€ 3,00 - N. 1/17 Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB - FILIALE DI FORLÌ -
IMPRONTE DI STILI. Antonio MARCEGAGLIA, Enzo FERRARI, Gaetano CURRERI, Orietta BERTI, Guido GUIDI.
SPECIAL DOME. architettura e interior design
PENNABILLI: Come i girasoli,
MILANO MARITTIMA: Una scala di colori,
RIMINI: Una lanterna in vetro e larice.
Editoriale
EDITORIALE di Andrea Masotti
Apriamo il numero estivo di Premium con uno sguardo all’opera della fotografa Simon, che con il suo progetto “Cinema Italia”, che presto diventerà un libro, ha immortalato i più grandi attori del cinema italiano. Passiamo poi al mondo del vino con Alessandro Rossi, che ci racconta come è cambiato il gusto degli italiani negli ultimi anni. Parliamo poi di Ravenna Mosaico, la rassegna biennale di mosaico che quest’anno ospiterà al Mar la mostra “Montezuma, Fontana, Mirko. La scultura in mosaico dalle origini ad oggi”. Passiamo al mondo del food parlando con Simone Ravaioli, co-founder di Postrivoro, una nuova esperienza tra cucina, arte e relazioni. Parliamo sempre di arte, nello specifico di musica, visitando la Casa del Cigno di Pesaro, casamuseo di Gioachino Rossini che ospita alcuni dei suoi cimeli. Questo 2017 porta con anche alcune vittorie: festeggiamo infatti la duplice vittoria dell’agenzia Menabò Group, che si aggiudica i premi Agorà e Mediastars per alcune sue campagne pubblicitarie. Gli articoli centrali della rivista sono dedicati a protagonisti del nostro tempo, nel mondo dell’impresa come delle arti. Iniziamo da Antonio Marcegaglia, vero capitano d’impresa, alla guida dell’azienda di famiglia in forte crescita. Proseguiamo con un ricordo di Enzo Ferrari, patròn della storica azienda automobilistica, che proprio quest’anno festeggia i suoi 70 anni di mito all’insegna del colore rosso. Proseguiamo con Alpi, la storia di una famiglia e dinastia di imprenditori nel settore del legno, che parte dall’entroterra romagnolo fino ad arrivare ai confini del mondo. Abbiamo intervistato anche Gaetano Curreri, fresco vincitore del premio Charlot, per i suoi quarant’anni di carriera nella musica,
Tariffa R.O.C.: Poste Italiane s.p.a. - Spedizione in A. P. - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1, comma 1, DCB - FILIALE DI FORLÌ -
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€ 3,00 - N. 1/17
che ci racconta dei primi anni con Lucio Dalla, dei successi con gli Stadio e dell’amicizia con Vasco Rossi. Non potevamo poi non parlare di Orietta Berti, che celebra i suoi cinquant’anni di carriera con un cofanetto di CD dal titolo “Dietro un grande amore”. Apriamo il nostro sguardo sul mondo in compagnia di Guido Guidi, fotografo di fama internazionale che si racconta attraverso le sue fotografie ed i suoi ricordi. Se parliamo di Emilia-Romagna non si può poi non citare il grande cinema che ha utilizzato i nostri paesaggi come set cinematografico: con Cinema Romagna ricordiamo le pellicole riminesi di Fellini e i film che hanno scelto la Romagna come sfondo alle loro storie. Parlando di paesaggi scopriamo la Valmarecchia con un itinerario che parte da Santarcangelo per poi toccare Torriana, San Leo, Verucchio e tutta la valle del
IMPRONTE DI STILI. Antonio MARCEGAGLIA, Enzo FERRARI, Gaetano CURRERI, Orietta BERTI, Guido GUIDI.
SPECIAL DOME. architettura e interior design
PENNABILLI: Come i girasoli,
MILANO MARITTIMA: Una scala di colori,
RIMINI: Una lanterna in vetro e larice.
fiume Marecchia. L’appuntamento con Dome, in questo numero ospita una casa di Pennabilli, una particolare casa che ruota a favore di sole, rialzata di quasi quattro metri e con un bilancio energetico che tende allo zero. Una casa preziosa in oro e azzurro, dove l’elemento guida è una scala di vetro centrale e l’uso sapiente del colore è invece quella che visitiamo a Milano Marittima. Rimaniamo nel segno dell’arte incontrando poi l’architetto Monica Gasperini, che ha appena debuttato sul sito ArteMest con la sua nuova collezione di mobili di design. Finiamo questo numero dando spazio al progetto architettonico del Birrificio Amarcord, il cui quartier generale, dal concept scandinavo, elegante e sinuoso si accorda con la natura circostante.
Editoriale / 5
Sommario Premium
SOMMARIO - PREMIUM impronte di stili
Editoriale 5
28
Accenti 9 Profili 16 Good Wine 18 Creative Papers 20 Gourmandise 22 Blue Notes 24 34
42
Awards 26 Antonio Marcegaglia 28 vero capitano d’impresa.
Enzo Ferrari 34 settant’anni di ‘rosse’.
Alpi 4 2 una storia scolpita nel legno.
72
Gaetano Curreri 48 40 anni di carriera e passione.
Orietta Berti 5 6 dietro un grande amore.
Guido Guidi 62 uno sguardo sul mondo.
Cinema Romagna 68 una terra messa in scena.
Valmarecchia 72 alla scoperta della valle del fiume Marecchia.
6 / Sommario Premium
Sommario Premium
SOMMARIO - PREMIUM impronte di stili
SPECIAL DOME architettura e interior design
Come i girasoli 78 la casa che ruota.
78 Una scala di colori 84
“IN MAGAZINE PREMIUM” anno X - n° 1 luglio 2017 Reg. al Tribunale di Forlì il 28/10/2005 n. 43
oro, bianco, grigio e azzurro.
Edizioni IN MAGAZINE S.R.L. - Menabò Group Redazione e amministrazione: 47122 Forlì - Via Napoleone Bonaparte, 50 tel. 0543.798463 - fax. 0543.774044
Monica Gasperini 91
www.inmagazine.it www.menabo.com info@inmagazine.it
il debutto su ArteMest.
Stampa: Grafiche MDM Forlì
Birrificio Amarcord 96 una lanterna in vetro e larice.
Direttore Responsabile: Andrea Masotti.
84
Redazione centrale: Gianluca Gatta, Giulia Masci Ametta. Artwork: Lisa Tagliaferri. Impaginazione: Francesca Fantini. Ufficio commerciale: Gianluca Braga, Irena Coso, Laura De Paoli, Elvis Venturini. Collaboratori: Annalisa Balzoni, Roberta Bezzi, Alessandro Bucci, Gianluca Gatta, Andrea Guermandi, Lucia Lombardi, Giulia Masci Ametta, Francesca Miccoli, Pierluigi Moressa, Giovanna Patrignani, Matteo Ranucci. Fotografi: AGF, Lidia Bagnara, Filippo Cantoni, Massimo Fiorentini, Riccardo Gallini, Tommaso Guermandi, Giorgio Sabatini, Roberto Taddeo, Luca Toni, Gianluca Vassallo Foto di cover: Francesco Ormando Chiuso per la stampa il 12/07/2017 Seguici su FB: www.facebook.com/edizioni.inmagazine
96
gruppo
Sommario Premium / 7
Foto: Alessandro Giovanelli
Accenti
Le foto di ELLIOTT ERWITT a Forlì.
Forlì - PERSONAE di Elliott Erwitt sarà la prossima mostra fotografica ospitata presso i Musei San Domenico di Forlì, tra Settembre 2017 e Gennaio 2018. Elliott Erwitt, da sempre considerato il fotografo della commedia umana, di origini statunitensi, è nato nel 1928 a Parigi e si è trasferito con la famiglia prima in Italia e poi negli Stati Uniti. Ha fatto parte della grande agenzia Magnum e ha incrociato il suo percorso con quello di Robert Capa ed Henri CartierBresson. Personae è il titolo della più grande mostra antologica mai realizzata in Italia di Erwitt che ha accettato di intitolare questa rassegna forlivese come l’edizione 2017 della Settimana del Buon Vivere, tutta dedicata alla complessità e al fascino dei rapporti che si creano in una comunità. È dunque una mostra studiata per Forlì, con scatti inediti che arricchiranno
tra l’altro il progetto “Kolors”: fotografie a colori che Elliott ha personalmente scelto dal suo archivio, una galleria di celebrità, nella quale andranno a succedersi, tra gli altri, Sophia Loren, Fidel Castro, Marilyn Monroe, Che Guevara, Arnold Schwarzenegger alternati ai ritratti, talvolta spregiudicati, di persone comuni, uomini e donne catturati dall’obiettivo nella loro quotidianità. La mostra prevede anche una sezione multimediale, con alcuni video che ripercorrono la carriera di regista televisivo di Elliott e che propongono una selezione delle sue più celebri fotografie in bianco e nero. Promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì e da Civitas in collaborazione con il Comune di Forlì e la Settimana del Buon Vivere, nel cui ambito si terrà la vernice, la mostra è organizzata da Civita Mostre in collaborazione con SudEst57.
Nuova rivista per Confindustria. Forlì-Cesena - Comunicare la vita d’impresa e le scelte imprenditoriali in modo nuovo ed efficace: questo è l’obiettivo di Imprese & Condottieri, la nuova rivista di Confindustria realizzata da Edizioni IN Magazine. “La rivista vuole porsi al servizio delle imprese industriali in modo originale – afferma Italo Carfagnini, Presidente di Confindustria Forlì-Cesena, nell’editoriale – concentrando l’attenzione su chi ha saputo offrirsi come un valido esempio di successo, raccontandone la storia e le prospettive, per rispondere all’esigenza di un confronto e di una più attenta e precisa narrazione dell’attività e di noi.”
Quarant’anni di BLUMARINE. Carpi - Anna Molinari festeggia un anniversario importante: 40 anni di Blumarine, marchio fondato insieme al marito Gianpaolo Tarabini negli anni d’oro del made in Italy a Carpi e oggi uno dei brand più riconosciuti al mondo per creatività e qualità. Tutto è cominciato dalla maglieria per arrivare al total look di oggi e alla declinazione più giovane e democratica nei prezzi con il marchio Blugirl. Per celebrare questo traguardo, è stato realizzato il libro Anna Molinari, Blumarine curato da Maria Luisa Frisa ed edito da Rizzoli. Un libro dove Anna racconta la vita, il lavoro e la famiglia, anche attraverso gli scatti di fotografi carismatici, e svela il segreto che ha fatto diventare Blumarine un marchio indelebile nel tempo.
Accenti / 9
Accenti
L’Emilia-Romagna ad EXPO ASTANA 2017.
Astana - Focus su low carbon economy, economia circolare e recupero delle materie, soluzioni e tecnologie all’avanguardia nel campo della sostenibilità: dal 3 al 10 settembre 2017 la Regione EmiliaRomagna sarà in primo piano a Expo Astana 2017, l’Esposizione dedicata all’Energia del futuro, in Kazakistan. la Regione ha individuato come tema centrale da valorizzare durante il periodo di presenza ad Astana l’economia circolare e le esperienze virtuose nell’ambito del risparmio energetico, dell’uso di fonti energetiche sostenibili, del riciclaggio e riuso dei rifiuti
grazie al Piano Energetico e al Piano dei Rifiuti. A Expo Astana partecipano 115 Paesi, tra cui l’Italia, e 18 organizzazioni, tra cui l’Onu e l’Unesco. L’Italia ha a disposizione un Padiglione di 900 metri quadrati, promosso dai Ministeri degli Esteri e dello Sviluppo Economico tramite ICE Agenzia, nel quale i visitatori potranno immergersi, grazie a un’installazione audio-video, nella storia dell’energia in Italia dal dopoguerra a oggi. Il Padiglione Italia ha anche uno spazio utile per la realizzazione di iniziative d’affari e di incontri B2B, organizzati grazie a una piattaforma on line di business matching.
Il mondo del colore. Cesena - La famiglia Prati si affaccia al mondo del colore nel 1969 a Forlì, producendo prima vernici per l’edilizia e poi orientandosi verso l’universo delle pitture decorative. La piccola bottega da laboratorio si è evoluta negli anni fino a diventare una realtà aziendale riconosciuta a livello internazionale. Decidono poi di investire in un nuovo progetto di pitture decorative ricercate e di alta gamma: Wilson & Morris, che da anni porta avanti un progetto di studio sul colore, attraverso la ricerca di sfumature e accostamenti in grado di trasferire dinamicità ed energia agli ambienti. L’azienda garantisce un prodotto di qualità, ad alta affidabilità, ideato e realizzato in Italia. Una sintesi di perfezione estetica e stilistica. Le proposte in collezione sono l’interpretazione delle tendenze secondo una visione esclusiva. La loro palette cromatica offre una varietà di sfumature per una scelta consapevole e personalizzata del colore.
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MARCO ONOFRI fotografo dei VIP. Cesena - Il fotografo cesenate Marco Onofri si conferma uno dei fotografi preferiti dal jet set italiano. Sono suoi, infatti, gli scatti ufficiali della grande festa organizzata per il trentesimo compleanno di Chiara Ferragni, vero e proprio idolo dei milioni di followers su Instagram e sugli altri social network, che ha voluto festeggiare i suoi trent’anni con un party esclusivo per amici, collaboratori e il fidanzato Fedez. Non è certo la prima volta che il fotografo, che ha il suo studio in via Cavalcavia a Cesena, immortala personaggi VIP: l’estate scorsa fu il fotografo ufficiale del matrimonio da sogno tra Melissa Satta e il calciatore Boateng, a Porto Cervo.
10 / Accenti
VA L O R I M A S S I M I ( L E VA N T E D I E S E L ) : C O N S U M O C I C L O C O M B I N AT O 7 . 2 L / 1 0 0 K M . E M I S S I O N I C O 2 : 1 8 9 G / K M . I D AT I P O S S O N O N O N R I F E R I R S I A L M O D E L L O R A P P R E S E N TAT O .
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Levante. The Maserati of SUVs. Con il massimo del lusso, senza compromessi in termini di comfort e sicurezza a bordo, Levante offre prestazioni eccezionali sia su strada che fuori strada. Le motorizzazioni V6 Twin-Turbo a benzina e il propulsore Diesel V6 Turbo, offrono tutto ciò che si possa desiderare in termini di potenza, mentre il sistema di trazione integrale intelligente “Q4”, il cambio automatico a 8 velocità e le sofisticate sospensioni, confermano in Levante un SUV capace di garantire un’esperienza di guida indimenticabile.
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Accenti
Bis di premi per FERRETTI
Antologica di Manara.
Forlì - Continua il successo di Ferretti Yachts 450, sempre più apprezzato dal pubblico e dagli armatori di tutte le latitudini. Presentato al mondo della nautica al Cannes Yachting Festival 2016, Ferretti Yachts 450 ha debuttato nei mesi scorsi in Asia Pacific e negli Stati Uniti. Questa barca meravigliosa è stata premiata a luglio per ben due volte, in Cina e in Slovenia. In Asia, dove Ferretti Yachts è da tempo il marchio leader della nautica di lusso, il premio è arrivato in occasione degli Asia Marine & Boating Awards, svoltisi a fine aprile nell’ambito della ventiduesima edizione del China International Boat Show 2017 di
Bologna - A Bologna, dal 22 settembre 2017 al 21 gennaio 2018, presso Palazzo Pallavicini si terrà Nel segno di Manara. Antologica di Milo Manara, una mostra retrospettiva dedicata al fumettista e illustratore italiano. L’esposizione, curata da Claudio Curcio, proporrà un percorso espositivo di ben circa 130 opere, suddiviso in sette sezioni, che andrà ad abbracciare sia la produzione a fumetti di Manara che il suo lavoro d’illustratore per la stampa, il cinema e la pubblicità. Dalle tavole quasi mai viste di Un fascio di bombe fino all’assoluta anteprima delle tavole del secondo volume dedicato a Caravaggio, di prossima pubblicazione. Spazio anche ai primi importanti lavori: saranno esposte le tavole da Il gioco e Il profumo dell’invisibile e le pagine dei fumetti nati dalla collaborazione con Hugo Pratt e quelle de I Borgia, in collaborazione con Alejandro Jodorowsky. Non mancheranno le tavole di Viaggio a Tulum e Il viaggio di G. Mastorna detto Fernet, nate dalla collaborazione con Federico Fellini e, in via esclusiva, una serie di disegni autografati dal regista riminese, insieme ad alcuni storyboard e alle indicazioni che Fellini mandava al giovane Manara come canovaccio per le sue storie. L’esposizione presenterà anche alcuni dei lavori più datati, mai o raramente esposti al pubblico.
Shanghai. Ferretti Yachts 450 ha ottenuto la vittoria nella categoria Best Motor Yacht below 55ft. La giuria ha premiato le caratteristiche che rendono unico questo nuovo flybridge: lo stile elegante, il design funzionale, l’impareggiabile comfort di bordo e la dinamica versatilità nell’allestimento degli interni. Altro trionfo, dopo pochi giorni, in Europa. In apertura di Internautica 2017 – che si è tenuto a inizio maggio a Marina Portoroz, in Slovenia – Ferretti Yachts 450 ha ricevuto il premio come miglior Motor Yacht over 41 up to 50 feet, agli Adriatic Boat of the Year Award.
SASSO FRATINO Patrimonio UNESCO. Santa Sofia - La riserva naturale di Sasso Fratino entra a far parte del patrimonio dell’umanità tutelato dall’Unesco. La decisione è arrivata ad inizio luglio da Cracovia, dove si è riunito l’apposito Comitato per vagliare tutte le proposte avanzate, ma la candidatura parte dal lontano 2007. Si completa così un processo decennale di candidatura del sito a cavallo tra Romagna e Toscana, una delle perle ambientali del nostro Appennino, inaccessibile al pubblico. In realtà, però, tutta la vegetazione circostante è battuta settimanalmente da tantissimi escursionisti, attratti dalla bellezza paesaggistica, dai suggestivi sentieri, dalla particolarità delle specie naturali, dalla cura del contesto.
12 / Accenti
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Accenti
#RaceTheRiviera.
Misano - È partito il 9 giugno da Barcellona il countdown che porterà, dall’8 al 10 settembre a Misano World Circuit, al Gran Premio Tribul Mastercard di San Marino e della Riviera di Rimini. Per l’undicesimo anno consecutivo la Motor Valley ospiterà uno degli eventi sportivi più importanti al mondo, capace lo scorso anno di attirare quasi 160.000 appassionati al Simoncelli al termine di una settimana densa di eventi. Sarà così anche nel 2017, per consacrare un territorio straordinariamente sintonizzato sulla lunghezza d’onda del
Anto Gioielli.
motorsport mondiale e grazie alla Motor Valley oggetto delle attenzioni dei turisti appassionati di tutto il mondo. Ad accompagnare l’interesse verso il weekend della MotoGP, oltre alle performance in pista dei ploti della Riders’ Land in queste settimane, sarà il poster firmato da Aldo Drudi e una serie di sei video ideati da Marco Poderi Studio in collaborazione con la Drudi Performance che comunicano il legame fra territorio e mondo dei motori. Per il mondo social, gli hashtag ufficiali sono #RaceTheRiviera e #SanMarinoGP. Advertorial News
Business plan competition. Emilia-Romagna - Nata nel 2000 come competizione dell’Università di Bologna, Start Cup è diventata negli anni successivi la business plan competition dei Centri di ricerca e delle Università dell’EmiliaRomagna, con lo scopo di favorire la nascita di nuove imprese ad alto contenuto innovativo. L’attività è gestita e coordinata da Aster, società consortile tra la Regione
14 / Accenti
Emilia-Romagna, le Università del territorio, ENEA e CNR e il sistema regionale delle Camere di Commercio. La Start Cup EmiliaRomagna si svolgerà da Aprile 2017 (apertura del concorso) a Ottobre 2017, quando avverrà la premiazione dei vincitori. I 3 progetti, con un backgroung attinente al mondo della ricerca a livello regionale, parteciperanno a Dicembre 2017 al PNI (Premio Nazionale per l’Innovazione) competizione promossa da PNICube, rete nazionale degli incubatori di impresa universitari. Alla competizione nazionale, che quest’anno sarà ospitata dall’Università di Napoli, partecipano i vincitori delle diverse Start Cup regionali. Quest’anno il Premio Nazionale per l’Innovazione si svolgerà a Napoli nei giorni 30 novembre e 1 dicembre.
Rimini - I gioielli che indossiamo ci rappresentano. Ecco perché sceglierli è un momento importante. Per avere un punto di riferimento sicuro, a Rimini c’è uno scrigno prezioso, Anto Gioielli, dove trovare monili realizzati sapientemente. Un laboratorio 2.0 aperto da Antonella Toni e dal figlio Riccardo Zaghini, due artigiani che realizzano tutto a mano con grande perizia, attenzione ai dettagli, all’armoniosità delle cromie, delle lavorazioni, degli accessori. La bella stagione per Anto Gioielli si preannuncia foriera di novità, con una linea di bracciali da uomo impreziosita da combinazioni di pietre ed elementi in argento; rafia, corno, pietre e argento sono per uno stile tutto al femminile assolutamente glamour. Per illuminare la stagione più brillante dell’anno, Riccardo propone una speciale lavorazione glitter, appresa alla scuola di oreficeria frequentata a Firenze, rielaborata in chiave del tutto personale, ponendo in risalto i preziosi scelti, per ottenere veri e propri gioielli d’autore. Anto Gioielli è anche un laboratorio online, dove seguire le tendenze proposte dal brand e acquistare i pezzi direttamente dal sito, facendoveli recapitare ovunque siate. Interpretare gusti, tendenze, mode e singole esigenze è la cifra di Antonella e Riccardo, che creano con grazia e raffinatezza bijoux unici, nonché offrono un nuovo volto ai vostri vecchi gioielli. Un laboratorio-fucina 2.0, attivo, innovativo, sempre al vostro fianco, come un monile.
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Centro Atlante, via 3 Settembre, 17 47891 Dogana - RSM T/F (+378) 0549 961393 E info@venturistudio.com W www.venturistudio.com
graphics enrico severi
K-IN / K-OUT INDOOR / OUTDOOR KITCHEN design Massimo Castagna
Profili
SIMON Cinema Italia.
testo Laura Bertozzi - foto Simon
Quelle rivissute dall’obiettivo di Simona Flamigni, in arte Simon, sono immagini di una realtà, filtrata attraverso le maglie del gusto per la documentary photography, alle quali è sempre sottesa una storia. Forte di una formazione all’Istituto Europeo di Design di Milano e della collaborazione con riviste di prim’ordine nell’ambito del fashion e non solo, la fotografa forlivese dà espressione alla sua poetica anche attraverso progetti incentrati sul ritratto. Cosa le ha dato l’esperienza allo IED? “Una tecnica solidissima, perché ho imparato a scattare con la pellicola, e insegnanti che mi hanno incoraggiata a trovare il mio linguaggio. Mario Cresci mi ha fatto comprendere l’importanza di avere un progetto dietro ogni scatto, con Joseph Edward Rozzo ho assorbito la lezione della fotografia industriale americana, mentre Mariuccia Casadio mi ha aperto le porte del mondo della moda.” Com’è avvenuto il primo incontro con quell’universo? “Al terzo anno di studi mi venne proposta una campagna per C.P. Company e il mondo della moda mi stimolò fin da subito. Terminato il percorso alla IED mi spostai a Londra, capitale della fotografia documentaristica tanto nelle mie corde. Negli anni ’90 l’applicazione di questo stile alla moda non trovava humus fertile in Italia.” Come si è sviluppata la passione per il ritratto? “L’idea più recente è quella di Cinema Italia, una serie di scatti di attori italiani catturati in stanze d’albergo, con indumenti dal sapore retrò. La fonte ispiratrice del progetto è stato il taglio irriverente con il quale il fotografo Juergen Teller ha immortalato i candidati all’Oscar. Anch’io volevo superare la messa in posa classica, così ho chiesto agli attori coinvolti di interpretare un personaggio nel non-luogo per eccellenza della stanza d’albergo. Dietro alle immagini c’è sempre la traccia di una storia; il mio sguardo è il mezzo per rendere visibile la personalità del soggetto ritratto. Cerco di condurre chi mi sta di fronte a deporre la maschera o, comunque, a mostrarmi lati di sé attraverso un personaggio.” Che evoluzione ha avuto Cinema Italia? “Al cinquantesimo ritratto, chiesi a Vanity Fair di sponsorizzare il progetto: di qui nacque l’esibizione di una settantina di immagini al Festival del Cinema di Roma del 2015. Lo sviluppo dell’intero percorso, durato 3 anni, mi ha permesso di raccogliere 112 ritratti in un libro che uscirà a breve.” Di quali accorgimenti tecnici si avvale? “Uso semplicemente un flash montato sulla mia Canon, che getta sul soggetto una forte luce frontale. Avendo imparato il mestiere con la pellicola, faccio il 99% del lavoro in ripresa, mentre in postproduzione intervengo solamente su cromie e luminosità. Non è un caso che in alcune aree d’Europa vi sia un ritorno all’analogico, perché è lì che si riconosce la capacità del fotografo.” Alla luce della sua full-immersion nel fashion, cos’è il bello? “Il mercato è saturo di foto ritoccate e irrealistiche. Nella moda hanno, infatti, scosso le acque Alessandro Michele, il designer di Gucci che ha azzerato i vecchi canoni di bellezza, e i marchi Vêtements e Gosha Rubchinskiy, che hanno portato le periferie in passerella. È segno del fatto che non esiste più un bello imposto, ma un concetto di bello sempre più personale.”
16 / Profili
In uscita a settembre il libro fotografico, curato da Menabò Group, che contiene i 112 scatti del progetto “Cinema Italia” (in alto uno scatto che ritrae l’attrice Giulia Michelini). Il libro verrà presentato al pubblico in occasione della omonima personale dell’artista, durante il festival FuoriCinema2017 a Milano. www.simon171.com
Make up artist: Vladyslav Rotaru
“Dalla produzione direttamente al cliente”. Anto Gioielli | via Aurelio Saffi 66 Rimini | Tel 0541 718604 | www.antogioielli.it
Good Wine
ALESSANDRO ROSSI il Sangiovese del futuro. testo Gianluca Gatta
Come è cambiato il gusto degli italiani negli ultimi anni? C’è qualcosa di nuovo oggi nell’aria, anche per i vini romagnoli. Ne parliamo con Alessandro Rossi, esperto di vino e gastronomia.
Se ci guardiamo intorno quando siamo seduti a un ristorante, scopriamo che la maggior parte dei calici contengono bollicine o vini bianchi. Fino a un decennio fa, invece, grosso modo i due terzi dei vini bevuti erano rossi e il restante si suddivideva fra bollicine e bianco. Oggi la tendenza sembra essersi invertita e ne chiedo conferma ad Alessandro Rossi. È solo una percezione o è vero che oggi si beve soprattutto bollicine e vini bianchi? “Negli ultimi dieci anni c’è stato un cambiamento epocale, molto veloce, che probabilmente perdurerà negli anni. Se prima tendevamo a bere soprattutto vini rossi magari importanti, oggi cerchiamo vini che abbiano una carta d’identità più specifica. Cerchiamo anche vini più semplici, meno conditi dal legno, perché è fondamentale percepire il sapore del vitigno in sé, nudo e crudo.” Che ruolo ha svolto la cucina? “Dieci anni fa eravamo abituati a mangiare le tre canoniche portate. Oggi il rapporto con il cibo è cambiato notevolmente. Abbiamo un approccio alla cucina molto più leggero, più sano. E dobbiamo anche considerare che si è uniformata un po’ in tutta Italia. Ci sono sempre i piatti tipici locali, ma possiamo trovare, ad esempio, del pesce in una baita a Cortina. E questo influenza sicuramente la scelta anche del vino. Che tende ad essere sempre meno ingombrante.” La Romagna come si è attrezzata a questi cambiamenti? “La Romagna, fino al 2003 ha prodotto sicuramente vini più grassi e strutturati. Questo quando il resto dell’Italia stava già facendo passi avanti verso i nuovi vini. Il grande problema della Romagna è che fa parte di una regione dove si è puntato soprattutto sulla quantità produttiva, piuttosto che sulla qualità. Inoltre il 70% circa delle vendite è frutto delle province di Forlì, Ravenna, e Rimini. In Emilia, i punti di assorbimento maggiore sono Bologna e Modena, fuori regione invece, il vino romagnolo è praticamente inesistente. Dobbiamo fare ancora molto per far conoscere la qualità dei nostri vini.” Quali caratteristiche dovrebbe avere un vino di successo? “In questo caso parliamo del Sangiovese ovviamente. È un vitigno che esplode dalla parte fruttata, che però ha anche una propensione all’invecchiamento molto importante. È fondamentale a mio parere saper fare evolvere il Sangiovese giocando di sottrazione senza demolire quella che è la caratteristica principale del Sangiovese, ovvero la parte fruttata, quella croccante del vitigno che è assolutamente riconoscibile soprattutto in degustazione. Oggi il mercato richiede vini più esili, meno conditi, con una gradazione minore, meno grassi, meno cremosi, nonostante la crema all’interno della texture del vino sia fondamentale.”
18 / Good Wine
DISCOVERY SPORT
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Creative Papers
RAVENNA MOSAICO la biennale di Alfonso Panzetta. testo Roberta Bezzi
Tra le novità dell’edizione 2017, la mostra “Montezuma, Fontana, Mirko” e la partecipazione per la prima volta dell’azienda Sicis con un allestimento sui trent’anni di attività.
Gli eventi espositivi, le botteghe, il restauro e i segni dell’arte nel contesto urbano sono i quattro filoni principali attorno ai quali ruota l’organizzazione della prossima edizione di RavennaMosaico, la rassegna biennale di mosaico contemporaneo che si svolgerà a Ravenna dal 7 ottobre al 26 novembre. Come sempre la manifestazione sarà l’occasione per ammirare le espressioni più contemporanee di un’arte antica come il mosaico, attraverso due concorsi: il Premio internazionale GAeM – Giovani artisti e mosaico, giunto alla quarta edizione, e il bando Aimc (Opere dal Mondo), alla quinta edizione. Nel primo caso, si tratta di un concorso aperto ad artisti di età inferiore ai quarant’anni, senza limiti di nazionalità, le cui opere in mosaico contemporaneo rendano omaggio o alla tradizione storica o alle forme più innovative e sperimentali. I primi tre classificati si guadagneranno la possibilità di allestire un’importante esposizione collettiva al Museo d’arte della Città di Ravenna e la pubblicazione delle opere selezionate in un catalogo. Il Bando Aimc è invece aperto a tutti gli associati dell’Associazione Internazionale Mosaicisti Contemporanei che desiderano proporre loro opere per percorsi espositivi in città. In attesa di scoprire i vincitori, già si sa – invece – quali saranno i due appuntamenti di maggiore richiamo della biennale di quest’anno: la mostra Montezuma, Fontana, Mirko. La scultura in mosaico dalle origini ad oggi, al Mar, curata da Alfonso Panzetta con la collaborazione di Daniele Torcellini, con 140 opere in esposizione; e l’allestimento che celebrerà i trent’anni di attività della Sicis, una delle più grandi eccellenze del design internazionale, a Palazzo Rasponi dalle Teste. Entrambe le mostre resteranno aperte ben oltre la fine di RavennaMosaico, fino al 7 gennaio, anche con l’obiettivo di arricchire la proposta culturale della città durante le festività natalizie. Particolare rilievo avrà la mostra al Mar che, in modo del tutto innovativo, indagherà sul rapporto tra la scultura e il mosaico. “Nella storia dell’arte sembra tutto noto e indagato – racconta il professor Panzetta –, ma non è così. Per esempio, chi direbbe che il mosaico nella scultura non era mai esistito fino agli anni Trenta del Novecento? L’intento è quindi quello di sondare e documentare la nascita, l’evoluzione di questo linguaggio e le differenti declinazioni del concetto di tessera da parte degli artisti.”
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Gourmandise
POSTRIVORO
la cucina che abbatte le barriere. testo Alessandro Bucci - foto Filippo Cantoni
Il postrivoro come esperienza d’inclusione attraverso la rottura totale degli schemi. tra cucina, arte e relazioni, una cena ed un pranzo per raccontare nuove storie.
Nato con l’intento di realizzare uno spazio dedicato alla creatività di giovani chef attivi in importanti ristoranti internazionali, il Postrivoro si è sviluppato progressivamente divenendo un evento di caratura internazionale. Organizzato dall’associazione Raw Magna, è recentemente entrato nella piattaforma Airbnb Trips, dove l’evento può essere richiesto dai turisti in tutto il mondo. Abbiamo contattato il co-fondatore Simone Ravaioli per esplorare questa realtà, la cui sede originaria è Faenza. Come nasce il Postrivoro? “L’idea si è sviluppata da un incontro di persone, in particolare dal sottoscritto e da Enrico Vignoli. L’ispirazione è venuta da due progetti legati alla food experience, rispettivamente uno inglese ed uno francese. Abbiamo così aperto un terzo polo a Faenza, radunando amici ‘folli’ appassionati di cucina in una dimensione che potesse raccontare la storia delle persone. Dopo cinque anni, posso affermare che il Postrivoro ha un’identità che si trasforma progressivamente in ciò di cui si nutre, cioè di esseri umani gastropellegrini.” Chi è il gastropellegrino? “Una persona che condivide lo stesso nostro approccio al cibo, alla creatività e alla narrazione artistica. È il concetto sul quale abbiamo fatto leva per realizzare la nostra rete che, a sua volta, è stata in grado di generarne altre, permettendo così uno scambio reciproco tra realtà apparentemente distanti”. Come si articola l’evento Postrivoro? “La nostra sede principale è quella del Rione Bianco. Possiamo dunque contare su una grande cucina professionale, capace di accogliere le persone. La sala da pranzo a lato è molto funzionale, perché ci permette di allestire una tavola unica che conta solo 22 sedute. I nostri ospiti sono un giovane chef emergente, un intrattenitore che si occupa dei vini e un artista che interpreta lo spazio della sala. Gli artefatti che gli artisti lasciano in loco sono l’espressione della cena tenuta al sabato sera e del pranzo domenicale. L’esperienza può essere vissuta anche in una modalità collaterale che chiamiamo off, nel quale troviamo amici curiosi, foodies e giornalisti. La location ci consente di esprimere il concetto tipicamente faentino di residenza d’artista.”
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Ph. Roberto Taddeo
In questa foto, dall’alto Gianluca Castellari (Postrivoro co-founder) e Taka, chef di Osteria Francescana al fianco di Bottura. Subito sotto, Simone Ravaioli, co-founder di Postrivoro. A fianco, alcuni dettagli dei piatti presentati.
Gourmandise
L’internazionalità è un mantra della vostra realtà. “Abbiamo creato un collegamento tra Faenza e il resto del mondo e viceversa. In questi cinque anni abbiamo fatto più di 30 eventi, la metà dei quali con chef internazionali. Il concetto di gastropellegrini è fondamentale su questo versante, perché ci consente di mantenere salde le nostre reti internazionali. Il nostro asset principale è una rete sotto traccia rispetto agli chef televisivi. Puntiamo a chef che abbiano interesse a raccontarsi e sviluppare propri progetti, aprire proprie realtà ed è accaduto che, alcuni di loro, abbiano trovato un posto nel firmamento dell’alta cucina avendo il Postrivoro tra le esperienze cardine. Ma non solo, alcuni giovani chef venuti inizialmente come aiutanti dello chef ospite all’evento, sono tornati prendendo poi il loro posto in un Postrivoro successivo, divenendo così la nostra seconda generazione.” Parliamo della partnership con Airbnb. “L’anno scorso ho incontrato il global head of food di Airbnb, David McIntyre, nel corso di un retreat organizzato dal Future Food Institute di Bologna, del quale facciamo parte entrambi. Airbnb è un colosso che fa dell’ospitalità il proprio pane quotidiano. David mi disse che Airbnb stava progettando un riposizionamento importante estendendo il proprio concetto di experience, così l’ho informato sul nostro progetto. Al contempo, attraverso Linkedin, avevo ricevuto una notifica Airbnb che informava sulla loro ricerca di sous-chef, così ho colto la palla al balzo per proporre a David la nostra rete. Siamo stati invitati a San Francisco nel quartier generale a fare il Postrivoro, un viaggio importantissimo per noi. Successivamente abbiamo invitato loro ad un Postrivoro a Faenza, dove abbiamo lanciato la nuova piattaforma Airbnb Trips.” Quali sono i vostri progetti futuri? “Continueremo a sviluppare la relazioni con tutti i #gastropilgrims incontrati sulla nostra strada, incluso Airbnb. Cercheremo di capitalizzare il più possibile la nostra rete, anche attraverso la piattaforma Trips di Airbnb in giro per il mondo. Il tema del viaggio, di migranti e migrazioni, continuerà ad essere un punto imprescindibile del nostro (gastro)pellegrinare. Per noi rompere regole e schemi attraverso il gioco e un filo di irriverenza è un po’ la norma e la diversità allo stesso tempo. Ogni Postrivoro ha un format simile, ma regala sempre un’esperienza unica ed irripetibile.”
Gourmandise / 23
Blue Notes
GIOACHINO ROSSINI la casa del cigno di Pesaro. testo Giovanna Patrignani - foto Luca Toni
Casa Rossini, a Pesaro, accoglie il museo rossiniano, che si offre all’immaginario come luogo di suggestioni e di memorie per il pubblico che vi affluisce da ogni parte del mondo.
Gioachino Rossini è nato il 29 febbraio 1792 nella piccola e modesta casa nel centro storico di Pesaro, al n. 34 di via del Duomo, denominata via Rossini nel 1864. Il padre Giuseppe, detto Vivazza, trombetta comunale, simpatizzante della rivoluzione, si era trasferito a Pesaro dalla natia Lugo di Romagna nel 1790. Secondo la tradizione, l’unico figlio nacque nella camera del primo piano che si affaccia su via Gavardini. Ma in questa casa, con il padre, la madre Anna, dotata di una naturale disposizione per il canto, e la nonna Antonia, Gioachino trascorse solo i primissimi anni, quando si esercitava sulla spinetta, ancora rimasta nell’attuale casa-museo, manifestando i suoi talenti di enfant prodige, tanto che già a pochi anni era in grado di guadagnarsi da vivere. Nel 1798 è già attestata la presenza della famiglia in un altro alloggio, non lontano dal primo, nel Palazzo Baviera di proprietà del Municipio sulla piazza Grande (sul lato opposto al Palazzo Ducale), l’attuale piazza del Popolo. Ma anche in questa casa e in questa città Rossini è rimasto per poco tempo. A Pesaro tornerà sporadicamente e non sempre bene accolto. Viveva fra Parigi e l’Italia; divenne ben presto celebre, ricco, ammirato, osannato a Vienna, a Londra, a Parigi. Nel 1843, in occasione dei 50 anni dell’illustre ex inquilino, il Municipio di Pesaro fece apporre una lapide sul prospetto della casa natale: “QUI NACQUE / GIOACCHINO ROSSINI / ALLI 29 FEBBRAIO 1792 / IL MUNICIPIO NEL 1843 POSE”. Il 27 febbraio 1892, due giorni prima che si aprissero le celebrazioni per il centenario della nascita del compositore, il Comune acquistò la casa per 14.000 lire, prezzo assai alto rispetto all’effettivo valore. Costituita da quattro piani fuori terra ed un sotterraneo, è una tipologia di casa a schiera comune nell’edilizia civile minore pesarese tra il XV ed il XVII secolo. La casa in stile settecento, ma minore e dimesso, documenta le umili origini che l’artista in vecchiaia amava amplificare. Con Regio Decreto del 29 febbraio 1904, l’edificio venne dichiarato monumento nazionale, in coincidenza con la prima apertura di un museo rossiniano nell’edificio, dove in quella stanza del primo piano, dove si vuole che Rossini sia nato, fu murata una lapide che sanciva quanto affermato dalla tradizione: “LA DIVINA ARTE DELLA MUSICA ARRISE IN QUESTA STANZA ALLA NASCITA DI GIOACHINO ROSSINI”. Nel biennio 1988-1989 il Comune ha restaurato casa Rossini, che ospita il museo rossiniano costituito da donazioni di vario materiale documentario: ritratti del musicista, busti, caricature, stampe di interpreti e di grandi cantanti rossiniani, pochi cimeli, fra cui la spinetta dei primi approcci con l’arte del giovanissimo Gioachino. La casa-museo si offre all’immaginario collettivo come luogo di suggestioni e di memorie per il pubblico che vi affluisce da ogni parte del mondo.
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In questa foto uno scorcio della casa-museo Rossini di Pesaro.
Awards
UN’ESTATE DI PREMI agenzia Menabò. testo Giulia Masci Ametta
Duplice vittoria per Menabò Group, che si aggiudica due premi Agorà e tre premi Mediastars per tre campagne pubblicitarie nate dentro l’agenzia forlivese.
Possono essere premiate le idee? Sì, e ce lo dimostra l’agenzia di comunicazione Menabò group chiamata a ritirare ben due premi Agorà, di cui uno alla carriera, e tre premi Mediastars. Il premio Agorà nasce in Sicilia e valuta, dal 1986, le campagne pubblicitarie e le agenzie che si distinguono per originalità, strategie e pianificazione, valutando la creatività, la copy strategy e
la capacità di trainare lo sviluppo delle aziende clienti. Il premio Mediastars premia le migliori campagne pubblicitarie e i migliori tecnici che le hanno realizzate inserendoli all’interno di un proprio Albo, pubblicato su ogni edizione del volume Annual. A Menabò sono stati consegnati sotto le stelle di Taormina l’8 luglio scorso i premi Agorà d’Argento, nella sezione miglior immagine coordinata per il progetto realizzato per il prodotto Sicilio dell’azienda OP La Deliziosa, e Agorà Platinum per i numerosi successi conseguiti nella storia di questo riconoscimento giunto proprio quest’anno alla sua trentesima edizione. Un premio alla carriera che arriva quasi contemporaneamente ad altri tre successi, nella ventunesima edizione del premio Mediastars, con premiazione lo scorso 12 giugno, che anche quest’anno ha visto la partecipazione di oltre 548 progetti di comunicazione, valutati da 141 giurati provenienti da tutta Italia. Questo è il premio di chi lavora bene, di chi lavora con passione per superare se stesso e raggiungere obiettivi professionali importanti. Ad aggiudicarselo, tre progetti nati tra le mura dell’agenzia di comunicazione forlivese: Special Star per la Direzione Creativa, nella sezione Corporate Identity ancora una volta il progetto Sicilio; a vincere invece nella sezione Packaging Design il premio Special Star per l’Illustrazione, il progetto Fruttagel Giardini dei Sapori e, per completare questa estate all’insegna dei premi, il filmato girato per Ferretti Feel the Power of Art si è aggiudicato il premio Special Star per la Regia nella sezione Tecnica Audiovisiva. Perché dove nascono le idee, non ci si ferma mai.
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Sopra, l’adv per il progetto Sicilio dell’azienda OP La Deliziosa ed un frame del video Feel The Power of Art, girato per Ferretti.
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Nome Cognome
ANTONIO MARCEGAGLIA vero capitano d’impresa.
testo Roberta Bezzi - foto Lidia Bagnara e Massimo Fiorentini
Cresciuto ad ‘azienda e famiglia’, al fianco dell’instancabile padre Steno, il re del tubo, come in molti lo hanno definito, e dell’ammirevole madre Mira, colonna portante a tutto tondo, il suo percorso era ‘segnato’. E non ha tradito le aspettative, anzi. Oggi l’impresa è in forte crescita.
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Antonio Marcegaglia
C’è l’imprenditore italiano Antonio Marcegaglia ai vertici dell’omonimo gruppo industriale, leader mondiale nella trasformazione dell’acciaio. Un’eccellenza del Made in Italy nata nel 1959 e che, pur avendo il quartier generale a Gazoldo degli Ippoliti (Mantova), vanta un forte radicamento in Romagna e una rete capillare di livello internazionale. Appassionato d’arte contemporanea, impegnato nel sociale, insieme alla sorella Emma Marcegaglia – prima donna presidente di Confindustria in Italia e attuale presidente dell’Eni, così come dell’Università Luiss a Roma e di Business Europe – detiene il pieno controllo dell’azienda. Con orgoglio e sobrietà, è lui a parlare dell’importante eredità familiare e del destino del gruppo che proprio in questo 2017 sta vivendo un momento di ulteriore rafforzamento. Antonio Marcegaglia, lei è entrato nell’azienda di famiglia subito dopo la laurea alla Bocconi di Milano nel 1987. Cosa ricorda dei primi passi da imprenditore? “Emma ed io, abbiamo sempre respirato l’aria dell’azienda sin da bambini non solo grazie a mio padre Steno ma anche per merito di mia madre Mira, un pilastro su tutti i fronti per lungo tempo. È stato inevitabile dedicare alla Marcegaglia anche la mia tesi di laurea. Terminati gli studi, dopo appena tre giorni di vacanza, ho cominciato subito con entusiasmo a lavorare a tempo pieno, occupandomi prima dell’area amministrativa e del controlling, quindi di internazionalizzazione, seguendo poi la parte commerciale, fino alla nomina di amministratore delegato. Finora ho trascorso trent’anni in azienda, di cui 27 al fianco di mio padre”. Suo padre Steno è morto nell’ottobre 2013, e da quel momento lei è diventato presidente, mentre sua sorella Emma già da tempo era più orientata anche verso altri orizzonti. Una suddivisione naturale? “Il passaggio generazionale va indubbiamente ‘governato’. Devo dire però che la nostra famiglia si è sempre contraddistinta per una grande intesa e ognuno di noi ha preso la strada più congeniale. Emma – Vice Presidente e Amministratore Delegato – si occupa con me delle scelte strategiche e segue, tra le funzioni corporate, in particolare il settore amministrativo e quello finanziario. Siamo perfettamente paritetici nell’azionariato e lavoriamo molto bene insieme. Così come condivisa è sempre stata la filosofia aziendale orientata a una gestione molto umanitaria e coesa dell’azienda,
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Antonio Marcegaglia
in modo da essere di esempio e guida per tutti i lavoratori. In genere si dice che la prima generazione crea, la seconda mantiene e la terza distrugge. Mio padre però ci ripeteva sempre: “Voi sarete la prima generazione bis”. Una grande responsabilità che in qualche modo abbiamo trasmesso anche ad alcuni nostri collaboratori che, a loro volta, si sono passati il testimone di padre in figlio. Un esempio? Aldo Fiorini, attuale direttore dello stabilimento di Ravenna, è figlio di Plinio che per anni è stato il braccio destro di mio padre”. Che cosa le è rimasto degli insegnamenti di suo padre di cui era celebre la frase: “Sono l’imprenditore povero di un’azienda ricca”? “L’azienda è un bene al di là della proprietà, va oltre il benessere della famiglia, perché ha un importante valore sociale per il territorio e tutte le persone che ci lavorano. Siamo noi azionisti che ci mettiamo al servizio dell’azienda per il ruolo che tutti i nostri lavoratori esercitano. Al centro dell’azienda ci sono sempre le persone. Questo intendeva dire mio padre, secondo cui con impegno, tenacia, costanza e resistenza è possibile superare i momenti difficili. Anche se il profitto è sacrosanto, non è un fine ma uno strumento attraverso cui creare ricchezza, solidità e crescita. Il successo di un’impresa, si dice, dipende sempre dagli uomini che ci lavorano.” Marcegaglia conta 39 stabilimenti in Italia e nel mondo. La Romagna continuerà a essere una regione strategica per l’azienda? “Sì. Basti pensare che lo stabilimento metal-
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Antonio Marcegaglia
siderurgico di via Baiona 141 a Ravenna è il più importante complesso industriale del gruppo. Dotato del più grande centro servizi d’Europa, si avvale di numerosi impianti a elevata tecnologia e capacità produttiva per il decapaggio, la laminazione a freddo, la zincatura, la ricottura, la skinpassatura e la pre-verniciatura dei coil. Quello di Forlì è invece il più grande al mondo per la produzione di tubi in acciaio inossidabile ed è parte del network produttivo Marcegaglia Specialties di otto stabilimenti al mondo per il settore specifico”. Come valuta la situazione attuale e come immagina il gruppo nel prossimo futuro? “Dopo cinque anni difficili, dal 2016 si può finalmente parlare di ripresa della siderurgia europea, anche grazie al recupero dei prezzi delle materie prime. In ogni caso, la nostra azienda è cresciuta più del Paese e, come è nostra abitudine, siamo sempre riusciti a reinvestire tutti i profitti nel core business dell’azienda. L’obiettivo del 2017 è quello di superare i cinque miliardi di euro di fatturato. Guardando avanti, le maggiori opportunità sono correlate per lo più ad acquisizioni e aggregazioni”. Al riguardo, a inizio giugno è arrivata l’ufficialità: Marcegaglia ha vinto la corsa per rilevare l’Ilva di Taranto all’interno della cordata AM Investco Italy, insieme al colosso siderurgico internazionale Arcelor Mittal. Cosa si aspetta da questa svolta epocale? “L’esserci affiancati al più grande player europeo e mondiale, si è rivelato strategico nel vincere il duello contro AcciaItalia. Con l’acquisizione dell’Ilva, nostro storico fornitore, avremo certamente una maggiore stabilità e potremo migliore l’organizzazione e gestione del mercato”. Ci sarà spazio in futuro per un’apertura di capitale a persone esterne della famiglia in Marcegaglia? “Finora siamo sempre riusciti a mantenere la proprietà al 100 per cento, ma non è da escludersi del tutto. Soprattutto considerando che personalmente non ho figli e che mia sorella Emma ha una figlia che oggi ha 14 anni. Si tratterà comunque, eventualmente, di quote di minoranza”. Cosa le piace fare nel tempo libero? Dicono che lei sia un collezionista di arte contemporanea… “Appena posso, viaggio insieme a mia moglie. Quella per l’arte è una passione innata. Ricordo in particolare che nel 2009, per celebrare i 50 anni del gruppo, abbiamo realizzato insieme alla Triennale di Milano, Steellife, la prima mostra internazionale dedicata all’acciaio in cui giovani promettenti artisti da tutto il mondo hanno creato un’opera ad hoc per quella iniziativa, oltre a portare loro opere”. Da segnalare c’è poi l’impegno benefico della Fondazione Marcegaglia Onlus presieduta da sua moglie Carolina Toso. Di cosa si occupa? “Costituita nel luglio 2010, attraverso il sostegno a interventi di solidarietà e progetti di cooperazione allo sviluppo, si impegna a costruire un mondo in cui le disparità sociali siano sempre più ridotte e il ruolo della donna sia valorizzato”.
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In alto, Antonio Marcegaglia, a sinistra, con Aldo Fiorini, direttore dello stabilimento di Ravenna.
I numeri del gruppo Marcegaglia. Con 5,6 milioni di tonnellate di acciaio lavorate e oltre 5 miliardi di euro di fatturato all’anno, Marcegaglia è leader del panorama siderurgico mondiale. Un modello produttivo e di business unico, espressione tipica dell’imprenditoria italiana in grado di coniugare la sua grande capacità operativa con una forte presenza sui mercati internazionali, propria delle multinazionali. Circa 6.500 i dipendenti in Italia e all’estero, 60 le unità commerciali, 210 le rappresentanza commerciali, e 39 gli stabilimenti sparsi su una superficie complessiva di 6 milioni di metri quadrati, dove si producono ogni giorno 5.500 chilometri di manufatti in acciaio inossidabile e al carbonio per oltre 15mila clienti.
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Enzo Ferrari
ENZO FERRARI settant’anni di ‘rosse’.
testo Andrea Guermandi - foto Archivio Ferrari
Settant’anni di Ferrari, settant’anni di mito, rosso che vola, romba nelle curve, schiaccia gli avversari, trionfa sull’asfalto come fosse un fiume in piena. Bellissima metafora oltre che realtà concreta fatta di operai, tecnici, ingegneri, inventori. Bellissima favola, funestata a volte da figli che si sono persi, ma arricchita di prodigi e di quel colore che evoca cavalli galoppanti, liberi, liberissimi di tagliare traguardi e suscitare sogni.
La Ferrari compie settanta anni e li celebra, per ora, come meglio non potrebbe, volando sui circuiti, con schiena dritta e sacrifici, con poesia e retorica inevitabile. Così la cronaca di quella nascita. Nacque Il 12 marzo 1947: Enzo Ferrari guidò per la prima volta il prototipo della 125 S. Era un mercoledì. L’Italia era in ginocchio, ferita dalla guerra e mentre il Paese tentava faticosamente di rimettersi in piedi, a Maranello un uomo uscì dalla sua azienda al volante di un prototipo che non aveva nemmeno il cofano motore. Aveva 49 anni e i capelli già imbiancati: il suo nome era Enzo Ferrari. Per quel giro di prova indossò non solo la camicia ma addirittura la cravatta: si narra che l’avesse fatto perché quello era un giorno davvero speciale. Imboccò la strada che porta a Formigine, sollevando polvere e proprio alla polvere attribuì quel filo di lacrime che scese lungo le guance. Pianse quel giorno l’uomo alla guida perché quell’auto tutta sua l’aveva vagheggiata per anni, l’aveva sognata negli incubi notturni della Guerra, l’aveva pensata in ogni dettaglio mentre le bombe minacciavano la sua fragile creatura a Maranello. Attraversò veloce le campagne tra le curiosità dei contadini che vedendolo passare avevano subito capito chi fosse al volante. Quel giorno di 70 anni fa, quando Enzo Ferrari portò per la prima volta a spasso la 125 S, la sua prima auto, nasceva il più grande mito dell’automobilismo. Non in una grande città industriale ma in mezzo ai campi di quella che tanti anni dopo sarebbe stata ribattezzata la Motor Valley. Gente operosa e sanguigna gli emiliani: “L’operaio di questa terra – disse Ferrari – è un
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Enzo Ferrari
lavoratore estremamente intelligente e attivo. E questa, per di più, è una terra di rivoltosi, di gente non tranquilla. Sangue e cervello, insomma, sono qui ben uniti per fare tipi di uomini ostinati, capaci e ardimentosi, le qualità che ci vogliono per costruire bolidi”. “Dite ai bambini di tenersi lontani dalla strada, sta per passare il matto...“. Era il 12 marzo del 1947 e il matto, cioè Enzo Ferrari, si stava avventurando sulla via polverosa che collegava Maranello con Formigine, campagna modenese del periodo post bellico. I contadini della zona non avevano dubbi: quel signore, diventato ricco prima della guerra grazie alla Scuderia che schierava in corsa le Alfa Romeo di Nuvolari e Varzi, ecco, quel signore chiaramente si era bevuto il cervello, perché stava dissipando una fortuna per costruire un’automobile degna di portare il nome suo... Già. Pensava in grande, Ferrari. La piccola 12 cilindri su cui avrebbe campeggiato il Cavallino donatogli dalla madre dell’aviatore Francesco Baracca era solo l’inizio. Sognava già di ampliare la fabbrica e costruire una scuola tecnica: i duri contadini sarebbero diventati abili meccanici che avrebbero realizzato le più belle sportive del mondo, ambite da principi e grandi stelle del cinema. Esattamente due mesi dopo Nino Farina andò con Ferrari a Piacenza per una gara di secondo piano, ma si rifiutò di correre, definendo la 125 S inaffidabile. Corse invece Franco Cortese anche se fu costretto al ritiro per noie alla pompa della benzina. “Un insuccesso promettente” scrisse quello che un giorno i garagisti inglesi avrebbero chiamato Drake, il corsaro, sul suo diario. Aveva ragione. Trascorsero due settimane, Cortese con la 125 S tagliò per primo il traguardo del Gran Premio di Roma, favorito da una sbandata di Auricchio. I giornali non sprecarono troppo inchiostro per quel modesto successo. E Ferrari seppe telefonicamente della vittoria: al Drake, così poi lo abbiamo conosciuto, non piaceva spostarsi da Maranello, anche perché era in ansia per l’amatissimo figlio Dino che stava lentamente spegnendosi per una malattia inesorabile, la distrofia muscolare. Ma nasceva una leggenda tanto che chiunque conosce il marchio Ferrari e chiunque, anche se non appassionato, ricorda per lo meno Ayrton Senna, Niki Lauda, Michael Schumacher e quei meravigliosi bolidi rossi, fiamme lanciate sul selciato. Ferrari anche come status symbol, come orgoglio nazional popolare, come icona di una terra fatta di sangue e sudore, di fatica e bellezza, di sogno e di realtà. Enzo Ferrari ha regalato tutto questo facendo sacrifici. Citando la Gazzetta dello Sport: “Fin dall’infanzia sogna di diventare un pilota e a soli 16 anni entra nel mondo del motor sport dalla porta di servizio diventando corrispondente della Gazzetta dello Sport dalla città emiliana. Nel 1919, dopo essere stato rifiutato dalla Fiat, viene assunto come pilota dalla CNM e nel 1920 passa all’Alfa Romeo. In occasione del primo successo – nel Gran Premio del Circuito del Savio del 1923 – riceve dalla madre dell’aviatore Francesco Baracca il simbolo presente sulla carlinga dell’aereo del figlio: un cavallino rampante. Nel 1924 Enzo Ferrari vince sul Savio (per la seconda volta consecutiva), in Polesine e la prima edizione della Coppa Acerbo al volante di una RL SS ma nello stesso anno smette di correre per via di un esaurimento nervoso. Enzo torna al mondo delle corse nel 1927: si aggiudica per due volte di seguito le gare di Alessandria e Modena. Nel 1929 fonda la Scuderia Ferrari, un team costituito da vetture Alfa Romeo guidate da piloti fortissimi come Tazio Nuvolari. Nel 1931 Enzo Ferrari ottiene l’ultima vittoria come pilota alla Bobbio-Passo del Penice e smette di correre l’anno seguente dopo la nascita del figlio Alfredo, detto Dino. Nel 1933 l’Alfa Romeo si ritira dall’attività sportiva ed è Ferrari che si occupa di far correre le vetture del Biscione. Nel 1939, dopo una lite con Wifredo Ricart, Enzo decide di mettersi in proprio creando auto da corsa: fonda una società e la chiama Auto Avio Costruzioni, in quanto impossibilitato ad utilizzare il proprio cognome per cinque anni. Nel 1945 nasce il secondo figlio di Enzo Ferrari, Piero: frutto di una relazione segreta. Verrà riconosciuto dal
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Biografia del Drake. Nato a Modena il 18 febbraio del 1898, morto il 14 agosto del 1988. Pilota e imprenditore. Figlio del proprietario di un’officina meccanica, con una precoce passione per i motori, nel 1919, di ritorno dalla Grande Guerra, fu assunto alle Costruzioni meccaniche nazionali di Milano, nello stesso anno esordì nelle corse (Parma-Berceto). Passato all’Alfa Romeo come pilota ufficiale nato il figlio Alfredo abbandonò le corse. Scuderia assorbita dall’Alfa Romeo, nel 1938 Ferrari ne divenne il responsabile del settore sportivo, dopo un anno fu licenziato e fondò l’Auto Avio costruzioni. Spinto dalla legge sul decentramento industriale, nel ’43 Ferrari spostò la fabbrica da Modena a un terreno di famiglia situato a Maranello. Nel ’47 mise in pista la prima vettura col suo nome (Ferrari 125 sport), nel ’50 fondò la scuderia di Formula 1, nel ’51 vinse con l’argentino José Froilan Gonzalez il primo GP (Gran Bretagna, circuito di Silverstone), nel ’52 conquistò con Alberto Ascari il primo titolo piloti.
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Enzo Ferrari
padre solo nel 1978, dopo la morte della moglie Laura. Nel 1948 Clemente Biondetti e Ettore Salani portano alla Ferrari la prima di otto Mille Miglia conquistate fino al 1957 mentre l’anno seguente tocca a Luigi Chinetti e a Peter Mitchell-Thomson aggiudicarsi la prima (di nove totali) 24 Ore di Le Mans. Il debutto in F1 per la scuderia di Enzo Ferrari risale invece al GP di Monaco 1950, seconda gara della prima stagione nella storia del Circus, mentre la prima vittoria arriva nel 1951 quando Froilan Gonzales si aggiudica il GP di Gran Bretagna davanti all’Alfa Romeo guidata da Juan Manuel Fangio. Il primo titolo iridato conquistato dal Cavallino risale al 1952 grazie ad Alberto Ascari. Con Enzo in vita ne seguiranno altri sedici (otto Piloti e otto Costruttori). Gli anni Sessanta non sono un buon periodo per Enzo Ferrari: nel 1960 riceve dall’Università di Bologna la laurea honoris causa in ingegneria meccanica (ne arriverà un’altra, nel 1980, in fisica donata dall’Università di Modena e Reggio Emilia) ma la sua azienda deve fare i conti con problemi economici. Nel 1963 Enzo rifiuta l’offerta della Ford di acquistare l’intera società mentre nel 1965 accetta che la Fiat entri in possesso di un piccolo pacchetto di azioni. Nel 1969 il colosso torinese acquisisce la metà della Casa di Maranello.Nel 1971 Enzo Ferrari smette di impegnarsi in prima persona nell’attività sportiva lasciando il ruolo di responsabile ad un giovane Luca Cordero di Montezemolo.” Settanta anni fa, in un contesto di miseria generalizzata, ci voleva un coraggio sconfinato e forse tanta incoscienza per immaginare che una vettura potesse diventare opera d’arte, oggetto di lusso, status symbol. E quella audacia Enzo il Matto se la sentiva addosso, mentre
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spingeva il motore dodici cilindri della primogenita, la 125 S. Un gioiello cesellato con pazienza da orafo, sviluppando un progetto silenziosamente coltivato mentre sull’Emilia cadevano le bombe. In effetti Ferrari sarebbe stato pronto per la grande impresa già nel 1942, ma al rumore dei motori si era sovrapposto il fragore dei cannoni e la fabbrica gliela avevano militarizzata. Aveva saputo aspettare. Era sopravvissuto alle insidie del tremendo conflitto civile: gli davano del fascista, ma in fabbrica dava riparo ad una cellula partigiana. I comunisti veri conoscevano la storia e lo avevano salvato dalle smanie di vendetta degli ultras: magari era matto davvero. Eppure, aveva in testa un’idea che avrebbe cambiato la faccia, l’immagine, il sentimento di un popolo. Quel 12 marzo del 1947, il Drake concluse il test e fu subito attorniato dai collaboratori più fedeli. Luigi Bazzi e gli altri fremevano: gli era piaciuta, la macchina? O qualcosa ancora non funzionava? Narra la leggenda che una lacrima scese da un occhio del costruttore: colpa della polvere di strada, ci tenne a precisare. Mai mostrare le emozioni al prossimo, questa era la regola. Invece era proprio un cedimento alla commozione: la 125 S era come l’aveva sognata, quando si affannava sulle carte dell’ingegner Gioachino Colombo, quando recuperava le lezioni del maestro Vittorio Jano, quando ripensava al sacrificio della madre Adalgisa, che aveva accettato di vendere la casa di famiglia pur di finanziare le audacissime intuizioni del figliolo... Ora Ferrari si appresta a celebrare il prestigioso traguardo con un ricco calendario. Nel corso dell’anno, infatti, oltre 60 Paesi ospiteranno gli eventi che permetteranno ai clienti e
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agli appassionati del marchio di vivere esperienze uniche, secondo il concetto di “Driven by Emotion”, a partire dal tour in Australia e Sud Est asiatico de LaFerrari Aperta, la supercar 12 cilindri simbolo dei 70 anni del marchio, che ha recentemente presentato al Salone di Ginevra anche la 812 Superfast, la stradale più potente della sua lunga storia. Le celebrazioni vivranno il loro culmine nel weekend del 9 e 10 settembre, a Maranello, e saranno accompagnate da altre iniziative che omaggiano la storia del Cavallino Rampante, tra cui mostre dedicate e la prima “Cavalcade Classiche”. Senza considerare la mostra “Driving with the stars” recentamente inaugurata al Museo Ferrari di Modena, un percorso da Jean-Paul Belmondo a Gordon Ramsay passando per Luciano Pavarotti e decine di grandi nomi che hanno legato il loto nome al “Prancing Horse”. Per accompagnare i festeggiamenti che si svolgeranno nel corso dell’anno e per raccontare i momenti e i personaggi che hanno segnato la storia dell’azienda, è stato creato un sito dedicato, www. ferrari70.com. “La vera forza della Ferrari sta proprio dove è nata e dove si è creata la leggenda. E nessuno la porterà mai via da qui“, ha detto Sergio Marchionne, manager di FCA durante la sua lectio magistralis all’inaugurazione dell’anno accademico dell’Università di Modena e Reggio Emilia. “Se c’è una cosa che posso garantirvi – ha aggiunto – è che questa terra è e resterà il punto di riferimento anche per la Ferrari di domani“. «Non dobbiamo confrontarci con i marchi automobilistici: il vero riferimento sono i brand globali
Ph. AGF
In alto, Sergio Marchionne, Presidente e Amministratore Delegato di Ferrari.
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del lusso. E la Ferrari deve sempre rimanere sul podio, crescendo in modo intelligente ma preservando la propria esclusività». Così il presidente Sergio Marchionne ha inquadrato al Salone di Ginevra le grandi sfide del Cavallino. Che produce macchine sportive di lusso, ma vende soprattutto il proprio glamour, l’allure del migliore Made in Italy, quel patrimonio storico che gli ha consentito di diventare per Brand Finance il «marchio più influente del mondo» davanti a colossi come Coca Cola, McKinsey, Google, Hermes, Rolex e Walt Disney. Nella motivazione c’è la mission della Ferrari: “Fenomeno inimitabile perché il marchio è riconoscibile perfino dove non esistono le strade”. Ferrari, anche se ora è un brand mondiale non può prescindere dal grande Drake. Così lo ri-
corda il figlio Piero Lardi Ferrari: “Mio padre ha lasciato in noi che gli eravamo vicini e nel DNA dell’azienda la volontà di guardare avanti, di cambiare giorno dopo giorno. Era una persona che non s’interessava mai al passato, se non per evitare errori e cancellare esperienze negative. Quando morì fu immancabile trovarsi, parlare. Fusaro, il presidente, fu bravo a non volere subito grandi cambiamenti. Essendo papà uno che decideva tutto, fu necessario rimettere a punto il processo decisionale. Senza panico né paura. Ma la sua mancanza si fece ovviamente sentire, da quel momento fu tutto diverso. Dopo il dolore, prevalse una potente voglia di ripartire. Mio padre era spesso in fabbrica anche la domenica, a guardare i gran premi. A volte si vinceva, a volte si perdeva. Ma il lunedì mattina era un altro giorno, bisognava guardare avanti, voltar pagina. Continuammo a fare così... Aveva abitudini e manie alle quali non è mai venuto meno. Come l’odio per gli ascensori. E per gli aerei. Diceva: Non ho paura di volare, ho paura di non tornare a volare. Da qualunque parte andasse, doveva sempre rientrare a dormire nel suo letto. Non lasciava mai Maranello, lì si sentiva il re. Erano gli altri che venivano a trovarlo e a riverirlo. Ho avuto un grande papà, terribilmente esigente, duro ma anche tenero. Nel carattere conservo tanti punti in comune, soprattutto quando mi arrabbio. Ma ciò che lo differenziava da tutti era il carisma, quel fascino misterioso che lo elevava sempre rispetto agli altri. Una sensazione che ho sentito solo al cospetto di Papa Giovanni Paolo II. Gente che ti fa sentire piccolo”.
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una storia scolpita nel legno. testo Francesca Miccoli - foto Gianluca Vassallo
Quella della famiglia Alpi non è la semplice storia di un gruppo di consanguinei uniti da un profondo legame d’affetto ma l’epopea di una dinastia di imprenditori, capaci di proiettare il proprio nome dall’anonimato dell’entroterra romagnolo ai confini del mondo.
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Una fiaba che prende avvio nel 1919 a Modigliana, in un piccolo laboratorio di alta ebanisteria, destinato a diventare nel volgere di pochi anni il propulsore dell’economia di un intero territorio. Al timone Pietro Alpi, fondatore di un’impresa oggi leader mondiale nella produzione di superfici decorative in legno composto. Una multinazionale che vanta 2000 dipendenti, 141,5 milioni di fatturato, 180.000 mq di insediamento industriale in Italia e 346.500 in Africa per una capacità produttiva di oltre 30 milioni di mq annui e una distribuzione capillare in oltre 60 paesi. A rendere attrattiva sul mercato la proposta commerciale è anche l’ampiezza della gamma di produzione: una xiloteca composta oggi da legni applicabili a ogni tipo di superficie e prodotto, ma altresì declinabili secondo infinite soluzioni progettuali, varianti cromatiche, di texture e venature. Punto di riferimento di un intero comparto, Alpi si contraddistingue da sempre per il controllo diretto della filiera, dal tronco al prodotto finito, destinato ai più svariati ambiti progettuali: dall’arredamento all’architettura d’interni, dal contract all’automotive, dalla nautica al product design. Un eclettismo che consente di rispondere alle richieste specifiche di una committenza molto eterogenea e diversificata. E offrire soluzioni specifiche per le piccole industrie ma anche ai grandi brand. Prestigiosi marchi del lusso, da Bulgari a Louis Vuitton, dall’Hotel Four Seasons di New York agli arredi di Lema e Moroso, da Jaguar a Maserati passando per Azimut e Ferretti nel campo della nautica. A un passo dal centenario, il nome di Alpi è inciso a caratteri cubitali nella storia dell’imprenditoria italiana. A decretarne il successo tre uomini illuminati, diversissimi nel modo di concepire l’azienda ma accomunati dalla medesima cultura del lavoro e da una lungimirante visione strategica. Prerogative trasmesse per corredo cromosomico, come si evince dalle parole dell’attuale AD Vittorio Alpi, esponente della terza generazione, e fautore dell’ultima fase del processo di trasformazione industriale. Affacciatosi in azienda quando ancora sognava di diventare astronauta e andare alla conquista dello spazio, Vittorio ricorda con trasporto e nostalgia i primi approcci, ovviamente ludici, all’impresa di famiglia. “Erano gli anni Sessanta e ogni fine settimana trascorrevo un po’ di tempo tra i capannoni, per me una sorta di parco giochi”. E tenero è il ricordo dell’amatissimo nonno Pietro. “Era un uomo molto esigente sul lavoro ma estremamente dolce sotto il profilo umano. Perfezionista, non era contento fino al conseguimento del risultato voluto. Credo che proprio questo aspetto del suo carattere sia stato una delle chiavi del suo successo”. Alla fine degli anni 40 nonno Pietro viene affiancato dal figlio Valerio, papà di Vittorio. Un uomo saggio, abile a capire in anticipo le esigenze del mercato e a trasformare una piccola impresa in una realtà d’avanguardia. Il suo ingresso in azienda coincide con l’industrializzazione del processo manifatturiero e l’avvio di una distribuzione capillare dei prodotti in tutto il Belpaese. La capacità di sposare in maniera armonica e complementare il certosino lavoro manuale, condotto con puntigliosità sartoriale, e la tecnologia avvenirista proiettano Alpi nel firmamento industriale. La crescita è inarrestabile: la nascita di AlpiLignum, primo tranciato composto ancor oggi simbolo dell’azienda, è il preludio all’ascesa pure sui mercati internazionali: dall’Europa agli USA fino all’apertura verso l’Asia agli albori degli anni ‘70. “Papà è sempre stato l’uomo dei sogni che si realizzano. Un visionario capace di dar vita alle sue visioni. Una sorta di Fitzcarraldo”. Non a caso l’attuale AD evoca il geniale protagonista del film cult di Herzog, teorico del chi sogna può spostare le montagne. Quando, a metà degli anni Settanta, il Gruppo apre uno stabilimento in Camerun per assicurarsi una rifornitura costante della materia prima, Valerio fa costruire una chiatta adibita a stabilimento mobile, destinata a essere rimorchiata dal porto di Ravenna alla costa africana. “Facevamo arrivare tronchi interi dall’Africa a Modigliana. Ora invece il legno viene lavorato direttamente
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In apertura, a destra, Vittorio Alpi, Amministratore Delegato della società, e Umberto Campana, designer. In questa pagina un particolare dell’esterno dell’azienda.
il cuore di Forlì
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sul posto”. Alpi detiene licenze per la gestione di 500.000 ettari di foresta e garantisce lo sviluppo delle comunità locali, in termini economici e di infrastrutture. Ma per il figlio Vittorio non è mai stato una figura ingombrante. “Mi ha sempre lasciato spazio, libero di sviluppare la mia personalità come uomo e imprenditore”. Dopo la laurea in Economia, un Master in business administration in Arizona, e un continuo viaggiare tra Stati Uniti, Giappone, Indonesia e Sudamerica, Vittorio si concentra sullo sviluppo della produzione rinnovando le proposte commerciali. L’inizio di collaborazioni con grandi firme del design italiano permette ad Alpi di riposizionare la propria immagine e affacciarsi a nuovi orizzonti del mercato. Tra i protagonisti di questo rinnovamento autentici guru quali, Clino Un particolare della collezione Designer Alpi, Ikat, designed by Piero Lissoni.
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Castelli, Aldo Cibic, Dino Gavina, Pierluigi Ghianda, Ugo La Pietra, Angelo Mangiarotti, Alessandro Mendini, Matteo Ragni, Ettore Sottsass, Matteo Thun, Marco Zanini. Gli ultimi grandi acquisti si chiamano Piero Lissoni, nuovo art director e curatore dello showroom inaugurato lo scorso anno a Milano in via Solferino, quindi Fratelli Campana, Front e Kengo Kuma. “La più grande soddisfazione va rinvenuta proprio nell’interazione con i creativi, nella realizzazione dei miei e dei loro sogni”. Una coincidenza di obiettivi agevolata dalla passione di Vittorio per le arti visive, l’architettura, il design. “Mi capita spesso, mentre leggo per diletto, di trovare ispirazione per nuovi prodotti”. Parallelamente al riposizionamento sul mercato prosegue il processo di managerializzazione dell’azienda. E intanto già si affaccia la quarta generazione. “La gratificazione maggiore è quella di accompagnare nel futuro figli e nipoti. Tre stanno ancora studiando mentre Pietro, il mio primogenito ventiquattrenne, da pochi mesi lavora come apprendista nel laboratorio Ricerca e Sviluppo”. Una divisione su cui si concentrano ingenti investimenti poiché l’innovazione è da sempre il primo motore aziendale. E anche grazie a questo modus operandi il Gruppo ha ottenuto importanti certificazioni internazionali. A partire dal CRIBIS D&B Rating 1, il massimo livello di valutazione della solidità finanziaria e quindi dell’affidabilità commerciale. Valori che testimoniano come in tanti anni l’azienda si sia trasformata negli uomini, nelle dimensioni e nei numeri, non nello spirito che l’anima. E per il futuro si guarda al medesimo, ambizioso, obiettivo: andare più veloci del cambiamento.
atmosfera e sapori
Aperto a pranzo anche per colazioni di lavoro, ideale la sera, per cene intime, in una romantica atmosfera.
Cucina del territorio rivisitata / Specialità di carne e pesce Pane fatto in casa / Preparazione a base di foie gras e tartufi in stagione Formaggi d’alpeggio con mostarde e confetture /Ampia selezione di vini nazionali Una tessera gastronomica nella mosaicale creatività di Ravenna Via Faentina, 275 San Michele Ravenna (chiuso giovedì) - Tel. 0544 414312
Gaetano Curreri
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Gaetano Curreri
GAETANO CURRERI 40 anni di carriera e di passione. testo Andrea Guermandi - foto Giorgio Sabatini
Dai primi anni con Lucio Dalla, all’amicizia con Vasco Rossi, quarant’anni di composizioni e ballate struggenti, di successi, cadute, risalite e premi. L’ultimo, il premio Charlot, per essere “Grande compositore, grande tastierista, grande cantante, grande leader”.
Gaetano Curreri ha un bellissimo sorriso del Sud. Anche se è nato a Bertinoro il 26 giugno del 1952. Sicilia e Romagna, dunque. Un medley pieno di sapori e colori che poi riverberano, necessariamente, nelle sue composizioni, nelle sue musiche al pianoforte, nelle sue ballate struggenti e nella ricerca continua di parole e immagini che abbiano un senso. Ha una voce bellissima anche quando ti parla. È particolare, graffia, ma vellica allo stesso tempo, sa di fumo e di miele. Ama le persone come lui, l’amico Vasco Rossi, il maestro Lucio Dalla, il poeta Roberto Roversi che prima con Lucio e poi con lui ha ritrovato la voglia di scrivere canzoni all’ombra della sua meravigliosa libreria Palmaverde. Ora non ci sono più né Roberto Roversi né la sua libreria, né Lucio, e Bologna e il mondo degli anni Sessanta che nacque attorno ad Officina (la rivista condivisa con Pier Paolo Pasolini tra i tanti) si sentono un po’ orfani. Fortuna, per tutti, che Gaetano abbia coltivato questa amicizia profonda che è rimasta anche incisa in alcune canzoni, su tutte Chiedi chi erano i Beatles. Quando lo incontri resta sempre qualcosa di lui. Il sorriso, la battuta (anche sulla sua amatissima Fortitudo Basket che non è riuscita, come i cuginastri della Virtus, a risalire in A1), le amicizie condivise, in particolare con quel meraviglioso costruttore linguistico che è Alessandro Bergonzoni. All’epoca d’oro c’erano anche Lucio Dalla e Freak Antoni, leader degli Skiantos. Luca Carboni c’è ancora, c’è l’amico carissimo Vasco Rossi, c’è quel pezzo di Bologna che ha intriso la via Emilia di suoni, di pop e di rock e di ballate che solo Gaetano e Vasco sanno raccontare. “Il nostro maestro è stato Lucio Dalla,” dice. “Grazie a lui abbiamo un nome ed abbiamo avuto la possibilità di essere un gruppo. Lucio è stato un padre di famiglia, ci ha dato la consapevolezza di essere gli Stadio e ci ha fatto capire che insieme avremmo fatto qualcosa di importante. Dalla è stato il primo artista che ha cercato di trasformare la musica italiana, un processo di evoluzione che prevedeva di abbinare testi di grande qualità ad una musica commerciale ed efficace. Venditti poi ha ripercorso le sue tracce, ma entrambi hanno fatto capire al mondo musicale, che la canzone d’autore non poteva rimanere relegata ad un pianoforte o ad una chitarra. Questo Lucio lo costruì proprio con noi e creò appunto gli Stadio”. Gaetano comincia a lavorare nelle sale da ballo e nelle balere del Modenese, anche grazie all’incontro con un ragazzo ai tempi sconosciuto e molto giovane, un certo Vasco Rossi, con il quale avvia un fruttuoso rapporto di collaborazione e fonda una delle prime radio libere del nostro Paese, Punto Radio Bologna, trasmettendo da Zocca, sull’Appennino modenese. Vasco diventa Vasco e Gaetano gli arrangia Ma cosa vuoi che sia una canzone (1978) e Non siamo mica gli americani (1979). Nello stesso periodo entra a far parte, come corista e tastierista, degli Stadio, una band di accompagnamento di Lucio Dalla, alla vigilia del tour Banana Republic che vede il cantante bolognese affiancato da Francesco De Gregori e in alcune date da Rosalino Cellammare, Ron. Il gruppo viene fondato ufficialmente nella primavera del 1981, e proprio durante il tour di Dalla, propone i suoi primi brani, Grande figlio di puttana e Chi te l’ha detto, che tra l’altro vengono
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Gaetano Curreri
scelti come parte della colonna sonora del film di Carlo Verdone Borotalco. L’anno successivo esce il primo ellepì della band, intitolato semplicemente “Stadio”, che include la canzone Un fiore per Hal e che si avvale della partecipazione di Jimmy Villotti, Ron e Lucio Dalla. Nel 1983 Curreri e il resto degli Stadio tornano a collaborare con Carlo Verdone: esce su 45 giri, infatti, il brano Acqua e sapone, destinato al film omonimo dell’attore e regista romano. La band, negli anni Ottanta, partecipa anche a Sanremo, accompagna Lucio, partecipa a collaborazioni di prestigio, conosce Roberto Roversi. Esce il mini album Chiedi chi erano i Beatles, gli Stadio ottengono un notevole successo per merito della canzone omonima. Nel 1990 la separazione brusca da Lucio Dalla (recuperata qualche tempo dopo) porta il gruppo sull’orlo dello scioglimento: gli Stadio, comunque, rimangono in vita, anche grazie all’aiuto di Vasco Rossi, e l’anno successivo firmano un contratto con la EMI Italiana. Proprio nel 1991 esce Generazione di fenomeni, singolo che anticipa il disco Siamo tutti elefanti inventati e che ottiene un ottimo riscontro di pubblico anche perché è la sigla de “I ragazzi del muretto”, telefilm trasmesso su Raidue. La carriera prosegue con altri successi fino alla vittoria recente di Sanremo e al grande successo dell’LP Miss Nostalgia, sentimento, dice Curreri, che prova “Per gli inizi, quando erano gli anni Settanta e proprio mio papà – che lavorava in un cementificio, e non c’entrava niente con questo mondo – mi osservava a distanza, come mettendomi una mano sulla spalla, perché la musica era piena di droga (poteva stare tranquillo, non mi sono mai fatto neanche uno spinello). E poi la provo per Dalla, che purtroppo non ho più,
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Gaetano Curreri
ma quando qualcuno ti ha dato tanto – penso a Lucio, penso a mio padre – ti lascia comunque un imprinting che ti permette di ascoltare il futuro con la capacità di leggerlo attraverso il passato”. Gaetano Curreri ama ripetere che la “paura è come la vita, fa brutti scherzi”. Si riferisce, naturalmente a quel maledetto ictus, qualche anno fa, che lo colpì durante un concerto ad Acireale e di cui, per fortuna, non sono rimaste tracce, ed alla successiva malattia del padre: “È stato lì dentro – in quel viaggio senza ritorno – che ho scoperto che non capita sempre agli altri, e che nell’imprevedibile a cui si è sempre impreparati, c’è da allungare le braccia e sperare che dall’altra parte si finisca in buone mani”. Dice: “Questi medici, infermieri, psicologi e specialisti s’impegnano senza scopo di lucro affinché il malato – ne curano 4.000 ogni giorno in tutta Italia – possa restare a casa, senza andare in ospedale. Ti accompagnano in questa strada al buio levandoti la tristezza che possono, amorevolmente ti dicono Basta piangerti addosso, ché se la malattia non si accetta però si governa, e combattono quel mostro con te. Lo fanno con amore, passione, conforto. Alleviando un dolore e il tuo cuore spaccato”. Per Gaetano Curreri Sanremo rappresenta “una bellissima vetrina per far conoscere la nostra musica, forse l’ultima rimasta in TV per artisti come noi con una storia alle spalle”. Dice: “L’alternativa sarebbe fare comparsate in programmi per cuochi o dove sei costretto a fare il simpatico. Non ci va”. Ancora si emoziona a ricordare il testo di Un giorno mi dirai che descrive un genitore
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Sopra, Gaetano Curreri ritratto mentre canta “Alba chiara” durante il concerto riminese per l’amico Vasco in occasione del Modena Park.
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che ammette le sue fragilità. “Sono cresciuto con un modello di padre che stava sempre in cima a una piramide, pronto a giudicarti. Adesso, vedo all’opposto genitori che danno pacche sulle spalle ai figli per sentirsi giovani come loro. Per fortuna ci sono anche padri come quello della canzone, figure autorevoli, ma che sanno ammettere le proprie debolezze, perché solo così possono capire quelle dei figli”. Un ulteriore atto di amore lo dedica al poeta Roberto Roversi: “Quando se ne andò, mi lasciò delle parole da musicare, e tra queste c’erano: Chiudo le porte del cielo/Scende la notte sul prato/Sono il guardiano del bosco/Tengo a bada i leoni. Dedicate a un portiere: io ci vedo Gigi Buffon”. Racconta poi che quando ha iniziato a scrivere l’ultimo album, Miss Nostalgia, “ho ripensato a una canzone che avevo scritto con Lucio Dalla nel 1983 e che iniziava così: Noi come voi, aspettando che il sole smonti, diciamo guarda che bei tramonti. Io aspetto sempre che arrivi la sera per ammirare il tramonto. È il momento più importante della giornata perché sento il mio animo riempirsi di speranza, la speranza che il domani sarà migliore. Mentre la nostalgia che dà il titolo all’album per me significa ripensare alle cose belle che mi sono successe, ma senza rimpianti. Un mio amico dice sempre: Che belli quei tempi! Ma sono bellini anche questi...”. Ma il cuore di Gaetano è pieno di Vasco Rossi. Rivela: “Quando sono entrato per la prima volta a Punto Radio, a Zocca, sentivo quello che poi si è avverato: che insieme avremmo fatto grandi cose. Ricordo la prima volta in cui lui mi fece ascoltare con la chitarra Albachiara. Io avevo un pianoforte in affitto e con quello ho
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Gaetano Curreri
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composto l’introduzione della canzone. Poi mia mamma me l’ha comprato e ce l’ho ancora a casa”. Da quarant’anni Vasco è il suo migliore amico: “Ci completiamo a vicenda: a me basta passare un pomeriggio con lui per caricarmi di un’energia che poi mi dura per una settimana; mentre lui stando con me si tranquillizza, ricupera un po’ di calma interiore. Lui ha una vera passione per la filosofia. Di recente ha letto tutti i libri della Ricerca del tempo perduto di Proust. Mi fa delle vere lezioni in cui riesce a spiegarmi con parole semplici concetti complicatissimi”. Tra le tante canzoni scritte insieme, la più bella per Gaetano è Un senso, dove Vasco canta: Voglio trovare un senso a questa vita, anche se questa vita un senso non ce l’ha: “Io credente, lui un po’ meno, ma pur da posizioni diverse siamo, come ha detto papa Francesco a proposito dei re Magi, uomini alla ricerca di Dio”. Grande compositore, grande tastierista, grande cantante, grande leader. Per questi e per molti altri motivi, il Premio Charlot, ha deciso di assegnare il Premio Grandi Protagonisti della Musica a Gaetano Curreri. Salirà sul palco della XXIX edizione del Premio Charlot, nella serata di gala, in programma il prossimo 28 luglio, all’Arena del Mare di Salerno, per ritirare dalle mani di Eugene Chaplin, figlio di Charlie, il riconoscimento a lui assegnato. “Sono onorato di ricevere questo prestigioso riconoscimento – ha detto Curreri –. Vincere un premio intitolato a uno dei più grandi uomini dello spettacolo e della cultura del Novecento è per me motivo di grande orgoglio. Alla soglia dei miei primi 40 anni di carriera, il premio Charlot rappresenta un traguardo importante, mette insieme le mie due grandi passioni, il cinema e la musica”.
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Orietta Berti
ORIETTA BERTI dietro un grande amore. testo Francesca Miccoli
Milioni di dischi venduti ma una vita semplice, tra giardinaggio e gatti. Orietta Berti celebra i suoi cinquant’anni di carriera con un cofanetto celebrativo e ancora qualche sogno nel cassetto da raccontare.
Per tutti è semplicemente Orietta. O l’Orietta, per mutuare l’abitudine tutta settentrionale di inserire l’articolo davanti ai nomi propri. Una consuetudine che rende ancora più confidenziale il rapporto già stretto tra la cantante e i numerosi fan. Una schiera di appassionati di tutte le età che considerano la popolare ugola emiliana come l’amica della porta accanto. Una parente prossima che, al contrario di qualche parente serpente, sa entrare nelle case in punta di piedi, in maniera mai invadente ma sempre cordiale. Atteggiamenti divistici o pretese da star viziata non le sono mai appartenuti. A dispetto dei milioni di dischi venduti, di una bacheca carica di ogni tipo di riconoscimento. Orietta ha condotto e continua a condurre una vita semplice: nella quotidianità si dedica al giardinaggio, aiuta la signora delle pulizie nei servizi domestici, cura amorevolmente i suoi cani e gatti, fa la spesa con l’amato Osvaldo, suo fedele compagno di percorso da oltre mezzo secolo. Cinquant’anni nel cammino dei giorni e altresì nella professione, onorata con il cofanetto celebrativo Dietro un grande amore. 109 brani (da qui il tormentone di Fabio Fazio “perché non 110?”), un’antologia discografica composta da 5 CD, consegnati in dono anche a Papa Francesco. “Quattro compact disc che ripercorrono la mia storia: dal 1965, anno in cui mi aggiudicai Un Disco per l’estate con il brano Tu sei quello, fino a oggi – racconta Orietta –. Una rassegna che rivisita i cambiamenti, le evoluzioni e le collaborazioni che mi hanno portato ad attraversare cinque decenni di carriera nella musica e nel mondo dello spettacolo.” Un appassionante viaggio punteggiato da migliaia di concerti e altrettanti chilometri macinati a ogni latitudine. “Mi chiamavano la stakanovista: dal 1966 agli anni Novanta, il mio calendario contava 280 date ogni 365 giorni! Sempre sul palco, anche tre volte nel corso della stessa serata alle varie Feste dell’Unità”. Altri tempi. “Sono felice di essere stata protagonista del periodo d’oro della canzone italiana. L’epoca che ha consacrato grandi artisti come Umberto Bindi, Lucio Battisti, Domenico Modugno e Pino Donaggio. Esplosi in manifestazioni cult come Canzonissima, che durava dal 6 settembre al 6 gennaio, Un disco per l’estate e il Festival di Sanremo, una vetrina mondiale seguitissima all’estero. Una bella manifestazione che oggi miete audience ma non fa vendere dischi”. Non come il sempreverde Finché la barca va, che ne mise in commercio quasi 9 milioni. L’artista
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Orietta Berti
esalta il passato ma strizzando l’occhio al futuro. “Il quinto CD del cofanetto è tutto nuovo: il meraviglioso risultato della collaborazione con un grande interprete e cultore della musica come Enzo Campagnoli. Con la sua Musicanima Symphony Orchestra, il maestro mi ha condotta e seguita in una fantastica esperienza interpretativa dei grandi classici napoletani, abilissimo a creare atmosfere ed emozioni che hanno dato ancora più forza a veri capolavori.” Orietta ha la capacità di proporsi in maniera moderna, nel rispetto dell’evoluzione dei tempi e dei costumi. “Lavoro con maestri giovani, che propongono la musica in modo attuale e innovativo. Demo Morselli mi ha diretto nella realizzazione di un album con 14 brani latini; il jazzista Sandro Comini mi ha permesso di riproporre Carosone, Buongusto e Martino con lo swing anni Trenta; ora mi segue Ezio Campagnoli, che ha curato per tanti anni i ragazzi di Maria De Filippi.” La promozione del cofanetto è scandita dalla presentazione di video sempre nuovi attraverso i vari canali mediatici. Trasmissioni TV come Che tempo che fa, che ha visto Orietta ospite fissa dalla raffinata ironia, Porta a porta, che per l’occasione ha raggiuntio un record di ascolti con il 24% di share, quindi Tale e quale, Domenica In, Domenica Live. E ancora Ciao Darwin, format in cui la Berti ha espresso solidarietà alle coppie unite civilmente. Un’apertura mentale che l’ha portata a esibirsi in numerose discoteche gay, dal Madame Sisì a Desenzano sul Garda al Gay Village a Roma. Tantissimi anche gli articoli pubblicati sulla stampa: Famiglia Cristiana e il Corriere della Sera, Il Fatto Quotidiano e il più modaiolo Vanity Fair. A luglio
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Sotto, Orietta Berti ospite a “Che tempo che fa” di Fabio Fazio, insieme ai giudici di Masterchef.
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è partito il tour di concerti estivi e a fine settembre saranno presentati il videoclip dal titolo Io potrei, prodotto dagli Sugarkane, e anche l’interpretazione di Osvaldo del brano che dà il titolo all’album, Dietro un grande amore. “Una rumba habanera più mediterranea e sofisticata rispetto alla prima versione incalzante e passionale”. Una chicca che vuole rendere omaggio e sottolineare una volta di più l’importanza della figura del marito nella carriera della Berti. “Ha lasciato il lavoro per farmi da produttore e da manager. La sua presenza costante ha cambiato il mio carattere, mi ha reso più estroversa e gioiosa. È fondamentale avere accanto una persona su cui poter contare e che ti infonde fiducia.” La famiglia ha avuto un ruolo centrale nella vita di Orietta. Nata nella modenese Cavriago, dopo le nozze l’artista si è trasferita a Montecchio, ad appena cinque chilometri, nella tenuta condivisa con mamma, nonna paterna e suoceri. “Trascorrevamo tanti mesi all’estero ma lasciare i bimbi in mani sicure ci infondeva serenità”. Erano gli anni dei tour infiniti con Claudio Villa e l’orchestra Sigurini. Ricordi indelebili, addolciti da una consapevolezza: “Non avrei potuto pretendere di più dalla vita: ho avuto una bella carriera, una famiglia unita, tanti riconoscimenti”. Non c’è tempo per la nostalgia, il futuro è denso di impegni. In autunno si riparte con Fabio Fazio, questa volta su Rai 1. Poi ancora concerti, incisioni. E un sogno nel cassetto. “Mi piacerebbe fare un programma, anche di una sola puntata, in cui interpretare i tanti brani, non solo miei, cantati in questi anni.” Una sorta di festa dell’Orietta.
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In questa pagina, alcune foto d’epoca di Orietta Berti. Sopra, insieme ad Alberto Sordi e Mike Bongiorno, sotto, con il marito e manager Osvaldo Paterlini.
Seg uic i su
L E EM O ZI ONI DI LA S VEGAS VIV IL E A SA N MA RINO. Divertimento. Brivido. Gioia. Sensazioni intense che solo Giochi del Titano può offrirti, tutte da vivere in un ambiente raffinato dove lo stile si tocca, si gusta, si respira. Prova l’emozione di un offerta completa e ricchissima, con i giochi più amati da chi ama giocare. In una cornice così, ogni serata è come essere a Las Vegas.
REPUBBLICA DI SAN MARINO Pa l a z z o Di amo nd - S t rad a d ei C ensi t i 21 - Uscita Falciano Te l . 05 4 9 9 4 2 011 - w w w. g i o c h i d el t i t ano.sm
“IL GIOCO E’ RISERVATO AI MAGGIORENNI”
“IL GIOCO PUO’ CAUSARE DIPENDENZA”
“ V E R I F I C A L E P R O B A B I L I T A ’ D I V I N C I T A S U L S I T O W W W. G I O C H I D E L T I T A N O. S M ”
IL PIACERE DI GIOCARE CON STILE
Guido Guidi
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Guido Guidi
GUIDO GUIDI uno sguardo sul mondo. testo Andrea Guermandi - foto Guido Guidi
Dalla formazione allo IUAV, dall’architettura alla fotografia, fino ad esporre al Guggenheim, al Witney Museum di New York, al Centre Pompidou di Parigi e alla Biennale di Venezia. Guido Guidi si racconta attraverso le sue fotografie e i suoi ricordi.
Sta in campagna, a Ronta di Cesena. In compagnia della moglie, di un bellissimo pastore tedesco, di migliaia e migliaia di libri, disegni, fotografie, pensieri. Si aggirano per casa, o almeno così sembra, anche Piero della Francesca, Wim Wenders, Michelangelo Antonioni, Italo Zannier, Carlo Scarpa, a volte Euripide, Arturo Carlo Quintavalle, Paul Strand, Andrea Mantegna, Giorgione, Galilei. I suoi riferimenti reali da cui trae ispirazione e costrutto. Anzi, si può immaginare che discuta con loro del paesaggio, delle periferie, ma anche della prospettiva e della pittura antica e di come usare la sua macchina a banco ottico 20×25. Se si dovesse definirlo in due parole, o tre, occorrerebbe utilizzare la categoria dell’arte eccelsa. È un artista che fotografa quello che c’è. Alla sua missione si attaglia alla perfezione una frase di Lévi-Strauss: Un quadro, in primo luogo, non è ciò che rappresenta, ma ciò che trasforma. E così è per le sue fotografie. L’artista in questione è Guido Guidi, classe 1941, noto in tutto il mondo, impegnato in tutto il mondo, eppure così vicino a noi, ai nostri paesaggi, alle nostre vituperate periferie, a ciò che ci sta intorno, davanti. A ciò che vediamo quotidianamente, ma non guardiamo con attenzione, con desiderio di cura, con un po’ d’affetto. Dice: “Alla fine degli anni Sessanta ho iniziato a fotografare gli amici, le case, i luoghi dove sono nato, e dall’inverno del 1983, dopo essermi costruito una rudimentale camera per pellicole 8 per 10 pollici, ho lavorato ad alcuni progetti. Credo che non avrei iniziato nessuno di questi lavori se lì non avessi trovato almeno un sasso.” Chi lo conosce bene sa che Guido Guidi è un fotografo anomalo. Non si nutre di sola fotografia, ma ha una necessità interiore di coinvolgere nelle sue riflessioni tutte le arti visive: dalla pittura italiana del Tre-Quattrocento all’espressionismo, dall’arte concettuale alla fotografia americana (Walker Evans, Robert Adams, Lee Friedlander, Stephen Shore, John Gossage). Analizza i più piccoli dettagli, dalla sequenza alla composizione di ogni singola opera comprendendone la poetica. La giovanile passione per il cinema vede impegnato Guidi nello studio dei film di Michelangelo Antonioni per le rigorose sequenze nel montaggio, i colori tenui e la lentezza nel narrare storie. Quella stessa lentezza che impiega il fotografo nel rito di montare la macchina di
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grande formato sul cavalletto, vedere l’inquadratura e, come in una battuta di caccia, prendere la mira e colpire con precisione il bersaglio. Guidi, fotografo e intellettuale di prim’ordine, si forma negli anni mitici dello IUAV veneziano quando insegnavano maestri come Bruno Zevi, Giancarlo De Carlo, Luigi Veronesi, Italo Zannier, Ignazio Gardella e Carlo Scarpa. Proprio con Scarpa nasce un legame che va oltre il rapporto allievo-maestro quando nel 1996 il Centre Canadien d’Architecture gli affida la lettura fotografica dell’opera scarpiana. In questo senso Guidi modifica il rapporto tra la fotografia e l’architettura, e la sua è una visione non banale né ossequiosa nei confronti dell’architetto, anzi si pone come riflessione visiva critica dell’architettura. È l’approccio ai luoghi e alle architetture che determina una cesura tra Guidi e il resto dei fotografi. Fino dagli anni Settanta Guidi è presente in tutte le mostre fotografiche più significative da Iconicittà a Penisola, da Viaggio in Italia a Esplorazioni sulla Via Emilia, e nell’ultimo decennio ha conquistato risonanza internazionale attraverso le fotografie di architetture famose e anonime. Una scelta coraggiosa quella che ha compiuto, sovvertendo in un certo senso ciò che volgarmente si intende per fotografia, così lontano dallo star system e dal clamore del successo di superficie. “Forse, ma direi che il termine più esatto è disperata, una scelta disperata. Sono sicuramente fuori dagli schemi. Devo dire, però, che alla fotografia sono arrivato dopo. Prima ho disegnato tanto, ho dipinto, ho studiato l’architettura. Già nel 1968 chi fotografava ha incorporato il proprio
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In alto, Polonia 1994; a fianco, Chioggia 2000.
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tempo ed ha partecipato agli anni della politica contro l’edonismo dell’arte. Forse son partito da qui. Se avessi continuato a fare il pittore forse avrei avuto più successo.” Poi che cosa è avvenuto? “In modo molto lento dall’urgenza di disegnare le cose, di indicarle, ho scoperto che mi interessava l’architettura, ma per un motivo ben preciso: ero claustrofobico e l’architettura era bella perché dovevi uscire, un po’ come nella passeggiata di Walser.” Qual è stata la sua formazione? “Ho fatto l’artistico a Ravenna, ma ho patito parecchio perché chi mi doveva preparare per l’esame di ingresso non lo fece proprio bene bene. Poi, un professore, Bocchini, si impose e mi accettarono. Divenni il suo vanto. Il primo sintomo fotografico, invece, nacque per un caso fortuito, anzi sfortunato per un membro della mia famiglia. Mio zio lavorava in banca e fu mandato all’ippodromo, alle corse del trotto a gestire un botteghino. Fece una sciocchezza: usò i soldi della banca per scommettere. Un buco clamoroso. Mio nonno si impegnò garantendo per lui. E lo zio per sdebitarsi chiese cosa volesse il nipote. Naturalmente chiesi una macchina fotografica, sei per sei. Dopo il liceo desideravo andare a Venezia per architettura. Ci andai, diedi gli esami e poi partii militare e questo fatto accrebbe sempre più la voglia di fotografare.” In che modo? “Ero praticamente un obiettore in nuce e mi portavo libri che mi potevano costare il carcere
Istantanea di una vita. Guido Guidi nasce nel 1941 a Cesena dove vive e lavora. Nel 1956 si iscrive allo IUAV di Venezia e successivamente al Corso Superiore in Disegno industriale seguendo i corsi di Bruno Zevi, Carlo Scarpa, Luigi Veronesi e Italo Zannier. Influenzato dal Neorealismo e dall’Arte Concettuale indirizza la propria attenzione sugli spazi marginali e antispettacolari del paesaggio Italiano, registrandoli nelle lastre dalla macchina grande formato 20x25. A partire dal 1980 viene chiamato a partecipare a progetti di ricerca sulla trasformazione della città e del territorio, fra cui l’Archivio dello Spazio della Provincia di Milano (1991), le indagini sull’edilizia pubblica dell’InaCasa (1999) e quelle per Atlante Italiano 003. Fra il 1993 e il 1996 documenta la nuova urbanizzazione sviluppatasi dopo la caduta del Muro di Berlino lungo il tracciato dell’antico asse viario tra la Russia e Santiago di Compostela, pubblicando questa ricerca nel 2003 in un libro dal titolo In Between Cities. Espone nelle principali rassegne e musei italiani e internazionali – tra cui il Fotomuseum di Winterthur, il Guggenheim, il Witney Museum di New York, il Centre Pompidou di Parigi e la Biennale di Venezia.Particolarmente significativo il suo impegno nell’ambito della didattica.
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militare a Gaeta. Ero allievo ufficiale ma mi congedarono sergente maggiore con la dicitura di inattitudine al comando. Però, essendo allievo ufficiale, qualche soldo lo avevo messo da parte e così mi comprai l’attrezzatura per sviluppare. A sviluppare, invece, imparai in caserma. In quel periodo cominciai a comprare libri di fotografia. Tornando invece ad architettura, riuscii ad andare a Venezia perché un altro professore, Alberto Fabbri, mi disse: “Lei è uno dei pochi che potrebbe fare architettura”. Allora andai da mia madre che parlò con mio padre e mio nonno che erano falegnami: niente da fare. In quel periodo, il parroco voleva ristrutturare la basilica paleocristiana bizantina e incaricò i miei di realizzare le panche e le porte. Mio nonno avvicinò il parroco e gli disse che avrei voluto fare architettura a Venezia, ma che la famiglia non aveva soldi per mantenermi là. Lui rispose di andare in chiesa il sabato successivo. Nel frattempo il parroco incontrò il vescovo, che era di origine veneziana, e così io ebbi due anni di vitto ed alloggio in cambio di qualche lezione ai ragazzi del quartiere. Per due anni vissi là e poi mi fu assegnata una borsa di studio e mi trasferii alla casa dello studente.” Poi, però, scelse la fotografia. “Già. In quegli anni a Venezia insegnavano fotografia personaggi come Italo Zannier, il mio caro maestro. Poi non ero un granché in fisica e in altre materie scientifiche. Così cominciai. Poi ho imparato anche ad insegnare.” Cosa significa davvero fotografare? “Guardare ciò che non hai visto, mettendosi alle spalle l’ideologia. Galileo guardava...” In alto, #17282_Fiume 2007.
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Ora cosa le interessa fotografare? “Mi interessano le cose, guardare le cose. Guardare ti avvicina alle cose, pensare ti allontana. Credo che esista una super valutazione del pensiero rispetto al puro e semplice guardare. La foto è un attimo. Dice bene Oliver Sacks: se tu metti due atleti ai blocchi dei cento metri piani e uno è un velocista e l’altro un calciatore sai perfettamente che vincerà il velocista perché ha sentito prima che lo starter stava per sparare. La foto è un lampo misterioso. E il fotografo è un medium e non si rende conto di ciò che sta facendo. Lo fa. Aderisce alle cose e attraverso l’adesione le modifica. La bellezza di un quadro è per quello che trasforma.” Cosa usa per fotografare? “Anche il telefonino. Poco la digitale. Quando lavoro seriamente la macchina a pellicola piana 20x25. Mi è sempre piaciuto essere anacronistico. Io fotografo, e quello è il mio sguardo sul mondo. Tengo a dire una cosa: non esiste una grande opera se non è onesta. Se faccio una casa di mattoni uso i mattoni. Non è etico fotografare con la pellicola e poi passarla al digitale. La fotografia ha sconvolto il modo di concepire il mondo come l’arte, la storia dell’arte, la psicanalisi.” Dopo tanti anni di scatti ha ancora la stessa passione? “Meno. Faccio molte meno cose, ma qualcuna la faccio. C’è un po’ di disincanto. Vado meno anche alle mostre. Un tempo ero onnivoro, oggi seleziono. Non mi piacciono le mostre monster. La curiosità è calata, ma quando arrivano i miei allievi coi loro lavori... beh, sto bene, mi piace ancora.”
Nel cuore della Valmarecchia Il piccolo e suggestivo borgo di Piega sorge su una collina di arenaria non lontano dalla riva destra del fiume Marecchia, sui ruderi dove era situato il castello di Piega, il castrum Plagae. Dell’antico castello sopravvivono poche ma significative testimonianze, in particolare alcuni tratti della cinta muraria, il muro di scarpata della cortina difensiva e i basamenti di una torre e del mastio.
Il piccolo borgo deve la sua notorietà alla storica famiglia degli Olivieri e all’assedio del 1298 voluto da Galasso da Montefeltro e conclusosi con un eccidio efferato. Al castello di Piega è possibile ricondurre anche l’edificio di culto dedicato a San Martino, forse collocato sullo stesso luogo dove più tardi venne costruita la settecentesca chiesa della Beata Vergine Addolorata.
Su queste testimonianze storiche è stato recuperato il borgo, mantenendo intatti la suggestione e il fascino dell’antico complesso medioevale. La passione con cui è stato ristrutturato e la ricerca storica dei materiali e delle lavorazioni artigianali della Valmarecchia fanno rientrare questo intervento nei canoni della bioarchitettura.
Per informazioni sull’acquisto delle unità abitative: Claudio Tonelli - cell 335 7231890 - email claudiopiega1953@libero.it
Cinema Romagna
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Cinema Romagna
CINEMA ROMAGNA una terra messa in scena.
testo Pierluigi Moressa - foto AGF
Viaggio tra le pellicole e i set cinematografici ambientati in Romagna, terra che ha fatto spesso da sfondo alle più belle storie narrate da registi del calibro di Vittorio De Sica, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni.
Per parlare del rapporto tra la Romagna e il cinema bisogna tenere conto di un tratto particolare caro a questa terra: assumere la piazza, l’osteria, il bar e i luoghi di ritrovo come spazio per una costante messa in scena di se stessi. Pare, dunque, che il romagnolo ami bonariamente ostentare le proprie gesta con quei tratti di vanità, di sottolineatura un po’ millantatoria, che lo porterebbero a descrivere la vita come un piccolo romanzo da narrare quotidianamente, in alternanza con gli altri protagonisti della pubblica scena. Caratteristica intrinseca allo stile della rappresentazione romagnola è il fatto che il narratore non si prenda troppo sul serio e lasci trasparire doti di autoironia, che lo salvano dall’epiteto di patacca, termine, tra il canzonatorio e il bonario, concesso a chi finisce per dimenticarsi dei propri limiti e dei difetti connessi all’umana natura. Le pellicole realizzate dagli autori romagnoli, così come i set cinematografici ambientati in Romagna, hanno dato conto di questi caratteri, giungendo talvolta alla caricatura, documentando più spesso i tratti distintivi di una terra, che, pur priva di confini geografici ufficiali, si definisce per elementi forti e aspetti immutati. “Zambelli, vieni a prendermi!” La sfida di Stefano Pelloni, Il Passatore, echeggia come un monito e un invito diretto al capitano Michele Zambelli, inviato dal papa a catturarlo. Nella serie televisiva di Piero Nelli (1977) la figura del brigante si erge sul fondo della Romagna ottocentesca dalle piazze lastricate, dagli argini fluviali deserti, dai contrasti interni a una pavida borghesia avversata dal popolo che mostra negli occhi il terrore della fame e della forca. Il Passatore resta un emblema di coraggio e di passione nel panorama filmografico romagnolo, consegnando alla pellicola alcune sequenze osé, tra le prime per la televisione nazionale. Raramente i film romagnoli scadono nella retorica o nel folklore, grazie all’abile dosaggio di tratti genuini e di freschezza inventiva. Che dire di Alberto Sordi, protagonista ne Il presidente del Borgorosso Football Club (1970) diretto da Luigi Filippo D’Amico? La figura dell’ex impiegato vaticano, capace, proprio in Romagna, di rinverdire gli entusiasmi paterni e di scoprire il linguaggio della passione, funge da modello ironico per indicare la cultura dell’effimero e il valore sociale che circolano entro il tifo sportivo. La Romagna viene qui rappresentata nel sentimento comune della partecipazione agli eventi pubblici, accostato all’espressione di uno spirito settario, erede delle rivalità medioevali, ma pronto a riconoscere il valore dell’individuo e a dare appoggio a chi mostri simpatia per il popolo e intenti sinceri verso la collettività. Da un altro versante, la cinematografia ha guardato alla Romagna come terra del divertimento. Rimini può essere considerata la capitale di queste realizzazioni (Rimini Rimini di Sergio Corbucci, 1987), che collocano nella riviera il luogo stagionale legato a una dimensione psichica di frenesia euforizzante, intenta a sovvertire le regole del quotidiano e a creare un senso di eccitamento esasperato e ininterrotto. Lo specchio di amare e ben diverse realtà si coglie, invece, nell’impegno di registi come Luciano Manuzzi, autore di Sabato italiano (1992), in cui si descrivono tanto gli effetti legati alla degenerazione dello spirito della festa quanto le tragedie che si
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Cinema Romagna
In apertura, uno scatto che ritrae Federico Fellini durante le riprese del film Amarcord. In questa pagina, in alto, un frame tratto da “I vitelloni” e sotto, da “Deserto rosso” di Michelangelo Antonioni.
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preparano dietro gli inganni del divertimento. E il mare, quello d’inverno, col suo respiro aspro e sonoro, compare in pellicole legate alla storia del cinema. Pensiamo a I vitelloni (1953) e ad Amarcord (1973), in cui Fellini mostra la propria anima segreta e il volto di una Rimini descritta attraverso gli umori apatici della stagione fredda, poi filtrata dal potente caleidoscopio dei ricordi infantili. La collaborazione con Tonino Guerra ha arricchito il cinema felliniano di un sentimento dolce e intimo di poesia. All’omonimo racconto di Guerra, denso di lineari e franche simbologie, è ispirato Il frullo del passero, film realizzato nel 1988 da Gianfranco Mingozzi. Altri registi dal nome famoso hanno eletto la Romagna a fondale delle loro creazioni. Ricordiamo Deserto rosso di Michelangelo Antonioni (1964), con l’amara descrizione di una natura violata dagli impianti petrolchimici, destinati a distruggere l’ambiente e il paesaggio fino a creare un devastante scenario di morte. Così, la campagna e la pineta di Ravenna definiscono i confini di un mondo intossicato dai malintesi del progresso, in cui anche l’essere umano diviene un elemento asservito a forme distruttive di potere. Più lieve la firma lasciata da Vittorio De Sica nel 1962 sulla piazza di Lugo, dove ambienta La riffa, episodio di Boccaccio 70, film dalle grandi firme, che apre l’epoca delle produzioni, in cui alcuni registi italiani vorranno ispirarsi a una soggettiva lettura del Decameron. Nella riffa di De Sica, la posta in palio è l’avvenente Sofia Loren, che sulla piazza di Lugo rinnova le tradizioni mercantili e coinvolge in una festosa gara il popolo gaudente, fino all’ironico finale. La Romagna al cinema è anche la terra delle celebrate sale cinematografiche, oggi per lo più in disuso, emblemi lasciati dalla storia che ha saputo collocare nell’incanto delle pellicole le scene di un mondo in cui riconoscersi e da cui partire per nuove scoperte.
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VALMARECCHIA
alla scoperta della valle del fiume Marecchia. testo Matteo Ranucci - foto Antonino Mosconi
Ăˆ un itinerario suggestivo, quello che parte dalla cittadina di Santarcangelo, per poi toccare Poggio Berni, Torriana, Montebello, San Leo e Verucchio. Tutto lungo la meravigliosa valle del fiume Marecchia.
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Valmarecchia
Partenza di questo viaggio lungo la Valmarecchia è Santarcangelo di Romagna. La cittadina, sorta sulla via Emilia tra Rimini e Cesena, è un borgo caratterizzato da case e palazzi ben curati e da strette vie arricchite da osterie, ristoranti e negozi. Piazza Ganganelli, risalente al ’700, costituisce il punto di partenza ideale per una passeggiata cittadina: un arco del 1777 è stato dedicato a Papa Clemente XIV che qui a Santarcangelo ebbe le sue origini. Non può mancare una visita alla Rocca Malatestiana costruita sul colle che domina la cittadina. Gli abitanti del luogo sostengono che fu questo fortilizio, e non quello di Gradara, la sede della triste e leggendaria vicenda di Paolo e Francesca, i due amanti scoperti e uccisi da Giangiotto Malatesta, marito di lei e fratello di lui, ricordati da Dante nella Divina Commedia. Vicino alla rocca si trova il convento dei Cappuccini. Lasciato Santarcangelo si comincia a risalire la Valmarecchia sulla S.P. 14. Dopo circa 6 km si incontra l’indicazione per Poggio Berni. Questo piccolo paese, che conta poco più di tremila anime, merita una visita. Di rilievo alcune antiche dimore, immagine della potenza delle famiglie che abitavano questi territori. Ripresa la strada principale, dopo circa 2 km si svolta a destra per raggiungere Torriana. L’abitato è posto a 337 metri s.l.m. su una rupe. Come dimostrano reperti archeologici di cultura etrusca, fu abitata sin dall’antichità. Da segnalare, oltre al magnifico panorama che si può godere dalla sua terrazza, una rocca ed una torre quattrocentesca. Da Torriana, mantenendo la destra si giunge a Montebello, che può vantare un bel castello perfettamente ristrutturato e un minuscolo nucleo abitativo di origine medioevale. La strada termina alle porte d’ingresso del paese: la ripida ciottolata sulla destra conduce alla rocca, chiamata anche Castello
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In apertura, una suggestiva veduta della valle al tramonto, scattata dal fiume Marecchia. Sotto, uno scorcio di Sant’Arcangelo e, a fianco, la rocca malatestiana di Torriana.
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Un castello a strapiombo. La rocca di San Leo, denominata anche castello o fortezza, è uno dei monumenti più imponenti e suggestivi del territorio romagnolo. Mantiene intatte tutte le caratteristiche tipiche dei castelli medioevali e per questo può essere considerata una meta ideale per famiglie con bambini al seguito. La città di San Leo sorge su un masso a forma di rombo con pareti a strapiombo nella media Valle del Marecchia, da cui si gode di una bellissima vista fino al mare. Oggi, la rocca di San Leo, disegnata dall’architetto Francesco di Giorgio Martini su impulso di Federico da Montefeltro, rimane a testimonianza di un passato fatto di guerre e prigionia. Il prigioniero più illustre rinchiuso in San Leo, che qui morì il 26 agosto 1795, fu Giuseppe Balsamo, conte di Cagliostro.
di Azzurrina. Ripercorso il tragitto dell’andata, si svolta a destra prima dell’abitato di Torriana per raggiungere la strada di fondovalle dove si gira a destra. La vallata è ampia e il letto del Marecchia è in questo punto largo e sproporzionato rispetto alla quantità esigua di acqua che corre al mare. Si sconfina nelle Marche, in provincia di Pesaro-Urbino. Sulla destra sfila il colle di Pietracuta su cui sorge un castello risalente al X secolo. I ruderi del castello si innalzano su uno spungone roccioso, la Pietra Aguzza. Dopo circa 2 km arriviamo a Veduta di Pietracuta, dal fiume Marecchia, porta d’ingresso di Montebello. Si svolta a sinistra su una strada in salita in direzione di San Leo. A questo paese occorre dedicare quanto più tempo possibile. Sono tanti i simboli d’interesse storico che caratterizzano la cittadina fortificata. Da San Leo si scende in direzione Secchiano e in corrispondenza dell’abitato si svolta a destra. Si percorre la strada verso fondovalle e in 11 km si raggiunge Verucchio. La struttura del paese è di epoca medioevale e rappresenta la culla della potenza dei Malatesta. Sulla centrale piazza, che dalla potente famiglia prende il nome, si trova il palazzo comunale e da qui si accede alla rupe su cui sorge l’imponente rocca datata XII secolo. Si consiglia una passeggiata nel borgo visitando la Pinacoteca comunale, la Torre civica, il Torrione delle Mura, la Porta del Passarello e gli altri edifici di pregio storico culturale, fino alla camminata sulle ristrutturate mura di cinta partendo dalla chiesa di Sant’Agostino. Attraverso una piccola strada secondaria si raggiunge Villa Verucchio. Nella località agricola si trova il complesso conventuale di San Francesco. Fondato nel 1215 dal santo, nel chiostro cresce un grande cipresso secolare che, per tradizione, si vuole piantato dallo stesso Francesco.
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COME I GIRASOLI la casa che ruota.
testo Lucia Lombardi - foto Riccardo Gallini
Una casa che gira a favore di sole, rialzata da terra di quasi quattro metri e con bilancio energetico che tende allo zero è il sogno di chiunque. A Pennabilli questo sogno è diventato realtà.
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Come i girasoli
Secondo Le Corbusier “l’architettura è il gioco sapiente, rigoroso e magnifico dei volumi sotto la luce”, oltre a ciò l’architettura è anche sogno condiviso. In alcuni casi un gioco virtuoso che passa di padre in figlio, come per la casa rotante sperimentale di Pennabilli, in Valmarecchia, un edificio a basso impatto energetico, che per la sua gestazione ha incuriosito centinaia di passanti. Una casa futuristica, fantasiosa e al tempo stesso tecnologica, costruita secondo i parametri della bioedilizia, consta di ben 24 pannelli per la geotermia e 4 solari. Un progetto che occhieggia ai fumetti, e ai sogni infantili di costruirsi una casarifugio sull’albero, nonché all’osservare i pianeti e muoversi a favore di sole per coglierne i benefici, come fanno i girasoli nei campi arroventati. Riccardo Vignali, ingegnere e proprietario, è stato attentamente coadiuvato nei lavori dall’architetto Roberto Rossi di Novafeltria. Attorno al 2000 ha disegnato il progetto mettendo su carta le idee del padre Ettore, imprenditore metalmeccanico, un uomo creativo e dall’inventiva audace. La struttura portante è rialzata da terra per mezzo di un unico pilastro portante centrale, essa può ruotare a favore di sole, e ottimizzare l’esposizione dei pannelli presenti sulla falda di copertura in rame. La zona giorno, grazie a questo movimento, beneficia degli effetti positivi offerti da un’esposizione all’illuminazione naturale, che si riverbera sia sulla persona che sui consumi. Il bilancio energetico tende allo zero, andando quasi in pari, tra consumo e autoproduzione di energia pulita mediante fonti non convenzionali, pozzo geotermico e pannelli solari. Attraverso un’intercapedine presente su pareti e tetto si arieggia tutta la struttura, la coibentazione attua una limitazione delle dispersioni inutili di calore, mantenendo l’involucro ventilato, superbamente rivestito in legno di abete vaporizzato, secondo le più innovative soluzioni, ad opera dell’azienda Protek srl. La casa rotante è raggiungibile attraverso una scala esterna in legno esotico di Tali e ferro battuto, si appoggia e ruota su un unico pilastro di 1 metro di diametro, che la colloca a 3,5 metri di altezza, mosso da un motorino che le permette di ruotare su se stessa a 360° e ritorno. L’unità abitativa, inscritta in una forma ottagonale, è di 110 mq. Attorniata da terrazze e un portico di 132 mq, è una unifamiliare, dove l’uso di materiali naturali caratterizza e riveste il tutto: legno e
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In apertura, la veduta dell’intera casa rotante. In queste pagine, gli interni del soggiorno e della sala da pranzo con le grandi finestre a effetto trompe-l’oeil.
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Come i girasoli
In questa pagina, i terrazzi e un particolare della scala esterna in legno esotico di Tali e ferro battuto.
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derivati, pietra naturale indiana, dai colori della roccia locale, acciaio e materiali smaltibili. Grandi finestre con aperture effetto sfondamento permettono alla natura circostante di permeare liberamente, creando un effetto trompe-l’oeil dirompente, ottenuto nel salone da una grande finestra trapezoidale inclinata. Il legno a pavimento è un parquet di rovere chiaro a listelloni trattato ad olio direttamente in loco. Nella cucina-sala da pranzo la costellazione di finestre crea un effetto bow window, aumentando l’effetto sospensione e sfondamento. Il mobile cucina curvilineo, disegnato dal padrone di casa, è in legno con una penisola dalle linee fluide e il piano in Corian, il tavolo conviviale, dal design nordico in legno chiaro Ayous, è stato anch’esso realizzato su disegno di Riccardo Vignali. Le sedie in plastica rossa e legno sono di Calligaris. La casa al suo interno segue forme zoomorfe, sinuose: non compaiono linee nette, le porte non sono a rilievo ma a filo muro, sembra a tratti di essere su una barca pronta a salpare. Il bagno, progettato su misura secondo le esigenze precise dei padroni di casa, è sinuoso ed essenziale. Il mobile su cui poggia il lavabo è in legno rivestito in ecomalta lilla in armonia con la cromia scelta per tutto il servizio. La grande vasca idromassaggio angolare è sormontata da un grande doccione, rivestita di cartongesso trattato anch’esso con ecomalta di Oltremateria per avere un colpo d’occhio unitario. Il riscaldamento della casa è nel battiscopa: usufruisce solo di 7 litri d’acqua, senza sovraccaricare la struttura sospesa. Il paesaggio che appare dalle finestre muta sempre, per un effetto stupore assicurato!
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UNA SCALA DI COLORI oro, bianco, grigio e azzurro. testo Annalisa Balzoni - foto Tommaso Guermandi
I colori sono azioni della luce, azioni e passioni. (W. Goethe, “Teoria dei colori”, 1810)
Siamo ospiti in una splendida casa, situata lungo la riviera romagnola. Raffinata ed elegante dimora, è frutto di una demolizione e ricostruzione in sagoma di una casa tipica degli anni ’70. Ha visto la propria rinascita due anni fa, facendo proprie le tecnologie più innovative in campo di risparmio energetico e di illuminotecnica, ma soprattutto nel campo dei materiali di finitura. I colori naturali del cielo e della vegetazione fanno da cornice alla costruzione che spicca grazie al bianco utilizzato per le facciate, ma soprattutto all’oro che troviamo sia all’esterno che all’interno. La nostra guida è l’Architetto bolognese Domenico Celadin, progettista della dimora in collaborazione con lo studio Open Project di Bologna. Durante l’incontro è risultato tangibile l’ottimo dialogo tra progettista e committenza, un’intesa perfetta che è stata alla base dello studio, donando un risultato unico che è divenuto sintesi delle personalità di chi vive all’interno dell’opera e di chi l’ha progettata. È una casa visibile e altamente connotata, grazie anche all’utilizzo del metallo bello e nobile Tecu-gold fornito dalla Ditta internazionale KME, utilizzato nella parte a forma cubica incastrata nella parete esterna totalmente bianca dell’edificio, ottenendo un effetto di forte impatto. Questo nuovo materiale composito ha liberato la progettazione verso una soluzione efficace senza nessun compromesso estetico. I colori predominanti diventano il bianco, l’oro, il grigio e l’azzurro cenere.
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Una scala di colori
I colori diventano elementi progettuali raffinatissimi. Troppo spesso in architettura il colore viene considerato semplicemente come aggiunta a livello estetico; questo invece ha uno specifico ruolo compositivo che non può essere separato dalla struttura architettonica e va coordinato in fase progettuale. Colore e materiali interagiscono in maniera simile nella creazione del comfort ambientale. In un ambiente le superfici intonacate si trasformano in una lavagna per la proiezione cromatica che si trasforma con l’illuminazione diurna naturale e notturna artificiale. Di qui deriva il ruolo chiave svolto dal progettista il quale, sebbene non esista alcuna normativa che stabilisca degli standard di colorazione per gli ambienti domestici e non, si fa soggetto promotore della progettazione di un ambiente che non contempla solo aspetti funzionali ed estetici ma anche aspetti di comfort psicofisico. Lo studio cromatico e l’applicazione delle nozioni della teoria dei colori sono alla base della realizzazione di ambienti in cui vivere bene. All’interno di uno spazio chiuso il colore può influenzare in maniera diversa la percezione dell’ambiente, a seconda della sua dislocazione e della sua temperatura, pur considerando il punto di vista e la soggettività di chi lo abita. Quando si pianificano i colori per uno spazio da vivere il progettista tiene conto della personalità dei suoi clienti, del loro rapporto con il colore, e delle loro esigenze di vita. La scelta del bianco caldo è predominante nelle facciate esterne e interne, il bianco è da sempre
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In apertura, una vista della scala di cristallo. In questa pagina, la sala con le pareti azzurre e oro. Nella pagina accanto, la sala da pranzo.
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Una scala di colori
il colore della purezza e dell’innocenza, somma di tutti i colori, neutro che riflette tutte le tonalità, ma soprattutto uno straordinario background per spostare l’attenzione sui particolari. Il bianco si interrompe con l’arrivo del grigio, conservativo e neutrale, adatto ad essere impiegato come sfondo perché non interferisce con i colori che invece vogliamo mettere in rilievo, proposto nella splendida pavimentazione in pietra alberese del pianto terra, che presenta vene ed impurità calde, color ruggine, che richiamano l’oro. Questa pietra è stata magistralmente utilizzata anche per il rivestimento totale (pedata, alzata e parte sottostante dei gradini) della splendida e scenografica scala, donando l’effetto di un cubo di pietra. Il grigio si incontra con l’azzurro cenere macchiato con pigmenti a base di ottone per creare effetto oro, che ricorda la nebbia tra i pini, lo incontra nella parete della sala, lungo le pareti della scala e nella camera da letto padronale. Stesso colore che ritroviamo anche nei tessuti delle sedute della sala da pranzo, dove l’effetto oro è dato dalle punzonature del tessuto. L’effetto oro dona alla dimora un’atmosfera calda e una sorta di preziosità, la preziosità che domina il sentimento del ritorno all’origine in modo potente. L’oro è il leitmotiv della dimora, in tutta la sua grandezza, dai mobili alla rubinetteria dei bagni, dalla metallica degli elementi di arredo, come le cornici dell’armadio nella camera padronale alle borchie utilizzate per fissare la balaustra di cristallo della scala, fino ad arrivare ai corpi illu-
minanti a sospensione e a parete della Flos e di Artemide, tra i quali di particolare bellezza risulta il lampadario della scala, pezzo unico, progettato appositamente per questa parte della casa e fornito da Format Design di Imola. Ogni particolare è frutto di un’attenta progettazione fin nei minimi dettagli: lo studio della posa del pavimento, il disegno delle foglie color oro nei decori a parete e dei rivestimenti dei bagni e dei tessuti delle sedute e del divano, e degli arredi su misura, come il bellissimo mobile della zona cucina totalmente in ottone bocciardato a mano realizzato da Conti Arredamenti di San Lazzaro (BO). Il tutto viene impreziosito dall’utilizzo di pezzi di arredo e opere d’arte appartenenti da generazioni alla proprietà, come le cornici barocche e la splendida scrivania del ‘600. Altro elemento basilare è stato lo studio della domotica che rende automatico l’edificio in toto, la dimora diviene intelligente, con il supporto delle nuove tecnologie, che permettono la gestione coordinata, integrata e computerizzata degli impianti tecnologici, delle reti informatiche e di comunicazione, migliorando la gestione, il comfort, la sicurezza e la qualità dell’abitare. La maestria del progettista si è sposata con quella di tutte le ditte che hanno collaborato alla realizzazione della casa, si ricordano la Ditta Orioli Spa, E.R.Lux e Visani di Forlì, per gli arredi esterni la Ditta Gambi di Ravenna, per i complementi di arredo dal sapore etnico Beautiful Shop di Milano Marittima e per il giardino che circonda la casa Flora 2000 di Bologna.
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In questa pagina, la camera da letto.
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UN’IMMOBILIARE ESCLUSIVA Engel&Völkers, leader internazionale negli immobili di pregio.
Guardare oltre i confini. Questo in sintesi l’obiettivo di Engel & Völkers il marchio leader nel settore immobiliare dedicato all’intermediazione di abitazioni di pregio che, nel corso degli ultimi 40 anni, ha ottenuto un posizionamento di successo attraverso un sistema di franchising che ad oggi conta oltre 800 agenzie in 33 paesi e 4 continenti. La filosofia di Engel & Völkers segue le dinamiche di un mercato in costante evoluzione con una visione a lungo termine, senza però dimenticare i valori fondamentali: competenza, esclusività e passione. A parlarcene è Francesco Quintavalla titolare dell’agen-
zia di Riccione in Viale Dante 88 che, forte del successo ottenuto dall’apertura della sua attività, festeggia oggi il suo primo anno di attività. Da Carpi a Riccione per un progetto di franchising con un importante marchio internazionale di Real Estate. All’inizio è stata una scelta famigliare, mia moglie ha origini romagnole e, dopo un’attenta analisi del mercato locale, ho ritenuto che Riccione fosse senz’altro il luogo adatto: mancava un punto di riferimento rispetto ad un mercato immobiliare di un certo livello. Come descriverebbe la filosofia e i principali obiettivi del vostro brand?
Engel & Völkers è specializzata nella consulenza e vendita di immobili esclusivi con caratteristiche e connotazioni di pregio. Cerchiamo di rispondere alle aspirazioni dei clienti più esigenti, sia in privato che in un contesto di business, a livello internazionale e locale, nello specifico operiamo attraverso una selezione delle proprietà più prestigiose della riviera romagnola e dell’entroterra riminese. Il nostro obiettivo è quello di promuovere e incrociare domanda e offerta in maniera personalizzata e con la massima professionalità. Dietro c’è un lavoro di squadra. Siamo un team che lavora in maniera coordinata alla realizzazione dei progetti. Il nostro obiettivo è quello di continuare a crescere insieme e assistere i nostri clienti con servizi eccellenti e la migliore consulenza, non solo per progetti di compravendita, ma anche di locazione. Crediamo inoltre nel valore delle collaborazioni con partner locali, tra i quali, il Riviera Golf Resort di San Giovanni in Marignano, Bartorelli Gioiellerie, Rimini System Integrator e la Galleria d’Arte Augeo Art Space di Rimini con i quali abbiamo organizzato l’evento “Art & Properties” che si terrà il 15 luglio, presso il nostro shop di Riccione.
Viale Dante Alighieri, 88 - Riccione (RN) - Ph: +39 0541 418 819 riccione@engelvoelkers.com - www.engelvoelkers.com/riccione
Monica Gasperini
MONICA GASPERINI il debutto su ArteMest. testo Lucia Lombardi - foto Riccardo Gallini
Debutta sul sito di e-commerce ArteMest la collezione di mobili dell’architetto Monica Gasperini. L’obiettivo? Diffondere la bellezza del design e dell’artigianalità italiana ad una clientela internazionale.
I sogni son desideri che si avverano anche quando li tieni nel cassetto, così come è successo a Monica Gasperini, architetto di talento, energica portatrice di novità. Della quale il 29 giugno, una collezione di mobili, 15 lussuosi oggetti tra tavoli, separé, cabinet e lampade, debutterà per la prima volta su ArteMest, sito di e-commerce che cura l’eccellenza italiana del design. Un autorevole network online di aziende che custodiscono l’antica sapienza italiana del fare artigianale, su cui compaiono 230 designer e artigiani, 5.000 prodotti, distribuiti in ben 60 Paesi nel mondo. L’intenzione è di far diventare ArteMest l’Eataly dell’arredamento italiano, un luogo, virtuale o fisico che sia, in cui poter valorizzare l’eccellenza italiana. L’architetto Gasperini, è stata scelta durante un giro di ricognizione in Italia del team dell’orafa fiorentina Ippolita Rostagno, fondatrice nel 2014 di questo importante sito con il cuore a Milano e la testa a New York. L’idea è quella di diffondere la bellezza del design e dell’artigianalità italiana ad una clientela internazionale. Inoltre ad ArteMest i partner vengono supportati in tutto e per tutto andando a colmare le lacune commerciali, digitali, di marketing e talvolta di sviluppo-prodotto che rendono l’artigianato italiano di lusso sempre meno competitivo a livello internazionale. Attualmente è il più grande e autorevole network online di aziende artigianali di alto livello e intendono continuare ad espandere la loro clientela per rilanciare l’artigianato autentico rappresentato in Italia da migliaia di piccole realtà. “Il decoro è tornato alla ribalta, racconta Gasperini, così come l’esigenza di un arredo più ricco, la cura per il dettaglio e i colori accesi e decisi.” È alla luce di questa considerazione che questi 15 pezzi unici, vengono portati alla luce, realizzati su esclusivo disegno della progettista, sono pensati per un pubblico raffinato, che ama investire su collezioni rare e speciali. L’80% dei clienti del circuito ArteMest, appartiene al mercato americano mentre il restante 20% appartiene ad un mercato europeo e arabo, inserendosi in un circuito di clientela legato al mondo dello spettacolo, a Hollywood e al jet-set internazionale. Persone che amano l’effetto scenografico, prediligono ricevere in casa, facendosi creare spazi accoglienti e rappresentativi del loro status. È proprio a quell’America da cui prende vita un personale gusto estetico al cinema e si riversa per le strade delle metropoli che occhieggia la collezione della nostra designer, un gusto Art Déco
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Monica Gasperini
In apertura, la designer Monica Gasperini. Qui a fianco, alcuni mobili della sua collezione, disponibili su ArteMest.
rivisitato in chiave moderna, dove i colori sono accesi, come il blu pavone, andando a sottolineare anche l’importanza dei tessuti scelti, così come nelle avanguardie storiche europee. Oggetti esclusivi, pezzi unici, che creano atmosfere uniche, ricche di allure. Osservare gli oggetti creati dalla designer, permette di entrare in una dimensione altra, di sentirsi in un film dei Telefoni Bianchi, sognare tutto un contesto stiloso. Ogni oggetto creato, infatti, sia esso un tavolino, una lampada a sospensione o da tavolo, in marmo screziato, apre come una porta ad un immaginario epico e ci permette di fantasticare, progettare un ambiente unico, solo nostro. I materiali pregiati scelti da Monica per la sua collezione sono quattro, declinanti con fantasia e combinati armoniosamente tra loro. Il tessuto di seta jacquard per esempio, è stato scelto per caratterizzare il paravento, in blu e oro, o grigio e argento piombo dall’effetto intarsiato. Oggi è estremamente importante nell’industria serica, poiché permette la creazione di disegni complessi, rendendolo utilizzabile per molteplici impieghi e innumerevoli fantasie. Ottone oro spazzolato o argentato, velluti pregiati, sete, tessuti rigorosamente italiani, specchi, marmo Calacatta oro per i tavoli, le cabinet e per i separé, marmo Noir Saint Laurent per le preziose lampade in stile Secessione Viennese, sono i materiali prediletti per la Collezione Gasperini e declinati tra loro come in un canto polifonico. Un’armonia estetica che grazie a questa global company si riverbera portando il Made in Rimini a spasso per il mondo.
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Pavimenti in legno per interni • Legno e composito per esterni • Scale in arredo e su cemento • Boiserie • Case in legno • 100% Made in Italy
Showroom: Via dei Mestieri, 3 · Godo di Russi · Ravenna · Tel. 0544 419707 · info@arteparquethouse.it · www.arteparquethouse.it
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LA RIVOLUZIONE DEL 3D Clinica Santa Teresa, moderna odontoiatria.
In un mondo che va sempre più verso il 3D, anche l’odontoiatria segue questa tendenza. Con un sistema di software e di attrezzature che dialogano in 3D, il risultato che si ottiene è un sorriso in un’unica seduta con il massimo della precisione e il minimo disagio per il paziente. Ci si lascia alle spalle, dunque, i metodi artigianali e le abilità del medico sono integrate con la programmazione e il controllo tipici dei processi industriali di precisione. Un’assoluta novità è rappresentata dal sistema integrato “Cerec-Galileos”, che permette di elaborare diagnosi in 3D, da un lato, e pianificare i trattamenti chirurgici e protesici dall’altro, partendo da un’impronta digitale
e dalla Tac di ultima generazione: Tac Cone Beam. A parlarne è il Dottor Fabio Fusconi, odontoiatra esperto nell’applicazione di queste metodiche di ultima generazione della Clinica dentale Santa Teresa di Ravenna. Quale novità rappresenta il sistema integrato “Cerec-Galileos”? «Consente di poter effettuare diagnosi in 3D e non più in 2D, grazie alla con Tac Cone Beam e all’impronta digitale, per poi adottare una terapia chirurgica computer-guidata che consente una precisione submillimetrica, che non è propria dell’uomo, ma solo delle macchine, e infine la fabbricazione, prima dell’intervento, di manufatti protesici biocompatibili.
Con il sistema “Cerec-Galileos” oggi è possibile pianificare ognuna delle fasi in un sistema integrato che dialoga in 3D». Può spiegare nei dettagli cosa avviene? «Nella prima fase diagnostica, le immagini tridimensionali della bocca del paziente, vengono rilevate sia con la Tac Cone Beam “Galileos” che con l’impronta digitale “Cerec”. Il Galileos, è un apparecchio radiografico CBCT (Cone Beam Computer Tomografy) di ultima generazione con tecnologia digitale, che permette di avere immagini in 3D volumetriche e con dosi radiologiche 70 volte meno di una Tac tradizionale. Il “Cerec” è composto sia da una telecamera per rilevare un’immagine in
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3D della bocca del paziente, che da un software che l’odontoiatra utilizza per la progettazione in 3D dei denti. Successivamente i dati vengono inviati al fresatore “Cerec” ad alta precisione che estrae da un blocchetto di ceramica i denti finiti. Quindi non utilizziamo più le impronte tradizionali, che sono fastidiose per il paziente e otteniamo una precisione assoluta, una maggiore velocità di esecuzione, e un risultato estetico migliore, ma soprattutto un risultato biocompatibile eccellente perché non si adoperano più i metalli, talvolta causa di inestetismi. I manufatti protesici sono praticamente indistinguibili da quelli naturali». Con questo nuovo metodo, cosa è possibile realizzare? «Corone, ponti, intarsi, ma possiamo anche migliorare il sorriso dei nostri pazienti con l’odontoiatria estetica delle faccette. Il professionista, sempre durante la fase diagnostica, utilizza il software 3D per ottenere tutte le informazioni necessarie riguardo i volumi, la qualità e la quantità dell’osso del paziente, informazioni fondamentali per la successiva fase chirurgica in cui
vengono inseriti gli impianti dentali. L’odontoiatra implantologo, infatti, grazie al software di programmazione in 3D, progetta in modo virtuale la posizione degli impianti in bocca con una precisione e predicibilità di posizionamento che non è possibile se effettuato con il solo occhio umano del professionista. Il risultato della pianificazione chirurgica è un manufatto che si chiama mascherina chirurgica 3D, che in fase di intervento di implantologia viene posizionata in bocca al paziente. L’uso di questa metodica consente di ottenere due grandi vantaggi: il chirurgo non effettua né tagli e non mette punti di sutura, perché gli impianti dentali vengono messi con la tecnica “flapless”; si ottiene la massima precisione in termini di posizionamento degli impianti sia in senso verticale che di inclinazione e di profondità». Che differenza c’è rispetto agli altri sistemi computer guidati? «Gli altri sistemi computer-guidati non sono in grado di eseguire tutte le procedure in maniera digitale, ma si devono affidare in alcune fasi ancora all’artigianalità del laboratorio odontotecnico poiché il
manufatto protesico è basato su modelli in gesso ricavati dalle impronte tradizionali prese sulla bocca del paziente». La metodologia computerizzata riduce i tempi di trattamento implantologico? «Sì. Basti pensare che dopo una seduta di poco più di un’ora, nella quasi totalità dei casi viene montata al paziente la sua nuova protesi fissa sostenuta dagli impianti appena inseriti – la cosiddetta tecnica a carico immediato – dandogli la possibilità di non stare mai senza denti e di tornare a una vita sociale fin da subito: sorride immediatamente!». Un vero e proprio passaggio alla moderna odontoiatria… «Sì. Significa passare da operatori che usano tutta la loro abilità ed esperienza nelle fasi chirurgiche espletando interventi a mano libera, a operatori che – se assisti dal computer – eseguono l’intervento con la precisione submillimetrica. Un processo delicato e complesso che, se ben codificato, permette all’operatore di esprimere la sua esperienza non solo nella fase dell’intervento chirurgico, bensì, nelle fasi diagnostiche e durante la pianificazione pre-chirurgica del caso».
Ravenna - Via De Gasperi, 61 - Tel. 0544 240255 - www.clinicadentalesantateresa.it Faenza - Via Della Costituzione, 28/A - Tel 0546 664807 Facebook: Clinica Dentale Santa Teresa
Birrificio Amarcord
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Birrificio Amarcord
BIRRIFICIO AMARCORD una lanterna in vetro e larice.
testo Lucia Lombardi - foto Mariani Architetti
Il quartier generale del birrificio Amarcord porta in sé architettonicamente i valori in cui crede la sua birra: l’arte, le materie prime d’eccellenza e la valorizzazione del territorio. Un progetto architettonico dal concept scandinavo, elegante e proporzionato.
Una “lanterna in vetro e larice” illumina il quartier generale del Birrificio Amarcord, realizzato dall’architetto Fabio Mariani. Un progetto architettonico dal concept scandinavo, che “non assolve solo richieste di tipo funzionale determinate dalla necessità di nuovi spazi per aumentare e migliorare la produzione della birra, ma evoca e amplifica il messaggio che Amarcord intende portare al mondo – spiega l’architetto –, infatti questa piccola estensione del birrificio di circa 100 mq è costruita come una teca trasparente per ospitare e rendere protagonista il tino-filtro, vero cuore dell’impianto di produzione.” La sua forma sinuosa, in pieno accordo con la natura circostante, sembra un nautilus, una conchiglia primordiale, un omaggio al mare, alla vita, all’acqua, in riferimento ai natali rivieraschi della Birra Amarcord, ed è pensata come un abito, cucito su misura per il macchinario principale di forma cilindrica. La scansione regolare dei grandi e alti pilastri dona monumentalità al volume, subito stemperata dalla forma asimmetrica e dai materiali semplici sinceri privi di orpelli, rendendo il tutto elegante e proporzionato. Una teca, fatta di materiali veri, genuini così come accade alla birra Amarcord. Cemento, vetro e legno; acqua, luppolo, malto. Ogni materiale scelto esprime contemporaneamente forma, funzione, finitura, creando un dialogo, una corresponsione totale tra gli elementi, un canto armonico. Per questo motivo, ad esempio, è stato scelto il larice per i grandi pilastri alti oltre 9 metri, poiché esso è un legno adatto a sopportare gli agenti atmosferici senza bisogno di alcun trattamento: “Il larice è un materiale sincero, invecchia naturalmente senza deteriorarsi”; il legno torna nei pallet del piazzale in netta assonanza con il rivestimento degli uffici, la verticalità delle scale degli uffici richiama i pilastri del tino-filtro. Il vetro si è scelto quale sinonimo di trasparenza, di quella nitidezza offerta dalla visione aperta sull’ambiente circostante e viceversa, donata dalle vetrate della zona produzione; le trasparenze collocano visivamente il tino-filtro nel paesaggio ameno circostante, donando un notevole effetto di naturalità scenografica. In base alle scelte effettuate, la struttura architettonica diventa essa stessa portatrice dei valori in cui crede la Birra Amarcord: valori dell’arte, delle materie prime di eccellenza, della valorizzazione del territorio. Diventa alfabeto, restituendo un linguaggio architettonico vero ed espressivo. L’altro elemento
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Birrificio Amarcord
preponderante è l’Acciaio, l’architetto Mariani lo ha scelto quale sinonimo di una “tecnologia al servizio dell’uomo e di una produzione artistica del prodotto, atto a rappresentare la professionalità nel mantenimento di un elevatissimo standard di produzione senza compromessi dal primo all’ultimo litro prodotto”. Il contesto ambientale ha giocato un ruolo importante nel dettare input estetico-funzionali. Lo stabilimento, infatti, è circondato da rilievi boschivi, donando forti suggestioni emotive in Mariani e nella proprietà. “Il progetto evoca una lanterna proprio perché al calar della sera i profili scuri delle montagne pare vogliano chiudere quel poco di luce che emana la volta celeste, allora, come accade nelle fiabe, anche la flebile luce di una lanterna è capace di vincere le tenebre, le paure. Il cammino di un’azienda seppur florida è sempre complicato, come al giorno si alterna la notte, così alle vittorie si alternano le sconfitte, le delusioni. Così nasce l’idea di una lanterna di legno e vetro per illuminare il cammino del birrificio Amarcord, una luce che illumini il cammino della nostra vita anche nei momenti bui”. In questi anni l’architetto Fabio Mariani è stato coinvolto dalla Amarcord in vari progetti, raccontando in modo coerente la storia di questo birrificio: lo stabilimento, gli uffici, gli stand fieristici, i gourmet pub, sono tutti caratterizzati dall’utilizzo di materiali veri (cemento, legno, vetro, ferro, impianti a vista), utilizzati per ciò che sono senza sofisticazioni. Andrea Bagli, CEO di Birra Amarcord (e figlio di Roberto Bagli), ci racconta di aver scelto l’estro dell’architetto Mariani perché è “uno dei massimi esperti in Italia di bioarchitettura (lavora sui concetti di giardini pensili, verde verticale, efficienza energetica tramite l’uso di risorse naturali) ed ha grande senso estetico. Ovviamente ci interessava fare in modo che anche l’edificio del birrificio si armonizzasse col meraviglioso contesto dei boschi di querce, da una parte, e garantire la massima trasparenza, a testimonianza dell’assoluta genuinità delle nostre lavorazioni. Se ci si ferma sul bordo della strada in un qualsiasi giorno dell’anno si possono vedere i nostri birrai all’opera, senza nulla da nascondere! Mariani nel 2015 ha progettato anche il blocco nuovo degli uffici, con i medesimi materiali (legno e vetro) per massima naturalezza e trasparenza, valori che caratterizzano il nostro lavoro ed il grande rispetto per la natura.”
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In queste pagine due vedute dello stabilimento del birrificio Amarcord progettato dall’architetto Fabio Mariani ed un dettaglio delle loro bottiglie di birra.
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