Tariffa R.O.C., Poste Italiane spa - Sped. in abb. postale, D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1,DCB Forlì - Reg. Tribunale Forlì 6/9/2011 n. 410
Anno XLVI - N. 1 - aprile 2013 • Abbonamento annuo euro 20,00 - Sostenitore euro 26,00
IN PRIMO PIANO
La bibliotecaforlivese comunale di Forlì nella storia. Novecento
EVENTI PER MOSTRE ANDAR
L’anima verde Forlì. vale più del segno Giovanni Pini: di il colore
DOSSIER
Le radici, il futuro, le bandiere. Wildt, l’anima e le forme da Michelangelo a Klimt
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SOMMARIO
IN PRIMO PIANO
editoriale
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La biblioteca comunale di Forlì nella storia di Paolo Rambelli
EVENTI 08 L’anima verde di Forlì di Veronica Franco
Panorami della crisi
dossier 10 Le radici, il futuro, le bandiere di Mario Proli
RICORDO 17 Gianni Cinciarini, omaggio all’artista di Rosanna Ricci
ANDAR PER MOSTRE 18 Sguardi d’autore di Rosanna Ricci
MUSICA 20 L’Orfeo di Casella al Diego Fabbri di Stefania Navacchia
STORIE 22 La fantasia al centro di Camilla Veronese
FORLì UNDERGROUND 24 Lasciati trasportare di Mario Proli
IN CAUDA VENENUM 26 Panorami della crisi di Ivano Arcangeloni
«IL MELOZZO» Già Periodico del Comitato Pro Forlì Storico-Artistica, Forlì Primo numero 14 marzo 1968 Direttore: Rosanna Ricci Edizioni In Magazine srl via Napoleone Bonaparte 50, 47122 Forlì tel. 0543 798463 - fax 0543 774044 Stampa: Graph S.N.C. - San Leo (RN) Uscita trimestrale. Reg. al Tribunale di Forlì il 6/9/2011 n. 410 Redazione: Rosanna Ricci, Roberta Brunazzi, Mario Proli, Paolo Rambelli, Giorgio Sabatini, Gabriele Zelli. In copertina il capolettera di un codice miniato conservato nella Biblioteca “Saffi” di Forlì. Hanno collaborato a questo numero: Ivano Arcangeloni, Roberto Balzani, Alessandro Fogli, Veronica Franco, Stefania Navacchia, Valerio Varoli, Camilla Veronese.
Quando ho visto in tabaccheria una mama senegalese, con il suo variopinto abito tradizionale, consultare la smorfia napoletana per trarne i numeri da giocare al lotto, ho capito che la questione cominciava a diventare seria. Fino a quel momento non avevo mai fatto caso alle due arcigne vecchiette sedute su scomodi sgabelli in un angolo del negozietto che tentavano la sorte a colpi di slot-machine. Una monetina via l’altra, le ore passano allegramente nell’attesa che dal monitor finalmente una voce amica ti dica: complimenti, hai vinto! Complimenti, finalmente la tua vita è cambiata! Non devi più spremere dalla magra pensione l’eurino per le tue giocate, non devi più lesinare sulla spesa, contare i giorni che ti separano dal primo del mese, sospirare nella lunga attesa della tredicesima. Adesso finalmente sei ricca, e la vita ti sorride. Purtroppo quella scritta non arriva. E a sera ti ritrovi senza più un euro in tasca. Perché di euro in euro si sono squagliati tutti, divorati dall’insaziabile, demoniaca macchinetta. Quelle monetine ci hanno sempre fregato. Un euro, poiché è di ferro e non di carta, sembra niente, due euro pure, ma son pur sempre quattromilalire. Che una volta ti ci compravi quasi una bistecca. Adesso niente, schifano anche alla senzatetto cui li lasci in elemosina fuori dal supermercato. Si può anche capire che dopo una vita di
sofferenze e sacrifici per far quadrare i conti, dopo le peripezie per tentare di estrarre, dal magro stipendio prima e dall’esigua pensione poi, di che campare dignitosamente, uno, perché stufo, perché alla tv ti raccontano che un altro mondo è possibile, perché per strada ti fermano dicendoti che si può per sempre vivere in una terra paradisiaca, possa alla fine sbottare e gridare: basta! Adesso tocca a me! Mi spettano di diritto i cinquecentomila euro del gratta e vinci di turno. Perché me li merito più di altri. Perché li saprei spendere bene, per il bene mio e dei miei cari. Ma, ahinoi, ogni speranza, per quanto legittima, deve fare i conti con le dure leggi del calcolo delle probabilità. Il quale ci insegna, in poche parole, che gli eventi sfortunati sono molto più probabili di quelli lieti. Ma questo lo sapevamo già. Solo che quando ci sediamo davanti alla slot-machine ce ne dimentichiamo. E speriamo. Speriamo che quell’uno su un milione sia proprio io, perché in fondo, diciamocelo chiaramente una buona volta, io più di altri me lo merito. La dea bendata però fa le bizze, implacabile conta le vincite seguendo le ferree leggi del calcolo, che in particolare ti condanna nelle prove ripetute. Che sono poi quelle indotte dalle sempre più numerose sale-giochi, aperte in ogni angolo della città. (Segue a pag. 26)
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IN PRIMO PIANO
La biblioteca comunale di Forlì nella storia di Paolo Rambelli La storia della biblioteca comunale di Forlì ha inizio nel 1750 quando il conte Marcantonio Albicini destinò alla pubblica fruizione la sua collezione di testi giuridici. Il conte non la lasciò in realtà alla municipalità, bensì alla congregazione dei Padri Vincenziani, che però non vollero farsene carico, così come non vollero farlo nemmeno i rettori del Seminario Vescovile, destinatari ulteriori del lascito testamentario. Intervenne allora “la Comune nostra” – come scrive Sesto Matteucci nelle sue Memorie storiche del 1843 – che, “non volendo perdere questo dono […] chiese ed ottenne il libero ed esclusivo possesso di questa libreria dalla santità di Papa Clemente XIII, che ne emise il relativo chirografo li 30 agosto 1759”. Per arrivare al “pubblico” il fondo dovette attendere, però, ancora quasi vent’anni, perché il Comune ne cedette l’uso all’istituendo Liceo Ginnasio - propiziato a sua volta da un altro lascito testamentario, quello di Vincenzo Cesarini Mazzoni del 1764 - che vide la luce solo nel 1777, sotto la direzione - mediata da una commissione moderatrice - del Vescovo. Con l’avvento di Napoleone, e della Repubblica Cisalpina, nelle legazioni pontificie, la gestione delle scuole pubbliche passò alle municipalità, e così accadde anche al Liceo Ginnasio ed alla sua biblioteca, per la quale si cominciò quindi a pensare ad un assetto autonomo, viste anche le dimensioni raggiunte dal suo patrimonio grazie all’acquisizione dei beni librari ed archivistici dei conventi e delle corporazioni religiose soppresse. A dirigere la biblioteca fu chiamato Giuseppe Giudici, cui successe già nel 1801 Melchiorre Missirini, che pur essendo uno degli intellettuali più in vista del tempo (oltre che segretario e biografo di Antonio Canova) non riuscì a renderla realmente operativa, sia per l’infelicità della collocazione (poche stanze - più magazzini che sale di consultazione - in Municipio) sia per la scarsa attenzione delle autorità (come avrà modo di verificare anche il grande naturalista Cesare Majoli, coin-
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volto nella gestione della biblioteca una prima volta nel 1803, se è vero - come scrive Mezzomonaco in Weekend a Forlì - che giunse a dimettersi perché non veniva “neppure rimborsato delle spese che andava sostenendo di tasca sua”). Le cose andarono meglio quando Majoli venne chiamato nuovamente ad occuparsene nel 1811, dopo il trasferimento delle collezioni presso alcuni locali del convento di San Filippo (ora in parte demolito, in parte rifunzionalizzato per il Consultorio Giovani e la Medicina Scolastica), già sede di altre istituzioni formative e culturali, tra cui scuole elementari e musicali, lo stesso Liceo Ginnasio e, nel 1809, la sala in cui si esibiva una Società Filodrammatica. Majoli, assistito da Pietro Paolo Pasquali, che gli sarebbe poi succeduto, si impegnò a ordinare i volumi per materia e a dotare la biblioteca di uno schedario mobile per autori (tuttora in uso), oltre che a promuovere l’acquisizione di nuovi fondi come la raccolta di stampe e disegni della famiglia Brandolini - Dall’Aste. Sempre nei primi decenni del secolo sarebbe stata assunta la decisione - scrive ancora Mezzomonaco - di trasferire la biblioteca a Casa Chellini, ma con ogni probabilità il palazzo di via Marcolini dovette limitarsi a funzioni di “mero deposito librario”. Ben altro rilievo ebbe invece la decisione assunta nel 1836, ma perfezionata solo nell’estate del 1841 con l’apertura al pubblico, di trasferire la biblioteca al primo piano del Palazzo della Missione (ora sede dell’amministrazione provinciale): una sorta di ritorno alle origini, visto che il Palazzo era stato voluto nel 1713 dal card. Fabrizio Paulucci per la congregazione di San Vincenzo de’ Paoli e ospitava dal 1815 il Liceo-Ginnasio. Qui alla biblioteca fu affiancata la pinacoteca, che cominciò a prendere forma nel 1838 attorno al nucleo di opere pervenute alla municipalità sempre in seguito alle soppressioni napoleoniche, dando così vita ad un originale contenitore culturale a tutto tondo. La biblioteca era arrivata a contare a questo punto, siamo nel 1841, circa 13.000 volumi, numero destinato a crescere rapi-
La sala dei Corali della Biblioteca “Aurelio Saffi” di Forlì.
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IN PRIMO PIANO
I mesi di luglio ed agosto dall’Officium Beate Marie Verginis, codice miniato del 1385 conservato nella biblioteca civica.
damente grazie ai finanziamenti messi finalmente a disposizione dalla municipalità (300 scudi, saliti poi fino a 600), tanto che nel 1863 i documenti erano già diventati 38.000 e comprendevano - oltre ai manoscritti illustrati dello stesso Majoli
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- autografi di Cobelli e del Novacula, un album di Canova e preziose edizioni del Torrentino, dei Giunti, di Marcolini, di Manuzio e di Bodoni. Nel 1868 la biblioteca si arricchì di altri 8.000 volumi grazie alle nuove soppres-
sioni post-unitarie, mentre l’anno successivo veniva fondata la Biblioteca Popolare allo scopo, in particolare, di istruire “artieri, operai e studenti”, dalla quale avrebbe avuto quindi origine, nel 1965, la sezione moderna intitolata ad Alessandro Schiavi. Del processo di “democratizzazione” della cultura avviatosi con lo stato unitario fu segno non meno evidente la nomina a direttore della biblioteca, nel 1888, non più di un nobile o un ecclesiastico, ma di un professore di liceo - per di più repubblicano - come Giuseppe Mazzatinti, il cui nome si sarebbe poi legato - ancor più che all’intitolazione della biblioteca ad Aurelio Saffi nel 1890 - all’ideazione e iniziale compilazione degli Inventari dei manoscritti delle biblioteche d’Italia, la cui importanza trova conferma nel fatto che la collana prosegue ancora oggi - dopo oltre un secolo - per i prestigiosi tipi della Olschki. A Mazzatinti, che resse la biblioteca fino al 1906 incrementandone il patrimonio (furono superati i 75.000 volumi) e il prestigio (grazie all’acquisizione delle raccolte di autografi di Morgagni, Matteucci e Maroncelli), succedette Benedetto Pergoli, cui spettò quindi il compito di curare il trasferimento della biblioteca nella sua sede attuale - il Palazzo detto del Merenda, dal nome del suo progettista - che aveva ospitato fino al 1920 l’Ospedale civile. Lo spostamento nella nuova sede - ultimato nel 1922 - non consentì solamente di acquisire nuove raccolte (come quella di Tommaso Nediani), ma anche di riservare per intero alcune sale alla collezione più importante donata alla “Saffi”, quella destinata ad assicurarle fama a livello internazionale: il Fondo Piancastelli. Alla donazione eseguita in vita, nel 1933, Carlo Piancastelli ne fece infatti seguire una ancora più ampia per lascito testamentario, dotando la “Saffi” della più ampia raccolta di autografi (oltre 11.000 pezzi dal XII al XVII secolo, oltre 50.000 del XIX), pergamene (800 esemplari), disegni e stampe (più di 20.000), manoscritti (907 volumi) e carte (173.000 le Carte Romagna, 50.000 quelle della sezione Risorgimento), volumi a stampa (55.000, di cui 1.000 di stampatori romagnoli, tra
Sotto, studi e schizzi di Antonio Canova conservati nel Fondo Piancastelli della Biblioteca “Aurelio Saffi” di Forlì.
Un caffé per la Piancastelli?
cui incunaboli e cinquecentine), spartiti musicali (più di 350) e cartoline (15.000 esemplari) riconducibili all’ambito geografico e culturale della Romagna, per tacere della quadreria (con opere di Palmezzano e Innocenzo da Imola) e del monetiere (pressoché senza pari per le monete romane, in particolare d’epoca imperiale). Al Fondo Piancastelli sono seguite nel secondo dopoguerra molte altre donazioni (come l’archivio di Diego Fabbri, il fondo Ronchi e i carteggi Turati-Kuliscioff) ed acquisti (come l’archivio Beltramelli), contribuendo a portare la biblioteca “A. Saffi” agli oltre 600.000 documenti che costituiscono oggi il suo patrimonio, fermo restando che la “Piancastelli” continua ad essere non solo il suo fondo più prezioso, ma anche la sua principale ragione d’essere. Chi volesse saperne di più sulla storia della biblioteca può cominciare dai saggi di Vittorio Mezzomonaco e Vanni Tesei raccolti rispettivamente in “Weekend a Forlì” (Forlì, 2000) e “I manoscritti datati della provincia di Forlì-Cesena” (Firenze, 2006).
Il 29 novembre 2012 è crollato il controsoffitto di una delle sale di Palazzo Merenda riservate al Fondo Piancastelli. Fortuna ha voluto che nessuno si facesse male, ma il Fondo è stato immediatamente chiuso e in seguito, a causa del pericolo di nuovi crolli, sono state chiuse numerose altre sale, tra cui quella che ospita la Collezione Verzocchi. Forlì ha così perso in un colpo solo la possibilità di consultare le sue due collezioni più importanti. L’analisi delle responsabilità è stata subito soverchiata dalle strumentalizzazioni personali e politiche, e quindi preferiamo astenercene (salvo invitare alla lettura illuminante, per non dire risolutiva, di Chi ha ucciso Sarah? di Andrej Longo), per cercare di contribuire alla soluzione di altri due casi, ovvero che cosa sono la Saffi e la Piancastelli e cosa possiamo fare per impedire che vadano perdute. Le due cose ci sembrano infatti collegate: se i forlivesi sapessero cosa rischiano di perdere forse parlerebbero meno ed agirebbero di più. Come stanno facendo dal resto d’Italia e dall’estero. Premesso quindi il minino contributo alla conoscenza della storia della Saffi e delle sue collezioni offerto in queste pagine, segnaliamo ai lettori - aderendovi noi per primi l’iniziativa che va prendendo forma in biblioteca con la collaborazione del Fondo per la Cultura, ovvero una raccolta fondi straordinaria per finanziare - nell’emergenza - un primo progetto di recupero e salvaguardia del Fondo Piancastelli. L’idea, dicevamo, non è venuta dall’intellighenzia locale, ma da un gruppo di studiosi italiani e nord-americani che erano soliti frequentare la Piancastelli e che hanno capito subito la gravità del fatto e l’urgenza di intervenire. Ma non è mai troppo tardi, e anche i forlivesi possono dimostrare di aver compreso che la Piancastelli non appartiene al Comune e tanto meno a chi lo amministra, ma che si tratta di un Bene Comune di cui tutti abbiamo la responsabilità, facendole una donazione, per quanto modesta, anche solo il costo di un caffè: Forlì ha più di 100.000 abitanti, se solo tutti gliene offrissimo uno…
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eventi
L’anima verde di Forlì di Veronica Franco Dopo l’inedito - ed in verità inatteso almeno nelle dimensioni - successo della Notte Verde Europea dello scorso maggio, Forlì si è andata scoprendo un’anima verde di cui non era ben cosciente e di cui non ha ancora certamente messo a frutto tutte le potenzialità, anche e soprattutto sul piano economico, ma che sta cominciando a dare i primi risultati, oltre che sul piano locale, su quello nazionale ed internazionale. A metà marzo, ad esempio, Forlì è giunta terza - dopo Vancouver e Uppsala - al concorso internazionale indetto dal WWF “Earth Hour city challenge” (cioè “Città amiche del clima”) per il suo “Piano Clima” che prevede la riduzione del 25% delle emissioni climalteranti entro il 2020 attraverso azioni concrete come l’istallazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, la raccolta “porta a porta” dei rifiuti, la promozione del riutilizzo per alcune categorie merceologiche (come i pannolini lavabili) e le misure di mobilità sostenibile (come il bike sharing). Sempre in marzo Forlì ha preso attivamente parte alla creazione della prima “area vasta” in Regione della qualità dell’aria, promuovendo insieme ai Comuni di Cesena, Faenza, Ravenna e Rimini, ed alle rispettive province, una domenica ecologica che è riuscita a coinvolgere l’intera Romagna e che è stata quindi doverosamente intitolata “Respira l’aria della Romagna”. Sempre in tema di concorsi, l’associazione GAIA, insieme al Comitato di Quartiere di San Pietro, è risultata vincitrice del concorso regionale “Giovani per il territorio” con un progetto di valorizzazione dell’area verde Giardini Orselli, mirato a farne la principale “porta verde” in pieno Centro Storico. Dal 2 di marzo, ogni primo sabato del mese i Giardini Orselli ospitano infatti laboratori gratuiti e aperitivi a tema con l’obiettivo di coinvolgere i forlivesi in un percorso che, partendo dalla creazione di un orto urbano, li riavvicini alle tradizioni contadine, riportando in città un tipo di agricoltura ecosostenibile. Cresce quindi l’attesa per la seconda edizione della Notte Verde, che si è fusa
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“La natura ci guarda”: uno degli alberi “osservatori” della edizione 2012 della Notte Verde Europea.
Sotto, una vettura ecologica alla Notte Verde 2012 (Foto Sabatini).
In basso, riunione operativa del comitato organizzatore della Notte Verde 2012 ai Giardini Orselli.
quest’anno con l’iniziativa “Arte di innovare” e che quindi animerà il centro storico di Forlì per due giorni ed una notte il 17 e 18 maggio sotto il comune titolo - e denominatore - di “L’Innovazione responsabile. S-Legàmi”. Se il venerdì si concentrerà sui momenti convegnistici (con interlocutori del valore di Gunther Paoli, Enzo Rullani, Vincenzo Balzani e Stefano Zamagni), il sabato vedrà esplodere la creatività con più di 70 eventi tra spettacoli, mostre, concerti, presentazioni, conferenze, bar-camp, visite guidate e manifestazioni sportive. Tra i nomi già confermati vi sono quelli dei Têtes de Bois col palco a pedali (il primo concerto interamente alimentato a dinamo), Alessandro Bergonzoni, l’Orchestrona della Scuola di Musica Popolare di Forlimpopoli, Città di Ebla e il compositore Giacomo Manzoni. Durante i due giorni (e la notte) della manifestazione vi saranno inoltre un’area espositiva riservata alle imprese ed una dedicata a mercatini e degustazioni a km 0. E, ancora, seminari, laboratori (uno dei quali, per chi non soffre di vertigini, a cura della compagnia “Eventi Verticali” protagonista lo scorso anno dello spettacolo sul campanile di San Mercuriale) ed un ampio spazio creativo per i bambini e i genitori a cura del Centro Famiglie del Comune di Forlì. Per seguire in tempo reale l’evoluzione del programma cfr. www.arteinnovare.it
il concorso internazionale indetto dal wwf “hearth hour city challenge” ha premiato la città di forlì per il suo “piano clima”, inserendola tra le prime tre città più virtuose del mondo. 9
DOSSIER
Le radici, il futuro, le bandiere
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Bandiere, stand e musica in piazza Saffi, in occasione del pranzo patriottico del 2 Giugno 2011.
di Mario Proli Stretti nella morsa della crisi più profonda che l’Italia e le nazioni democratiche europee stanno attraversando dalla fine del secondo conflitto mondiale - crisi morale e politica prima ancora che economica - nel marzo 2013 sono emerse dalla nostra terra spunti interessanti che devono innescare riflessioni e spronare volontà di riscatto. Pubblichiamo testi e foto in questo dossier perché possano generare ulteriori energie. Iniziamo con il ricordo di Aldo Spallicci e dalle energie che il 40° anniversario della sua scomparsa, avvenuta a Premilcuore il 14 marzo 1973, ha messo in moto. Perché proprio a Premilcuore, Comune che insieme a Portico di Romagna si contende il primato del minor numero d’abitanti e della localizzazione più distante dai ritmi dinamici della pianura (caratteristiche, non necessariamente problemi), è stata presentata la nuova bandiera dell’Unione dei Comuni della Romagna Forlivese ispirata ad un vessillo ideato da Spallicci nella primavera del 1922. Aldo Spallicci, cultore e promotore per antonomasia dell’identità, delle tradizioni popolari e dello spirito della Romagna, è stato ricordato con una manifestazione pubblica aperta dal saluto del Sindaco del paese dell’alta valle del Rabbi Luigi Capacci. Quindi il professor Valerio Varoli ha tracciato un profilo biografico del combattente e difensore delle istituzioni repubblicane mentre la memoria del medico-parlamentare con a cuore la Romagna è stata descritta dall’intervento del Sindaco di Forlì Roberto Balzani. I testi sono corredati anche da foto scattate nella mattina di domenica 17 marzo quando, a partire dalle ore 8,30, Forlì ha festeggiato in Piazza Saffi l’anniversario dell’Unità d’Italia, coinvolgendo i cittadini in una colazione patriottica a base di caffé, tè e biscotti tricolore, concerti (con un Trio di professori dell’Istituto Musicale “Angelo Masini” e il Coro Città di Forlì) e la cerimonia dell’alzabandiera. A guidare l’iniziativa è il titolo “La Nazione ha sempre bisogno di nuove albe”, che ha rilanciato l’impegno nel sostenere e nel promuovere i valori dell’identità nazionale.
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DOSSIER
Aldo Spallicci assieme a Mario Colletto.
“Sfolgorio di fedi e d’ideali” Intervento del professor Valerio Varoli in ricordo di Aldo Spallicci nel 40° anniversario della sua scomparsa (Premilcuore, 14 marzo 2013)
In una composizione dialettale e autobiografica, “Scuregna ad me”, c’è un verso “bsugneva fê chicosa” al quale Spallicci poco oltre fa seguire “e alora a sò partì”. Mi sembra che questi due versi sintetizzino bene l’imperativo morale al quale Spallicci si attenne nelle varie circostanze della sua vita. La necessità di coniugare pensiero con azione la individuiamo già in una sua lettera del 1907. É la lettera, pubblicata su “L’idea socialista”, con la quale Spallicci si rivolse ai redattori del foglio “Lo studente” il cui motto tratto da D’Alembert era “Andate innanzi e la fede verrà”. Il contenuto non programmatico non piacque a Spallicci tanto che rivolse a quei redattori la domanda: “Forse che voi non sentiste mai nell’empito delle vene pulsare i vostri vent’anni, non sentiste col Cavallotti l’entusiasmo delle sante cose, non vibraste con Ada Negri allo sfolgorio di fedi e d’ideali?” Ecco dunque che nel ventunenne studente universitario c’è già l’entusiasmo delle sante cose da corroborare con una fede e un ideale. Non so se l’ancor più giovane Spallicci fosse accorso a Forlì nel 1902 e se nella folla avesse assistito alle onoranze funebri rese ad Antonio Fratti caduto a Domokos. È però un dato di fatto che, cinque anni dopo la rampogna ai redattori di quel giornaletto studentesco, Spallicci appena laureato, da poco felice sposo, mosso dalle stesse motivazioni che erano state di Fratti, Spallicci - dicevo - si aggregò ai volontari garibaldini accorsi a dar manforte ai greci nuovamente minacciati dalla Turchia. Dinamismo garibaldino, fervore intellettuale, adesione al Partito Repubblicano caratterizzano l’azione di Spallicci. L’anno prima della partecipazione garibaldina in Grecia aveva dato vita al bisettimanale “Plaustro” col proposito di caratterizzare l’identità romagnola e di conferire dignità culturale al suo dialetto, al suo artigianato, ai suoi costumi. L’intento di Spallicci va oltre i saggi benemeriti del Bagli su “i proverbi, gli usi, i pregiudizi e la poesia popolare in Romagna” e ben
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oltre ancora rispetto all’importante raccolta effettuata quasi un secolo prima da Placucci (non tutta farina del suo sacco come si è assodato) il cui scopo dichiarato era quello di render noti gli usi, i costumi e i pregiudizi dei contadini per il “solazzo (...) specialmente dei Villeggianti”. Altro dunque l’approccio spallicciano, come ho detto: ne fa fede tra l’altro l’essersi rivolto al giovane semiologo austriaco Friedrich Schürr ottenendone due saggi sul dialetto romagnolo, pubblicati il primo nel 1911 e il secondo due anni dopo sempre sul “Plaustro”. Covavano intanto, e stavano per deflagrare, i contrasti causati dalle mire espansionistiche tedesche e dalla reazione dell’impero austroungarico alle spinte irredentiste dei popoli che lo componevano. Le belle menti di Spallicci e di Schürr s’avviavano a trincee contrapposte. Già nel ‘14 Spallicci partecipava alla spedizione garibaldina nelle Argonne in appoggio ai francesi attaccati dai tedeschi. Poi, con l’ingresso dell’Italia nel conflitto, eccolo nelle vesti di sottotenente medico a fianco dei romagnoli, “i Gialli del Calvario”. Una esperienza di cui i suoi taccuini di guerra ci restituiscono l’intensa commossa partecipazione. Da quell’esperienza Spallicci traeva la convinzione che quei “suoi” combattenti costituissero una sorta di aristocrazia di popolo e una risorsa da non disperdere. Cercando di interpretare il pensiero di Spallicci, quegli uomini col proprio sacrificio s’erano sbarazzati tanto delle categorie in cui Guglielmo Ferrero li aveva descritti, “i violenti e fraudolenti”, quanto dagli stereotipi di irriducibili rivoltosi e nemici degli ordinamenti costituiti di cui s’erano avvalsi i governi per emanare le leggi liberticide dell’ultimo decennio del 1800. Una risorsa dunque da non disperdere e da utilizzare per rendere più evidente quell’identità territoriale romagnola che Spallicci con la rivista “La Piê”, fondata nel ‘20, evidenziava con più incisività che sul “Plaustro” assecondato in ciò che da alcuni intellettuali di vaglia quali Beltramelli e Zama. Una risorsa, quella dei combattenti, che Spallicci riuniva nella Federazione Romagnola della cui bandiera e giornale parlerà Balzani tra poco. Perciò oltre non vado: salvo chiedermi se con la costituzione di quella federazione Spallicci tentasse
pure di trattenere nell’orbita repubblicana interventisti e combattenti romagnoli onde evitare che venissero attratti e fagocitati dai mussoliniani Fasci di combattimento nati nel marzo dell’anno prima con la riunione di piazza San Sepolcro a Milano. In quell’agitato dopoguerra si stavano approssimando eventi che avrebbero originato uno dei più travagliati periodi di transizione politica vissuti dall’Italia. E, mentre la “La Piê”, mantenendo una non facile equidistanza dai contendenti politici, riusciva a mantenere le pubblicazioni fino alla soppressione del ‘33, l’attività della Federazione dei Combattenti non andava oltre il 1926, non potendo il regime permettere che esistesse una organizzazione di tal genere al di fuori dell’egida e del controllo fascista. Ed anche non potendo più oltre tollerare la presenza in Romagna del presidente di quella federazione, Spallicci, di cui era ormai palese l’avversione al sistema dittatoriale. È in tale atmosfera ostile, ricevute minacce e qualche violenza fisica, che in quello stesso 1926 Spallicci era costretto con la famiglia a trasferirsi a Milano, lì sempre accuratamente sorvegliato dalla polizia. Un vero e proprio domicilio coatto. Negli anni di permanenza a Milano reimpostava l’attività professionale di pediatra e si dedicava alla stesura di saggi sulla medi-
I Sindaci presentano la nuova bandiera dell’Unione dei Comuni della Romagna Forlivese, ispirata ad un vessillo ideato da Spallicci.
cina. Nonostante la sorveglianza della polizia riusciva a mantenere collegamenti con gli amici romagnoli.Di più, come ho potuto accertare tempo addietro, con qualche stratagemma riusciva a sottrarsi a quella sorveglianza compiendo rapide visite a Forlì ora ospitato dal tipografo Cesare Strumia ora dai Zanotti i titolari del calzaturificio omonimo. Poi la guerra. Nel 1941, sulla base di qualche sospetto sulle amicizie contratte e sui suoi movimenti lo si condannava per breve tempo al confine in Irpinia. Sfollato a Milano Marittima, nel 1943, veniva tradotto alle carceri di San Vittore a Milano, ma il giorno dopo il 25 luglio era al balcone del municipio di Forlì insieme ad Alessandro Schiavi e a Cino Macrelli a parlare a una enorme folla plaudente la caduta del fascismo. Il dramma però non era giunto ancora a compimento. L’enigmatico “la guerra continua” del proclama di Badoglio, lo sfaldamento dell’esercito, la formazione di nuclei armati di partigiani, la Resistenza armata e la non meno importante Resistenza clandestina non armata. È in quest’ultima che Spallicci partecipava contribuendo all’attraversamento della linea del fronte da parte di alti ufficiali inglesi che erano stati prigionieri fino all’armistizio. Un’impresa di rilevante importanza il cui buon esito ebbe riflessi militari ed anche politici successivamente. Dopo il passaggio del fronte, dalla emittente radiofonica dell’8^ Armata inglese, Spallicci esortava gli italiani delle regioni ancora occupate a contribuire alla loro liberazione. Con la fine delle ostilità Spallicci non si metteva a riposo. Tutt’altro. Se si scorrono le pagine del diarista forlivese Antonio Mambelli si viene a sapere di innumerevoli conferenze, discorsi, commemorazioni tenute da Spallicci per ogni dove, specie in Romagna. Era riconosciuto l’esponente repubblicano di maggior spicco non solo in Romagna. A proposito delle annotazioni giornaliere del Mambelli, mi piace leggere quella del 24 dicembre 1945 per quel sapore di attualità che si ritrova in essa. “24 dicembre 1945 - Ha luogo in Ravenna un convegno del comitato provvisorio della confederazione dei comuni romagnoli per l’auspicata creazione della regione autonoma e per i problemi del turismo e dell’assistenza. Vi fanno parte Aldo Spallicci, Pietro
Zangheri, Lucio Gambi, Ivo Pini e Cino Pedrelli di Cesena”. Mambelli commentava così: “Ove si addivenisse alla questione regionale una grossa questione solleverà la scelta del capoluogo. Ravenna, per il porto e la storia, Forlì per l’ubicazione e l’industria hanno titoli ciascuna importanti”. La riflessione del cronista forlivese rammenterà a tutti voi le recenti contrastanti dichiarazioni suscitate dal progetto di “Provincia unica”. Chiuso l’inciso. Dall’annotazione che vi ho letto si ricava che Spallicci non aveva abbandonato l’idea dell’autonomia regionale romagnola. Anzi, di lì a poco ne diveniva il propugnatore nell’Assemblea Costituente, essendovi stato eletto come deputato repubblicano nel giugno 1946. Con quell’impegno ideale egli dava il suo contributo in particolare alla definizione degli articoli relativi al Titolo V della Carta Costituzionale, per l’appunto, “Le Regioni, le Province, i Comuni”. Quella battaglia autonomistica non otteneva il risultato desiderato, ma Spallicci non demordeva. Continuava infatti ad agitare il problema e su la rivista “La Piê” e come Senatore della Repubblica, dalla prima nomina del ‘48 per continuare nei cinque anni successivi alla rielezione del 1953. Stava maturando in quegli anni un significativo mutamento nel quadro politico italiano. Fatti internazionali ne erano all’origine, vicende nazionali contribuivano a renderlo necessario. Intendo riferirmi al centro-sinistra. Ebbene nel 1961 a Forlì si costituiva la prima amministrazione comunale di centro-sinistra, preceduta in Regione da quella costituitasi a Piacenza. Furono tre sedu-
te consiliari, quelle forlivesi, piuttosto accese. Roventi gli interventi di consiglieri comunisti, improntati a cautela quelli dei capogruppo il democristiano Mattarelli e il repubblicano Vitaliano Mambelli. Cautela che derivava dalle divisioni interne ai due partiti. Ad esempio nel PRI pesava non poco l’atteggiamento ostile assunto da Spallicci nei confronti del nuovo corso politico propugnato da La Malfa. Il centro-sinistra comunque si realizzò a Forlì e tre anni dopo pure a livello di governo nazionale. A quel punto il dissenso spallicciano si mutò in aperta contrarietà. Non tanto nei confronti del Partito Socialista (aveva cari amici sia in quel partito come in quello socialdemocratico), quanto piuttosto per il secco rifiuto della connessione tra politica ed economia che diventava sempre più evidente, con l’intenzione di nazionalizzare l’energia elettrica e di modificare la legge urbanistica. C’era inoltre in Spallicci il timore, l’avversità che il verbo mazziniano potesse essere contaminato da quello marxiano. Per questo insieme di motivi nel 1964 Spallicci lasciava il PRI e l’anno dopo aderiva al movimento centrista promosso da Randolfo Pacciardi. Dava inoltre vita alla pubblicazione di “Avvenire e Fede” dove con durezza di linguaggio criticava le iniziative del governo di centro-sinistra, nonché lo stesso PRI ch’egli non esitava a definire “un doppione del partito socialista”. Con “Avvenire e Fede” riecheggia “lo sfolgorio di fedi e d’ideali” con cui abbiamo iniziato il nostro dire. Pochi anni dopo il mondo rurale, di cui Spallicci s’era fatto paladino per decenni, era in via di dissoluzione. E Spallicci, quaranta anni or sono, proprio qui, come quel mondo si spegneva.
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dossier
Un’alzabandiera curata dal 66° Reggimento Fanteria Aeromobile Trieste.
Inaugurazione della bandiera dell’Unione dei Comuni della Romagna forlivese, in occasione del XL anniversario della morte di Aldo Spallicci intervento del sindaco di Forlì Roberto Balzani (Premilcuore, 14 marzo 2013)
Cari Amici, grazie per essere presenti qui, oggi. Perché qui e perché oggi? Quarant’anni fa, a Premilcuore, moriva Aldo Spallicci: l’uomo a cui la Romagna del Novecento deve la sua memoria culturale. Senza di lui, avremmo avuto - come altre regioni - brandelli di patrimonio, lacerti di storie remote, frammenti di poesia e di musica. Spallicci ha ridato voce e ricordo a un popolo che lo stava perdendo. Un popolo che, al pari di tutte le comunità contadine d’Italia, dopo la prima guerra mondiale era soggetto ai rapidi processi di omologazione e di standardizzazione culturale della modernità. Quindi, onore ad Aldo Spallicci. E qui ringrazio il Sindaco e poi il prof. Valerio Varoli per l’ospitalità e per il contesto allestito per l’occasione. E per le parole dette. Spallicci, il 19 marzo 1922, presso il capanno di Garibaldi, vicino a Ravenna, inaugura la bandiera dei Combattenti di Romagna. Si avvicina la fine di un percorso, per lui e per i suoi amici. I Combattenti, cioè la nuova aristocrazia del popolo che - nel lavacro della guerra - ha maturato coscienza delle origini e della identità romagnola, stanno per essere sopraffatti dalla “marea fascista”. E allora che cosa fa Spallicci? Per segnare la distanza dai simboli neri dell’arditismo, dai teschi e dai pugnali fra i denti, crea una bandiera per la Romagna del futuro. Una bandiera di pace, non di guerra. Una bandiera per costruire, non per distruggere. Perché il raccoglimento e la memoria delle trincee e dell’eroismo devono essere, ai suoi occhi, la molla morale per rifare in meglio il nuovo mondo: attingendo alla profondità semplice della vita normale dei contadini e degli artigiani, depurata dalle scorie del materialismo, dell’ideologia e della violenza. Ascoltiamo le parole dello stesso Spallicci,
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pronunciate quel 19 marzo 1922, mentre cominciava una nuova primavera: “Abbiamo tolto dalle vostre camicie garibaldine il rosso della fede infiammata di Romagna, e l’abbiamo unito a un lembo d’azzurro dei nostri cieli. Mani di gentildonne hanno su questo campo sereno, trapunto in fila d’oro un fregio della nostra schietta arte popolare. E a sommo dell’asta non l’arme acuminata della lancia, ma il simbolo armonioso del lavoro agreste, ma il
trofeo musicale che accompagna cantando la fatica dei dissodatori del solco. Ponete attenzione a questo: il vessillo dei romagnoli che la guerra han combattuto e vinto non s’adorna di segni d’odio e di morte, non leva sotto l’arco dei cieli il pugnale o la bomba a battistrada della sua marcia di rinnovamento che intende avviare nel paese, ma trae dall’esempio romano il classico legionario ritornante all’aratro il segno del suo cammino.
In alto, gli Alpini mostrano i biscotti tricolore preparati per la colazione patriottica in piazza Saffi.
Il nostro dolce legame, combattenti di Romagna, viene dalla terra delle nostre battaglie e il nostro destino che ci volle antesignani sui nuovi confini della patria ci impone, romanamente, il quadrato di terra della nostra fatica quotidiana. Sotto ogni zolla della nostra terra, sotto ogni metro quadrato tolto alla palude è l’avvenire. Sulle nostre braccia e sulle nostre anime intente passa il domani della patria”. Questo il suo grande disegno. Incompreso. I tempi e i cuori vanno in tutt’altra direzione. E la bandiera dei Combattenti viene velocemente dimenticata in un museo. Il nostro Museo del Risorgimento. L’azzurro, col trascorrere del tempo, diventa bianco. Ma il resto c’è. Ora l’abbiamo rifatta. Eccola, sull’asta originale, esattamente uguale. (E l’originale lo restaureremo). Perché? Perché se, nel 1922, il tema era il “ritorno alla terra”, oggi il tema è il “ritorno al territorio”. Ma come tornarci? Anche noi usciamo da un conflitto economico mondiale. Non ci sono i 600.000 morti, ma c’è un contesto morale, psicologico che è post-bellico. La perdita del Paese, in termini produttivi e finanziari, assomiglia da vicino a quella di una guerra perduta. E abbiamo bisogno di ricostruire. Come? Lo facciamo non più a partire dalla Romagna contadina, che pure ci piace e vogliamo difendere, ma dall’organizzazione del territorio. L’Unione dei Comuni a 15 è un unicum nella Regione Emilia-Romagna. è una grande sfida. Altri territori, in Emilia, non hanno voluto giocarla, questa sfida, e ora il quadro dei poteri territoriali là si presenta ancora caotico e indecifrabile. Noi, invece, abbiamo deciso di stare insieme, puntando sulla solidarietà, ma prima di tutto su un progetto culturale comune. Perché se non ci sono simboli, se non c’è una base di passione in quello che facciamo, nessuno ci seguirà. Non possiamo pensare di saldare l’Unione, mettendo insieme i servizi o spostando i funzionari. E basta. C’è chi pensa di poter controllare il territorio facendo la carità ai Comuni, come un munifico signore rinascimentale. Ti do i soldi e così cerco di alimentare l’idea di fare una politica territoriale. Io sono contrario a questo approccio, venga esso da istituzioni pubbliche o private. Io credo che un territorio debba dire
quello che vuole essere con orgoglio e con convinzione. E poi debba cercare le risorse e gli atti di generosità vera – non di carità pelosa – per affermarsi come soggetto della storia della comunità. Per questo abbiamo ripreso la bandiera di Spallicci. Perché racconta la tradizione. Perché è di pace e non di guerra (nonostante sia il frutto del dolore di una guerra). E perché, infine, ci indica una Romagna futura che parte del basso. Contro gli egoismi. Contro le plutocrazie. Contro i ricatti di una politica davvero lontana da quello che sentiamo e viviamo intimamente noi tutti.
Sotto, il concerto “Canti del Risorgimento” del Coro Città di Forlì, adulti e voci bianche, diretto dal Maestro Nella Servadei Cioja.
La bandiera sarà riprodotta. E, tutti insieme, andremo in ogni Comune a consegnarla al Sindaco e al popolo di quel Comune. Partire da Premilcuore è stato bellissimo. Si riannoda così una tradizione, i cui capi sono stati brutalmente slegati dal fascismo nel 1922. Un omaggio a Spaldo e ai suoi bei ragazzi in grigioverde, che sono i nostri antenati. E un omaggio alla nostra terra. Perché, come diceva Gustav Mahler, la “tradizione è la custodia del fuoco, non l’adorazione della cenere”. E noi vogliamo custodire e alimentare il fuoco. Viva la Patria! Viva la Romagna! Viva l’Unione dei Comuni!
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RICORDO
Gianni Cinciarini, OMAGGIO ALL’ARTISTA
Gianni Cinciarini in compagnia di Tonino Guerra.
di Rosanna Ricci Ha lavorato fino all’ultimo Gianni Cinciarini, pur consapevole della grave malattia che lo aveva colpito. A sostenerlo era l’amore per l’arte, che non lo aveva mai abbandonato e non lo abbandonò neppure negli ultimi giorni di vita. Quell’amore lo aveva sedotto fin da giovanissimo, nella sua amata Pesaro, in cui era nato nel 1943. Qui, infatti, aveva conseguito la maturità artistica all’Istituto d’arte “Ferruccio Mengaroni”; qui aveva appreso i primi insegnamenti di scultura sotto la guida dei maestri Loreno Sguanci e Giuliano Vangi; qui, nel 1960, era stato uno dei fondatori del gruppo di pittura e scultura “Il camaleonte”. Da allora per Cinciarini ci fu una progressiva e totale immersione nel campo dell’arte: non però nella sua città, ma a Forlì, esattamente all’Istituto Statale d’Arte, visto che nel 1962 l’artista vinse il concorso per la cattedra di materie artistiche. Alla mente vivace e alla personalità poliedrica di Cinciarini, però, questo non bastava: nell’istituto d’arte forlivese creò anche la sezione Metalli, che prevedeva insegnamenti come cesellatura, oreficeria, microfusione. Per lui l’arte significava ricerca continua, voglia di conoscere e di sperimentare sempre cose nuove. Non stupisce perciò sapere che, nel 1964, si trasferì per un anno a Parigi dove ebbe modo di approfondire le sue personali conoscenze artistiche. Cinciarini fu un artista a 360 gradi: incisore, pittore (la chiesa di San Biagio a Forlì conserva una lunetta da lui dipinta assieme a Mario di Cicco), orafo e scultore. Le opere pubbliche da lui realizzate a Forlì e per Forlì sono stati soprattutto monumenti e bassorilievi esposti in luoghi pubblici, come la grande scultura che rappresenta un carabiniere in via delle Torri (collocata vicino a quella che reca la firma del suo grande amico, Tonino Guerra), i bassorilievi nella scuola Diego Fabbri, nell’Istituto Tecnico Industriale, nell’Auditorium della Cassa dei Risparmi di Forlì e nella filiale di San Martino in Strada; e poi le sculture nel Parco della Pace, nell’Ospedale Morgagni, nello studentato
Sant’Anna, nella palestra di via Isonzo. Con Pesaro lo scultore aveva mantenuto frequenti rapporti personali ed artistici: nel dicembre 2010, ad esempio, espose all’Alexander Museum Palace Hotel della città quattro opere posizionate nell’ingresso del museo, accanto ad opere di artisti del calibro di Giò Pomodoro, Enzo Cucchi, Sandro Chia, Mimmo Paladino e Gino Marotta. Un’altra attività pregevole in cui l’artista è riuscito a dimostrare tutta la sua abilità è stata quella dedicata agli oggetti di oreficeria e alla realizzazione di opere di piccole dimensioni, come le numerose medaglie celebrative (ricordiamo quelle per don Pippo, i 200 anni dell’arrivo di Napoleone a Forlì, Carlo Piancastelli, Giovanni dalle Bande Nere, il Giubileo, la beatificazione di Padre Pio), eseguite con grande perizia tecnica e notevole espressività artistica. Cinciarini fu dunque un docente (e anche vice-preside dell’Istituto d’Arte forlivese) assai stimato; come artista non gli mancarono premi di prestigio ottenuti in concorsi e inviti a partecipare a biennali e a mostre d’arte. Tra i premi ottenuti per le sue qualità, già
nel 1968 gli venne conferita la medaglia d’oro dell’artigianato provinciale forlivese. La forma espressiva delle opere di Cinciarini è ispirata alla sintesi dell’immagine, prediligendo talora elementi geometrici precisi, in grado di modulare piani e luci sempre con grande equilibrio ed armonia. La cultura, l’umanità e la sensibilità dimostrate dall’artista, nelle sue opere ma anche nella vita quotidiana, fanno sì che il ricordo di Gianni Cinciarini rimanga vivo, oggi e domani, nella città.
STORIA DI UN ARTISTA POLIEDRICO, INCISORE, PITTORE, ORAFO E SCULTORE. una scultura di cinciarini, raffigurante un carabiniere, è collocata in via delle torri accanto ad un’opera firmata dal suo grande amico tonino guerra. 17
Andar per mostre
SGUARDI D’AUTORE
Figura femminile di Carlo Ravaioli, dalla collezione “Identikit”.
di Rosanna Ricci
GLI IDENTIKIT DI CARLO RAVAIOLI S’intitola “Identikit” la mostra che il pittore forlivese Carlo Ravaioli ha allestito in autunno a Forlì e portato ora a Dovadola. Un’arte, quella di Ravaioli, di notevole qualità sia come inventiva sia come preciso e raffinato spessore tecnico, dimostrato fin dalle prime opere. Ha poi raggiunto livelli sempre più esponenziali, man mano che aumentava l’esperienza e si perfezionavano le tecniche. Nato a Ravenna, Carlo Ravaioli vive e lavora a Forlì. Pur nella riservatezza del suo impegno artistico è assai conosciuto per la sua ampia esperienza come pubblicitario, fotografo, illustratore e fumettista. Abbiamo ammirato i suoi labirinti di stanze, il senso di solitudine dei suoi personaggi, l’inquietudine di una scena che ha chiari riferimenti con la situazione di oggi riletta attraverso le simbologie di una fertilissima immaginazione. La mostra attuale ha però abbandonato la rappresentazione di stanze e case fatiscenti per concentrare invece l’attenzione sui ritratti femminili. Anche in questo caso non mancano simboli, tuttavia i ritratti sono legati fra loro da alcuni elementi comuni: tutte le opere hanno le stesse dimensioni, lo stesso fondo scuro, gli stessi colori, gli stessi atteggiamenti, gli abiti con macchie, nessun sorriso sui volti. L’attenzione è rivolta soprattutto agli occhi e alle mani, realizzate con precisione anatomica. Nell’immobilità dei gesti queste figure trasmettono il loro “doppio” e talora, in modo ancor più evidente, la “second life”, ossia l’immagine di come uno vorrebbe essere nel corpo, nel viso, negli occhi. Si tratta di una figura immaginaria presa a prestito dall’iconografia mediatica o semplicemente costruita nella mente della donna che vuol “apparire” diversa da ciò che in realtà è, e qui sta il conflitto di un identikit che cela sempre una seconda verità. In questo caso il silenzio che avvolge l’immagine emana un senso di malessere: gli occhi hanno una voce, e lo stesso avviene nelle pieghe della pelle e nella posizio-
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ne delle dita delle mani. Anche se in modo impercettibile tutto genera comunicazione, in particolare gli stati d’animo. “La tecnica dell’identikit - spiega Ravaioli serve per materializzare i ricordi, fotografare i sogni e dare un corpo a voci senza
volto”. Ne deriva un’immagine colma di mistero, una figura immobile, seria, che genera forti emozioni, perché è come se il ritratto indagasse l’animo dell’osservatore e non si sa più chi dei due abbia sul volto la maschera. In questo palcoscenico “i
Una ceramica del MIC di Faenza in mostra al Palazzo del Monte di Pietà.
personaggi tendono ad imitare la vita reale senza copioni da seguire”, sono burattini che cambiano e, nello stesso tempo, rimangono se stessi, in una identità che, in ultima analisi, è sempre sconosciuta. Le immagini di Ravaioli sanno comunicare questo paradosso con l’efficacia, l’eleganza e la sapienza che da sempre contraddistinguono l’operare dell’artista.
la scultura ceramica del XX secolo Il MIC (Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza) ha presentato uno spaccato sulla scultura ceramica dal secondo dopoguerra ai giorni nostri in una mostra dal titolo “Sguardi sulla scultura ceramica del XX secolo”, allestita fino al 14 aprile nelle sale del Palazzo del Monte di Pietà di Forlì, in corso Garibaldi 37. Curata da Claudia Casali, direttrice del MIC, la rassegna ha messo in luce i linguaggi contemporanei legati alla ceramica collegandosi, in tal modo, con la grande mostra sul Novecento ospitata nei Musei San Domenico. La ceramica, ritenuta una forma di artigianato e non tanto di arte, venne rivalutata
soprattutto nel secondo dopoguerra grazie a grandi artisti come Picasso, che ne rinnovarono completamente il linguaggio. La mostra antologica del 1953 dedicata a Picasso sviluppò il cosiddetto “picassismo”, che influenzò artisti come Tono Zancanaro e Salvatore Meli. Lo stesso avvenne con Fontana, che portò la sua poetica spazialista anche nelle opere in ceramica. Da parte sua Leoncillo Leonardi, in un primo tempo neocubista e picassiano, scelse lo stile informale, che ebbe notevole influenza su Zauli, Fantoni, Sassi, Zannoni, Tsolakos, Nanni Valentini, Giacinto Cerone. Negli anni ‘70 ai vari stili presenti si aggiunse un forte rigore formale di derivazione giapponese. Molti artisti nipponici, infatti, parteciparono al Premio Faenza distinguendosi per un’essenzialità di forme che trovarono riscontri anche in Guerrino Tramonti, Nino Caruso, Alessio Tasca. Occorre poi ricordare lo stile “pop” presente in Leoni, Nespolo, Recalcati, Echaurren, Salvatori, Guerrero. Tutto questo dimostra la nuova dimensione che ha assunto la ceramica diventando, a tutti gli effetti, un’arte contemporanea. Nella mostra forlivese sono presenti scultu-
re, fra le altre, di Leoncillo Leonardi, Nanni Valentini, Carlo Zauli, Alfonso Leoni, Luigi Ontani, Ugo Nespolo, Sebastian Matta, inseriti nella sezione “Grandi maestri”. Una seconda sezione accoglie invece le opere dei partecipanti al concorso internazionale dell’arte ceramica “Premio Faenza”, ritenuto il più importante evento di questo genere a livello internazionale dedicato alla maiolica. Sono presenti opere del giapponese Suhearu Fukami, della svizzera Petra Weiss, dell’americano Paul Donhauser, del lettone Juris Bergins. Ricordiamo infine che il Mic è stato fondato nel 1908 da Gaetano Ballardini e che raccoglie antichi reperti di area mesopotamica del V millennio a.C., opere dal lontano Oriente, dall’America precolombiana e dal Rinascimento, fino a capolavori di grandi artisti contemporanei fra cui Picasso, Matisse, Chagall, Léger, Burri e Fontana, per un totale di oltre 60mila opere. Durante la seconda guerra mondiale il museo fu quasi interamente distrutto dai bombardamenti; ricostruito nel 1952 oggi è diventato un “unicum” per la straordinaria qualità delle opere che conserva.
Il Monte prima del Monte Dai lavori di restauro e ristrutturazione del Palazzo del Monte di Pietà di corso Garibaldi, promossi dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì per farne la propria sede, è emersa la storia di un isolato urbano di particolare importanza per Forlì. I lavori portarono alla luce anche tanti reperti: ultimato il restauro degli oggetti rinvenuti durante la campagna di scavo, sono ora esposti stabilmente nei sotterranei del Palazzo del Monte, vetri e ceramiche medievali e rinascimentali posti in quegli stessi luoghi che li hanno celati e conservati per secoli e nei quali sono stati scoperti. L’esposizione permanente è stata inaugurata lo scorso 5 aprile; è visitabile tutti i giorni, dal lunedì al venerdì, su appuntamento.
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MUSICA
L’Orfeo di Casella al Diego Fabbri di Stefania Navacchia Un appuntamento che all’interno della stagione concertistica del Comune di Forlì è legato alla mostra Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre è La favola di Orfeo, opera da camera di Alfredo Casella, che andrà in scena al Teatro Fabbri il prossimo 19 maggio. La rappresentazione sarà il momento culminante di un progetto più ampio. Ce lo presenta Filippo Tadolini, presidente dell’Associazione “Forlì per Giuseppe Verdi” che promuove la riscoperta del lavoro di Casella. Presentiamo brevemente l’Associazione... “Il 9 Novembre 1944, all’1,45 di notte, una bomba fece crollare la Torre Civica di Forlì sul sottostante Teatro Comunale, creando una frattura tra la città e il melodramma. L’associazione culturale ‘Forlì per Giuseppe Verdi’ nasce nel 2001 con l’obiettivo di restituire alla città le emozioni perdute del teatro d’opera: affinché il canto lirico a Forlì non venisse completamente dimenticato, si sono realizzati numerosi eventi musicali, concerti e conferenze, per far tornare l’opera sul principale palcoscenico cittadino, quello del ‘Diego Fabbri’”. Come è nato il progetto su Casella? “Forlì deve puntare sulla produzione artistica degli anni ’20-’40, che se analizzata con dovuto distacco politico ed ideologico mostra la sua unicità. Lo dimostrano le recenti iniziative, come la mostra al San Domenico (dove è esposto un ritratto di Casella, opera di Felice Casorati), o il progetto ‘Atrium’ sull’architettura dei regimi totalitari. Ci è parso quindi opportuno valorizzare, anche sotto il profilo musicale, quel Novecento da riscoprire”. Perché si è giunti alla scelta de La Favola di Orfeo? “L’opera è del 1932 e riporta alla luce il mito classico con nuove valenze espressive. Auspichiamo che il progetto possa essere di stimolo per insediare a Forlì un centro di studi e produzione sulla musica di quel periodo”. Quali obiettivi ha il progetto? “Si tratta di un Laboratorio Lirico Giovanile di Forlì finalizzato alla produzione, che
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manca nella nostra città probabilmente da quel lontano 1944. In questo caso, invece, in un periodo di dieci giorni circa a partire dal 9 maggio, proprio a Forlì i par-
Ritratto del compositore Alfredo Casella, dipinto da Felice Casorati: l’opera è attualmente esposta ai musei San Domenico, nella mostra dedicata al “Novecento”.
tecipanti al laboratorio approfondiranno lo studio de La Favola di Orfeo , guidati da docenti esperti, fino alla rappresentazione prevista per il 19. Si offre quindi agli
studenti di canto l’opportunità di studiare un repertorio inconsueto e affascinante, poiché si richiede uno stile interpretativo diverso da quello di Rossini, Bellini, Donizetti, Verdi, Puccini: è una novità per tutti. Le audizioni verranno fatte da una commissione competente, il 13 aprile all’Istituto Masini”. Poi si comincia… “Cominceranno gli approfondimenti d’interpretazione scenica e musicale tenuti da docenti e musicologici. La prima fase del laboratorio si concluderà domenica 12 maggio con una lezione-concerto aperta al pubblico alla Sala Sangiorgi dell’Istituto Masini: il professor Michele Girardi, docente di Drammaturgia Musicale all’Università di Cremona, parlerà dell’opera italiana del ‘900 e di compositori quali Pizzetti, Alfano, Malipiero, Respighi. La seconda fase sarà, invece, quella della produzione: i partecipanti svolgeranno le prove musicali e di regia per arrivare al debutto sul palcoscenico del Fabbri”. Che ruolo hanno i vari soggetti istituzionali? “L’associazione ‘Forlì per Giuseppe Verdi’ coordina il progetto, con specifica attenzione agli aspetti scenici e registici. All’Istituto ‘Masini’ e all’associazione ‘Bruno Maderna’ è invece affidata la direzione musicale, mentre la Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì cofinanzia il progetto come evento collaterale alla mostra sul Novecento”. Ci saranno anche insegnanti provenienti da fuori? “Sarà con noi il regista Ivan Stefanutti, che si occuperà degli insegnamenti di regia, interpretazione scenica e psicologia dei personaggi”. Il maestro Casella ha suonato a Forlì: cosa sappiamo di questo evento? “Venne chiamato dalla Società Amici dell’Arte nel dicembre 1933, un anno dopo ‘La Favola di Orfeo’. Il Trio Poltronieri – Bonucci - Casella si esibì al Teatro Comunale”. Come ci si iscrive al corso? “Il laboratorio è rivolto a cantanti di età inferiore a 40 anni. La modulistica è disponibile sul sito www.istitutomusicalemasini.it si può inviare, per posta o mail all’Istituto Musicale ‘Angelo Masini’ entro il 10 aprile”.
Area Sismica, una sfida vinta
di Alessandro Fogli
Area Sismica è un locale che, in più di vent’anni, ha scritto una pagina fondamentale della musica live d’avanguardia in Italia. Ma non è solo quello. Area Sismica è il concretizzarsi di un concetto, semplice ma allo stesso tempo imprescindibile in ambito artistico, per il quale è solo con una passione smisurata – a volte anche folle – che un progetto può davvero toccare il cuore delle persone. Una passione così c’era (e oggi ancor di più) già nel 1991, quando venne fondata l’associazione culturale Area Sismica con l’idea ben precisa di far scoprire musiche eterodosse e innovative attraverso concerti e tournée di artisti, principalmente stranieri, in una cittadina non esattamente al centro delle rotte musicali canoniche qual è Meldola. Eppure il Festival di Musiche Innovative ospitato dal teatro Dragoni funzionò alla grande, tanto che la cosa venne ripetuta ogni anno fino al 1994 (e poi nel 2000), con l’arrivo di personaggi del calibro di Dunaj, Octavo, Tactile o Arminius. Il buon successo del festival non basta però agli animatori di Area Sismica: si sente il bisogno di un contatto più prolungato con il pubblico, di vere e proprie rassegne musicali, dunque di un luogo fisso, vivibile il più possibile. Ecco allora che Area Sismica diviene ancora più concreta, con una sede fisica in via di Roma a Meldola nel 1993, aggiunge idee, proposte, crea progetti internazionali, collaborazioni volte all’integrazione etnica sul territorio, alza il tiro per quanto riguarda gli artisti invitati a suonare. E così, al suo decimo compleanno, nel 2000, si guarda indietro e quello che vede è quasi incredibile: grazie a loro sono arrivati in regione – ma spesso in Italia – personaggi come Evan Parker, Tom Cora, Fred Frith o Tadahiko Yokogawa. Realtà affermate (pensiamo solo a Volapuk o Iva Bittova) ma praticamente sconosciute approdano per la prima volta nel nostro Paese. Finalmente in Italia c’è un luogo dell’avanguardia. “Inutile descrivere o etichettare in un genere predefinito ciò che normalmente proponiamo – ci tengono a sottolineare i ‘padri’ di Area Simsica –, poiché è molto vario e spazia dalla musica contemporanea a quella tradizionale, dal jazz al rock. Il comune denominatore è il riuscire a spostare il confine dei vari generi musicali”. Per accettare nuove sfide Area Sismica nel 2001 si sposta da Meldola per accasarsi sulle vicine colline di Ravaldino in Monte, dove tuttora si trova. La location improbabile però non sarà mai un problema e il decennio che segue è altrettanto memorabile. Le proposte – così come le collaborazioni – si moltiplicano, la caratura dei concerti, se possibile, si eleva ancor di più. Da Ravaldino passano tutti: Bob Ostertag, Uri Caine, Rohan de Saram, Arto Lindsay, Elliott Sharp, Tim Berne, Han Bennink, Matthew Shipp, Rob Mazurek, Stefano Scodanibbio, Otomo Yoshihide, solo per citare a caso. Area Sismica è un’anomalia, un piccolo grande prodigio, una sfida vinta.
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STORIE
La Fantasia al Centro
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“Raperonzola” della compagnia Rosaspina. Un teatro.
“I quattro musicanti di Brema” della compagnia Teatro Nata.
di Camilla Veronese “Il cuore della città si trasforma nel villaggio delle bambine e dei bambini”: con questo slogan torna la manifestazione “Forlì città dei bimbi” che propone eventi e spettacoli per i più piccoli tutti i sabati pomeriggio dal 20 aprile all’8 giugno, con l’obiettivo di riportare “la fantasia al Centro”. Ad aprire la manifestazione sabato 20 dalle 15 alle 19.30 sarà il “Ludobus”, cioè un furgone carico di giochi in legno che sbarcherà in piazza Saffi per invogliare i bambini e i loro genitori a inventare, giocare, costruire, imparare, raccontare e ruzzolare. Il sabato successivo toccherà invece ai gonfiabili, ovvero ad una grande festa, sempre dalle 15 alle 19.30, con tanti giochi gonfiabili, palline colorate e reti elastiche. Entrambi i sabati i bambini dai 6 ai 14 anni potranno essere inoltre protagonisti del “Mercatino dei Bimbi” ospite dei Giardini Orselli per scambiare giochi, fu-
metti, collezioni o libri che non usano più (iscrizione obbligatoria al 347 6092758 o a mercatinobimbi@tartarugaservice.it). Nei due sabati del 20 e del 27 sarà inoltre possibile salire gratuitamente, dalle 15 alle 19, sul trenino dei piccoli facendo un acquisto nei negozi Forlì nel Cuore e ritirando così l’apposito coupon. Il trenino parte alle 15 dai Giardini Orselli e fermate ogni 30 minuti circa in via delle Torri (all’altezza de La Casina Bianca), Largo de Calboli (Piccoli Ribelli/Abitini), C.so della Repubblica (Megaforlì - Balloon Express – Rataplan), C.so Diaz (Momini) e C.so Garibaldi (Casadei Giochi). Da sabato 4 maggio prende quindi il via la rassegna “Il sabato dei ragazzi”, promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì presso il chiostro di Palazzo Talenti, in piazza Saffi, ad ingresso libero. Il primo appuntamento sarà il 4
maggio alle 17 con la compagnia Rosaspina. Un teatro ed il suo “Raperonzola”, teatro d’attore per bambini dai 4 ai 10 anni, cui seguiranno l’11 maggio, sempre alle 17, la compagnia Il Baule Volante con lo spettacolo di teatro d’attore, sempre per bambini dai 4 ai 10 anni, “Sogno di tartaruga”, il 18 maggio il Teatro Blu con “Ricordi di viaggio”, ancora una volta per bambini dai 4 ai 10 anni ma con la tecnica del teatro d’attore e di oggetti, e il 25 maggio nuovamente Rosaspina. Un teatro con “Hansel & Gretel”, rivolto a bambini più piccoli, dai 3 agli 8 anni. A giugno si torna ancora alla fascia 4-10 anni con “Pippi calzelunghe”, il primo del mese, a cura della compagnia Fondazione Aida, e con “I quattro musicanti di Brema (La vera storia del Rock n’ Roll)”, l’8 giugno, con la compagnia Teatro Nata.
FORLì UNDERGROUND
Lasciati trasportare di Mario Proli aterina - che le amiche chiamavano Cate e i colleghi uomini “La Rina” - era stata folgorata dallo slogan dell’ultima campagna pubblicitaria dell’azienda di trasporto pubblico. Diceva: “Lasciati trasportare”. Cinquantenne pimpante, sempre curata, single, faceva l’autista dei bus e alla guida di un pollicino elettrico attraversava quotidianamente le vie del centro. Amava quel lavoro che s’era conquistata dopo anni di studio e disoccupazione. Ci metteva l’anima anche perché reputava moralmente rilevante il servizio ai cittadini e l’attenzione all’ambiente. Col motto “Lasciati trasportare” l’ex azienda municipalizzata, oggi prodotto ibrido delle liberalizzazioni in cerca di una nuova identità, tentava di convincere le persone a scegliere il bus per gli spostamenti. Una missione ardua visto che nella Forlì del Duemila per convincere l’homo automobilensis a lasciare macchine e moto in garage è necessario ben più d’uno slogan. A Caterina, comunque, quella pubblicità piaceva tantissimo. Le dava l’idea di una grande opportunità per le persone. Il fattore positivo era talmente evidente che l’egoistica abitudine di muoversi su mezzi dispensatori di smog e di microparticelle appariva ai suoi occhi come immorale, nociva e sciocca. “Devo far qualcosa” pensò stesa nel letto, prima di prender sonno, quando l’ultima lacrima stillata per la solitudine del week end aveva sgombrato il campo dall’ennesima illusione da sabato del villaggio. Lo slogan era bello, bisognava solo renderlo efficace. Mentre stava cadendo nelle braccia di Morfeo, pensò a tutti i modi che esistevano nella sua quotidianità per farsi trasportare e li sviluppò in abbinamento all’uso del bus. Ne nacque un progetto bizzarro del quale parlò alle amiche con cui, ogni domenica, condivideva un’ora di conversazione e gossip al bar dell’Ipermercato. “Bisogna che mi diate una mano a realizzare la missione” spiegò alle “ragazze”, cinquantenni come
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lei ed elettrizzate dall’inaspettata follia. “Domenica prossima mi lascerò trasportare da casa fino a qui utilizzando mezzi di trasporto diversi. Promuoveremo l’evento. Lo faremo sapere a tutti. Lo filmeremo e lo metteremo sul web. Faremo un boom di contatti e diremo a tutti che bisogna inquinare di meno”. Era deciso. La tattica venne definita nel dettaglio. Dalla porta di casa, Caterina sarebbe salita sul monopattino sgangherato che il figlio dei vicini lasciava sempre sul pianerottolo e con questo avrebbe raggiunto l’ascensore spingendosi con una racchetta da sci. Uscita dall’elevatore e dal condominio doveva portarsi fino alla fermata del bus. Il tragitto misurava circa cinquecento metri da percorrere, appunto, in monopattino. Il pullman terminava la corsa al Terminal presso la stazione ferroviaria e qui il passaggio al bus della linea per l’Ipermercato poteva avvenire su un risciò noleggiato al mare. Alle amiche munite di carrello per la spesa competeva l’ultima fatica, ovvero lo spostamento, grazie all’ascesa in scala mobile, fino al bar per il compimento dell’impresa. Il tutto senza mai appoggiare piede su terra o su un pavimento: doveva sempre farsi trasportare. Le donne friccicavano d’emozione e si diedero un gran daffare per mettere a punto ogni particolare. La stramberia venne annunciata su facebook e fece subito breccia suscitando la creazione di un gruppo di amici che moltiplicò le adesioni in maniera esponenziale. Qualcuno avanzò la proposta di organizzare un flashmob proCaterina nei pressi dell’Ipermercato in concomitanza con il suo arrivo. Tutti in bici o a piedi e, dopo l’accoglienza esultante, tutti immobili per un minuto. Le amiche confezionarono anche una pettorina color smog nella quale si stagliava la scritta “Lasciati trasportare”. Sui social network comparve pure la richiesta - “tanto per aumentare il clamore”, precisò l’autore mascherato da “nick name” - che le donne indossassero la pettorina senza nulla sotto. Ma l’idea venne interpretata come una squallida provocazione e coperta di insulti.
continuano le storie SURREALI e di fantasia letteraria AMBIENTATE NELLA forlì CONTEMPORANEA. Il progetto era pronto. Anche lo staff per la ripresa video. Caterina poteva partire. Prese posto sulla soglia della porta, indossò la pettorina, con una mano impugnò il manubrio del monopattino e con l’altra diede una spinta con la racchetta. La seconda spinta la portò verso l’ascensore mentre l’amica con videocamera dinnanzi a lei prendeva posto dentro la cabina con passo di gambero. “Ora puoi entrare” disse l’operatrice e Cate sollecitò l’azione con una spinta solenne, per sancire un ingresso trionfale. Accadde invece che la ruotina del monopattino s’incastrò nello spazio fra porta e abitacolo. La donna perse l’equilibrio e franò rovinosamente dentro l’ascensore sbattendo i denti sull’obiettivo della videocamera. Per qualche frazione di tempo svenne e dalla bocca colò un rivolo di sangue. Come riprese i sensi, Caterina avvertì un gran dolore alla gabbia toracia, come da costola rotta ma compressa nell’ostinazione di portare a termine la missione domandò se aveva messo piede sul pavimento. Le venne detto di no e valutò che la sfida non era ancora perduta. Ma gli eventi indicavano una triste prospettiva. Il dolore al petto lancinante, il monopattino scassato, il viso tumefatto: che poteva fare? Per di più un solerte vicino di casa aveva chiamato il 118 e in pochi minuti l’ambulanza si trovò al cospetto del condominio. Quando arrivò la dottoressa d’equipaggio, Caterina era dentro l’ascensore. La caricarono su una barella e intanto che raggiungeva l’ambulanza disse all’amica di avvertire le altre e tutti quelli del flashmob che la missione era fallita. “Potremmo inviare un videomessaggio” propose l’operatrice. Caterina, profondamente delusa, preparò l’annuncio: “Sono caduta nell’ascensore, sono svenuta e ora mi portano all’ospedale. Mi dispiace”. Le due amiche presero posto sul mezzo di soccorso che partì senza fretta verso Vecchiazzano quando, quasi subito, dovette fermarsi perché aveva forato. Il punto più vicino per sostare si trovava casualmente a ridosso di una postazione delle nuove bici a noleggio gratuito, quelle del
Le immagini sono state realizzate dall’artista Grota per illustrare il racconto.
“Bike sharing”. E per cambiare la ruota l’autista fece sgombrare il mezzo. Caterina rimase in strada, sulla lettiga, prima stesa sotto una coperta, poi a sedere perché si sentiva bene. Talmente bene che, pensò, poteva riprendere l’impresa. Ma come… Se solo fosse passato un autobus. Guardò l’amica e mentre intrattenevano un silenzioso dialogo visivo giunse un militare del 66° Reggimento aeromobile Trieste con una bicicletta da restituire. Era sorpreso dalla presenza del mezzo e come vide Caterina la riconobbe: “Ma lei non è quella che vuol farsi trasportare? Che ci fa qui?”. Caterina raccontò il misfatto e dalla bocca del militare (che seppe poi essere uno di quelli che si cala con le corde da-
gli elicotteri e si lancia col paracadute da non so quanti mila metri d’altezza), sgorgò una proposta: “Se se la sente, prenda la bici e non metta mai i piedi per terra. Poi, mi raccomando, la restituisca sennò la fanno pagare a me”. Idea fantastica. Caterina firmò un foglio dove si assumeva la responsabilità di star bene, inforcò la bici del “Bike sharing” e pedalò fino all’Ipermercato. Intanto l’amica aveva diramato subito il contrordine. “Si riparte!” Per accrescere curiosità ed entusiasmo caricò in rete le immagini dell’imprevisto con partenza, caduta, denti che azzannano la videocamera e schizzi di sangue, scene d’assistenza, primo piano del soldato, ripartenza in bici e una sagoma di donna
risoluta che pedalava verso l’orizzonte urbano, in direzione dell’autostrada. Quando la pasionaria arrivò alla meta trovò, ad attenderla, una folla in tripudio che faceva ala al suo passaggio. Le amiche erano pronte col carrello della spesa decorato di palloncini. Caterina entrò a bordo e venne spinta sulle scale mobili fino al bar dove l’attendeva un caffè caldo. Guardò il parcheggio e vide che, incredibilmente, c’erano centinaia e centinaia, anzi migliaia di biciclette. Tantissime persone a piedi, una folla di utenti alla fermata dell’autobus. Pochissime le auto presenti, e per di più, erano tutte elettriche. “È un sogno!” pensò Caterina. Proprio in quel momento suonò la sveglia.
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In cauda venenum
Panorami della crisi di Ivano Arcangeloni (Segue da pag. 3) Crisi, crisi e ancora crisi. Fino a poco tempo fa c’era un signore, ma non se ne ricorda quasi più nessuno, che diceva che la crisi non c’era, che era solo nella testa degli italiani, che bastava non pensarci e che passava. Invece non passa. Cassintegrati, disoccupati, stipendi bloccati dalla spending review, inflazione galoppante, tutto complotta perché le famiglie taglino i consumi. Così i negozi chiudono. A parte le sale-giochi. Che aprono. E prosperano. In periodi di crisi come non mai. Ogni quartiere di Forlì ha ormai la sua piccola fabbrica dei sogni, il ritrovo prediletto per un esercito di speranzosi che poi, a notte fonda, rientrano nelle loro case più poveri di prima. Sconfitti ancora una volta dalle leggi della probabilità, delusi ancora una volta nelle loro speranze. Perché un gioco sia equo dovrebbe restituire, in caso di vincita, almeno tanto quanto è probabile che tu perda. Se dovessi scommettere 5 euro sull’esito del lancio di una moneta, il classico “Testa” o “Croce”, dato che la probabilità di Testa è 50% sarebbe equo il gioco che ti restituisse 10 euro in caso di vincita. Nessuno dei giochi legali può essere equo in questo senso, poiché c’è perlomeno l’incasso dell’esercente, che consiste in una percentuale del monte giocate. E poi ci sono le tasse statali, quelle che Cavour chiamava “tasse sugli stolti”. Quindi nessuno ti offrirà 10 euro in caso di vincita, ma forse solo 8, o anche meno. Qualcuno potrebbe pensare che il rischio sia ancora accettabile. Forse sì, in un tentativo isolato. Ma se ti ostini a puntare, se vuoi tentare e ritentare la sorte, allora la distribuzione binomiale di Bernoulli ti condannerà a perdere. Inevitabilmente. Se la probabilità di successo al primo lancio è del 50%, la probabilità di vincere qualcosa con dieci puntate consecutive alle stesse condizioni (8 euro contro 5 euro scommessi) diminuisce vertiginosamente, 18% appena, fino ad assottigliarsi a quasi nulla se insisti a scommettere in lanci successivi. E con le slot-machine non è forse così? Quante volte si riesce a tirare la levetta in una sola sera? C’è forse questo aspetto che rende difficilmente comprensibile la matematica del “probabile”: che non si possa affermare perentoria-
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mente l’impossibilità della vincita. Il giocatore incallito potrebbe sempre obiettare che sì, va bene, ci credo, però sta di fatto che qualcuno vince. In effetti qualcuno vince. Ma è veramente difficile che sia tu. Il SuperEnalotto ci ha insegnato a sognare di diventare milionari. Finalmente milionari. Chi non si è soffermato un attimo a immaginare quello che avrebbe potuto fare con tutti quei milioni di euro? Primo: licenziarsi. Subito. In tronco. Poi estinguere il mutuo. E dopo, una notte al Danieli di Venezia. E poi anche una fiammante Jaguar. E molto, molto di più. Quei milioni sono così tanti che la fantasia fatica a spenderli tutti. Ma la probabilità di vincere è appena di 1 su 622 milioni. Che forse, detta così, non sembra nemmeno pochissimo. Ma, in realtà, è niente. Nelle scienze applicate un evento con questa probabilità si definirebbe, semplicemente, impossibile. Troppi zeri dopo la virgola per poter essere considerati in un qualche calcolo. Talvolta accade, insiste lo speranzoso a oltranza. E se ti serve per sognare una notte al Danieli di Venezia, va anche bene. Ma se ti aggrappi a quella vana speranza per trovare il modo di uscire, almeno tu, dalla crisi, può diventare pericoloso. E anche triste. Dicono le statistiche che nel 2011 gli italiani
sono diventati il popolo al mondo con la più alta spesa pro-capite in gioco d’azzardo. Un altro dei tristi primati del nostro Paese. Oltre 80 miliardi di euro svaporati in gioco, più di 1200 euro a testa, neonati compresi, spesi in un solo anno per inseguire una speranza pressoché irrealizzabile. Un’entrata importante per le casse dello Stato, e non solo, se è vero, come racconta Giovanni Tizian nel suo “Gotica”, che nella nostra prospera regione, che contribuisce a quegli 80 miliardi per oltre il 9%, “fin dal 1995 in alcuni bar venivano imposti i videopoker dei mafiosi campani”, e che numerose inchieste della magistratura emiliana hanno evidenziato un ruolo diretto nella gestione di quella massa di denaro da parte di numerosi affiliati alle ‘ndrine calabresi. Non sarà certo il caso delle sempre più numerose sale-gioco locali diffuse capillarmente sul territorio cittadino, forese compreso, che non possono nemmeno essere ritenute colpevoli della seducente speranza che vendono a chi ci vuol credere. Il male è più in alto, o più in profondità: in una polverizzazione del tessuto sociale che fa sì che ciascuno pensi solo a sé, che viva i proprio problemi in una solitudine derelitta e desolata, quasi vergognandosene. Così, disperati, si spera almeno di vincere.
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Rosaspina.Un teatro Raperonzola Teatro d’attore - 4/10 anni
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Il Baule Volante Sogno di tartaruga Teatro d’attore - 4/10 anni
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Elisabeth Cutler blues trio
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