Ravenna IN Magazine 05 2015

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Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB - FILIALE DI FORLÌ - Contiene i. p. - Reg. al Tribunale di Forlì il 16/01/2002 n. 1 - EURO 3,00

R AV EN N A N° 5 NOVEMBRE/DICEMBRE 2015

Fratelli

MAIOLI

PIADINE NEL MONDO

VIA CAVOUR / Una via nel tempo LELLI E MASOTTI / Scatti ad arte MECCO GUIDI / La musica ovunque



EDITORIALE

I

Il 2015 si chiude per Ravenna IN Magazine con una copertina dedicata a due fratelli, Mirko e Alessandro Maioli, che con la loro piadina stanno conquistando il mondo: da un chioschetto a Cervia a Eataly passando per Roma, Dubai, Istanbul e Seoul. La nostra attenzione si sposta poi al nuovo Mercato Coperto e al progetto di riqualificazione affidato a Coop Adriatica. Intanto che ci troviamo in centro, ripercorriamo anche la storia di Via Cavour. Incontriamo inoltre i fotografi Silvia Lelli e Roberto Masotti, che hanno abbracciato le arti performative – il fine secolo del Teatro alla Scala è tutto nei loro scatti –, il tastierista Mecco Guidi, compositore di musica soul, lo scrittore Kingsley Ngadiuba, e la mosaicista Anna Finelli. Chiudiamo con un articolo sul Pala De André, destinato a rivivere i fasti dei campionati internazionali. Buone Feste e buona lettura! Andrea Masotti

SOMMARIO

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ANNOTARE

Brevi IN

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ESSERE

Fratelli Maioli

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RECUPERARE

Mercato Coperto

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RICORDARE

Via Cavour

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FOTOGRAFARE

Lelli e Masotti

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EDIZIONI IN MAGAZINE S.R.L. Redazione e amministrazione: Via Napoleone Bonaparte, 50 - 47122 Forlì Tel. 0543.798463 / Fax 0543.774044 www.inmagazine.it inmagazine@menabo.com

Collaboratori: Erika Baldini, Roberta Bezzi, Andrea Casadio, Anna De Lutiis, Nevio Galeati, Gianluca Gatta, Aldo Savini, Michele Virgili Fotografi: Lidia Bagnara, Giuseppe Barile, Rachele Biagini, Valentina Donatini, Massimo Fiorentini, Silvia Lelli, Roberto Masotti

GIOCARE

Pala De André

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VEDERE

DIRETTORE RESPONSABILE: Andrea Masotti REDAZIONE CENTRALE: Serena Focaccia ARTWORK: Lisa Tagliaferri IMPAGINAZIONE: Francesca Fantini CONTROLLO PRODUZIONE E QUALITÀ: Isabella Fazioli UFFICIO COMMERCIALE: Gianluca Braga, Elvis Venturini STAMPA: Montefeltro di Celli F. - Rimini Anno XIV n. 5 Chiuso per la stampa il 14/12/2015

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In the flesh

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SCRIVERE

Kingsley Ngadiuba

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SUONARE

Mecco Guidi

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DIPINGERE

Seguici su FB: www.facebook.com/edizioni.inmagazine

Caravaggio

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Tutti i diritti sono riservati. Foto e articoli possono essere riprodotti solo con l’autorizzazione dell’editore e in ogni caso citando la fonte

IDEARE

Emilio Macchia

28 IN MAGAZINE

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ph Silvia Lelli

ANNOTARE

In ricordo di Balilla PRATELLA RAVENNA A sessant’anni

Marionette ALLA RIBALTA RAVENNA Continuano

fino al 21 febbraio presso le Artificerie Almagià di Ravenna gli straordinari e magici appuntamenti con l’ultima edizione de Le arti della Marionetta, la rassegna teatrale, dedicata all’infanzia e alle famiglie organizzata dal Teatro del Drago. I prossimi spettacoli in particolare – tra il 6 gennaio e il 21 febbraio 2016 - celebrano le figure della tradizione festiva italiana, con Arlecchino, Pulcinella e il romagnolo Fasolino, passando a progetti più innovativi come Zorro e lo spettacolo nell’ambito della rassegna di danza contemporanea “Today to dance”, Sherlock, del CollettivO CineticO (alias compagnia Vitellone Cicciotto). (E.B.) www.teatrodeldrago.it

Dedicato a MANDELA RAVENNA È stato presentato il programma di Ravenna Festival 2016, dedicato a Nelson Mandela, non solo sottolineando il tema della libertà e della conciliazione per cui ha lottato ma, in maniera più diretta, con la prima nazionale del musical Mandela Trilogy produzione della Cape Town Opera. In occasione del 150° anniversario delle relazioni tra Giappone e Italia, un importante filone tematico verrà dedicato inoltre al Paese del Sol Levante con un concerto che Riccardo Muti dirigerà a Tokyo nell’ambito del Tokyo Spring Festival, riproposto a Ravenna con la partecipazione dei cori del Teatro Petruzzelli di Bari e del Friuli Venezia Giulia. Nell’ambito della rassegna, ancora Riccardo Muti, con la sua Orchestra Cherubini, dirigerà musica di Schubert e Beethoven, mentre la Mahler Chamber Orchestra e l’Hamburg Philharmonic, rispettivamente dirette da Daniel Harding e da Kent Nagano, proporranno autori da Beethoven al contemporaneo inglese MarkAnthony Turnage. Fuori Ravenna, la straordinaria cornice di Palazzo San Giacomo di Russi sarà teatro della Lunga notte irlandese, mentre l’antica darsena del Magazzino del Sale di Cervia, ospiterà il lavoro più recente di Alessandro Baricco, Palamede, l’eroe cancellato.(A.D.L.) www.ravennafestival.org

dalla scomparsa, Ravenna ha dedicato a Francesco Balilla Pratella – compositore, studioso di folclore musicale ed esponente del futurismo musicale italiano di cui ha redatto il Manifesto dei musicisti futuristi, nel quale si terorizzavano l’atonalismo, l’enarmonia e il ritmo libero – un ciclo di conferenze e concerti a Palazzo Rasponi organizzate dall’Istituto Verdi. A Lugo, alla Biblioteca Trisi, è in corso fino al 9 gennaio la mostra Francesco Balilla Pratella, Luigi Penazzi. Due musicisti alla direzione della Scuola Comunale di Musica. Si tratta di un percorso storico-documentario che abbraccia la vita e la carriera di due musicisti, con percorsi formativi, artistici e professionali diversi che si ritrovarono a condividere l’insegnamento e la direzione della stessa scuola dal 1910 al 1951. (A.S.)

Al MAR Critica IN ARTE RAVENNA Il MAR ospita fino al 10 gennaio 2016 l’ottava edizione

del progetto espositivo Critica in Arte, un appuntamento invernale durante il quale tre giovani critici presentano il lavoro di tre giovani artisti. Per questa edizione sono stati invitati a partecipare al progetto Leonardo Regano, direttore artistico di Renkontigo / Incontri tra Arte e Territorio; Marta Cereda, critica d’arte; Davide Caroli, curatore del MAR di Ravenna. Il percorso espositivo si apre con Marzia Corinne Rossi e l’installazione il cui titolo, Afterglow, si riferisce agli ultimi bagliori del crepuscolo. Le sale centrali sono dedicate al lavoro dell’artista inglese Slinckachu noto per il progetto installativo The Little People Project (nella foto) dove ricostruisce scene tra l’ironico e il melanconico con piccole persone in un mondo fuori scala. Il percorso si conclude con Giulia Dall’Olio che presenta Cave Naturam. (A.D.L.) www.mar.ra.it 4

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ANNOTARE

Milano Marittima ON ICE MILANO MARITTIMA Ricco

Premio per la PROSA INEDITA FORLÌ In collaborazione con

il concorso Premio Letterario Nazionale - Città di Forlì, IN Magazine bandisce il premio per racconti inediti, quest’anno dedicato al genere umoristico, al cui vincitore sarà riservato un servizio speciale su una rivista IN Magazine, con intervista all’autore e pubblicazione dell’opera. Il racconto, inedito e mai premiato in altri concorsi, della lunghezza massima di 5 cartelle editoriali (30 righe per 60 battute a cartella, per un totale di 9.000 battute spazi inclusi), dovrà essere inviato entro il 23 gennaio 2016 in cinque copie dattiloscritte, anonime, al Centro Culturale L’Ortica, Via Paradiso n. 4, 47121 Forlì e, via email, a premiocittadiforli@anardia.it. www.anardia.it

IgnacioDePetra IN MOSTRA RAVENNA Identidad Espacio-Tiempo è il titolo della mostra che Vibra - sotto la direzione artistica di Michela Bernardini, consulente creativo - propone nei suoi spazi espositivi. Le opere dell’artista IgnacioDePetra, dopo essere state esposte nella capitale spagnola e a Bologna, arrivano a Ravenna. Il tempo, i volti, le maschere e la luce sono i protagonisti della sua ricerca espressiva. “Nei suoi scatti - spiega la critica d’arte Sabina Ghinassi - l’artista sembra voler raccontare l’armonia magica e meravigliosa che trae origine sempre dall’incontro tra maschere e identità, tra immobilità e velocità, tra luce, intensa e zenitale, e spettro cromatico.” Il fotografo e videomaker spagnolo IgnacioDePetra vive e lavora a Madrid. Dopo gli studi alla Scuola di Arti Applicate di Madrid con Cristina Garcia Rodero, importantissima artista e fotografa della Magnum, si avvicina al mondo del reportage e del “Fashion Work”. Successivamente sviluppa una tecnica sperimentale personale, ibrida tra panning e immobilità, che applica a diversi progetti, tra cui le serie delle Tauromachie, dei paesaggi urbani e delle maschere. La mostra è visitabile con ingresso libero presso Vibra, via Fantuzzi, 8. fb: vibra spazio contemporaneo di idee.

programma di iniziative natalizie per Milano Marittima con un punto di riferimento fondamentale, la rotonda 1° Maggio, dove è stata inaugurata la pista di ghiaccio più grande d’Europa: circa 900 mq per il pattinaggio e spettacoli on ice. Qui è possibile ammirare anche il tradizionale presepe artistico realizzato dagli studenti dell’Accademia di Brera in ricordo del centenario della fondazione di Milano Marittima. Attorno alla pista si snoda il villaggio di Natale: casette gourmet, un mercatino natalizio con articoli da regalo e oggettistica a tema, le giostre, la casa di Babbo Natale e le animazioni per i bambini, concerti e performance artistiche. Sulla spiaggia, concorsi e presepi di sabbia. Per scaricare il programma completo delle iniziative: www.mimaonice.it (E.B.)

Giocare con ITALO CALVINO RAVENNA Giricoccola è un progetto artistico ispirato alle “Fiabe

italiane” di Italo Calvino con l’intento di restituire le fiabe del grande scrittore italiano a bambini e ragazzi, favorendo e sviluppando una riflessione su temi fondamentali come amore, morte, destino, ricchezza, povertà, guerra, fiducia, futuro. Bambini e bambine si sono divertiti a interpretare 49 storie dell’autore e ne è nata una mostra realizzata dal fotografo Vincenzo Pioggia, con le interviste video della giornalista Silvia Manzani e la direzione artistica di Mauro Di Nuzzo (nella foto), scrittore e giocoliere di parole. Ogni foto è corredata della frase più significativa che i bambini hanno detto nelle interviste realizzate durante il lavoro, che sono diventate un video. La mostra fotografica si svolge fino al 19 dicembre, presso la Manica Lunga della Biblioteca Classense.(E.B.) www.giricoccola.it 6

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ESSERE

Piadine nel

MONDO

MIRKO E ALESSANDRO MAIOLI HANNO ESPORTATO ALL’ESTERO LA RICETTA DI FAMIGLIA DELLA PIADINA. PARTITI DA UN CHIOSCO SUL LUNGOMARE CERVESE, SONO APPRODATI A EATALY, CHE HA APERTO LORO LE PORTE DI DUBAI, ISTANBUL, SEOUL. di Gianluca Gatta / ph Rachele Biagini

C

Chi arriva in Romagna per la prima volta, al di là di ogni retorica sul buon cibo, comincia ben presto ad accorgersi della piadina, questa cosa rotonda, toccata da bruciature sulla superficie, che si mangia con una serie infinita di complementi: prosciutto crudo, prosciutto cotto, speck, pancetta, mortadella, porchetta, salame, carpaccio, squacquerone, fontina, scamorza, brie, parmigiano, mozzarella, gorgonzola, peperoni, zucca, zucchine, asparagi, patate, spinaci, rucola, broccoli, melanzane, radicchio, pomodori, carciofini, funghi, tonno, sardoncini, salmone, calamari, baccalà, acciughe, marmellata, fichi, banane, cioccolato. E sicuramente qualcuno dirà che l’elenco non è completo. La piadina è un cibo semplice da preparare, una base su cui poter aggiungere qualunque cosa, e che ha fatto spesso la fortuna di chi si è dedicato alla sua preparazione e vendita. Un cibo semplice e per questo geniale, tanto che quel sogno di esportarla all’estero, come cantava Samuele Bersani in Freak, prima

o poi passa per la testa di ogni giovane romagnolo. Ma il processo è già cominciato e, da tempo, la piadina è sbarcata oltralpe, oltremare, oltreoceano. Tanto da spingere alcuni produttori a riunirsi in consorzio per tutelarla e ottenere, da fine 2014, il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) con un disciplinare che – oltre a limitare l’aggettivo romagnola alla piadina prodotta in una serie specifica di Comuni delle Province di Ravenna, Forlì-Cesena, Rimini e Bologna – specifica una precisa ricetta, le dimensioni (diametro da 15 a 25 cm, quella riminese da 23 a 30 cm), lo spessore (da 4 a 8 mm, anche se la riminese non può superare i 3 mm), la distribuzione delle macchie sulla superficie (di piccole dimensioni e omogenee, mentre nella riminese le vesciche devono essere grandi e non omogenee). È ovvio che, se avete una ricetta tutta vostra e non volete impazzire con i righelli, nessuno vi impedisce di produrla fuori Romagna e di venderla, solo non chiamatela romagnola. È quello che hanno fatto Mirko IN MAGAZINE

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IN QUESTA PAGINA, I CHIOSCHI DI PIADINA DEI FRATELLI MAIOLI APERTI NEGLI EATALY DI TUTTO IL MONDO.

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e Alessandro Maioli che, nati piadinari, hanno aperto insieme allo zio Fiorenzo il ristorante Le Ghiaine di Cervia nel 2001 ma continuano ad alimentare la loro passione per la piadina in Italia e all’estero con una serie di punti vendita aperti all’interno degli Eataly sparsi nel mondo. Da Cervia sono arrivati a Milano, Roma, Dubai, Istanbul, Seoul con la Piadina dei Fratelli Maioli affiancandosi a cuochi scelti che la producono in loco. È una storia narrata anche in un loro libro pubblicato da Mondadori – intitolato, ovviamente, La piadina – e che ci facciamo raccontare da Mirko a un tavolo delle Ghiaine, in orario di chiusura, in un’atmosfera da teatro prima dell’entrata del pubblico. “Sin da quando noi fratelli eravamo piccolissimi, i miei genitori avevano un chiosco della piadina, al porto di Cervia. Molto bello, bianco e azzurro, sul lungomare. Non ho mai visto un chiosco avere così tanto successo. Tant’è che prima io, e poi mio fratello Alessandro, abbiamo iniziato a lavorarci. Ci vivevi dentro: d’estate si apriva la mattina alle 8 e si chiudeva a mezzanotte, poi da novembre si cominciavano a fare solo i weekend, tutte le feste, e a Pasqua si riprendeva tutti i

SIN DA QUANDO NOI FRATELLI ERAVAMO PICCOLISSIMI, I MIEI GENITORI AVEVANO UN CHIOSCO DELLA PIADINA, AL PORTO DI CERVIA. NON HO MAI VISTO UN CHIOSCO AVERE COSÌ TANTO SUCCESSO. TANT’È CHE PRIMA IO, E POI MIO FRATELLO, ABBIAMO INIZIATO A LAVORARCI.

giorni. Sono arrivato a 24 anni che non ce la facevo più. Ho detto ‘basta, mi avete rovinato l’infanzia’, tutti gli amici si godevano l’estate, le serate in discoteca, le ragazze, il mare. Erano dieci anni che lavoravo al massimo e volevo cambiare lavoro: volevo un ristorante. Ho deciso allora, insieme a mio fratello e a mio zio, di aprirne uno in un posto dove non c’era niente, solo una cava di ghiaia: per questo l’abbiamo chiamato Le Ghiaine. Mio fratello era ancora al chiosco, che funzionava come una f ionda, perché con la vendita di piadine a un euro lo riempivi di gente e poi gli facevi conoscere il ristorante. E così è partito.” E poi arriva l’incontro con


Piadina ieri E OGGI Già in epoca romana classica è conosciuto un pane azzimo che fornisce la base per altre pietanze e che viene chiamato “mensa”. Giovanni Pascoli la chiamava “pane di Enea” e ne canta le virtù nel poemetto La piada (1900) dove coglie la sorella Maria che la stende – “con le tue mani blande domi la pasta e poi l’allarghi e spiani” – e poi la pone sul testo. Qui la piadina assume un aspetto simbolico di povertà, umanità e libertà: “Azimo santo e povero, che s’accompagna all’erbe agresti”. Oggi la piadina ha ottenuto il marchio IGP (Indicazione Geografica Protetta) che ne tutela la ricetta, la forma, lo spessore, la grandezza e, soprattutto, la provenienza: solo quella prodotta nei comuni di Romagna può essere chiamata romagnola.

Oscar Farinetti, patron di Eataly, questione di fortuna ma anche di tenacia. “La morosa che avevo all’epoca decise di prendere una seconda laurea all’Università di scienze gastronomiche di Pollenzo. Tutti i lunedì, quando per il ristorante era giorno di chiusura, andavo a Torino con lei e così sono diventato un pusher vero e proprio di piadine: le caricavo in macchina, andavo a pranzo, stavo con la morosa un giorno, però intanto conoscevo gente. E così abbiamo incontrato Oscar Farinetti [che è attualmente consigliere e membro del comitato esecutivo dell’Università, n.d.a.] e gli proponiamo di

vendere la piadina. Apriamo così una società per poter essere inseriti con un nostro chiosco all’interno di Eataly Roma. L’idea della casetta dentro Eataly è stata vincente, perché non ci sono altri chioschi: trovi ristoranti, banchi, banconi, bar ma non casette. Apriamo nel luglio 2012 e abbiamo un successo incredibile perché la piadina è fatta al momento, secondo la vecchia ricetta di mia nonna. Poi abbiamo aperto il chiosco di Bari nel 2013, quello di Dubai, di Instanbul e, nel marzo 2014, due chioschi a Milano, dentro Eataly Smeraldo e Eataly San Babila. Ad agosto di quest’anno abbia-

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L’IDEA DELLA CASETTA DENTRO EATALY È STATA VINCENTE, PERCHÉ NON CI SONO ALTRI CHIOSCHI. APRIAMO NEL LUGLIO 2012 E ABBIAMO UN SUCCESSO INCREDIBILE PERCHÉ LA PIADINA È FATTA AL MOMENTO, SECONDO LA VECCHIA RICETTA DI MIA NONNA.

mo aperto a Seoul, in Korea del Sud. Per i chioschi italiani, la produzione dell’impasto è fatta direttamente da noi, qui a Cervia, con la nostra aria, la nostra umidità, e la fa sempre la stessa persona: è un prodotto freschissimo. Per l’estero, invece, facciamo prima la formazione dei cuochi nei nostri negozi italiani, per circa due settimane, poi noi andiamo in loco altre due settimane prima dell’apertura, siste-

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miamo gli impasti, verifichiamo le morbidezze ecc. Una volta che riescono a fare da soli, torniamo a casa e ritorniamo solo quando è necessario.” Nel frattempo c’è stata anche la partecipazione ad EXPO. “Con il nostro ristorante abbiamo partecipato a ottobre alla staffetta dei ristoratori italiani mentre con il chiosco di piadine siamo stati attivi tutti i sei mesi dell’esposizione. C’erano solo due punti che rappresentavano lo street food italiano: uno era il nostro e l’altro Rosso Pomodoro, che faceva la sua pizza. In sei mesi a EXPO abbiamo fatto 165.000 piadine, più o meno 30.000 kg di impasto, e abbiamo dato lavoro a undici ragazzi. È stata una grande soddisfazione, perché all’inizio Oscar Farinetti mi aveva detto ‘Non guardare mai alla pizza, perché fa dei numeri pazzeschi, e voi con la piadina non li farete mai’ e invece alla fine, clamorosamente, abbiamo vinto.”

I FRATELLI MAIOLI INSIEME ALLO ZIO FIORENZO CON CUI HANNO APERTO IL RISTORANTE LE GHIAINE.


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Ravenna


RECUPERARE

Un nuovo

MERCATO RIVITALIZZARE I CENTRI STORICI SECONDO IL MODERNO CONCETTO DI “CENTRO COMMERCIALE NATURALE” È UNA TENDENZA CHE ANCHE A RAVENNA SI STA AFFERMANDO. CON UN TASSELLO IMPORTANTE: LA RIQUALIFICAZIONE DEL MERCATO COPERTO. di Nevio Galeati

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S

Si sta svuotando il centro storico. Non si trova più un parcheggio comodo. Non ci sono servizi per i turisti. La viabilità è incomprensibile, ci si perde, insomma. Passando da un luogo comune all’altro, spesso si accusa Ravenna di essere una città ingessata, quasi fosse ancora la “città del silenzio” con la “glauca notte rutilante d’oro” descritta da Gabriele D’Annunzio. Invece negli ultimi anni, nonostante la crisi o, probabilmente, per affrontarla meglio, alcuni imprenditori hanno accolto la sfida. Così via Ponte Marino e le altre pedonali di quell’area hanno visto accendersi altre vetrine e attività; si sono recuperate e rivitalizzate piccole corti, creando quasi bomboniere di accoglienza, non solo per i turisti. E questo senza attendere contributi regionali per la valorizzazione delle aree commerciali naturali. A qualificare questo processo arriverà, dopo un percorso faticoso e pieno di rallentamenti, il nuovo Mercato Coperto. I lavori, appena iniziati con la copertura delle facciate, si completeranno entro la primavera 2017. L’intero progetto sarà portato a termine da Coop Adriatica, cui il Comune ha affidato l’incarico in project financing. “Restituiamo un manufatto alla sua funzione originale, quindi immagino che la cosa sarà accolta con favore e interesse. Siamo di fronte a un intervento che abbiamo, come dire, già sperimentato a Bologna con l’Ambasciatori e il Mercato di mezzo; e in ogni caso arriviamo con un’offerta che si allinea alle forme nuove che sta assumendo il centro storico di Ravenna, per quanto riguarda il commercio e l’accoglienza ai turisti.” Elio Gasperoni, vicepresidente di Coop Adriatica, segue da sempre l’evoluzione del cuore della città dove è stato assessore, presidente della Holding pubblica e di Lega Coop. “Vogliamo dare una centralità a questo importante spazio non solo commerciale, ma anche di aggregazione e di identità.” Il progetto è stato realizzato da

RESTITUIAMO UN MANUFATTO ALLA SUA FUNZIONE ORIGINALE, QUINDI IMMAGINO CHE LA COSA SARÀ ACCOLTA CON FAVORE E INTERESSE. SIAMO DI FRONTE A UN INTERVENTO CHE ABBIAMO, COME DIRE, GIÀ SPERIMENTATO A BOLOGNA CON L’AMBASCIATORI E IL MERCATO DI MEZZO.

Paolo Lucchetta, bolognese trapiantato a Venezia, uno fra i maggiori architetti italiani del settore. Prevede il recupero degli esterni e la riqualificazione funzionale degli interni, preservando le caratteristiche storiche e artistiche dell’edificio. Il Mercato potrà contare su un nuovo ingresso verso via Cavour che lo connetterà meglio all’area circostante, valorizzando questa parte del centro storico All’interno, verrà invece creato un nuovo piano, portando a circa quattromila metri la superficie calpesta

SOPRA, UN’IMMAGINE DEI PRIMI DEL ’900 DELL’ESEDRA ESTERNA AL MERCATO COPERTO. A SINISTRA, L’INTERNO DEL MERCATO COPERTO ALL’INAUGURAZIONE NEL 1922.

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Un mercato STORICO

IL PROGETTO È STATO REALIZZATO DA PAOLO LUCCHETTA, UNO FRA I MAGGIORI ARCHITETTI ITALIANI DEL SETTORE. PREVEDE IL RECUPERO DEGLI ESTERNI E LA RIQUALIFICAZIONE FUNZIONALE DEGLI INTERNI, PRESERVANDO LE CARATTERISTICHE STORICHE.

IN QUESTA PAGINA, IMMAGINI DEL PROGETTO DI RIQUALIFICAZIONE CHE SI STA REALIZZANDO NEL MERCATO COPERTO.

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bile, accessibile grazie a due scale di sicurezza, una scala mobile e un ascensore centrale, un’ulteriore scala pedonale aperta. Al piano terra l’area d’ingresso ospiterà anche servizi per i turisti, banchi dove acquistare o assaggiare le migliori eccellenze del territorio; e un piccolo supermercato Coop con prodotti freschi e conservati. Poi un bar, cioccolateria e gelateria in laboratori artigianali per realizzare a

vista i prodotti; una vineria; una birreria pub con birra fresca non pastorizzata, prodotta all’interno del mercato; il banco salumi e formaggi, che valorizzerà soprattutto i salumi di Mora Romagnola, razza autoctona allevata allo stato semibrado sulle colline di Brisighella. Un blocco centrale ospiterà la cucina con piatti classici della tradizione, realizzati con la collaborazione dello

La storia del Mercato coperto di Ravenna si perde quasi nella notte dei tempi. La zona su cui sorge l’edificio di oggi è vocata ai commerci fin dal V secolo. È infatti certo come vi abbia operato una fra le più antiche corporazioni di pescatori del mondo, la “Schola Piscatorum”, conosciuta in precedenza come “Ordo Piscium Vendentium”, poi con il più noto eponimo di Casa Matha. L’antica istituzione vi realizza, fra il 1715 e il 1717, la propria Pescheria, demolita poi nel 1894 per dare spazio appunto al Mercato. Il progetto, elaborato dall’ingegner Ugo Vignuzzi, prende corpo nel 1869, ma si può parlare di costruzione, progenitrice dell’attuale, solo nel 1920. La superficie, di oltre 2.600 metri quadrati, ospita quattro grandi padiglioni; quello di sinistra è destinato al pesce, ai formaggi e ai salumi, quello centrale a frutta e verdura, i due posti a destra alle carni, ai formaggi e alla frutta e verdura. Le linee esterne si rifanno ad architetture classiche con ornamenti su sasso istriano, la pescheria viene realizzata in marmo, la copertura è data da tralicci ferrosi muniti di capriate sostenute da imponenti colonne di ghisa; ampie finestre e adeguati lucernai assicurano la luminosità; e tutto è ornato da pregevoli stucchi di gusto floreale. Agli inizi degli anni Ottanta, data la situazione degradata della struttura, vengono eseguiti lavori di ristrutturazione (dal 1981 al 1983); in quel contesto vengono collocati nell’atrio i due delfini in pietra d’Istria provenienti dalla vecchia pescheria.


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QUANDO ABBIAMO PENSATO DI PARTECIPARE ALLA GARA, ABBIAMO REALIZZATO UN’INDAGINE IN CITTÀ E LA SENSAZIONE CHE I CITTADINI AVEVANO DEL SERVIZIO CHE VENIVA OFFERTO NELL’ULTIMO PERIODO DAL MERCATO NON ERA BUONA.

chef stellato Marco Cavallucci, dello staff della Molino Spadoni. Uno spazio importante verrà dedicato anche alla pizza. Biscotti, dolci e focacce verranno sfornati a vista. I laboratori artigianali produrranno dal vivo anche mozzarella e pasta fresca fatta in casa. La pescheria offrirà principalmente il pescato dell’Adria-

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tico, crudo o cotto al momento; il banco macelleria sarà anche griglieria. Al piano superiore, affacciato sul piano terra, un’area cocktail-bar e piccola ristorazione, con tavoli e sedute, affiancherà il palco destinato a spettacoli, concerti, presentazioni ed eventi, con la possibilità di ospitare fino a 350 persone. Sempre al primo piano, infine, potranno trovare posto temporary store, per l’offerta di prodotti particolari in un arco limitato di tempo. “Quando abbiamo pensato di partecipare alla gara, abbiamo realizzato un’indagine in città e la sensazione che i cittadini avevano del servizio che veniva offerto nell’ultimo periodo dal Mercato – conclude Elio Gasperoni – non era buona. Tanti lamentavano l’impoverimento commerciale della struttura e lanciavano idee

di qualificazione. Poi ci siamo trovati da soli a partecipare alla gara. L’investimento necessario per recuperare, ristrutturare e rilanciare il mercato era ed è importante, certo, ma si poteva lavorare insieme. Non è avvenuto, pazienza. Ora siamo convinti che la partnership realizzata con Leonardo Spadoni possa dare ottimi risultati e soddisfazioni, soprattutto per la sua area nuova di business, che punta sulle tipicità romagnole. E vogliamo metterci in gioco insieme agli altri operatori che stanno puntando su questa parte, vitale, della città.” Poi, con un investimento di 7 milioni di euro, che i conti parlino di un “equilibrio di bilancio” da raggiungere in 35 anni, è un altro discorso. Ma il cuore della città che poteva essere Capitale europea della cultura, merita una rivitalizzazione di questo genere.



RICORDARE

Una via

NEL TEMPO PASSEGGIARE PER VIA CAVOUR, NATA SULL’ALVEO DEL FIUME LAMONE, È L’OCCASIONE PER RICORDARE GLI AVVENIMENTI STORICI DI CUI È STATA SPETTATRICE. di Andrea Casadio / ph Massimo Fiorentini

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Da quando, negli anni Settanta, è stata la prima a essere chiusa al traffico automobilistico, Via Cavour è diventata la strada per antonomasia del centro storico di Ravenna. Certo, per chi oggi la percorre con una sporta griffata in mano, o vi sosta per sorseggiare un caffè, è difficile pensare che, al termine di un ipotetico viaggio di qualche secolo a ritroso nel tempo, invece che davanti alle vetrine dei negozi ci si ritroverebbe proiettati sulla riva di un fiume. Eppure, questa è stata non solo una lunga parte della storia della strada, ma anche la sua stessa origine: la medesima, del resto, che ha plasmato la maggior parte della struttura urbana di Ravenna, questa specie di Venezia prosciugata che sulla traccia degli antichi corsi d’acqua ha creato il reticolo delle sue vie e delle sue piazze. All’inizio della storia, quando Ravenna era un insieme di dossi fra le bassure litoranee, il tracciato dell’attuale Via Cavour era infatti nient’altro che l’alveo del Lamone, che provenendo da Ovest scorreva qui nel suo tratto finale prima di confluire nel Padenna, all’incirca nel punto dove oggi sorge il mercato coperto. Quando, nel Medioevo, il Lamone venne prima deviato fuori le mura, poi allontanato nella campagna e rimpiazzato nel percorso extraurbano dal Montone, il suo vecchio tracciato continuò a essere occupato da un corso d’acqua minore, il Flumisellum. La strada attuale lo fiancheggiava lungo l’argine meridionale, e molti ravennati ricorderanno senza dubbio il ritrovamento sotto Via Salara, nel 1983, di uno dei ponti che lo attraversavano. Furono i soliti veneziani, alla fine del Quattrocento, a tombare il canale (come pure il Padenna), anche se diversi suoi tratti rimasero ancora a lungo a cielo aperto sul retro delle case, che da allora cominciarono a essere costruite anche sul lato settentrionale della strada. In epoca pontificia, la “via di Porta Adriana” diventò una dignitosa strada borghese, senza emergenze architettoniche particolari

(con solo le eccezioni di palazzo Guiccioli e di S. Domenico), ma con un decoroso tessuto edilizio costituito dalle residenze del ceto medio dell’epoca: piccola nobiltà, commercianti, artigiani, professionisti. Un tessuto mantenutosi in gran parte inalterato fino ai giorni nostri, e che vale la pena ripercorrere rievocando gli episodi di storia cittadina che si sono svolti fra le sue quinte. Lasciata alle spalle porta Adriana, la prima tappa significativa si incontra all’incrocio con Via Cattaneo e Via Argentario. La visione della basilica di S. Vitale, sulla sinistra, è un’apparizione quasi straniante, soprattutto quando di sera l’illuminazione artificiale esalta l’imponenza della sua mole, del tutto fuori scala rispetto al di-

VIA CAVOUR A FINE ‘400 ERA UNA DELLE ARTERIE PIÙ IMPORTANTI DELL’URBANISTICA RAVENNATE. ATTRAVERSO PORTA ADRIANA, FUNGEVA DA COLLEGAMENTO CON UNA DELLE DUE PRINCIPALI DIRETTRICI VERSO L’ENTROTERRA, QUELLA VERSO FAENZA.

messo contesto circostante di formazione tardo-pontificia. Proprio quello che ci riporta velocemente a epoche più vicine, ma non meno suggestive, con l’elegante palazzina della farmacia all’angolo con Via Cattaneo. Aperta nel 1819 dalla famiglia Della Valle, essa è a tutti gli effetti un pezzo della storia risorgimentale di Ravenna, dal momento che, nel periodo in cui le farmacie erano anche un luogo di ritrovo equivalente ai nostri caffè, qui si riunivano i carbonari delle prime cospirazioni (1820 e dintorni). E non fu forse un caso che, sempre nel 1820, proprio qui davanti venisse colpito in un attentato il comandante delle truppe pontificie di

UN’IMMAGINE D’EPOCA DI VIA CAVOUR CON, SULLO SFONDO, PORTA ADRIANA.

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nominato Stazon Nova, che ospitava una spezieria e con tutta probabilità, dato il nome, anche la stazione di posta, e che per lungo tempo conferì anche il suo nome all’intera strada. Sempre al secolo della Controriforma ci riporta poi la vicenda di tale Antonio Diedi, che un giorno del 1588, lì vicino, cadde in un pozzo accanto al muro di una bottega su cui era dipinta una Madonna, ottenendo per intercessione di questa la salvezza. L’episodio è illustrato nell’affresco che ancor oggi si vede oltre le vetrine del negozio in angolo con la piazzetta di S. Domenico, e che era un tempo la chiesetta della Madonna del Pozzo. La grande chiesa dei Domenicani è l’ultima tappa della nostra passeggiata. Il grande fabbricato attuale, purtroppo in precarie condizioni di conservazione e utilizzato per mostre temporanee, è stanza in città: un episodio descrittoci nei minimi particolari da un testimone d’eccezione, George Byron, che accorse allo sparo e trascinò nel suo appartamento di palazzo Guiccioli il malcapitato, senza riuscire a salvargli la vita. Proprio l’austera cortina muraria del grande palazzo, a un centinaio di metri di distanza, costituisce una delle presenze più significative non solo della strada, ma dell’intera città. Pochi edifici di Ravenna possono infatti vantare un simile concentrato di storia, e soprattutto inquilini così prestigiosi. Costruito dalla famiglia Osio alla fine del ’600, il palazzo venne acquistato nel 1802 da Alessandro Guiccioli, marito di Teresa Gamba. Fu qui che nel 1820-21 lo stesso Guiccioli affittò un appartamento all’amante della moglie, appunto Byron, che da parte sua vi ospitò per alcuni giorni un altro mostro sacro del Romanticismo inglese, il suo amico e sodale Shelley. Ma anche nei decenni successivi il palazzo ebbe residenti illustri, come Luigi Carlo Farini e la principessa greco-rumena Costanza 22

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Ghika, vedova di Gioacchino Rasponi-Murat. È stata del tutto opportuna, dunque, la decisione della Fondazione della Cassa di Risparmio di acquistare l’edificio, ora in restauro, per ospitarvi il museo del Risorgimento e un nuovo museo dedicato a Byron. Pochi metri più in là, la palazzina al numero 35 che oggi ospita il negozio di una nota catena di abbigliamento, purtroppo completamente sventrata dell’antica struttura interna, è pure una testimone non secondaria della Ravenna risorgimentale. Qui infatti, per quasi tutto il XIX secolo, ebbe sede la locanda che a un certo punto prese il nome di Bella Emilia, uno dei ritrovi dei patrioti cittadini e, al tempo stesso, uno dei pochi alberghi dignitosi della Ravenna ottocentesca: a prestare fede alla tradizione, fra i suoi ospiti vi sarebbero stati il letterato Pietro Giordani e re Miguel del Portogallo. Più lontane nel tempo e più incerte sono invece le notizie che le carte d’archivio ci riportano sulla presenza nel ’500, all’angolo con via Salara, di un edificio de-

QUANDO PALAZZO GUICCIOLI SARÀ RECUPERATO, FARÀ DA PENDANT A QUELLO CHE COSTITUISCE UNO DEGLI ANGOLI PIÙ GRADEVOLI DEL CENTRO STORICO: CORTE CAVOUR, RICAVATA NEL CORTILE DI QUELLO CHE FU IL PALAZZO DEI CORRADINI-PIGNATA.

la ricostruzione settecentesca di un edificio di culto del Duecento. Esso aveva a suo tempo preso il posto di una chiesa più antica e del palazzo turrito del Baccalario, che a loro volta erano sorti su quello che, probabilmente, era il Campidoglio della Ravenna romana. Il tutto sulle sponde dell’antica confluenza fra il Lamone e il Padenna, come a dire il nucleo del cuore della storia della città. Un buon punto dove cominciare (o finire) i pomeriggi di evasione dei ravennati del Duemila.


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FOTOGRAFARE

Scatti

AD ARTE SILVIA LELLI E ROBERTO MASOTTI: UNA VITA INSIEME GUARDANDO ATTRAVERSO L’OBIETTIVO GRANDISSIMI ARTISTI E SPETTACOLI INTERNAZIONALI, DALLA LIRICA AL BALLETTO FINO A JAZZ E ROCK.

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di Roberta Bezzi / ph Silvia Lelli e Roberto Masotti

Uniti nella vita e nella professione, accomunati dalla reciproca passione e da quella verso la fotografia. I ravennati Silvia Lelli e Roberto Masotti, milanesi d’adozione, sono artisti d’eccezione, dal 1979 al 1996 creatori del patrimonio iconografico di una delle istituzioni teatrali e musicali più importanti al mondo, il Teatro alla Scala di Milano. Si conoscono a Ravenna che lei ha 16 anni e lui 19, poi studiano a Firenze, lei Architettura, lui Industrial Design. La ditta Lelli e Masotti spazia a 360 gradi nell’universo delle arti performative in genere, preferibilmente verso il contemporaneo. E se Roberto Masotti è considerato uno dei fotografi più importanti nel mondo della musica jazz, grazie ad alcune sue immagini divenute storiche e utilizzate per libri, riviste, copertine di dischi, soprattutto dalla ECM di Manfred Eicher, Silvia Lelli è nota per il tocco inconfondibile con cui è capace di catturare la danza e i grandi personaggi dello spettacolo e delle arti. E oggi come allora, conservano intatta la voglia di aprirsi a nuove sfide. Masotti si sta dedicando a video controllati dal vivo con improvvisatori, un’esperienza insolita che

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lo porta a condividere il palco con i musicisti. Lelli ha appena ultimato il suo workshop fotografico #BohemianFocus al Teatro Alighieri di Ravenna, con 17 giovani a cui ha cercato di passare un po’ del suo sapere come si faceva un tempo in bottega. Quali sono stati i vostri primi passi nel mondo della fotografia? Silvia Lelli: “Mi è sempre piaciuto il teatro sperimentale e ho iniziato fotografando al Centro Universitario Teatrale di Firenze. Un’attitudine che mi è stata utile anche per alcuni esami universitari in cui era necessario portare documenti sotto forma di testi e immagini. Roberto era già più avanti di me e aprì un suo studio a Ravenna e poi a Bologna dopo la laurea. Dopo esserci sposati, nel 1974, ci siamo trasferiti a Milano dove Roberto aveva cominciato a lavorare per etichette discografiche e per l’editoria. All’inizio fui chiamata per un colloquio da Alessandro Mendini, che aveva un incarico per la Montedison, ma il progetto non andò a buon fine, così portai le mie foto nell’agenzia di Grazia Neri, ora purtroppo chiusa. Una settimana dopo mi chiamarono per man-

darmi alla Biennale di Venezia. Da quel momento sono iniziate anche le collaborazioni con riviste specializzate quali ‘Spettacoli e Società’, ‘Gong’ e ‘Musica Viva’, che più avanti hanno contribuito ad avvicinarci alla Scala.” Com’è condividere una stessa passione per tutta la vita? Silvia Lelli: «Assolutamente naturale... Abbiamo iniziato girando per mostre e teatri a scoprire gli artisti, ed è ciò che continuiamo a fare anche oggi. Quando mi è stato proposto l’incarico alla Scala, chiesi che venisse esteso anche a Roberto, perché era il ‘nostro’ settore e in più, potendoci alternare, ci garantivano l’opportunità di continuare a fotografare anche al di fuori di lì.” Negli anni passati al Teatro alla Scala, vi si è aperto il grande mondo della musica, dell’opera e della danza. Qual è stato il vostro principale contributo? Roberto Masotti: “Siamo riusciti a dare un’impronta nel fotografare la lirica. Prima degli anni Settanta, le foto erano quasi solo statiche. In quel settore poi, era assai raro fotografare per esempio le prove o il dietro le quinte. Noi ci siamo riusciti pienamente, rea-


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IN ALTO, UNO SCATTO DELLO SPETTACOLO “KONTAKTHOF” DI PINA BAUSCH (2011); SOTTO, UN RITRATTO “MOLTIPLICATO” DI SILVIA LELLI E ROBERTO MASOTTI (1975). IN APERTURA, DEMETRIO STRATOS (1976), DAL VOLUME “STRATOS E AREA” (ARCANA, 2015).

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lizzando – per la prima volta – un inserto con le prove, che la mattina della prima veniva infilato nel programma.” Per lei Silvia, fotografare la danza è stata una sfida... Silvia Lelli: “Sì, mi hanno sempre riconosciuto una propensione particolare per questa arte. Nella danza, l’assurdità risiede nel fermare nelle immagini ciò che per sua natura è in movimento. Con la mia cocciutaggine sono riuscita a cogliere qualcosa che nel fluire del movimento il pubblico fa fatica a percepire e capire.” Quali personaggi vi hanno più emozionato? Silvia Lelli: “La Scala ci ha abituato bene… Per la danza d’avanguardia, ho molto amato Pina Bausch e Merce Cunningham, due artisti molto semplici, capaci di stare sul palcoscenico durante le prove e di farsi capire con poche parole. Ma mi è sempre pia-

ph Giuseppe Barile

NELLA DANZA, L’ASSURDITÀ RISIEDE NEL FERMARE NELLE IMMAGINI CIÒ CHE PER SUA NATURA È IN MOVIMENTO. CON LA MIA COCCIUTAGGINE SONO RIUSCITA A COGLIERE QUALCOSA CHE NEL FLUIRE DEL MOVIMENTO IL PUBBLICO FA FATICA A PERCEPIRE E CAPIRE.

ciuto fotografare anche i direttori d’orchestra. Seguo il maestro Riccardo Muti dal 1977, che sia per una produzione operistica, un concerto, al Ravenna Festival, o a Salisburgo, dovunque: nessuno mi ha mai detto come fotografare, io vado, ascolto e fotografo.” Roberto Masotti: “Alla Scala, per noi, è rimasta memorabile la collaborazione intensa con registi del calibro di Luca Ronconi e Giorgio Strehler. Con loro abbiamo lavorato fianco a fianco nella costruzione dello spettacolo. Ricordo in particolare il monumentale ‘Falstaff’ di Verdi portato in scena da Strehler: un lavoro esemplare che abbiamo seguito dall’inizio alla fine, che ha sortito risultati importanti in termini fotografici. Sono orgoglioso di aver testimoniato minuziosamente e a quattro mani una messa in scena che ha fatto epoca. Poi certo, sono

stato molto fortunato a conoscere e collaborare con chi ha fatto la storia della musica come John Cage e Silvano Bussotti giusto per fare un paio di esempi.” A proposito di “big”, Masotti, lei ha pubblicato di recente la biografia per immagini di un musicista che ha fatto sognare una generazione “Keith Jarrett. Un ritratto”. Com’è nato questo lavoro? Roberto Masotti: “Dal rapporto di conoscenza, fiducia e amicizia con Jarrett, che si è sviluppato negli anni. L’ho fotografato la prima volta nel 1969, durante un concerto al Teatro Comunale di Bologna. Quattro anni dopo feci un servizio per la rivista ‘Musica Jazz’ e alcune foto sono state pubblicate su due dischi importanti a livello internazionale da Ecm e Impulse. Da lì è iniziato un lungo sodalizio che mi ha portato ad accumulare tanto materiale. Forte e duraturo è stato proprio il rapporto con la sua casa discografica Ecm di Monaco che ha allargato i contatti con tanti altri artisti.” Insieme avete appena pubblicato “Stratos e Area”, che è ora nelle librerie... Silvia Lelli: “Da tempo avevamo in mente di celebrare Demetrio Stratos, interprete del rock progressivo e coraggioso sperimentatore della voce, morto giovane, e il gruppo Area. Nel tempo Roberto ha seguito di più il gruppo, io mi sono concentrata su Demetrio. La loro musica è ancora molto apprezzata dai giovani.”


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La musica

OVUNQUE LE SETTE NOTE SONO STATE IL SUO PANE FIN DA BAMBINO E OGGI MECCO GUIDI SUONA CON I PIÙ GRANDI MUSICISTI. LA SUA PASSIONE È IL JAZZ, MA NEL SUO CURRICULUM C’È ANCHE “SEX AND THE CITY”.

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di Erika Baldini / ph Valentina Donatini

Natali ravennati, casa e famiglia romagnola, giovialità tutta italiana ma con lo sguardo e una visione sul mondo intero. Parliamo di (e con) Michele Guidi, in arte Mecco, tastierista-pianista ravennate, conosciuto soprattutto per il suo stile inconfondibile con l’organo Hammond. Il soul nella mano destra e il groove del basso nella mano sinistra, dicono di lui. Un musicista che sta conquistando una larga fascia di estimatori e molte prestigiose collaborazioni, in Italia e all’estero. Reduce dalle tappe italiane dell’ultimo “Illogico Tour” di Cesare Cremonini, con cui collabora da tempo, con alle spalle ben più di vent’anni di mestiere, con decine di progetti - dal jazz alla musica più commerciale, passando per la fondazione con Luca Sapio di un’etichetta discografica che si occupa di soul rigenerato, con l’attuale progetto di produzione del primo disco di Martha High, per trent’anni corista di James Brown - Mecco vanta curiose imprese di successo. Al di là dell’Oceano è arrivato passando per una delle serie più famose della storia della televisione, “Sex and the City”. Un brano contenuto nel disco “Small club” è sta-

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to infatti inserito nella nota serie americana. Ma non è tutto, è finito pure nella playlist del “David Letterman Show” con “I did we lose it”, pezzo tratto dall’album “Who knows”, realizzato in collaborazione con Sapio che diventa uno dei singoli della settimana su I-Tunes. Sei nato respirando aria e musica, tuo padre è musicista, tu suoni, tuo fratello suona. Cosa ricordi dei tuoi anni di formazione? “Ho frequentato per qualche anno il liceo Pinza e fin da piccolo osservavo curioso il passaggio di musicisti in casa, mio padre aveva un’orchestra dal nome ‘M&W band’. Ho proprio iniziato a suonare davanti a un pubblico con una sua band, ‘I Kriptoniani’, a sedici anni come tastierista. Avevo una band anche con mio fratello, i ‘Moon Raker’. C’erano ottimi vinili in casa, il mio preferito era ‘Made in Japan’ dei Deep Purple, ricordo che simulavo su di un libro l’organo Hammond di Jon Lord e mio fratello la batteria di Ian Pace. Ascoltavo tanta musica: è stato fondamentale, oggi mi capita spesso di suonare e scrivere brani o arrangiamenti che ricordino le vecchie sonorità

MECCO GUIDI FOTOGRAFATO IN MEZZO ALLA MUSICA.


IN TUTTI QUESTI ANNI SONO MOLTE LE COSE CHE PORTO NEL CUORE, OGNUNA MI HA INSEGNATO QUALCOSA, DAI TOUR CON CESARE CREMONINI A UN TIMIDO RAPHAEL GUALAZZI CON CUI FACEVO CONCERTI ANCHE IN DUO, A UN MARIO BIONDI.

e proprio grazie a questo riesco a destreggiarmi su vari strumenti vintage, come Clavinet, Wurlitzer, Hammond, Farfisa...” Quando ti sei reso conto che avresti potuto “guadagnarti da vivere” seguendo questa passione? “Ho deciso di farne una professione una volta finito l’Itis di Ravenna nel ’94. Iniziai a suonare con un’orchestra, ‘I Ragazzi di bandiera gialla’, girando l’Italia con un pullman tra feste di piazza e locali da ballo. Dopo quell’esperienza sono partito con una band per circa due anni in giro per l’Europa, passando da una nave da crociera in Scandinavia a vari casinò e nightclub in Svizzera, Austria e Germania. Da quel momento non mi sono più fermato. È stato un susseguirsi di contaminazioni musicali e collaborazioni per me importantissime.”

Puoi passare dal jazz, tuo grande amore, a vari generi. Come vivi questa versatilità? “La vivo sempre in continua ricerca. Ho pubblicato molti album che vanno dal jazz in organ trio, a composizioni che poi sono state usate come soundtrack per sonorizzazioni televisive – ad esempio ‘Sex and the city’ – a brani e produzioni più soul & funk con Luca Sapio, Mario Biondi, Martha High... In questo periodo sono più proiettato sulla scrittura. Sono stato a registrare a New York ben due volte nell’arco di poco tempo.” Chi tra i musicisti con cui hai lavorato porti nel cuore? “Un sodalizio veramente duraturo che ha portato poi a molte significative collaborazioni è quello col batterista Christian Capiozzo, iniziata nel 2003 con il progetto Capiozzo & Mecco e un fortunato album ‘Whisky a go go’. In tutti questi anni sono molte le cose che porto nel cuore, ognuna mi ha insegnato qualcosa, dai tour con Cesare Cremonini - questo è il tredicesimo anno che faccio parte della sua band - a un timido Raphael Gualazzi con cui facevo concerti anche in duo, a un Mario Biondi già vocalmente dotato ma ancora non noto al pubblico, alla sensibilità di Martha High corista di James Brown.” A cosa stai lavorando ora? “I progetti futuri sono tanti. È appena uscito un disco con gli ‘Organic Vibe’ un progetto con Alessandro Scala sax e Marco Frattini batteria e il featuring di Danny Losito alla voce. Un desiderio nel cassetto… Da diversi anni collaboro con la cantante Gloria Turrini, di grande personalità, grintosa e una grande voce; in Romagna c’è un seguito di pubblico: mi piacerebbe riuscire a trasformare questo in un progetto conosciuto a livello nazionale e magari oltre oceano.” IN MAGAZINE

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DIPINGERE

Caravaggio

IN SALOTTO UN DOCENTE DI DISCIPLINE PITTORICHE, CLAUDIO RIGHI, E UN MEDICO, PAOLO CUCCU, SI SONO MESSI ALLA PROVA CON UN’IMPRESA ALQUANTO CORAGGIOSA, O FORSE INCOSCIENTE: RIPRODURRE UN CAPOLAVORO DI CARAVAGGIO. TRE ANNI E L’OPERA È COMPIUTA, PRONTA DA AMMIRARE!

C CLAUDIO RIGHI E PAOLO CUCCU DAVANTI ALLA LORO COPIA CARAVAGGESCA.

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di Nevio Galeati / ph Massimo Fiorentini

Capita ancora che ci si ritrovi, un paio di sere al mese, a parlare di pittura ascoltando Chopin o Bach. Sfogliando preziosi libri illustrati dedicati all’arte di tutti i tempi. Capita, anche, di voler ampliare i propri orizzonti e di scaricare la tensione di una giornata di lavoro, dipingendo. Chiedendo naturalmente consiglio ad amici professionisti. E, incredibilmente, capita di provare a replicare un capolavoro assoluto come la “Deposizione di Cristo” di Michelangelo Merisi da Caravaggio. Un’esperienza unica, in cui si è cimentato Claudio Righi, docente di discipline pittoriche da quasi trent’anni, di ruolo al liceo artistico Nervi-Severini di Ravenna, dopo aver insegnato anche al Ballardini di Faenza. “Un’amica docente di storia dell’arte un giorno mi chiede se potevo essere interessato a confrontarmi con altri suoi amici appunto sull’arte, per parlare anche delle mie esperienze. Fra questi c’era un medico ravennate, Paolo Cuccu; suo figlio; un’altra amica. È nata così una specie di cenacolo culturale. Un’occasione per discutere, in massima libertà, appunto di pittura e scultura, musica e altro ancora. Un gior-


no Paolo arriva con una monografia dedicata a Caravaggio e apre il volume nella pagina della ‘Deposizione’. Ci guarda e dice: Proviamo a rifarla? Sono rimasto di sale. Poi gli ho detto: lasciamo stare, siamo lontani anni luce solo dall’idea di simulare quest’arte.” L’idea viene apparentemente accantonata. Poi, una sera, Claudio Righi si trova davanti, già installata nella mansarda del medico, una tavola delle medesime dimensioni dell’opera conservata nei Musei Vaticani. E il fondo è già stato quadrettato. “Siamo matti, ho pensato. Ma non si può neppure provare, continuavo a ripetere. Poi, in realtà, la sfida mi ha attirato: quando mi sarebbe ricapitata un’occasione del genere? Così ci siamo messi all’opera.” In realtà il lavoro viene portato avanti solo da Claudio Righi, che ha dalla propria, oltre al curriculum scolastico “normale”, un diploma di disegno anatomochirurgico conseguito al Rizzoli di Bologna, e può vantare numerose personali allestite in tutta la regione. Ma si tratta in ogni caso di un’impresa da far tremare le vene ai polsi. Per altro le riproduzioni non sono sufficienti, così gli amici vanno a Roma per foto-

grafare l’originale, soprattutto per capire le tonalità vere dei colori. Così, incrociando libri e foto, si mettono all’opera. Sono stati necessari tre anni di impegno, lavorando una sera a settimana, per non rubare altro tempo alle rispettive famiglie, oltre a quello ovviamente sottratto dal lavoro quotidiano. Paolo Cuccu fa realizzare anche un soppalco, per consentire a Claudio Righi di curare ogni dettaglio, in sicurezza e tranquillità. Ora l’opera è finita e gli amici hanno anche organizzato una piccola festa, per chiudere l’esperienza, nella tradizione dei loro cenacoli artistici. “È stata un’esperienza affascinante. In passato ho cercato di ripercorrere, con la mia chiave pittorica, alcuni temi della mitologia classica, o addirittura dei testi sacri, come il peccato originale o la cacciata dal Paradiso terrestre. Mi ha infatti sempre affascinato il nudo pittorico e come lo avessero affrontato i maestri rinascimentali. Questo lavoro è stato di tutt’altra difficoltà: cercare di cogliere la meraviglia di Caravaggio! Straordinario e irripetibile, direi. Alla fine devo dire che sono, e siamo, molto soddisfatti del risultato. Adesso... torniamo sulla terra.”


IDEARE

Il giovane

FAVOLOSO EMILIO MACCHIA È STATO SELEZIONATO DAL PROGETTO “MILLENNIALS” TRA I MIGLIORI DESIGNER DELLA NUOVA SCENA DELLA GRAFICA ITALIANA: TUTTI NATI DOPO IL 1980.

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di Anna De Lutiis / ph Lidia Bagnara

Emilio Macchia selezionato dal progetto Millennials per rappresentare, insieme ad altri giovani designer, il meglio della scena grafica italiana, è un ragazzo che da molti anni si dà da fare seguendo una sua idea ben precisa, di giovane che sa dove vuole arrivare, senza mai farsi frenare dagli ostacoli. Si può dire che nulla gli è stato regalato, ma che deve tutto alla caparbietà con cui insegue il

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suo sogno. Vale la pena, dunque, di conoscerlo più da vicino. Lo incontriamo tra una partenza e l’altra. Semplice, spontaneo ma allo stesso tempo sicuro di sé, dal dialogare facile e comunicativo. Che cosa hai provato quando ti è stato comunicato che eri stato selezionato in una rosa di più di duecento progettisti under 35 e che tu ti sei classificato tra i primi cinquanta? “Io sono stato colto di sorpresa perché non si è trattato di un concorso al quale avevo partecipato. Il progetto si intitola ‘Millennials / La nuova scena della grafica italiana’. Lo scopo era di raccogliere in una mostra i progetti realizzati da giovani designer under 35 per far emergere un mondo del progetto e i suoi autori che restituisse una qualità diffusa sull’intero territorio nazionale, nuovi approcci nelle metodologie, nuovi campi di applicazione, nuove forme di produzione del lavoro. Si indagava su tutti i campi di applicazione della comunicazione visiva: manifesti, editoria, packaging, segnaletica, allestimenti, Web, progettazione di interfacce per software e app. La selezione teneva conto soprattutto dell’originalità, della sperimentazione e ricerca, non impor-

ta se i lavori erano eseguiti per committenza pubblica o privata.” Come sei stato contattato? “Dapprima ho ricevuto una mail in cui mi si informava che ero stato selezionato per un progetto. Due giorni dopo mi hanno telefonato facendomi i complimenti per essere entrato nella lista dei primi cinquanta. Io non potevo crederci e capivo che era un’ottima occasione di visibilità che mi sarebbe tornata utile per il lavoro. Le opere selezionate sono state esposte a Milano, premio stabilito da AIAP, l’associazione italiana dei designer per la comunicazione visiva e allestita nella Fabbrica del Vapore di Milano con l’obiettivo di rappresentare la vivacità dei mondi legati al progetto e alla sua produzione, mostrando come in uno stato di crisi le modalità di produzione trovano canali alternativi a quelli tradizionali. La commissione, credo sia interessante sottolinearlo, era composta da una giuria tutta straniera.” Quali sono le scuole che hai frequentato e come hai acquisito la tua formazione? “Dopo le scuole superiori mi sono diplomato nel 2010 all’ISIA (Istituto Superiore per le Industrie Artistiche) di Urbino con una tesi


A D O M y A l a t R I T n i L e d A a L’ lo stile m 5 1 0 2 e r b 13 dicem

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dal titolo Press to Attack, una ricerca sul fenomeno dell’editoria clandestina in Olanda durante la seconda Guerra Mondiale, con relatore Leonardo Sonnoli. In seguito ho frequentato l’Accademia di Belle Arti di Urbino, diploma triennale in Progettazione Multimediale. Dal 2010 al 2012 sono stato ricercatore presso il dipartimento di design alla Jan van Eyck Academie di Maastricht in Olanda, dove ho condotto una ricerca sulla vita e il lavoro di Charles Nypels, stampatore, editore e progettista attivo nella prima metà del 1900.” Il tuo desiderio, però, era tornare a Ravenna. Avevi già le idee che poi hai realizzato? “Nel 2010, appena tornato a Ravenna, assieme ad Alessandra Carini, Stefano Terigi e Federico Bocchini abbiamo fondato l’Associazione Culturale Strativari con cui abbiamo sviluppato progetti di ricerca che hanno portato alla realizzazione di diverse iniziative nel campo del design tra cui ‘OFFSET, visioni e manifesti sulla città di Ravenna’ e il Festival Fahrenheit 39 che tratta i temi legati al design applicato all’editoria e mette in mostra libri prodotti da editoria ‘clandestina’, che non segue cioè le regole dell’editoria ufficiale. Fahrenheit 39 è stata la prima esperienza del genere in Italia, mentre esisteva già in Olanda, in Francia e negli Stati Uniti. Dal 2013 sono responsabile della comunicazione e della linea editoriale di Osservatorio Fotografico, un laboratorio permanente di ricerca sulla fotografia.

Parallelamente all’attività di ricerca, il mio lavoro si concentra prevalentemente nell’ambito della progettazione grafica con un particolare interesse per l’editoria e per lo studio dell’identità visiva e della comunicazione per eventi e istituzioni culturali.” Mi sembra che tu sappia gestire il tuo tempo e il tuo lavoro. Capisco ora perché sei sempre in viaggio da una città all’altra, da uno stato all’altro. “Mi rimane davvero poco tempo libero perché dal 2015 sono anche docente a contratto per il corso di Art Direction presso il biennio specialistico in Visual e Motion Design all’Accademia di Belle Arti di Urbino, e co-docente del corso di Progettazione Grafica presso l’Istituto Salesiani di Bologna (IFTS). Inoltre tengo workshop e conferenze in Italia e all’estero.” Emilio Macchia racconta le sue esperienze con entusiasmo e con orgoglio. La sua giovane età lo vede già protagonista di esperienze molto interessanti a livello nazionale e internazionale. Recentemente era a Parigi per visitare una mostra sull’editoria, simile a Fahrenheit 39; poteva essere l’opportunità di conoscere eventuali colleghi e collaboratori per portare avanti progetti comuni. Era la giornata che ha cambiato la vita dei parigini e lui è stato fortunato a non essere stato tra i giovani che parteciparono al concerto nel locale Bataclan anche se era nelle vicinanze in attesa di trovare posto in un ristorante.

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Il palazzo

DELLO SPORT IL PALA DE ANDRÉ RITORNA AD ESSERE PROTAGONISTA DELLO SPORT RAVENNATE: NUOVA SEDE PER IL BASKET, IN ATTESA DEL GRANDE RITORNO DEL VOLLEY

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di Michele Virgili / ph Massimo Fiorentini

Diventata subito una delle cupole più famose e significative di Ravenna, la cupola bianca del Pala De André, ben visibile a distanza, irrompe nel paesaggio architettonico della città bizantina sul finire degli anni ’80 sovrastando il Palazzo delle Arti e dello Sport,

un edificio di impronta molto moderna, costruito per volontà del gruppo Ferruzzi nell’area fra Via Trieste e Via Canale Molinetto. Inaugurato nell’ottobre del 1990 è intitolato a Mauro De André, dirigente del gruppo Ferruzzi, prematuramente scomparso e

fratello del cantautore Fabrizio. Nell’idea del grande gruppo ravennate, il nuovo palazzo non è solo il luogo ideale per ospitare manifestazioni commerciali, artistiche e musicali, ma anche il palcoscenico più adatto per far recitare le grandi imprese del-

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INAUGURATO NELL’OTTOBRE DEL 1990, IL PALAZZETTO VENNE INTITOLATO A MAURO DE ANDRÉ, CHE ERA UN DIRIGENTE DEL GRUPPO FERRUZZI, PREMATURAMENTE SCOMPARSO, E ANCHE FRATELLO DEL CANTAUTORE FABRIZIO DE ANDRÉ.

le squadre pallavolistiche della città. Il Pala De André, infatti, arriva al culmine del ciclo sontuoso dell’Imperatrice Teodora e accompagna i bagliori dell’era Messaggero Volley, la squadra di fenomeni che fa letteralmente impazzire di gioia i tifosi ravennati. L’Imperatrice Teodora sul parquet del Pala De André disegna, invece, la stella (il decimo scudetto di fila, poi arrotondato anche con l’undicesimo) e griffa la seconda Coppa Campioni della storia mettendo in fila le campionesse d’Europa in carica del Mladost, il sempre temibile Ouralotchka e le tedesche del Feuerbach. Nel 1993 la crisi del Gruppo Ferruzzi si ripercuote anche sul volley ravennate, fino al punto di sparire dall’orizzonte della massima serie, ritrovata da qualche anno con la squadra maschile dopo il lungo progetto di rilancio affidato alla Pallavolo Angelo Costa, che ha poi raccolto il sostegno, stra36

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da facendo, della Robur. Il Pala De André è tornato a respirare il clima del massimo campionato, salvo però, dall’anno scorso, finire sacrificato sull’altare di una politica di contenimento costi a favore del Pala Fiera di Forlì, nuovo campo di gara di CMC Romagna. Ma in questo campionato, il volley maschile ravennate disputa tre gare di campionato al De André: la prossima con Piacenza il 10 febbraio. “Da ravennate – dice il presidente del Porto Robur Costa Luca Casadio – sono felice di poter tornare, anche se solo per tre partite, nella nostra città. Le sensazioni che ti trasmette il Pala De André sono uniche, qui si è scritta la storia della pallavolo, Ravenna è diventata campione del mondo.” Trasferendosi a Forlì c’è stato un leggero calo di pubblico: “Venendo a giocare al Pala Credito c’è stato un vantaggio economico, ma ci piacerebbe tornare a Ravenna, sperando che maturino le condizioni per farlo”. In attesa del ritorno a casa del volley, il Pala De André è diventato adesso la casa del basket dell’OraSi. Scaduta la deroga per disputare le partite casalinghe al Pala Costa si è arrivati a un accordo tra la società del presidente Roberto Vianello e il Comune che, con i lavori di adattamento della struttura (nuovo parquet e nuovi tabelloni), ha permesso che il basket rimanesse in città. “È una cosa splendida poter giocare qui le nostre partite – commenta

Vianello –. Non è come un Palazzo dello Sport ma siamo veramente contenti del Pala De André. Se penso che qualche anno fa giocavamo alla palestra Morigia posso dire che ne abbiamo fatta di strada. Abbiamo una media spettatori di circa 1.500-2.000 persone. C’è stata la volontà di tutti per arrivare a questa soluzione, adesso sta a noi cercare di far divertire i nostri tifosi in un campionato che è molto difficile.” “Sono molto soddisfatto del lavoro che è stato fatto – aggiunge l’assessore all’Ambiente e allo Sport Guido Guerrieri – perché l’amministrazione comunale aveva preso l’impegno di trovare una soluzione e ha mantenuto la parola. Siamo riusciti a creare le condizioni per permettere alla squadra di basket, che milita in una seconda serie nazionale, di continuare a giocare a Ravenna. Voglio ringraziare la società che ha in gestione il Pala De André, la Metro di Bruno Masetti: si sono dimostrati tutti molti disponibili, l’esecuzione dei lavori non è stata semplice. Queste opere sono a vantaggio del basket, della pallavolo e di altre manifestazioni sportive.” La speranza degli sportivi ravennati, a questo punto, è che anche la CMC torni definitivamente in città: “È il nostro obiettivo – termina Guerrieri – la struttura è idonea, ora serve la volontà della società di giocare nuovamente a Ravenna”.



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IL NUOVO SHOWROOM ARKA DESIGN E QUALITÀ NELL’ARREDO

AMBIENTI RINNOVATI PER LO SHOWROOM ARKA IN VIA PANFILIA, CHE IN PARTNERSHIP CON MOLTENI & C E DADA PROPONE MOBILI E COMPLEMENTI D’ARREDO DI PRESTIGIO E QUALITÀ.

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La luce delle vetrine si riflette nel portico che corre lungo il palazzo, il fronte principale in via Panfilia, un lato in via Garigliano. Pastelli, tono su tono, stile. È la nuova veste dello showroom Arka, punto di riferimento per alcune marche di mobili e complementi d’arredo prestigiose ed esclusive per la città. Spazi dilatati, purezza delle forme, laccature ed essenze calde al tatto e alla vista, luci e ricostruzioni di ambienti in cui vivere e riposare è più facile e piacevole. Arka è la creatura di Daniele Bronzetti: professionista del settore da quarant’anni; cresciuto nel negozio di famiglia a Punta Marina, si è trasferito a Ravenna dagli anni Novanta con uno studio di progettazione che ha gestito per un lungo periodo in via Morelli. “Siamo sempre stati abituati a

lavorare… in strada, nei cantieri, su progetto - spiega Daniele Bronzetti -. Per noi è sempre stato fondamentale creare ‘l’involucro’ idoneo a ospitare quegli elementi di arredo frutto di un confronto continuo e costante con le idee del cliente e le nostre proposte. Da sempre abbiamo offerto un servizio ampio che inizia dalla progettazione e continua per anni a seguire con l’assistenza post vendita. Il ‘fai da te’ non dà quasi mai i risultati sperati. Chi si è fidato di noi ha avuto sempre buoni risultati, li ha apprezzati e questo ci ha fatto crescere in modo costante grazie soprattutto al questo ‘passaparola’ positivo che si è diffuso a macchia d’olio.” Dal 2011 Arka, con l’intensificarsi della crisi, ha sentito l’esigenza di avere una maggiore visibilità ed è “sbarcata” in via Panfilia. In un primo periodo

IN QUESTE PAGINE GLI ALLESTIMENTI DEL NUOVO SHOWROOM ARKA.


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I NUOVI PARTNER DELL’AZIENDA SONO DUE, MOLTENI & C E DADA, MARCHI PRESTIGIOSI RICONDUCIBILI ALLA STORICA AZIENDA MOLTENI, CHE HA APPENA COMPIUTO OTTANT’ANNI E LI HA CELEBRATI CON EVENTI PREZIOSI ALLA GALLERIA D’ARTE MODERNA DI MILANO.

ha scelto di avere una sezione monomarca, oltre a mantenere uno spazio dedicato all’arredamento in tutte le sue espressioni. Poi, all’inizio del 2015, esigenze professionali e commerciali della società hanno messo in luce l’esigenza di ridisegnare gli spazi espositivi, per riequilibrare i volumi, e aggiungere altre marche di qualità. “Così abbiamo deciso di voltare pagina ancora una volta. Volevamo tornare alla progettazione di livello – aggiunge Bronzetti – e non limitarci a vendere pezzi, anche se belli e di ottimo design, che non consentivano, però, di creare nuove situazioni per noi diventate indispensabili. Era necessario fare ancora un passo in avanti. Oggi Arka, tenendo fede alla propria storia, si lancia su un nuovo percorso fatto di qualità.” I nuovi partner dell’azienda sono fondamentalmente due, Molteni & C e Dada, marchi prestigiosi riconducibili alla storica azienda Molteni, che ha appena compiuto ottant’anni e li ha celebrati con eventi preziosi alla Galleria d’Arte Moderna di Milano. Il primo specificamente dedi-

cato agli spazi giorno e notte, il secondo specializzato in arredi per la cucina. E dai fornelli alla zona living, dallo studio all’ambiente notte, la scelta di arredo è fra le firme che hanno fatto la storia del design italiano. Una realtà che ha scelto da sempre la qualità dei professionisti di cui si avvale, quella dei materiali, dei legni e dei metalli, delle pelli, dei tessuti e delle fibre di

nuova concezione; e naturalmente la qualità dei processi di realizzazione. “Abbiamo tanto entusiasmo e tanta voglia di fare – conclude Daniele Bronzetti – e nonostante stiamo lavorando in situazioni non... ottimali dovute al momento che stiamo vivendo, la nostra ‘mission’ rimane sempre la stessa: creare gli ambienti che, chi si è rivolto a noi, desidera realizzare.”

Ravenna - Via Panfilia, 45/47 - Tel. 0544 219532 www.arkadesign.it - info@arkadesign.it ININ MAGAZINE MAGAZINE39 2


VEDERE

Zombie

IN CITTA ABBIAMO INTERVISTATO IN ESCLUSIVA AUTORE E INTERPRETE DELLA SERIE CULT INGLESE “IN THE FLESH”, DOVE I PERSONAGGI PAUROSI SONO UNA METAFORA DELLA VITA REALE.

A L’ATTORE KEVIN SUTTON IN UNA SCENA DI “IN THE FLESH”

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di Erika Baldini

Al Ravenna Nightmare Film Fest, uno degli appuntamenti storici in Italia per il cinema horror e fantastico, sono avvezzi a vederne di originali. Quest’anno, dopo il definitivo sdoganamento in tv di serie che nulla hanno da invidiare alle produzioni cinematografiche - vedi il successo di “True Detectives” o “The walking Dead” - ecco che anche RNFF ha dedicato ampio spazio a una fiction televisiva: “In The Flesh”. Si è dunque potuto assistere a Ravenna alla proiezione integrale delle

due stagioni di questo serial inglese, prodotto dalla BBC: serial cult, ma inspiegabilmente ancora inedito in Italia. Abbiamo incontrato Dominic Mitchell e Kevin Sutton, ospiti d’onore del festival, autore e attore della serie che, come ha scritto The Indipendent, “ha fatto per gli zombie quello che True Blood ha fatto per i vampiri, presentandoli come vittime di pregiudizi piuttosto che mostri. Hanno cuore e cervello e non solo per essere spiaccicato sul pavimento di un supermercato”. L’incontro è avvenuto davanti a un invitante tagliere di piadine e affettati in puro stile romagnolo. Ma con pinta di birra rigorosamente all’inglese. Molti studiosi di genere affermano che ogni periodo storico rifletta sogni e ossessioni nel suo cinema. L’arte è l’espressione del tempo, della società che la crea. Famosa la teoria di David Skal sul cinema americano anni ‘40/’50, quello delle creature mutanti, che rifletterebbe la paranoia dell’epoca per la bomba atomica, mentre quelli sugli zombie di Romero sarebbero il prodotto del trauma della guerra in Vietnam. Ora gli zombie sono tornati, al

cinema, in tv... Dominic Mitchell: “Sono sempre stato un fan degli zombie. Puoi usare gli zombie per dire un sacco di cose politiche e sociali forti, senza essere troppo diretto o altisonante. A me interessava poi il tema dell’alienazione mentale, delle cure al malato mentale e del suo ritorno in società dopo il trattamento sanitario. Vedi, lo zombie è differente dal vampiro, da tutte queste altre creature leggendarie. Non sceglie di uccidere. Deve farlo e basta. Ho paragonato questo alla malattia mentale. Ho pensato ad una storia in cui gli zombie rappresentano l’universale condizione dell’emarginato, del diverso, del nemico, ma comunque umano. Si, non c’è dubbio, lo zombie è davvero una metafora potente.” Come è nata l’idea di “In The Flesh”? DM: “Anni fa stavo guardando un film americano sugli zombie (ma non dirò quale!) e ho realizzato che era davvero un pessimo film, un tipico film zombie ‘all’americana’. I protagonisti viventi erano odiosi e molto ‘machi’. Allora ho pensato a cosa succederebbe se in Gran Bretagna ci fosse un’apocalisse zombie. Sicu-


ramente ci comporteremmo in maniera diversa dagli americani, loro sparano e basta. Gli inglesi sono molto più educati.” (Dominic e Kevin ridono) Come ti senti ora vedendo la serie in tv o, come in questi giorni a Ravenna, guardandola su un grande schermo assieme al pubblico? DM: “È sorprendente. Questo è il mio primo lavoro per la tv. E non l’avevo mai vista prima sul grande schermo. Così è stato meraviglioso. Gli attori, i tecnici, hanno fatto tutti un gran lavoro. Sono grato a tutti. Hanno realizzato la mia visione. E vederla col pubblico è qualcosa di speciale.” Kevin, tu interpreti Gary Kendal, il tipaccio cattivo. Quanto c’è di tuo in questo personaggio e quanto di Dominic? Kevin Sutton: “100% Dominic.

È facile leggere questo ragazzo. Ci sono emozioni come rabbia, disgusto, avidità. In un certo modo ho simpatizzato con lui. Il pubblico empatizza in questa serie più coi morti viventi che coi vivi, è una delle cose che mi hanno colpito del copione, ma io sono con lui. Qualsiasi cosa fa è giustificata se guardi alla sua storia passata... alla fine non è così cattivo.” Tu vieni dal teatro, come sei entrato nella serie? KS: “Il direttore del casting mi ha dato qualche indicazione, forse ha visto qualcosa di ‘cattivo’ in me. Io sono stato completamente e solo me stesso al provino. E ho avuto la parte! E questo un poco mi preoccupa (sorriso sornione). Comunque questo ruolo è la miglior cosa che abbia mai fatto. Non riuscirò più a ripetermi.” Sulla rete ci sono decine e decine

di petizioni per chiedere una terza stagione di “In The Flesh”... DM: “Ci stiamo lavorando. I fan ci chiedono cose, vogliono sapere che fine hanno fatto i loro personaggi preferiti, come evolve la storia. Attualmente c’è il progetto per un film. Ci piacerebbe davvero.” Abbiamo incontrato alcuni vostri fan italiani e sono davvero appassionati... DM: “Sì, sono stati molto carini. E passionali. Credo che soprattutto i giovani si identifichino e amino la serie perché è basata su esperienze universali e formative. Anch’io sono stato la pecora nera del piccolo paese in cui sono cresciuto, un ragazzo che voleva evadere da certe ristrettezze di pensiero, andare via, viaggiare, conoscere altri posti e trovare me stesso. Ho cominciato a scrivere per questo.”


SCRIVERE

Stelle

NASCENTI APPASSIONATO DI TEATRO E ORA DI SCRITTURA, IL GIOVANE RAVENNATE KINGSLEY NGADIUBA ESORDISCE CON UN ROMANZO FANTASY. PER CONTINUARE A SOGNARE.

M

Mi ha colpito il nome, difficile da pronunciare, prima ancora di incontrarlo. La mattina del nostro incontro lo vedo arrivare con un andare un po’ dinoccolato, magrissimo e con tanti capelli neri “aperti” al vento! Kingsley Ngadiuba nasce a Bologna da padre nigeriano e madre italiana, ora vive a Ravenna. Raccontami un po’ della tua famiglia...

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di Anna De Lutiis

“Quasi trent’anni fa mio padre venne a Ravenna dalla Nigeria. Qui conobbe mia madre e si sposarono. Ho due sorelle: una più grande di me, laureata in ingegneria, e una più piccola che studia filosofia.” Come si svolge la tua vita di giovane a Ravenna? “Ho cominciato fin dagli anni della scuola superiore a frequentare corsi di teatro. Con il Teatro delle Albe ho interpretato ‘I Polacchi’ con la regia di Marco Martinelli. Abbiamo fatto spettacoli in giro per l’Italia e in Francia. È stato molto bello, perché mi ha permesso di incontrare nuove persone e allargare i miei orizzonti. Per me il teatro è la più grande passione e la porto avanti anche oggi.” Continui anche ora che sei laureato a impegnarti con rappresentazioni? “Sì, partecipo a due spettacoli ‘Nel Bosco Addormentato’ e ‘Sinbad il Viaggiatore’ con la compagnia teatrale Bottega degli Apocrifi con sede a Manfredonia, entrambi spettacoli di teatro per ragazzi. Il primo è una rilettura de ‘La Bella Addormentata nel bosco’ e ‘Sinbad il Viaggiatore’ è un riadattamento dei viaggi di

Sinbad tratti da ‘Le Mille e una notte’. L’estate scorsa ho partecipato a ‘Eresia della felicità’, un progetto teatrale che si è svolto a Milano.” Hai appena presentato il tuo primo romanzo “La stella dell’Ovest”, un fantasy pubblicato da Valinor, David and Matthaus Edizioni. Quando nasce la tua passione per la scrittura? “Ho cominciato a scrivere tra i banchi di scuola. Ho iniziato questo romanzo a quattordici anni. Mi sentivo libero davanti alla pagina bianca e lì si scatenava la mia fantasia. Avevo iniziato a far conoscere il libro su web, tramite il self-publishing, e quando ho ricevuto la telefonata dalla casa editrice sono rimasto prima incredulo e poi ho provato una fortissima emozione.” Kingsley ha appena compiuto 23 anni. È un ragazzo pieno di passioni: oltre al teatro e alla scrittura, ama la musica irlandese e coltiva un forte desiderio di conoscenza che lo avvicina sempre di più al campo delle scienze. Fresco di laurea in Geologia conseguita a Ferrara, Kingsley vuole realizzare il suo sogno di bambino: diventare paleontologo.




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