazione per il suo fascino e la sua viva sensibilità d’artista, con l’augurio di tanti nuovi trionfi come questo dello Zarevich, con simpatia vivissima e gratitudine affettuosa. Persino il celebre cartellonista triestino Marcello Dudovich disegnò per lei un bozzetto e un bellissimo manifesto nel 1926-’27, che la ritrae altera, imponente, immersa tra le piume morbide di un boa ed esaltata tra stoffe rigonfie, mosse dal vento. Lidelba ebbe un’intensa e splendida carriera, ricca di soddisfazioni e di applausi, conseguiti in Italia e in lunghe e favolose tournée in America del Sud nel 1924 e nel 1925, cui fece seguito il precoce abbandono delle scene nel 1933 quando l’artista era ancora in forma smagliante, poiché privilegiò al momento giusto - proprio come l’altra diva dell’operetta Gea della Garisenda - la sfera privata al pubblico successo. Imboccò allora malinconicamente il viale del tramonto, che le risultò difficile da percorrere, perché, com’era avvenuto anche a qualche altra famosa artista, non riusciva a vivere lontana dal teatro, che “era stato tutta la sua vita”. Nonostante l’inadeguatezza della fonografia di quegli anni e la consunzione degli storici e fragili settantotto giri, faticosamente rintracciati presso alcuni collezionisti, riaffiora la voce di un soprano lirico-leggero di eccellente gusto nel “porgere”, nel fraseggio, nella mezzatinta, nell’articolazione espressiva, nel brio che cerca di trasmettere al microfono l’illusione della scena. “Ma deliziosi nella vocalità limpida e sensuale sono anche i brani dalla Bajadera e dalla Duchessa di Chicago di Kálmán: Un dolce slow fox con Mary è incantevole anche sotto la polvere del tempo. Sono poche istantanee di musica, ma bastano a capire perché la Lidelba “fosse la Lidelba”, come scrive il noto critico triestino Gianni Gori nella prefazione del volume. Forlì, la sua città natale, le ha dedicato una saletta nel Museo Romagnolo del Teatro, sito nel Palazzo Gaddi, dove

si conservano alcuni significativi ricordi legati alla splendida ed intensa carriera della soubrette che ben volentieri accettò di fare una donazione, come attesta la lettera di risposta inviata il 30 ottobre 1952 ad Antenore Colonnelli che le aveva scritto: “Ella, che ebbe e conservò intera la notorietà acquisita con un’arte inimitabile nel campo operettistico, vorrà certo incoraggiare con l’adesione l’iniziativa partita da concittadini che si onorano

Il ritratto ad olio di Ines Lidelba realizzato da Amilcare Casati e conservato nel Museo Romagnolo del Teatro (sotto). Foto Giorgio Sabatini.

di Lei, come uno degli astri maggiori apparsi sulla scena di ogni parte del mondo”. Nella “saletta Lidelba” si possono ancora oggi ammirare alcune interessanti foto, due grandi bauli da viaggio, un ritratto ad olio del pittore forlivese Amilcare Casati, un album contenente varie recensioni delle gratificanti esibizioni e la sua autobiografia, La mia vita nell’operetta, uscita in un numero così ridotto di copie da essere oggi quasi introvabile.

11


DOSSIER

WILDT, L’ANIMA E LE FORME DA MICHELANGELO A KLIMT a cura di Paolo Rambelli La mostra su Adolfo Wildt (Milano 1868 – 1931) è stata realizzata partendo dall’eccezionale numero di opere donate a Forlì dal marchese Raniero Paulucci di Calboli che fu amico e mecenate del grande scultore, vero genio dimenticato del Novecento italiano. Dopo la grande fama raggiunta in vita, quando venne celebrato alle Biennali di Venezia e nominato Accademico d’Italia, Wildt è stato cancellato per molto tempo, a partire dalla seconda guerra mondiale, dalla storia dell’arte italiana. Ai suoi tempi la sua fortuna fu controversa, tra gli ammiratori colpiti dalla sua grande tecnica e i detrattori, che li criticavano per i suoi contenuti ritenuti oscuri e le sue scelte formali considerate altrettanto eccentriche. Oggi torna ad affascinarci per la sua solitaria grandezza, fuori dal suo tempo e proiettata in un eccezionale dialogo con il passato che questa mostra restituisce. La mostra in San Domenico non è una rassegna semplicemente monografica, anche se sono presenti tutte le opere fondamentali (tranne quelle non trasportabili), ma pone in relazione le sue sculture e i suoi disegni con le opere degli artisti, pittori e scultori antichi cui si è ispirato, come i greci, Donatello, Ghirlandaio, Bramante, Bramantino, Dürer, Bambaia, Bronzino, Michelangelo, Bernini, Canova, e con quelle dei contemporanei, come Klimt, Previati, Casorati, De Chirico, Morandi, con cui si è confrontato. O, ancora, gli artisti che lui stesso ha influenzato, come Fontana e Melotti, suoi allievi all’Accademia di Brera.

ADOLFO WILDT. LA VITA 1868. Nasce a Milano, primogenito dei sei figli di Adamo Wildt, portinaio a Palazzo Marino. 1877 – 1890. Dopo essere entrato a undici anni come garzone nello studio di Giuseppe Grandi, lavora, a partire dal 1888, per i più noti scultori lombardi del tempo. Segue all’Accademia di Brera la Scuola Superiore d’Arte Applicata.

12


La “Venere di Milo” e il “Galata morente” nell’interpretazione di Wildt, poste nella sala delle quattro colonne del Museo San Domenico. Foto Giorgio Sabatini.

13


DOSSIER

“Santa Lucia” (1927), opera di Wildt della Pinacoteca Civica di Forlì. Foto Giorgio Sabatini.

1891 – 1893. Nel 1891 sposa Dina Borghi e nel 1892 nasce la primogenita Artemia. La vedova del 1892, ritratto della moglie, viene esposta nel 1893 alla Società per le Belle Arti a Milano e acquistata nel 1894 dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. 1894 – 1912. Sottoscrive con il collezionista prussiano Franz Rose un contratto di esclusiva durato diciotto anni, sino alla mor-

14

te del suo mecenate, cui doveva assicurare il primo esemplare di ogni sua scultura, per uno stipendio annuo di quattromila lire. Viaggia ed espone a Monaco, Zurigo, Berlino, Dresda, partecipando solo episodicamente alle mostre milanesi. Lavorando solo per collezionisti tedeschi, invia in Germania più di cinquanta sculture in marmo. Dopo avere attraversato, dal 1906 al 1909, una grave crisi depressiva e creativa, ne esce re-

alizzando Maschera del dolore, il proprio autoritratto siglato con tre croci. Il Vir temporis acti del 1911 e Carattere fiero – Anima gentile del 1912 caratterizzano una fase violentemente espressionistica della sua poetica. Dal 1900 lavora ad una monumentale fontana con tre figure la Trilogia, destinata a Rose, terminata ed esposta a Milano nel 1912, dove vince il prestigioso premio Principe Umberto. 1913 – 1918. Con il Prigione del 1915 chiude la sua prima fase, caratterizzata da un tragico eroismo virile, per inaugurare con L’anima e la sua veste del 1916, Madre adottiva e Un rosario, entrambi del 1917, Maria dà luce ai pargoli cristiani del 1918 una nuova stagione creativa caratterizzata dalla ricerca di una intensa spiritualità, rappresentata in diafane figure femminili. 1919 – 1925. Dopo il successo della sua personale alla Galleria Pesaro di Milano nel 1919, dove presenta la straordinaria Vittoria, si apre un periodo felice, caratterizzato da un grande estro creativo e da una produttività favorita anche dal rapporto con Giuseppe Chierichetti, un facoltoso industriale che gli procurò numerose commissioni. Nel 1925 viene premiato all’Esposizione Internazionale delle Arti Decorative di Parigi. Tra il 1923 e il 1924 esegue i celebri ritratti di Mussolini e di Toscanini. 1926 - 1931. Dopo aver realizzato il busto colossale di Pio XI, partecipa nel 1926 con l’erma di Nicola Bonservizi alla I Mostra del Novecento Italiano a Milano organizzata da Margherita Sarfatti, che favorirà l’esposizione delle sue opere alle mostre itineranti del gruppo in tutto il mondo. Nel 1928 vengono collocate le erme eroiche di Filzi, Battisti e Chiesa nel Monumento alla Vittoria di Marcello Piacentini a Bolzano e il colossale Sant’Ambrogio di bronzo nel Monumento ai Caduti della prima guerra mondiale a Milano. Nel 1929 è nominato membro dell’Accademia d’Italia presieduta da Guglielmo Marconi e partecipa alla II Mostra del Novecento Italiano. Nel 1931, dopo l’importante retrospettiva dedicatagli dalla I Quadriennale romana, muore a un mese di distanza dalla scomparsa dell’amatissima moglie Dina.


Il busto di Mussolini (1923) (in alto). Foto Giorgio Sabatini.

“Vir temporis acti” (1911) (in basso a sinistra).

“Il Prigione” (1915) (in basso a destra).

UOMO DI DOLORE L’IMMAGINE DELL’ARTISTA Tra le tante testimonianze del fascino che suscitava l’aspetto ascetico, nervoso e la personalità inquieta di Wildt, resta indimenticabile quella di Ugo Ojetti, il potente critico che fu un sostenitore dell’artista, cui dedicò nel 1926 un bellissimo saggio pubblicato su “Dedalo”. “La sua voce ha alti e bassi improvvisi: o grida o bisbiglia. Di corpo è piccolo e lieve, agile a cinquantasett’anni quanto un adolescente. I capelli sono radi, grigi, corti e ritti. Sul volto raso, ossuto quanto un teschio, la pelle elastica e bruna si distende e si raggrinza in smorfie eccessive […] Tutto è mobile, occhi, sopracciglia, palpebre, narici, labbra, orecchie, e tutto si sposta su quella faccia cubica a distanze inaspettate. Le sopracciglia, ecco, si congiungono ad angolo ottuso sul mezzo della fronte, componendo una maschera tragica e plorante, che tien del giapponese”. Wildt stesso si era rappresentato come una Maschera del dolore nel celebre Autroritratto del 1909, eseguito alla fine di quei tre terribili anni di profonda crisi depressiva e di impotenza creativa. Sempre come “uomo di dolore” Wildt si è rappresentato in altri autoritratti, come quelli a carboncino del 1916 o quello, inquietante, tracciato con una semplice linea di inchiostro nel 1928. Altrettanto drammatici appaiono gli straordinari ritratti fotografici eseguiti dal suo fotografo prediletto Emilio Sommariva. Alla domanda: “Quali professori ebbe? Frequentò l’Accademia o è un autodidatta?”, Wildt rispose secco: “Autodidatta”. Egli considerava i suoi veri maestri tutti quegli artisti da lui studiati sulle riproduzioni fotografiche di cui faceva gran uso. Queste furono i veri strumenti del suo lavoro e il veicolo per la formazione di quello straordinario universo visivo, esteso dall’arte egizia al Novecento, che affiora nelle sue opere. In una lunga lettera autobiografica inviata a Carlo Siviero nel 1915, troviamo questa rivelazione: “Fin da ragazzo, anche da semplice esecutore di marmi, studiai con selvaggia intensità i nostri maestri antichi per i

15


DOSSIER

Monumento funebre ad Aroldo Bonzagni (1919).

quali mi formai un vero culto. Anatomizzai con stragrande spasimo ogni piccola parte del patrimonio artistico italiano e straniero, analizzai ogni cosa e seppi trovare elementi che ancora si ignorano. È questo studio lungo e faticoso l’unica fonte della mia arte e a questo aggiungo il mio potente bisogno di sincerità”. Per raggiungere questi effetti Wildt studiò a lungo, come confermano le sue fotografie e le sue dichiarazioni, le opere a tale proposito più congeniali per la loro straordinaria esecuzione, come la scultura decorativa bizantina o rinascimentale, ad esempio il lombardo Bambaia definito nel trattato L’arte del marmo (1922) “quel peritissimo, anzi irraggiungibile lavoratore del marmo”.

LE MASCHERE E IL VOLTO DA GHIRLANDAIO A CASORATI Il tema della maschera, della maschera e il volto, il rapporto cioè tra l’essere e l’apparire, molto diffuso anche nella letteratura del Novecento (pensiamo a Pirandello, Bontempelli, Rosso di San Secondo), ha avuto sempre un ruolo dominante nella poetica e nella ricerca formale di Wildt, consentendogli di sperimentare nuove soluzioni che lo fanno entrare in sintonia con la pittura del tempo. Basti pensare alle analoghe ricerche di Casorati. Già nel suo primo periodo questo motivo sembra affiorare nel gioco del doppio che caratterizza Carattere fiero-Anima gentile e del resto la Maschera dell’idiota, una delle sue opere più note e replicate è derivata da un lavabo oggi perduto, realizzato nel 1903 per Franz Rose, intitolato Spirito e Materia, da cui nel 1918 lo scultore ha ritagliato il solo motivo della maschera che, segandone via il mento, ha reso più inquietante. Ma l’opera in cui il motivo assume maggior ampiezza è l’eccentrico Monumento funebre ad Aroldo Bonzagni, in origine nel Cimitero Monumentale di Milano, dove le tre maschere alludono ai diversi registri della pittura del defunto, ma rappresentano anche

16


“Carattere fiero, anima gentile” (1912) (in alto). Foto Giorgio Sabatini.

“San Francesco” (1926) (in basso a sinistra).

Ritratto di Fulcieri Paolucci de Calboli (1921) (in basso a destra). Foto Giorgio Sabatini.

i topoi dell’estetica di Wildt: il Dolore ha il volto contratto dell’espressionismo, la Commedia il sorriso enigmatico della scultura etrusca o di quella della Grecia arcaica, la Satira richiama le maschere del teatro romano. Wildt ha saputo muoversi in una gamma estesa di riferimenti, tra l’antichità classica, il Rinascimento, come nel caso delle maschere che servivano per coprire un ritratto, celare cioè il volto, e il contemporaneo Casorati. Anche nei ritratti Wildt riesce ad affrancarsi dalle convenzioni, trasfigurando i volti con raffinati riferimenti al passato. Nelle due teste incantate di bambini, Augusto Solari e Julia Alberta Planet, ritroviamo echi dalla scultura e dalla pittura del Quattrocento, e di Dürer. Mentre il giovane martire della grande Guerra Fulcieri Paulucci de’ Calboli sorride enigmatico come un kouros greco, e ci fissa dal fondo d’oro delle sue occhiaie vuote.

RANIERO PAULUCCI DI CALBOLI AMICO E MECENATE DI WILDT Il marchese Raniero Paulucci di Calboli, uomo di vasta cultura sociale e artistica, già ambasciatore in Spagna, esponente dei “da Calboli” ricordati da Dante nel XIV Canto del Purgatorio, muore il 12 febbraio 1931, un mese prima di Wildt. I rapporti tra i due datano 1919, quando ex combattenti amici di Fulcieri, figlio di Raniero, commissionano a Wildt il ritratto in marmo dell’eroe, medaglia d’oro, simbolo della resistenza civile dopo Caporetto, mancato in febbraio. Di quel ritratto, esposto nel ’21, Raniero Paulucci vorrà un altro esemplare per la “casa di Fulcieri” che intende donare alla città di Forlì. Quando da Giacomo Barone, capo gabinetto Esteri, e da sua figlia Camilla, nascerà un nipotino, chiamato Fulcieri, cambierà però idea: la casa resterà all’erede, ed il genero otterrà per decreto reale il nome Paulucci ed il titolo nobiliare. Raniero destina così, nel nome di Fulcieri, un lascito importante alla città, comprendente le sette amate opere commissionate negli anni a Wildt e tutte esposte in mostra.

17


ANDAR PER MOSTRE

Giovanni Pini: il colore vale più del segno di Rosanna Ricci Le belle sale del Palazzo del Monte di Pietà (Corso Garibaldi, Forlì) ospitano fino al 7 aprile una mostra di opere pittoriche e collage di Giovanni Pini, nato a Bologna nel 1929 e residente a Solarolo (Ravenna). Noto soprattutto come docente di latino e greco per circa quarant’anni al Liceo Classico di varie città, Pini ha sempre coltivato, in parallelo con le materie classiche, un profondo amore per la pittura. Conoscendo questa qualità “nascosta” del docente i suoi ex allievi, ammirati dalla sua ampia cultura e forte sensibilità, hanno voluto organizzare l’attuale mostra. Giovanni Pini ha legato il suo nome di grecista all’unica traduzione in italiano del “Panarion” di Epifanio. L’aspetto invece che è rimasto in ombra è stato il suo carattere riservato, quel “silenzio” che compare nelle sue opere. Non si creda però che tale silenzio significhi tristezza, fuga dal mondo, indagine inquieta di sé. Al contrario, è un modo dolcissimo per sentirsi a proprio agio fra colori, toni e timbri, creati manualmente polverizzando elementi naturali come sassi, pietre, erba o foglie, poi costruendo pastelli o conservando le polveri e la sabbia dentro vasetti graduati in base alle tonalità. In pittura Pini è autodidatta. Quel che desidera è trasmettere con colori e composizioni, sempre molto essenziali, il suo stato d’animo, le sue emozioni. E tutto questo appare nel suo studio. Accanto a numerose tele accatastate, ai pennelli e alla carta per collage, aleggia un’atmosfera di sogno, di equilibrio, di vita che emerge da tutti gli oggetti. Collage, ecco la parola in cui la creatività di Pini si evidenzia con maggior naturalezza e capacità. In genere è carta stropicciata, trovata in terra per strada. Carta di nessun pregio, pagine strappate da giornali, carta da pacchi usata: questo materiale da riciclo si trasforma, sotto le mani dell’artista, in un paesaggio, in un albero, nei fiori o in una natura morta. Lo stesso avviene con le polveri e le sabbie a loro volta incollate sulla tela seguendo con intransigente discrezione le forme di un vaso

18

o di una zucca. Certo, quel che conta è la pazienza e a quanto pare Pini ne ha tanta e l’ha dimostrato anche quando era in cattedra ad insegnare a classi formate da 36 alunni. L’artista aggiunge alla pazienza, il rigore, l’equilibrio e il piacere della sperimentazione. I suoi temi sono quasi tutti ispirati alla Romagna: nei paesaggi c’è la poesia e la luce delle atmosfere mattutine o serali. “Se qualcuno, osservando i miei quadri, prova qualche emozione, anche se modesta, io sono contento”. Pini è infatti come si presenta nei suoi dipinti: umile e sincero, completamente avvolto nei suoi “sogni colorati” in cui “riesce a trasfigurare - come ha scritto Franco Basile - poeticamente sia la realtà sia il dato culturale”.


Tre opere di Giovanni Pini che illustrano le tecniche predilette dall’artista: collage, pittura ad olio, utilizzo di polveri e sabbie. Foto Giorgio Liverani.

19


ANDAR PER MOSTRE

I tre artisti che compongono la “squadra” dei Grovignani (a sinistra).

Due opere dei Grovignani: “Vola vola” (in alto a destra) e “Poi rimetti tutto in ordine” (in basso a destra).

I GROVIGNANI Sempre sulla breccia e sempre pieni di idee e di entusiasmo, i Grovignani sono i protagonisti della mostra allestita, fino al 31 marzo, fra gli antichi tini nel ristorante La Vëcia Cantêna d’la Prè di Predappio Alta. Partiamo dal nome: Grovignani è l’acronimo dei cognomi dei tre artisti romagnoli Franco Gianelli in arte Grota, Paolo Vignali e Vanni Perpignani. L’idea, nata inizialmente quasi per gioco, è quella di realizzare quadri con l’apporto nella stessa opera, come idee e come tecnica, di ciascuno di loro. In pratica il quadro trova una sua definizione

20

man mano si procede nella sua realizzazione: un percorso, dunque, sempre in fieri. Il tema iniziale “si forma e si deforma”, nel suo svolgersi sulla tela, perché ogni pennellata suggerisce continue modifiche a una fantasia sempre in fermento e pronta a cogliere stimoli e a rilanciarli agli altri facendo dell’imprevedibilità la molla efficace degli interventi sulla tela. In questo modo i tre artisti mettono in atto una creatività che si rigenera continuamente secondo modalità ispirate da ciascun componente ma mediate secondo una forma rigorosa e ben definita. I colori

sono sempre molto vivaci e l’emozione si avverte fin dal primo impatto con l’opera. Poi ci sono i simboli: ogni tela è una metafora del quotidiano visto semmai con gli occhi di una sorridente ironia. La stessa ironia dichiarata dal titolo della mostra: “In braghe di Tele Rattoppate”. In altre parole sono “quadri nuovi e tele dal tempo trascurate, rispolverate e rivitalizzate, rattoppate di sentimenti, - dicono gli artisti - ricostruite in nuove storie e rammendate d’emozioni che avranno nuova vita e regaleranno una nuova visione”.



RICORRENZE

La scienza e l’arte di Pellegrino Artusi

Le copertine di varie edizioni dell’opera di Pellegrino Artusi.

di Mario Proli Tra le tante ricorrenze il 2011 ha ricordato anche un grande romagnolo e un grande italiano: Pellegrino Artusi. Perché di anniversari che intarsiano la memoria dello “scienziato del buon gusto” se ne contano ben tre. L’occasione di carattere biografico è rappresentata dal centesimo anniversario della morte, avvenuta esattamente il 30 marzo 1911, pochi mesi prima del novantunesimo compleanno. Insieme al doveroso omaggio alla data della scomparsa, però, è altrettanto importante rendere riconoscimento ai 120 anni dell’opera che lo ha reso immortale e cioè “La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene”. Pubblicato inizialmente nel 1891, il libro è letteralmente esploso in termini di capacità seduttiva e di tirature. Ad oggi conta numerosissime ristampe (il conto ha oltrepassato quota 110), con traduzioni in varie lingue e, soprattutto, una presenza autorevole sulle mensole di cucina di tantissime case anche oltre la soglia del terzo millennio. Per definizione dell’autore si trattava di un “Manuale pratico per famiglie”, con attenzione a condividere con i lettori l’accuratezza per l’igiene, l’economia e la valorizzazione dei sapori, partendo da una base di ricette (dalle 475 della prima copia si passò all’assetto di 790 nella versione definitiva), con corredo di menù stagionali e per le festività, un’appendice dedicata agli “stomaci deboli”, consigli e commenti. In queste pagine, l’Italia post unitaria che tentava di mettere in contatto pezzi di territorio prima separati da frontiere e barriere militari, trovò una dimensione familiare stufe, fuochi di cucina e tavole imbandite. Da qui un terzo motivo di riflessione, che si interfaccia direttamente con il 150° anniversario della nascita della nazione italiana e che riconosce l’importanza di Artusi nel processo di creazione di una nuova identità nazionale, non solo gastronomica ma anche linguistica. Lui, nato nell’agosto 1820 a Forlimpopoli, fu protagonista di un ponte permanente fra la Romagna, Bologna, Firenze e la Toscana, e attraversò le vicende risorgimentali al pari dei suoi coetanei (un anno solo lo separava dall’età di Aurelio Saffi, classe 1819) in luoghi in cui l’amor di patria era divenuto energia del

22

rinnovato tessuto sociale. Di quegli ambienti progressisti presenti nella Legazione pontificia forlivese e nel Granducato dei Lorena aveva conosciuto i personaggi e gli umori. Celebre è il ricordo dell’incontro con Felice Orsini, consumato ai tavoli della trattoria dei “Tre Re” a Bologna nel 1850 che viene raccontato nella ricetta n.235 “Maccheroni col pangrattato”. Un racconto che rievoca lo spirito rivoluzionario dei commensali e che, con una ironia efficace quanto cinica, ricorda il fallito attentato di Orsini a Napoleone III e la successiva esecuzione capitale, riportando subito dopo l’attenzione sugli alimenti con la definizione “Torniamo a bomba!”. Di Firenze conobbe i momenti esaltanti del periodo rivoluzionario 1848-49, poi, in seguito, all’Unità visse i fasti degli anni in cui fu capitale del Regno, proseguendo quindi il suo percorso umano e di letterato-gastronomo a contatto con la straordinario patrimonio artistico e culturale che contraddistinse la città bagnata dall’Arno anche dopo il trasferimento della capitale a Roma. Le amicizie, da quella con lo scienziato (lombardo di nascita e fiorentino d’adozione) Paolo Mantegazza allo scrittore romagnolo Olindo Guerrini (con lo pseudonimo di Lorenzo Stecchetti), evidenziarono l’alto livello dei suoi interlocutori, mentre grazie all’esponenziale diffusione de “La scienza in cucina”, Artusi cominciò a parlare a milioni di italiani in modo amichevole e con tono da educatore. “Non vorrei però che per essermi occupato di cu-

linaria mi gabellaste per un ghiottone o per un gran pappatore - scrisse in una prefazione - protesto, se mai, contro questa taccia poco onorevole, perché non sono né l’una né l’altra cosa. Amo il bello ed il buono ovunque si trovino e mi ripugna di vedere straziata, come sul dirsi, la grazia di Dio”. Fra gli studi che ne hanno rilanciato il profilo culturale spiccano le ricerche del professor Piero Camporesi, affermato filologo e storico, che ha dimostrato il ruolo dell’opera artusiana nella promozione dell’uso della lingua comune fra gli strati della popolazione ancora poco coinvolti nel processo unitario. Scritto con abilità narrativa e stile letterario, il libro è stato uno inatteso veicolo di diffusione dell’italiano negli ambienti condizionati da bassi livelli di istruzione e di inflessioni straniere o dialettali. La misura, l’attenzione alla bontà abbinata alla salute, l’equilibro, il rispetto del cibo, la qualità della vita furono i punti di riferimento che guidarono una particolare azione pedagogica e che lo “scienziato del buon gusto” trasferì nelle case della giovane nazione unita dal tricolore prima di renderli concetti portanti del ruolo di ambasciatore della moderna cucina italiana in Europa e nel mondo. Per tutto questo ricordiamo Pellegrino Artusi, personaggio di rilievo del nostro passato ma, grazie alle iniziative che Forlimpopoli e le città vicine stanno portando avanti nel suo nome e con il suo esempio, anche simbolo importante e vitale per il futuro della Romagna.


ilABBONAMENTI melozzo 2012 in omaggio solo per gli abbonati Una guida a scelta edizioni in magazine

Come abbonarsi:

Per i vecchi abbonati, rinnovo tramite bollettino postale allegato alla rivista. Per i nuovi abbonati, inviare una richiesta via mail al seguente indirizzo: info@inmagazine.it oppure telefonare al numero 0543 798463.

SCEGLI LA TUA GUIDA Redazione EDIZIONI IN MAGAZINE via Napoleone Bonaparte 50 - 47122 Forlì - Tel. 0543 798463 Fax 0543 774044 www.inmagazine.it - info@inmagazine.it

Vieni in redazione a scegliere la guida che preferisci: • 52 domeniche in Romagna vol. 1 o vol. 2 • 52 storie e luoghi di Romagna • 52 luoghi spirituali in Romagna • Il cammino di San Vicinio


FORLì UNDERGROUND

Le quattro stagioni dell’uomo nutria di Mario Proli tam tam della rete animalista diramò la notizia in pochi minuti: “Mobilitazione - rastrellamento nutrie parco urbano uomini con fucili”. Sms, email, messaggi su Facebook e Twitter alimentarono un circuito ancora assonnato, mentre il sole timido di marzo stentava a irraggiarsi sulla città. In un battibaleno la squadra di selezionatori armati di carabine si trovò di fronte un drappello di militanti salva nutrie. Secondo le autorità sanitarie, i baffuti roditori con muso da castoro e coda da ratto s’erano iperprolificati e il loro esubero metteva a rischio le altre specie animali presenti nel laghetto oltre a paventare possibili rischi igienici. Cordelle di nastro bianco e rosso delimitavano un’area talmente vasta da impedire a chiunque - curiosi, mamme con passeggino o pensionati - di assistere a scene raccapriccianti. All’inizio della selezione mancava l’arrivo del veterinario e nell’attesa cresceva il numero dei partecipanti alla protesta che ebbe un sussulto d’azione col tentativo di forzare il cordone di sicurezza sorvegliato da una guardia. “Se andate là in mezzo sparano anche a voi” ammonì l’uomo. Le parole bloccarono il tentativo dei rivoltosi sul confine della cordella mentre da colpi di clacson si capì che era giunto il veterinario. Ad accoglierlo fu una raffica di improperi: “Vergogna! Assassino!” e così via. Poi s’alzò un coro ritmato: “Siamo - tutti - figli della nutria. Siamo - tutti - figli della nutria”. Gli orologi segnavano le ore 8.08 di quell’intirizzito mattino di marzo. Per i contestatori tutto sembrava perduto. Gli uomini con carabina si incamminarono verso le loro postazioni. La battuta stava per avere inizio… quando, come una fucilata, piombò sulla piccola folla un pazzo a cavallo di una bici. Guidava in maniera scalcagnata, portava ai piedi baffute pantofole che s’abbinavano al pelo del cappuccio di un eschimo. Sui pedali s’agitavano imbarazzanti gambe nude. Il folle sfondò il cordone di guardia e travolse il nastro biancorosso che si impigliò alle ruote e accompagnò la corsa come la coda di una cometa. La bicicletta ondeggiò sul tappeto di ghiaino e dopo circa duecento metri, col nastro av-

24

continuano SUL MELOZZO le storie SURREALI AMBIENTATE NELLA forlì CONTEMPORANEA.

vinghiato alla catena, inchiodò brutalmente, catapultando in aria il conducente. L’uomo in eschimo cadde malamente. Si rialzò e sotto lo sguardo dei cecchini, raggiunse ciondolando la recinzione del laghetto. Superò la rete con affanno e si trovò all’interno della recinzione accanto a germani reali e altri tipi di anatre, cigni, uccelli, tartarughe e, ovviamente, alle indifese nutrie. Adesso era diventato uno scudo umano. L’azione venne seguita con stupore dai presenti e il raggiungimento dell’obiettivo fu salutato dal fragore di esclamazioni. Chi era il pazzo? “Lo riconosco, è Agoardo!” urlò una ragazza. “Ago chi?” chiese la guardia, mentre un coro scandiva il nome dell’eroe. Agoardo era un architetto in pensione che dedicava ogni minuto del proprio tempo alla difesa degli animali. L’allarme ricevuto quella mattina intercettò esattamente lo scopo della sua vita. Per quello aveva infilato le babbucce, agguantato l’eschimo e s’era precipitato in bici verso il parco così com’era, incurante dell’ora e della stagione. Sentiva il dovere di adempiere a una missione vitale. “Venga fuori di lì” ordinò una voce nasale amplificata da megafono. Agoardo la ignorò con fierezza e rimase in silenzio, guardandosi intorno come per cercare qualcosa. Intanto la schiera dei tifosi andava infoltendosi. Sulle dieci arrivarono fotografi e giornalisti, poi i cameraman. A mezzogiorno sui siti internet spopolavano i filmati dell’uomo-nutria e una radio locale attivò una diretta. “Scommetto che uscirà prima di sera” esclamò la guardia. Perse. Approfittando della luce del giorno, il silenzioso Agoardo scavò un buco in terra accanto a una siepe di arbusti. Lo imbottì con scampoli di gomma e blocchi di torba pressata rinvenuti lì attorno. Gli animali lo lasciarono lavorare rimanendo alla larga, comprese le nutrie che gli dovevano la vita. Quando le tenebre avvolsero la Romagna, qualcuno notò un’ombra ritirarsi nella tana, mentre al di là della recinzione i sostenitori inscenarono una fiaccolata di solidarietà. Fu uno scroscio di applausi quello che, all’indomani, salutò il risveglio dell’uomo-nutria. Fin dalle prime luci centinaia di curiosi e inviati di media da tutta Italia avevano preso posto sulla vicina collinetta. Fra gli alberi campeggiavano striscioni scritti con

lo spray mentre ai presenti venivano distribuiti palloncini decorati con ciuffi di baffi. Quando la testa di Agoardo spuntò fuori dal buco l’euforia dei presenti esplose in un boato, come per un gol allo stadio. L’architetto abbottonò l’eschimo e liberò il capo dal cappello peloso. Lentamente raggiunse il bordo del laghetto per lavarsi. Si voltò verso le tante persone e le salutò, ricevendo applausi. Poi cominciò un inaspettato lancio di cose verso di lui: cibo, coperte, sapone biodegradabile, libri. Gli animali furono spaventati dalla pioggia di oggetti ma quando compresero che si trattava anche di cibo, i pennuti abbandonarono ogni timore e piombarono sul mangiare. Molto più tardi arrivarono le tartarughe. Solo le nutrie continuarono a mostrarsi diffidenti. Le cronache di quello e dei tanti giorni a seguire raccontarono l’incredibile vicenda di Forlì, dell’eroe silenzioso che aveva salvato i castorini, del simbolo di un nuovo impegno ambientale. Per vederlo giunsero gite scolastiche e tour del dopolavoro. La primavera passò il testimone all’estate e stando alle statistiche del turismo, quell’anno il parco urbano e la città registrarono un picco assoluto di visite. Dati di rilievo nazionale. Uno dopo l’altro aprirono chioschi che vendevano magliette dell’uomo nutria, babbucce baffute, eskimi e anche panini vegetariani. La moglie e la figlia di Agoardo ottennero come diritto di aprire una pizzeria che chiamarono “Le quattro stagioni”. Non mancarono cartoline bizzarre, come quella con l’uomo nutria e i castorini vicino ai Musei San Domenico. Gli incassi di alberghi, bar e ristoranti schizzarono in alto. Dopo una fase d’ambientamento, Agoardo mostrò dimestichezza con la notorietà e pure la convivenza con gli animali risultò buona. Le uniche creature che continuavano a tenersi distanti da lui rimanevano le nutrie. Il fatto venne sottaciuto per non danneggiare l’immagine turistica. In gran segreto fu però consultato un etologo che ne spiegò le ragioni. Il problema risiedeva nel fatto che alle nutrie quell’essere faceva schifo. Troppo grande, invadente, vorace, spropositata la dimensione dei suoi bisogni. E poi, di notte, russava. Per un animale socialmente evoluto, come la nutria, la convivenza risultava impossibile. Ciò che l’esperto temeva si avverò: le nutrie abbandonarono il Parco urbano.


Le immagini sono state appositamente realizzate da Grota per illustrare il racconto.

Il giorno di Ferragosto, quando da tempo non si vedeva più l’ombra di un roditore, Agoardo annunciò: “Missione compiuta, tornerò alla vita di sempre”. Il fatto venne riferito a chi di dovere e mentre l’architetto stava prelevando le cose dalla tana arrivarono auto a sirene spiegate. Portavano un’ordinanza che intimava ad Agoardo l’obbligo di rimanere nel recinto, pena una serie spropositata di contravvenzioni. La presenza dell’uomo-nutria era considerata fondamentale per l’economia del territorio, soprattutto in tempi di crisi, e non gli veniva riconosciuto il diritto a un “capriccio personale - così era scritto - che avrebbe recato danno a tante persone”. Persino la sua famiglia lo implorò di rimanere perché temeva ripercussioni sull’attività della pizzeria. Agoardo rimase. Insieme all’autunno e ai suoi colori arrivarono i

primi freddi. Le cose cambiarono. Il clamore si affievolì, la curiosità scemò, l’assenza delle nutrie privò di significato morale la situazione. Attaccato alla rete del laghetto l’uomo nutria osservò le gelate di dicembre, i prati cristallizzati dalla brina, i tronchi spogli e i radi visitatori ormai disinteressati al lui. Una sera nel cielo plumbeo s’accesero riverberi rossi e prese a scendere fiocchi leggeri. Si rintanò. Nevicò per tre giorni, dalla vigilia di Natale a Santo Stefano. “Chissà come starà il babbo…” disse la figlia. Dal registratore di cassa la madre la rincuorò: “Appena finiscono le feste lo andiamo a trovare”. Ci andarono ma non videro nulla perché la neve ghiacciata sulla tana la rendeva simile a un igloo. Tornarono con un manovale che iniziò a scavare, ma quella che credevano una cupola in realtà non lo era.

Dentro alla tana scoprirono solo neve compatta e, in mezzo, un corpo assiderato. Moglie e figlia rimasero senza parole, stordite dalla terribile fine. Piansero e si disperarono. Da quel giorno tutto tornò come prima dell’ingresso di Agoardo nel recinto: nessuna bancarella, niente stand, zero gadget. Sopravvisse solo la pizzeria. “Nell’eredità di Agoardo - commentò un giornale locale - vanno rintracciati coerenza e coraggio ma anche l’efficacia del servizio alla collettività per aver liberato il parco dai roditori”. A custodirne la memoria rimasero le pantofole baffute espose all’entrata della pizzeria, proprio sotto al menù. I clienti che si fermavano al cospetto di quegli strani oggetti venivano prontamente raggiunti da un addetto che raccontava l’incredibile storia dell’uomonutria di Forlì.

25


In cauda venenum

Impressioni non oggettive su un viaggio a Roma di Ivano Arcangeloni La prima domanda potrebbe essere questa: ma cosa sei andato a fare a Roma con questo tempo? È vero, è stato un azzardo. Ma ho voluto fare questo viaggio, perché l’avevo programmato mesi fa, avevo prenotato e pagato tutto in anticipo, e perché c’erano validissime ragioni per partire comunque. La parte più difficile del viaggio è stata quella della partenza, in una Forlì siberiana, senza taxi disponibili, ho camminato piano piano fino alla stazione, suggestionato da un paesaggio da romanzo russo. Un treno è arrivato, ma il treno che avevo prenotato per Roma da Bologna era stato annullato. Dopo una coda di un’ora alla biglietteria sono stato “ammesso” su un altro treno, che venendo da Venezia, andava. Alle 14 di giovedì 2 febbraio, minuto più minuto meno, sono a Roma. Neve non ce n’è: le strade sono linde e la circolazione regolare. Raggiungo l’albergo e alla reception mi dicono che per l’indomani è attesa neve, e che il sindaco ha disposto la chiusura delle scuole sia per due giorni. Penso alla nostra Forlì, al mercoledì mattina in classe con pochi eroici studenti a guardare la tempesta di neve fuori dalle finestre. A Roma no, a Roma le scuole le chiudono “preventivamente”. Il giorno dopo, alle 13, sono ai Musei Capitolini. Mi concedo una pausa al caffè sulla terrazza del Campidoglio. E nevica. Sì, nevica forte. Ma, temprato dalle nevi forlivesi, non mi sembra preoccupante. Arrivano alcuni romani che dicono che la città è paralizzata. Come, già? Se non ha ancora attaccato. Proseguo la visita del museo, ma un vigile mi informa che ne è stata disposta la chiusura. Perché? Ordine del Prefetto: musei e uffici pubblici sono stati chiusi per motivi di sicurezza. Per questa poca neve? Sì, vede, mi spiega il vigile, a Roma non ci siamo abituati, e anche questa sembra molta neve. Così devo uscire. Mi ritrovo in piazza Venezia. La neve è una poltiglia molle, il piazzale è un ingorgo di automobili bloccate e clacson impazziti. Gli autobus sono stati fermati. Su molti c’è la scritta DEPOSITO. Il sindaco ha disposto che ne circoli solo un quinto. E i romani come ci arrivano a case

26

nell’immensa periferia romana? Mah. Proseguo a piedi. Il traffico è effettivamente in tilt. E non si sa perché. Mi pare solo un’ondata collettiva di panico. Sì, ci sono le salitine e le discesine della capitale, e le auto non hanno le gomme termiche, però la neve è solo una spolveratina bianca sui monumenti, niente di più. Come si spiega tutto ciò? Il problema è che la città dipende quasi esclusivamente dalle auto, i metrò di Roma servono praticamente solo il centro , e se fermi gli autobus cosa puoi sperare? Chi può scappa temendo il peggio, tutti in auto, tutti verso casa, tutti bloccati per ore nel traffico. La neve invece ci può insegnare questo: che le auto non sono così essenziali, anche noi forlivesi ne siamo un po’ troppo dipendenti, e queste strade bianche di neve, finalmente di nuovo in mano a chi cammina, a me piacciono molto. Dopo poche ore, a Roma smette di nevicare. Vado in piazza di Spagna. La poca neve comincia a gelare, e la scalinata di Trinità dei Monti è inaccessibile. Molti bar e ristoranti sono chiusi, e nessuno ha pulito i marciapiedi. Di auto ormai se ne vedono pochissime. Ma non nevica più. E sabato 4 febbraio a Roma c’è un bel sole invernale, un cielo azzurro terso, e i monumenti ador-

nati di quel po’ di candida neve. Ma tutti i musei sono chiusi. Ordine del Prefetto. Un turista americano mi chiede di un autobus, gli spiego che molte corse sono state annullati, e lui mi guarda incredulo indicando i pochi centimetri di neve ed esclama: because of the snow? Sì, sono stupito quanto lui, anch’io mi sento straniero. Vado al Colosseo, si sta bene, al sole non sembra nemmeno freddo. La via dei Fori Imperiali è una fiumana festante di gente, niente auto, niente bus. Al Colosseo qualcuno ha portato lo slittino, ma solo per la gioia delle cineprese dei vari tigì del mondo, si deve scivolare sulla nuda terra, sugli aghi di pino, di neve ce n’è qualche chiazza in qua e in là. E domenica? Ancora sole. Eppure il sindaco ha disposto la chiusura delle scuole anche per lunedì. Al tigì raccontavano un’altra Roma, una Roma che io non ho visto. Forse nella periferia romana è nevicato di più. Ma di certo non è nevicato da nessuna parte come qui a Forlì. Quando sono rientrato sono ripiombato in un altro mondo. Il viaggio Bologna-Forlì sembrava quello tra Mosca e Minsk, e a Forlì, di nuovo nessun taxi disponibile, si camminava tra cumuli di neve, in un paesaggio irreale, che ci riporta però al piacere della Lentezza.




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.