Tariffa R.O.C., Poste Italiane spa - Sped. in abb. postale, D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004, n. 46) art. 1, comma 1,DCB Forlì - Reg. Tribunale Forlì 6/9/2011 n. 410
Anno XLV - N. 4 - dicembre 2012 • Abbonamento annuo euro 20,00 - Sostenitore euro 26,00
IN PRIMO PIANO
Gli 800 anni di Piazza Saffi. Novecento forlivese
STORIA PER MOSTRE ANDAR
C’era a Forlì nera fonderia. Giovanni Pini:una il colore vale più del segno
DOSSIER
Novecento. vita inda Italia tra le due guerre. Wildt, l’animaArte e leeforme Michelangelo a Klimt
“L’arte di cucinare gLi avanzi deLLa mensa” di OLindO guerrini Un classico della gastronomia italiana riletto dallo chef Bruno Barbieri
La nuova edizione di un libro fondamentale nella storia della cucina cha valorizza l’attualità delle ricette raccolte in un volume dal
taglio molto quotidiano e pratico, con spunti e idee che ognuno può realizzare nella propria cucina di casa.
“Ogni vOLta che aprO questO LibrO mi vengOnO nuOve idee.” (b. barbieri)
Per ordini e informazioni: Tel . 0543.798463 Fax 0543.774044 | info@inmagazine.it | www.inmagazine.it
SOMMARIO
IN PRIMO PIANO
editoriale
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Gli 800 anni di Piazza Saffi di Sergio Spada
STORIA 08 C’era a Forlì una nera fonderia di Roberta Paganelli
Uno spettro si aggira per i viali di Forlì.
MUSICA 10 Giovanni Battista Cirri un violoncello nel mondo di Paolo Poponessi
DOSSIER 12 Novecento. Arte e vita in Italia tra le due guerre di Roberta Brunazzi
ANDAR PER MOSTRE 18 Francesco Olivucci, quando i sentimenti si fanno luce e colore di Cetty Muscolino
SGUARDI D’AUTORE
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Roberto Casadio e Antonio Zambianchi di Rosanna Ricci
PERSONAGGI 22 Dionigi Strocchi: un letterato e il suo tempo di Veronica Franco
FORLì UNDERGROUND 24 L’arcano e il caso Saffi di Mario Proli
IN CAUDA VENENUM 26 Uno spettro si aggira per i viali di Forlì di Ivano Arcangeloni
«IL MELOZZO» Già Periodico del Comitato Pro Forlì Storico-Artistica, Forlì Primo numero 14 marzo 1968 Direttore: Rosanna Ricci Edizioni In Magazine srl via Napoleone Bonaparte 50, 47122 Forlì tel. 0543 798463 - fax 0543 774044 Stampa: Graph S.N.C. - San Leo (RN) Uscita trimestrale. Reg. al Tribunale di Forlì il 6/9/2011 n. 410 Redazione: Rosanna Ricci, Roberta Brunazzi, Mario Proli, Paolo Rambelli, Giorgio Sabatini, Gabriele Zelli. In copertina affresco di Francesco Olivucci nella scuola Santarelli di Forlì. Hanno collaborato a questo numero: Ivano Arcangeloni, Veronica Franco, Cetty Muscolino, Roberta Paganelli, Paolo Poponessi, Sergio Spada.
Una volta, tanto tempo fa, si andava a scuola a piedi. Da soli. Anche alle elementari. Adesso non più, non si può fare. I bambini arrivano a scuola in auto. Tornano a casa in auto. Almeno fino a quando non approdano alle superiori, e poi talvolta anche lì. Vero è che la traversata casa-scuola può essere irta di pericoli: sfido io, con tutte quelle macchine! E poi potrebbe piovere. E poi la creatura potrebbe prendere freddo. Così ogni buon padre di famiglia s’improvvisa esperto di logistica per studiare complicatissimi piani dei trasporti in cui si tenta di incastrare gli orari di inizio delle lezioni del grande, del piccolo, della mezzana, con quelli di lavoro del padre e della madre. Il piano, ambizioso e articolato, coinvolge nonni patentati, zii refrattari e talvolta anche vicini di pianerottolo. Se c’è un rientro pomeridiano è una tragedia. Convulse telefonate nel cuore della notte, liti furiose tra lui e lei: uno non può arrivare tardi, l’altra non può chiedere un permesso. Per non parlare del caso infausto che il nonno si ammali, e debba saltare un venerdì. Senza preavviso. Perché, del resto, povero nonno, la malattia non si pianifica. Ma vallo a spiegare alla logistica. Oppure può capitare la stagionale sciagura che periodicamente si abbatte sulle ignare
famiglie forlivesi, già tartassate dall’IMU e seviziate dagli ausiliari del traffico: i giovedì senza auto! Che per fortuna prevedono tutta una serie di generose deroghe, scrupolosamente studiate dallo staff di legulei consultati alla bisogna. Se non ci sono intoppi alle 7,45 o giù di lì l’allegra macchina da guerra si mette finalmente in moto. Come un sol uomo. Tutti insieme. Tutti in colonna lungo viale Italia, tutti intasati attorno a quel che resta di porta Schiavonia, tutti fermi al semaforo dello stadio. Non potevano togliere anche quello visto che li hanno tolti tutti? Garbate signore, che incontrate alla domenica pomeriggio in una sala da the si sarebbero lasciate ricordare come dame gentili di un tempo che fu, il lunedì mattina nell’ingorgo satanico di viale Roma ti lanciano sguardi truci da assassina psicopatica. Posati professionisti che indugiano il sabato sera davanti al caminetto della casa di campagna, la pipa tenuta pensosamente in una mano, un cd nell’altra, dubitativa, rivisti al martedì sembrano nevrotici compulsivi. Guidano l’auto come se fossero in una missione in Afghanistan, come se ad ogni svolta si dovesse rischiare la vita. In tutta Kabul, del resto, non si trova niente di paragonabile al temibile piazzale della Vittoria. (Segue a pag. 26)
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IN PRIMO PIANO
Gli 800 anni di piazza Saffi. di Sergio Spada
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Alcune immagini evocative sugli 800 anni della piazza, realizzate per gli stendardi celebrativi appesi sotto i portici.
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IN PRIMO PIANO
In primo piano: incisione per il 1° maggio 1891, di Walter Crane (particolari). Sullo sfondo: immagine tratta dal Fasciculus de medicina di Johannes de Ketham, stampato dai fratelli De Gregori in Venezia nel 1493 (Forlì, Biblioteca Comunale, Raccolte Piancastelli, Sezione Stampatori, Sala O, colloc. De Gregori Incunaboli).
Molti lamentano il ricorso generalizzato alle ricorrenze cronologiche per costruire occasioni culturali, soprattutto quando si assiste, nell’arco di un solo anno, al frenetico accavallarsi di sollecitazioni legate al centenario di una nascita, al bicentenario di una morte, al centocinquantesimo di un evento di qualche portata storica, sollecitazioni sempre più spesso slegate tra loro. Il continuo proporre richiami alla memoria di situazioni eterogenee che non consentono, nella loro eccessiva episodicità, di seguire un percorso culturale coerente, rappresenta in effetti un rischio: il rischio dell’impantanarsi in una conoscenza superficiale e frammentaria che negli anni non creerà i presupposti per l’emergere di una creatività nuova, ma al contrario diventerà un alibi per un atteggiamento passivo nei confronti della cultura stessa. Non si cerca più di soddisfare il desiderio di conoscere, di assecondare o meglio orientare il proprio gusto ma ci si aspetta, sempre più spesso, che qualcuno ci dica cosa valga la pena di conoscere e quando; che qualcuno formi, dall’esterno, il nostro gusto. Non si può non essere d’accordo con questa lettura del gioco sempre più soffocante delle ricorrenze, ma bisogna anche concordare sul fatto che un ricorso ad esse, quando sia condotto in modo critico e venga inserito in un contesto culturale pronto ad assorbirne i valori e a metterli in relazione con esigenze ed aspettative già presenti e vitali, può produrre effetti positivi. Quello che sta accadendo con le celebrazioni degli ottocento anni trascorsi dall’acquisizione della piazza maggiore di Forlì da parte della comunità forlivese ne è un esempio. La ricorrenza s’inserisce in un contesto culturale sicuramente maturo. Infatti da qualche anno si percepisce lo sforzo, da parte delle Istituzioni, di riattivare un centro storico in sofferenza. Si percepisce la volontà, da parte di una quantità sempre maggiore e sempre più giovane di forlivesi, di ritrovare la propria storia e al suo interno recuperare quell’identità che ormai è l’ultimo antidoto contro l’appiattimento sociale e culturale imposto dai media tradizionali. Si percepisce l’urgenza, da parte della fascia
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più matura della comunità, di lasciare qualcosa di definito ai forlivesi di domani, perché non tutto, nella cultura, ha in sé la forza per sopravvivere ai ricambi generazionali. Si avverte il rischio di lasciare ai propri figli l’energia per spiccare il salto senza dar loro il terreno su cui poggiare il piede. Sono segnali importanti. Forlì ha bisogno di
un sentire comune, di riassaporare la propria identità, anche ritrovando una storia che ha avuto momenti di slancio e momenti di crisi, ma che in ogni caso su questo gioco di contrasti ha scolpito un volto, che è il volto di una comunità. Creare un percorso sotto i portici della piazza attraverso la sospensione di stendardi
Onoranze (29 giugno 1902) per il ritorno in patria, dopo cinque anni, delle spoglie di Antonio Fratti, morto a Domokos il 17 maggio 1897.
che in qualche modo costringano lo sguardo a posarsi su immagini e brevi testi tradisce indubbiamente un intento provocatorio. Quanti sarebbero entrati in un edificio, pur se prestigioso, per visitare una mostra dedicata alla storia cittadina, sapendo che questa mostra avrebbe rappresentato un racconto privo di reperti, di opere d’arte, di richiami spettacolari? Quanti invece sono invitati ad ogni passo, durante il passeggio (o il passaggio) sotto i portici, ad alzare gli occhi per leggere, nel succedersi delle parole o anche soltanto attraverso le immagini, quella storia che la piazza stessa ha vissuto anno dopo anno, secolo dopo secolo, entusiasmo dopo entusiasmo, distruzione dopo distruzione per un tempo così lungo da impedire quasi alla nostra mente di percepirne i contorni? Ventidue dicembre 1212. Quella data, trasformata in ricorrenza, assume allora la funzione di chiave di lettura. Non è l’inizio di una storia, ma l’inizio della costruzione, da parte dei forlivesi appena usciti da un medioevo faticoso ed ingrato, di una propria, personale storia. Ciò che nel dicembre del 1212 aveva generato la contesa tra l’Abate Pietro di San Mercuriale, alla guida da sette anni di un’entità non solo religiosa, ma economica e politica, ed il Podestà di Forlì, Conte Malvicino dei Malvicini da Bagnacavallo, fiero rappresentante di una nobiltà rurale ostinatamente ghibellina, reduce da sanguinose lotte con i Faentini e gli Imolesi, non era tanto la proprietà del Campo detto dell’Abate, quanto l’usufrutto dei proventi delle attività economiche che nel Campo si svolgevano: il pedaggio dei mercanti che partecipavano al mercato, le rendite della conceria di pelli e del mulino, l’affitto delle case, della macelleria, dei negozi e laboratori che vi si affacciavano già numerosi, nonché il divieto da parte del Comune di murare il chiostro a beneficio dell’intimità dei monaci. Il risultato della controversia, per l’intervento del Vescovo e dell’Abate di Cesena e con la mediazione di un gruppo di saggi, portò ad un accordo che sancì, tra gli altri benefici assegnati all’una e all’altra parte, la concessione del vasto spiazzo situato proprio al
centro della rotta urbanistica che stava spostando l’asse cittadino verso est. In cambio del censo annuo di una libbra di cera, per una durata di cento anni rinnovabili. La libbra di cera rappresentava il censo simbolico che il monastero, come accadeva in ogni parte d’Italia, poteva accettare da un’autorità laica, non essendo lecito a molti ordini il ricevere in denaro i proventi derivanti da proprietà terriere. In realtà il tornaconto dell’abbazia si giocava su altri versanti, su altre rendite. Ma la storia di quella lontana transazione non costituisce che un pretesto, un’occasione. Quello che a noi qui interessa è che la piazza da quel momento diventò patrimonio della comunità, sede di incontri e di scontri, di contrattazioni e mediazioni, teatro privilegiato di entusiasmi collettivi e di sollevazioni popolari, con una forte funzione mercantile, una ancor più forte funzione politica e soprattutto un’insostituibile funzione di coesione sociale. Un patrimonio molto più prezioso di qualsiasi rendita, pur essendo rappresentato da uno spazio aperto, in sostanza vuoto. Anzi, proprio per questa sua
imponente vacuità così importante. Le religioni orientali ci insegnano che nel vuoto del vaso sta il senso del suo uso; il valore di un vaso pieno di vino, o di grano, è circoscritto al valore di ciò che contiene, ma un vaso vuoto può contenere di tutto e in questa potenzialità sta il suo valore intrinseco. La piazza trova il suo senso non tanto negli edifici che ne segnano i contorni e nemmeno nella posizione strategica, quanto nel suo essere in grado di contenere gente, umori, voci, urla, di essere teatro di una comunità che, se vuole, può assistere alla rappresentazione della storia o scegliere di esserne protagonista, di determinarla. Una piazza non può essere abbandonata dai cittadini, così come è accaduto, un po’ alla volta, in questi ultimi decenni. Ripartire dalla sua storia, che è poi la storia dell’intera città, può servire a far comprendere la sua essenza, a far sì che la comunità sia portata a riappropriarsene, per ritrovare il proprio volto e la propria essenza, che è quella di comunicare. Ricordando che dove si rinuncia allo spazio aperto, si costruiscono muri.
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storia
C’era a Forlì una nera fonderia.
Il palazzo sede della Fonderia Paganelli, con ingresso in via Monte Santo n. 1. Sotto come appariva negli anni ‘70 (foto E. Monti); a destra, in basso, come è oggi (foto Giorgio Sabatini).
di Roberta Paganelli
Accade spesso che certi eventi lontani, sottoposti al filtro della nostra memoria, si presentino più piacevoli di come effettivamente si sono verificati, ma quel ventennio trascorso nella casa di Via Monte Santo, al n.1, dove sono nata e dove ho abitato sino al 1970, fu veramente contraddistinto da momenti spensierati e sereni. Noi bambine del grande palazzo dove al piano terra aveva sede la Fonderia Paganelli ci divertivamo a nasconderci nelle buie cantine dalle cui bocche di lupo veniva spesso scaricato, producendo un fragoroso rumore, il carbone necessario ad alimentare il forno fusorio. Si scendevano le
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scale ed ecco... si apriva per noi un mondo nascosto, nero come il carbone, dove amavamo rifugiarci perché potevamo agire indisturbati. Pure i vasti terrazzi del palazzo ci permettevano di vivere molto all’aperto, tranne nei giorni in cui veniva attuata la fusione della ghisa e del bronzo che ci costringeva a stare in casa per ripararci dalla polvere nerastra che si posava ovunque e da un acre odore di gas che usciva copioso dai finestroni e dal camino fusorio. Il nonno Achille faceva il fonditore e aveva assunto a lavorare con lui i due figli maschi Bruno e Alberto, mio padre, e i due generi,
Alberto Cantagalli e Oris Conti, che erano coadiuvati da alcuni operai. Prima del nonno, suo padre Lieto aveva intrapreso l’attività di fonditore ed anche il mio trisavolo paterno Nicola Paganelli aveva operato nel settore metallurgico come fabbro ferraio, una tradizione di famiglia dunque che si è mantenuta per lungo tempo, sino al 1965. Il mio bisnonno Alieto o Lieto dapprima aveva lavorato come operaio gazogene alla “Forlanini”, divenuta poi “Società forlivese per l’illuminazione a Gaz e Fonderia del ferro”; in seguito aveva aperto la sua piccola fonderia artigianale, specializzandosi nel produrre lavori
Alberto Paganelli in tuta davanti all’ingresso della fonderia in viale Vittorio Veneto (foto di proprietà di Roberta Paganelli).
in bronzo, al n. 26 della Via Flavio Biondo che non si deve assolutamente identificare con la via attuale, ma con l’odierna Via Enrico Dandolo, una trasversale di Via Bovio (poi Viale Vittorio Veneto), dove avevano già fissato la loro sede la Forlanini e, nelle vicinanze, lo zuccherificio Eridania. Proprio in Via Dandolo, il 15 aprile 1892, era nato il figlio Achille che, divenuto giovinetto, affiancò il padre nella fonderia, anche se era ben conscio del duro e faticoso lavoro che lo aspettava. Fin dal 1923, come si desume dalla denuncia di “Società di Fatto” presentata alla Camera di Commercio di Forlì, la
“Ditta Paganelli Alieto e Figlio” iniziò ad esercitare la propria attività, agevolata pure dalle immediate vicinanze alla Vecchia Stazione ferroviaria dove poteva comodamente far giungere materiali e spedire pure manufatti. Purtroppo la fonderia dovette interrompere ufficialmente l’attività il 14 dicembre 1939 per due decisivi eventi verificatesi qualche mese prima, la morte di Lieto Paganelli e l’entrata in guerra dell’Italia. Dopo qualche mese il nonno riprese a lavorare anche se in modo saltuario e difficoltoso. «Problemi in fonderia per mancanza di braccia, uno è malato, altri potrebbero venire per fare
la fusione quando sono a casa dal “Gas” (leggi Forlanini, ndr) [...] ma talora vengono commissionati lavori militari per la Ditta Becchi», scriveva mia nonna Maria Zaniboni in una lettera indirizzata il 13 marzo 1942 a suo figlio Alberto, richiamato alle armi a Serra S. Quirico (AN). I fonditori Paganelli ricevevano infatti richieste di lavoro dalla nota Ditta Becchi di Forlì, specializzata nella produzione di stufe, inizialmente in cotto, e di cucine economiche e pure dalla Maraldi di Forlimpopoli e, in particolare, dall’Azienda Municipalizzata Gas e Acquedotto di Forlì che commissionava tubazioni, condutture e chiusini. Pochi mesi dopo, precisamente il 27 novembre 1942, il nonno costituì una “Società a responsabilità limitata” della durata di dieci anni con l’industriale Giuseppe Marini, un uomo geniale e intraprendente, che dopo aver iniziato l’attività con la produzione di biciclette, motocicli e motori a scoppio si era specializzato nella produzione di macchinari stradali per asfaltare le strade. Quando nel 1945 decedette, subentrò nell’attività il figlio Marino che riuscì col fratello Roberto a rilanciare la fabbrica. Allo scadere del contratto, il 31 dicembre 1953, Marini e Paganelli interruppero la loro collaborazione, ma il nonno proseguì il lavoro in fonderia finché la sua intensa vitalità non fu stroncata da un improvviso infarto il 5 agosto 1962. Dopo la sua scomparsa i figli e il genero Alberto decisero di mantenere l’attività, che però risentì presto della mancanza di quella direzione energica e unitaria che Achille aveva impostato e, di conseguenza, il 14 settembre 1965 la fonderia chiuse per sempre i battenti. Successivamente fu gestita per qualche anno dal genero Alberto Cantagalli, che la chiamò “Fonderia Alberto Cantagalli”. Nel 1970 egli si unì in società con Vittorio Prati, che divenne amministratore unico della nuova fonderia denominata “Emilghisa”, avente sede inizialmente a Dovadola, nella frazione di San Ruffillo, poi in un capannone fatto appositamente costruire in Via Enrico Fermi 14, nella zona industriale di Forlì. L’“Emilghisa” è tuttora attiva come Società a responsabilità limitata ed è di proprietà del faentino Enrico Regnoli, che ha proseguito nella lavorazione e nel commercio di materiali ferrosi ed affini.
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MUSICA
Giovanni Battista Cirri un violoncello nel mondo. di Paolo Poponessi Nel primo concerto pubblico che il diciottenne Mozart tenne a Londra ad accompagnarlo come solisti c’erano due “stelle” della musica del tempo: Johann Christian Bach, uno dei figli del grande Johan Sebastian, detto il “Bach inglese” e Giovanni Battista Cirri, italiano, nativo di Forlì, valente violoncellista e compositore forlivese del XVIII secolo. Balasz Matè, violoncellista ungherese contemporaneo, nella presentazione al cd dei concerti per violoncello op. 14 di Cirri, lo definisce “uno dei virtuosi di violoncello che conquistò tutta l’Europa”. È quindi un peccato che oggi sia conosciuto perlopiù solo dai musicologi, anche se, spulciando i cataloghi discografici, si possono trovare incisioni di sue opere come i citati concerti per violoncello o le sei sonate op. IX per il duca di Cumberland. La critica e gli storici della musica hanno considerato Cirri tra i compositori italiani del Settecento che fecero grande la tradizione musicale strumentale italiana accostandolo a Boccherini per lo stile elegante e cogliendo nelle sue composizioni l’influenza di Haydn. Giovanni Battista Girolamo Cirri nacque a Forlì il 1° ottobre 1724 da Giovanni Andrea e Andrea Ravaglioli. Come documenta la ricerca sull’ambiente familiare del musicista forlivese condotta dallo storico monsignor Adamo Pasini, quella di Cirri era una famiglia numerosa della parrocchia del Duomo visto che il padre, sposatosi per ben tre volte, nel corso degli anni fece battezzare in cattedrale undici figlioli. Dei primi anni di vita e di formazione di Giovanni Battista non sappiamo molto. Probabilmente cominciò a studiare musica a Forlì per spostarsi in seguito a Bologna diventando allievo di padre Martini, francescano, grande musicista e curatore di talenti musicali che ebbe tra i suoi discepoli anche il giovane Mozart. Stabilitosi sotto le Due Torri con l’incarico di violoncellista a San Petronio, entrò nel 1759 nella Accademia Filarmonica e qui mise su famiglia, sposando la bolognese Rosa Alba Mazza. Sempre nel 1759 rientrò a Forlì in occasione dei grandi festeggiamenti per la nomina alla porpora cardinalizia del nobile forlivese Lodovico Merlini. Subito dopo cominciò la peregrinazione di Cirri per l’Eu-
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Sotto, partitura autografa della “Haec Dies. Antifona per il giorno di Pasqua” (Biblioteca Comunale Forlì, “Fondo Piancastelli”, Carte Romagna, 563.78).
ropa dove avrebbe ottenuto una fama notevole; prima fu a Parigi, poi a Londra nel 1764 dove entrò nella cerchia importante della corte di re Giorgio III, sistemandosi come compositore per Edoardo Augusto duca di York, poi nel 1768 come “Music Master” di Enrico Federico duca di Gloucester (altro fratello di re Giorgio). Il forlivese divenne un musicista ricercato da vari aristocratici come Hugh Percy, visconte di Dudley o William Ward, barone di Birmingham. Il periodo inglese proiettò Cirri verso la fama e la popolarità, ma nel 1780 rientrò in patria, di fronte alla chiamata del vescovo di Forlì monsignor Giuseppe Vignoli che intendeva affiancare il brillante compositore della corte reale d’Inghilterra come maestro di cappella in Duomo al fratello più anziano Ignazio, stanco e malato. Nella famiglia Cirri c’era infatti un altro discreto musicista, Ignazio (1711-1787), sacerdote, Mansionario della Madonna del Fuoco, anch’egli accademico dei Filarmonici bolognesi, “Musicalis Capellae Praefectus” in Duomo dal 1759. Così Giovanni Battista lo affiancò per prenderne poi il posto definitivamente e in tale ruolo, mantenuto fino alla morte, proseguì la sua attività di compositore, recandosi anche a Napoli nel 1782 come primo violoncellista al teatro dei Fiorentini e scrivendo alcune composizioni per re Ferdinando IV. La copiosa produzione di Cirri fu generalmente apprezzata, come le sue opere per violoncello e violino, diffuse in tutta Europa e pubblicate a Firenze (ove pare Cirri si fosse recato saltuariamente durante il periodo inglese), a Parigi, Londra, Venezia e Amsterdam. Il nostro concittadino musicista si spense a Forlì l’11 giugno 1808 in una casa nella parrocchia di Santa Lucia in Borgo Cotogni e venne seppellito nella tomba di famiglia in San Domenico, insieme alla moglie morta nel 1794. Non si può non rimanere catturati dal fascino della musica di Giovanni Battista Cirri; per gustarla ci sono a disposizione alcune incisioni discografiche di non difficile reperibilità. Vere gemme del violoncello del Settecento sono i Sei Concerti op. 14 pubblicati a Londra nel 1780, con brani di rara bellezza come lo struggente adagio cantabile del concerto n. 1 oppure il ritmo travolgente del terzo movimento del concerto n. 2 o l’originale accompagnamento di chitarra. Di questi concerti
esiste l’incisione del 2001 del violoncellista ungherese Balasz Matè per la Hungaroton. Le Sei Sonate op. IX per Sua Altezza Reale il Duca di Cumberland pubblicate a Londra nel 1768 sono un raffinato prodotto dell’estro di Cirri e sono state incise nel 1995 dall’Ensemble Barocco il Fuggiloto per l’etichetta Stradivarius Dulcimer. Interessante è anche l’incisione del 1990 dell’Ensemble Concerto per l’etichetta Cactus nella quale due opere di Cirri, la Sonata Prima per due violoncelli e basso o cembalo in re maggiore e quella in
la maggiore possono essere messe a confronto con la Sonata per cembalo e violoncello in la maggiore di padre Martini, maestro del compositore forlivese contenuta nel medesimo cd. Quanti volessero invece ascoltare la musica di padre Ignazio Cirri, fratello più anziano e probabile primo insegnante di musica di Giovanni Battista, possono ascoltare la Sonata per organo in la maggiore eseguita da Pierre Perdigon in una incisione del 1994 della Siryus (“Sonates Italiennes des 18° et 19° siecles”).
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DOSSIER
NOVECENTO. Arte e vita in Italia tra le due guerre.
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Carlo CarrĂ , Madre e figlio, 1917 (a sinistra). Gino Severini, MaternitĂ , 1916 (sotto).
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DOSSIER
Mario Sironi, L’aeroplano, 1917.
di Roberta Brunazzi Nel primo dopoguerra la cultura italiana, attraverso i suoi migliori esponenti, si sentì investita della missione di creare nuove espressioni artistiche per il Novecento, secolo che non si era in realtà ancora rivelato. Il più lucido interprete di questa missione fu il letterato Massimo Bontempelli, che nel 1926 dando vita alla rivista “900” dichiarava: “Il Novecento ci ha messo molto a spuntare. L’Ottocento non poté finire che nel 1914. Il Novecento non comincia che un poco dopo la guerra”. La nuova esposizione promossa dalla Fondazione Cassa dei Risparmi di Forlì in collaborazione con l’Amministrazione comunale ai Musei San Domenico dal 2 febbraio al 16 giugno 2013 parte da qui per presentare il Novecento, inoltrandosi fino all’epilogo tragico del secondo conflitto mondiale e del fatidico 1943. Questa grande mostra rievoca un clima che ha visto non solo architetti, pittori e scultori, ma anche designer, grafici, pubblicitari, ebanisti, orafi, creatori di moda cimentarsi in un grande progetto comune che rispondeva, attraverso una profonda revisione del ruolo dell’artista, alle istanze del cosiddetto “ritorno all’ordine”. Il Rappel à l’ordre, manifestatosi già durante gli anni della guerra, scaturiva dalla crisi delle avanguardie storiche, in particolare il Cubismo e il Futurismo, considerate l’ultima espressione di un processo di dissolvimento dell’ideale classico che era iniziato con il Romanticismo e si era accentuato con l’Impressionismo e i movimenti come il Divisionismo e il Simbolismo che lo avevano seguito. Nasceva non come semplice ritorno al passato, ma come ripresa dei soli canoni ritenuti adatti alla realizzazione di un pensiero e di una volontà artistica. “Una solida geometria di oggetti, una nuova classicità di forme”, per Carlo Carrà, mentre De Chirico concludeva il suo scritto programmatico sul ritorno della figura umana esclamando: “Pictor classicus sum”. Il modello di una ritrovata armonia tra tradizione e modernità, sostenuto da questi artisti - tra cui ebbero un rilievo maggiore Felice Casorati, Achille Funi, Mario Sironi,
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Giacomo Balla, Celste metallico aeroplano (Balbo e Trasvolatori italiani), 1931.
Carlo Carrà, Adolfo Wildt e Arturo Martini - avrà, anche grazie allo spirito critico e organizzativo di Margherita Sarfatti, il sostegno da parte del regime che era alla ricerca della definizione di un’arte di Stato. La mostra rievoca le principali occasioni in cui gli artisti si prestarono a celebrare l’ideologia e i miti proposti dal Fascismo, basti pensare all’architettura pubblica, alla pittura murale e alla scultura monumentale. Verranno documentate la I (1926) e la II (1929) Mostra del Novecento Italiano; la grande Mostra della Rivoluzione Fascista, allestita a Roma nel 1932-1933 in occasione del decennale della marcia su Roma; la V Triennale di Milano (che vide la consacrazione della pittura murale intesa come arte nazionalpopolare volta a far rivivere una tradizione illustre); la rassegna dell’ E42 di Roma. La pittura murale e la scultura monumentale, che furono con l’architettura l’espressione più significativa e riuscita di quel periodo, vengono indagate all’interno degli edifici pubblici, come i palazzi di giustizia, delle poste, delle università. La considerazione delle più impegnative realizzazioni urbanistiche e architettoniche consente di capire quanto è stato realizzato anche a Forlì e in altri centri della Romagna. La mostra presenta i grandi temi affrontati nel Ventennio dagli artisti che hanno aderito alle direttive del regime, partecipando ai concorsi e aggiudicandosi le commissioni pubbliche, e da coloro che hanno attraversato quel clima alla ricerca di un nuovo rapporto tra le esigenze della contemporaneità e la tradizione, tra l’arte e il pubblico. La presenza di dipinti, sculture, cartoni per affreschi, opere di grafica, cartelloni murali, mobili, oggetti d’arredo, gioielli, abiti, intende offrire una visione a tutto tondo del rapporto tra le arti e le espressioni del costume e della vita, confrontando artisti e materiali diversi. L’obiettivo comune era, infatti, quello di ridefinire ogni aspetto della realtà e della vita, passando dal mito classico a una mitologia tutta contemporanea. Il compito dell’artista, così lo sintetizza Bontempelli, diviene quello di “inventare miti, favole, storie, che poi si allontanino da
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DOSSIER
Ubaldo Oppi, I tre chirurghi, 1930.
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Felice Casorati, Conversazione platonica, 1925 (sopra). Tullio Crali, Incuneandosi nell’abitato, 1939-40 (sotto).
lui fino a perdere ogni legame con la sua persona, e in tal modo diventino patrimonio comune degli uomini e quasi cose della natura”. Attraverso i maggiori protagonisti (pittori come Severini, Casorati, Carrà, De Chirico, Balla, Depero, Oppi, Cagnaccio di San Pietro, Donghi, Dudreville, Dottori, Funi, Sironi, Campigli, Conti, Guidi, Ferrazzi, Soffici, Maccari, Rosai, Guttuso, e scultori come Martini, Andreotti, Biancini, Thayaht, Messina, Manzù, Rambelli) risalterà la varietà delle esperienze tra Metafisica, Realismo Magico e le grandi mitologie del Novecento. Questo superamento della pittura da cavalletto per recuperare il rapporto tra la pittura e l’architettura significò il grande ritorno al Quattrocento italiano visto come fonte di ispirazione per gli artisti contemporanei. Giotto, Masaccio, Mantegna, Piero della Francesca per quel loro realismo preciso, avvolto in una atmosfera di stupore lucido, appaiono particolarmente vicini. Guardare al Quattrocento o all’antichità non significava recidere i legami con l’arte contemporanea europea, certo non con quegli artisti che, come Picasso e Derain, a partire dal secondo decennio del Novecento avevano già fatto lo stesso percorso, passando dalla scomposizione e dall’astrazione cubista alla ricomposizione della figura e a una nuova classicità in cui venivano presi a modello l’antico e la tradizione italiana. Non solo i dipinti, le sculture o l’architettura, ma anche le opere di grafica e i manifesti diventarono parte integrante dell’immagine della città moderna. Il Novecento passò dall’arte alta agli oggetti della vita quotidiana, dove si respirava la stessa atmosfera di ritorno alla misura classica, anche nella manipolazione di materiali preziosi. Lo testimoniano gli splendidi mobili e gli altri oggetti di arredo disegnati da Piacentini, Cambellotti, Pagano, Montalcini, Muzio, Gio Ponti e i gioielli realizzati da Alfredo Ravasco. Mai come nel Novecento anche le vicende della moda si intrecciarono e si identificarono con quelle della cultura e della politica, originando, tra il sogno parigino e l’autarchia, la prospettiva della grande moda italiana.
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Andar per mostre
Francesco Olivucci, Quando i sentimenti si fanno luce e colore. di Cetty Muscolino Artista versatile e poliedrico al pari degli antichi maestri, straordinario incisore, xilografo e acquafortista, superbo nella pittura murale, intimo in quella da cavalletto, rispettoso e cosciente nel restauro, non c’è campo o tecnica artistica che Francesco Olivucci (1899 - 1985) non abbia esplorato, indagato e utilizzato in tutte le sue possibilità. Per dare forma visibile alle molteplici sfumature del suo sentire ed esprimere le tante corde vocali che lo animavano. Grazie all’abilità tecnica acquisita in una continua ricerca e sperimentazione spazia a trecentosessanta gradi mostrando nelle sue composizioni, dalla solida costruzione e ponderata ricerca cromatica, l’interiorizzazione della cultura rinascimentale declinata nel XX secolo. E se l’affresco meglio si presta per le grandi celebrazioni del regime e la grafica è il mezzo più idoneo per denunciare i travagli e i conflitti di un momento storico tormentato, è nella pittura da cavalletto che Olivucci manifesta il suo sentire più intimo. Non più sollecitato dall’urgenza della denuncia civile e politica, né spinto dall’esigenza della retorica di programmi celebrativi, in questi dipinti apre il suo cuore e convoglia tutta la sua perizia per eternare il mondo degli affetti più cari. Ed è su alcuni di questi lavori che desidero soffermarmi, partendo dal ritratto della moglie che mi ha colpito profondamente, lasciando un’impressione vivida e indelebile. Quando l’ho visto per la prima volta una luce perlacea si riverberava dalla candida blusa di raso, sul fondo grigio tenero, e si percepiva un senso di pienezza, di solidità maternale e di incredibile energia. E al tempo stesso emergeva pacata ed evidente la forza interiore di quella donna, più efficace e vitale dei tanti sguardi provenienti dagli altri ritratti disposti lungo le pareti della grande sala. Il mio sguardo vagava avidamente da una trasparenza all’altra, dai toni caldi dei colori spesso terrosi e poi tornava a lei che come una divinità silente dominava incontrastata su tutti. Accattivante e pacata la composizione
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Due dipinti di Olivucci: Ritratto della moglie (sotto) e Autoritratto (nella pagina a fianco).
della Donna e bambina intente a lavori di maglia e cucito, dove le due persone, ritratte in affrontata simmetria, ci offrono una scena di intimità domestica contraddistinta da equilibratissimi accordi cromatici. Reclama attenzione l’Autoritratto con la famiglia, dove il compatto gruppo familiare è organizzato secondo una rigorosa costruzione verticale dominata dall’artista, paterfamilias, presentato quasi come demiurgo e creatore, come pare suggerire la tavolozza che tiene in mano. Nella cura ben ponderata della composizione si avverte la suggestione di opere antiche, dense di contenuti alchemici e simbolici che vengono da lontano, una sorta di evocazione delle età dell’uomo come indicano gli attributi iconografici con cui sono caratterizzati i personaggi: dall’orsacchiotto della figlia minore al quaderno della più grande… ma il tutto si conclude nell’elegante incurvarsi della moglie, moderna samaritana, intenta a versare acqua dalla brocca. E perché non pensare anche ad una possibile rappresentazione dei quattro elementi? Come ci rammentano i toni terrosi e caldi del fondo, con cui si confonde la maglia del pittore, il tenue azzurro della vestina della piccola, il rosso squillante della grande e l’acqua della madre? E ancora gli avvincenti ritratti di memoria fiamminga, e l’intensità del prezioso gioiello, a punta d’argento, che mostra la figlia Anna, che a braccia conserte ci guarda intensamente.
Francesco Olivucci Francesco Olivucci (1899 – 1985) si diploma all’Accademia di Ravenna ed entra a far parte del Cenacolo artistico forlivese. La sua carriera inizia nel 1924 con i pannelli decorativi per l’Armeria Albicini a Palazzo Merenda. Nel 1927 decora lo scalone dell’Opera Balilla a Forlì, ora Palazzo Braschi, e negli anni ‘30 il salone del Fascio a Brisighella. A Forlì realizza splendidi affreschi all’Asilo Santarelli e nel Palazzo della Prefettura. Negli anni ‘40 esegue una serie di incisioni sulla guerra mentre sono degli anni ‘50 la “Madonna della Ripa” nella strada omonima, il progetto delle cancellate della Cassa dei Risparmi di Forlì, l’affresco nel Palazzo della Previdenza Sociale, ora Banca di Forlì. Insegnante all’Istituto “Melozzo” e all’Istituto Tecnico Industriale, praticò ceramica, scultura, architettura e restauro: sue sono la progettazione della chiesa di Alfero del 1963, la stele donata a San Benedetto in Alpe nel 1975 e gli interventi di restauro nella Chiesa del Carmine a Forlì.
Artista versatile e poliedrico, olivucci è stato incisore, xilografo e acquafortista, Superbo nella pittura murale, intimo in quella da cavalletto. A lui è dedicata un’ampia retrospettiva presso il Palazzo del Monte di Pietà fino a metà gennaio. 19
Andar per mostre
SGUARDI D’AUTORE
Le due età, olio su tela di Roberto Casadio.
di Rosanna Ricci
Roberto Casadio. Una bella mostra di acquarelli ed oli del pittore forlivese Roberto Casadio è stata allestita in dicembre negli spazi espositivi della Galleria Farneti (via degli Orgogliosi 5, Forlì). Diplomato al Liceo Artistico di Ravenna nel 1961, Casadio ha poi frequentato l’Accademia di Belle Arti della stessa città, diplomandosi sotto la guida di Umberto Folli e Giulio Ruffini. Dal 1965 al 1970 ha insegnato educazione artistica in varie scuole medie e superiori. La passione per il disegno e per la pittura si è presentata ben presto nell’artista e dal 1971 è iniziata per lui una lunga serie di mostre in varie parti d’Italia e, contemporaneamente, di partecipazione a mostre collettive e ad importanti fiere ricevendo anche riconoscimenti di prestigio. I temi preferiti dal pittore sono senza dubbio la figura umana in particolare quella femminile - e i gruppi di persone in situazioni che potremmo definire a volte quotidiane, altre volte, invece, in atteggiamento teatrale. Il teatro è intervenuto
assai spesso nell’opera di Casadio, sia direttamente con personaggi in costume sia indirettamente come metafora dei comportamenti umani.
Questa sua ultima mostra nasce proprio dal teatro, dalla maschera indossata o abbandonata in terra. “Palcoscenico vuoto. Una seggiola, un divanetto, un tavolino, con tracce di un possibile brindisi, o di una possibile abitudine all’alcool. Oppure niente: spazio vuoto e basta. Silenzio”, come scrive Andrea Brigliadori. Questa la scena che ben presto si anima soprattutto di figure femminili mai immobili e quasi sempre con atteggiamenti che tendono a rivelare turbamenti, ossessioni. Accanto a figure silenziose e apparentemente indifferenti, ve ne sono altre che urlano o, semplicemente, parlano.
L’immagine rappresentata ha un carattere vagamente espressionista perché il vortice
di ironia che avvolge la scena destabilizza ciò che invece avrebbe potuto essere convenzionale. Un teatro, dunque, con l’inevitabile rapporto con la maschera. Su quel palcoscenico, prima vuoto ed ora popolato di
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personaggi inquieti, con la finta allegria che nasconde il male di vivere in una sfavillante cornice di colore, Casadio esprime con chiarezza e profonda attenzione le sfaccettature dell’animo umano. Esperto conoscitore delle tecniche artistiche, il pittore usa con
estrema precisione segno e colore, dando ‘voce’ alle sue emozioni. Nessun accosta-
mento cromatico è casuale ma tutto risponde ad un preciso e ragionato calcolo di accordi lirici, in precisa relazione col tema e con la sua sensibilità.
Senza titolo, olio su faesite, di Antonio Zambianchi.
Antonio Zambianchi. ‘E viazz’ è il titolo di un’ampia mostra dedicata ad Antonio Zambianchi (1898-1960), medico condotto a Forlì e, contemporaneamente, artista poliedrico sempre interessato a nuove ricerche e sperimentazioni creative. La mostra, allestita fino al 26 dicembre nelle sale del Palazzo Albertini, “vuol ripercorrere, come appunto in un viaggio immaginario - come scrive nell’introduzione del catalogo il figlio Carlo - il percorso umano ed espressivo di Antonio Zambianchi attraverso fotografie e stampe originali, realizzate tra il 1915 e il 1940, disegni e dipinti ad olio eseguiti dal 1948 al 1958, scritti autografi, oggetti e documenti che conducono il visitatore attraverso i soggetti prediletti dal medico umanista nei vari momenti della sua vita”. Come medico Zambianchi era molto apprezzato per l’attenzione che dedicava ai suoi pazienti; come artista si distinse dapprima nella musica e nella fotografia, poi nella pittura, a
cui si dedicò alla fine degli anni ’40. Ovviamente Zambianchi, da uomo sensibile qual era, colse i fermenti e il travaglio in cui si trovava l’Italia nella prima metà del ‘900, trasferendo anche questo nelle sue immagini. L’amore per la musica condusse l’artista a suonare il mandolino, la chitarra e soprattutto il violino, tanto da fondare il quartetto ‘La pera volpa’ e a partecipare, come tenore, al coro dei canterini romagnoli di Cesare Martuzzi. Il repertorio musicale di Zambianchi era ampio e non limitato alla musica classica ma, come dimostrano i numerosi spartiti, comprendeva anche cante romagnole e napoletane, senza dimenticare poi la sua partecipazione ai trebbi. Assieme alla musica anche la fotografia accompagnò sempre la vita dell’artista: nel suo archivio si contano più di 3mila immagini scattate in vari luoghi della Romagna e durante i suoi viaggi. Alcune immagini furono pubblicate sulla rivista “La Piè”. Ciò che distingue le sue immagini è la grande attenzione per i particolari e le atmosfere. Nessuna fotografia ha il compito di semplice documentazione ma,
in ogni scatto, c’è una precisa scelta lirica che corrisponde ad una profonda emozione, come dimostrano le immagini esposte e proiettate nella mostra. La luce ha un ruolo fondamentale nell’opera di Zambianchi perché è il tramite autorevole per manifestare tutta la carica interiore e la creatività dell’artista. La pittura aggiunge a questa consolidata forma espressiva il piacere di stendere i colori con una grande sinfonia tonale, col rispetto della immagine che non è mai stata alterata, ma solo resa più ricca e poetica. Amico dei pittori Maceo, Mandolesi e Brunetti, l’artista li conduceva, in ore antelucane, sulla sua “Topolino” blu, in giro per cercare un paesaggio da dipingere.
Come pittore Zambianchi partecipò e vinse anche vari concorsi, tra cui quelli istituiti
da case farmaceutiche e dall’Ordine dei Medici, riservati ai loro professionisti che si misuravano anche con le forme dell’arte. I dipinti di Zambianchi definiscono, in modo completo, quell’amore per l’immagine che la fotografia ha messo in evidenza e che, nella pittura, trova la sua dimensione più completa.
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PERSONAGGI
Dionigi Strocchi: un letterato e il suo tempo.
Andrea Appiani, ritratto di Dionigi Strocchi, olio su tela.
di Veronica Franco Duplice appuntamento, venerdì 15 e sabato 16 febbraio 2013, a Faenza e a Forlì, per ricordare - e verificare l’attualità - della figura e dell’opera di Dionigi Strocchi, di cui ricorre quest’anno il 250° anniversario della nascita. Nato, per l’appunto, a Faenza nel 1762 (e morto a Ravenna nel 1850), Dionigi Strocchi studiò nel seminario della città natale e poi, dal 1783, a Roma, dove si laureò in giurisprudenza, ma si diede alle lettere, soprattutto latine e italiane, accostandosi al Cesari nel culto dei trecentisti. Nel 1790 ebbe l’ufficio di scrittore nella segreteria di lettere latine presso il Sacro Collegio. Tornato in patria nel 1797, ottenne alti uffici e grandi onori nel tempo della Repubblica e del Regno italico. Restauratosi il governo pontificio, Strocchi riparò a San Marino, soffrì breve prigionia a Bologna e visse gli ultimi anni a Bologna e a Ravenna, dove professò quattro anni eloquenza, e in patria. Pio IX lo nominò nel 1848 senatore. Strocchi deve la sua fama non tanto ai suoi scritti originali, versi, elogi, discorsi accademici latini e italiani, quanto alle sue fedeli e al tempo stesso forbitissime traduzioni degl’Inni di Callimaco, dell’Inno omerico a Venere e delle Georgiche e delle Bucoliche di Virgilio. La prima giornata di studi, ospite della Fondazione Banca del Monte e Cassa di Risparmio di Faenza, sarà dedicata in particolare allo Strocchi letterato e traduttore, con gli interventi, introdotti alle 16 da Andrea Cristiani dell’Università di Bologna, di Roberto Balzani sempre dell’Università di Bologna su La Romagna del Primo Ottocento, di Arnaldo Bruni dell’Università di Firenze su “La traduzione come paradigma della cultura neoclassica”, di Francesca Falchi dell’Università di Pavia su “Il Callimaco di Strocchi: la cultura della traduzione”, di Bruna Pieri dell’Università di Bologna su “Strocchi traduttore delle Georgiche di Virgilio”, ed infine di Federica Marinoni dell’Università di Milano “Dionigi Strocchi nella scuola carducciana: la tesi di laurea di Oda Montanari”. Sabato mattina sarà quindi lo stesso Arnaldo Bruni a coordinare la sessione forlivese dedicata
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a “Dionigi Strocchi e il suo tempo”, presso la Biblioteca “A. Saffi”, cui interverranno, a partire dalle ore 10, Jean Robaey dell’Università di Ferrara, con una relazione su “Foscolo traduttore di Omero: una discussa armonia”, Elena Parrini Cantini dell’Università di Firenze su “Leopardi e la traduzione neoclassica”, Luca Frassineti dell’Università di Napoli su “Giovanni Antonio Roverella epistolografo e traduttore, nobile amico dei poeti”, Paolo Rambelli del Centro Studi Interuniversitario sul Classicismo tra Settecento e Ottocento su “Gli editori forlivesi di Dionigi Strocchi e della Scuola Classica Romagnola” e, a concludere i lavori del mattino, Ren-
zo Cremante dell’Università di Pavia con i suoi “Appunti conclusivi su Dionigi Strocchi e la Scuola Classica Romagnola”. Nel pomeriggio, alle 15, Guido Arbizzoni dell’Università di Urbino, Arnaldo Bruni e Renzo Cremante presenteranno l’edizione degli Inni di Callimaco tradotti da Dionigi Strocchi curata da Francesca Falchi ed uscita quest’anno per i tipi della Clueb di Bologna. A seguire, Andrea Cristiani dell’Università di Bologna condurrà una visita alla mostra appositamente allestita per il convegno presso la Biblioteca Civica con i documenti strocchiani conservati nel Fondo Piancastelli della Biblioteca “A. Saffi”.
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FORLì UNDERGROUND
L’Arcano e il caso Saffi. di Mario Proli Il ventre torbido della Forlì undergound nasconde uno strano personaggio: l’Arcano difensore delle inviolabili memorie. Costui, la cui identità è avvolta dal mistero, ha l’animo straboccante di tracotanza e invidia. Agisce nelle tenebre, tutte le notti, infliggendo maledizioni che colpiscono le vittime durante il loro sonno. L’Arcano difensore delle inviolabili memorie se la prende con coloro che, a suo avviso, offendono la purezza della tradizione. Posticcio, falsificato, plagiato, inventato? Bazzecole: ciò che per lui è intriso di significato storico, anche se prodotto d’invenzione e fantasia, acquisisce purezza atavica ed egli lo difende. Per lui non bisognerebbe cambiare nulla di ciò che esiste da sempre, o meglio da quando lui lo ha visto. Quando scopre un sacrilegio, l’Arcano cerca di individuare il responsabile e lo attacca compiendo strane alchimie nel suo covo, fra il rosso umido di mattoni sottili e alambicchi fumanti. Non si sa come, ma i malefici raggiungono i bersagli mentre questi dormono. Solo una cosa funge da antidoto, riuscendo ad interrompere la maledizione onirica: quando ciò che secondo l’Arcano è stato offeso dimostra di non esserlo. Molte vittime non sanno di essere tali e soccombono sotto il peso di sogni angoscianti. Quella raccontata in queste pagine è la vicenda in cui l’Arcano scatena la sua ira contro l’architetto Saverio Andreolli, stimato professionista, studioso e rigoroso cultore del patrimonio locale. La sua colpa? Aver applicato dissuasori antipiccione sulla testa e sulle spalle della statua di Aurelio Saffi. “Benché il congegno possa sembrare privo di valore culturale - aveva spiegato Andreolli nel corso di un’affollata conferenza pubblica - si tratta di un fattore estremamente importante perché, evitando la posa del volatile, si evitano tutti gli effetti deleteri sul marmo delle deiezioni, responsabili di corrosione e gravi danneggiamenti”. Secondo l’Arcano, invece, il danno culturale era insopportabile perché non poteva esistere la piazza senza Saffi col piccione in testa o sulle spalle. Così era, a suo avviso, da
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sempre e così sarebbe dovuto rimanere. Per questo lottava. Dopo aver constatato che nessun pennuto stazionava più sul Triumviro, l’Arcano attese il tramonto e si chiuse in cantina. Accese i fornelli, predispose ampolle, alambicchi e un calderone con acqua, Quindi procedette: sette penne di piccione, briciole di un cono per gelato con residui di tiramisù, acqua del canale di Ravaldino, un pizzico di muschio raccolto sul monumento e un po’ di aspirina da sfarinare al punto del bollore. Cominciò a pronunciare parole incomprensibili e proseguì per molte ore, fino a quando il fumo non si dissolse. Nel frattempo, a casa Andreolli, l’architetto si era coricato e nella sua mente sognante apparve il volto crucciato del monumento di Saffi. Dietro a questo spuntò un primo piccione, poi un secondo e così via fino alla composizione di uno stormo occhiuto e minaccioso. Andreolli si alzò dal letto e andò in bagno per sciacquarsi la faccia, poi riportò le sue membra da architetto cinquantenne fra le lenzuola. Appoggiò la faccia sul guanciale e, come chiuse gli occhi, percepì un suono vellutato come di fagotto. Il tubio sommesso divenne invadente e anticipò una marcia di piccioni verso di lui. Si svegliò di colpo e accese la tv. Il mattino seguente a cavallo della bici arrivò in piazza Saffi. Posteggiò il mezzo vicino al loggiato della Camera di Commercio e, mentre chiudeva il lucchetto, percepì la fastidiosa sensazione d’essere osservato. Si voltò e vide dietro di sé due piccioni che lo fissavano gonfiando il petto. Poi ne vennero altri e più affrettava il passo più il numero aumentava. Proprio prima di infilare la porta dell’ufficio s’accorse che vicino a lui c’era l’uomo che porta il cibo ai piccioni in barba ai divieti e ai consigli per il benessere animale. “Forse sono congestionato” pensò. Quando uscì era buio e nel buio gli parve nuovamente che i pennuti urbani lo seguissero. Di notte ripeté il sogno piccionesco, rimase sveglio e la mattina dopo, quando si trovò in piazza, corse al lavoro rasentando le vetrine dei negozi. Altra notte, altri piccioni e ancora una lunga veglia. Il giorno successivo optò per un riposo for-
continuano le storie SURREALI e di fantasia letteraria AMBIENTATE NELLA forlì CONTEMPORANEA.
zato, pur di non dover affrontare nuovamente la piazza e i suoi inquilini. Ne approfittò per riordinare la biblioteca domestica. Nel far questo s’imbatté nella mitica “Guida raccontata di Forlì” scritta da Giuliano Missirini. Più volte aveva pensato a quel testo mentre, nel curare la pulizia del monumento di Aurelio Saffi, s’era premurato di installare sulla sua testa l’impianto di dissuasione. Ricordava, infatti, di aver letto che il grande uomo di cultura annotava simpaticamente come tratto distintivo della
Le immagini sono state appositamente realizzate dall’artista Grota per illustrare il racconto.
piazza proprio la presenza del piccione sulla statua di Saffi. Così rintracciò il brano, lo lesse e rivolgendosi in modo immaginario al compianto Missirini gli inviò un saluto. Quando alla sera andò a letto, preoccupato di un’altra notte in bianco, chiuse gli occhi e fu piacevolmente sorpreso dall’assenza di piccioni. Intanto, nel covo, l’Arcano valutò che qualcosa non andava nella mistura malefica e impresse ancora più forza nel mescolare l’intruglio e aggiungere ingredienti. Niente. Il
sonno di Andreolli sembrava protetto. Era infatti protetto dal sogno che stava compiendo nel quale era apparso proprio Giuliano Missirini, per ringraziarlo e per conversare con lui della città viva, del suo patrimonio, dei suoi abitanti, di ciò che va e di quello da mettere a posto. Parlarono a lungo e, prima del commiato, Missirini tranquillizzò Andreolli sul monumento di Saffi. Aveva fatto una cosa giusta. Gli confidò di averne parlato anche direttamente col Triumviro il quale, benché caratterialmente restio ad affrontare
gli aspetti effimeri delle celebrazioni, non aveva avuto nulla da ridire sulla scelta. In quell’istante nel calderone dell’Arcano avvenne un’esplosione che liberò una nuvola di gas grigio e fetido. L’Arcano spalancò la porta e uscì dal covo. Mentre tossiva s’accorse che non si trattava solo di fumo ma che dentro a quella coltre densa s’agitava una tormenta di piccioni che prese a inseguirlo per le viuzze della città antica, mollando l’assedio solo quando l’ultima goccia di mistura malefica fu evaporata.
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In cauda venenum
Uno spettro si aggira per i viali di Forlì. di Ivano Arcangeloni (Segue da pag. 3) Papà, rischio di arrivare tardi, ha appena osato dire, con tutti i riguardi del caso, il ragazzino seduto dietro. Lui sarà il primo a scendere. Dopo c’è la scuola elementare della sorellina. La logistica di famiglia non lascia nulla al caso. Il padre tace. Il ragazzino si allarma per quel silenzio. Nell’asfittico abitacolo dell’auto si addensa un principio di dramma famigliare. Sì, forse avrebbe dovuto tacere, ma anche lui ha i suoi pensieri. Perché oggi è mercoledì, e il mercoledì alla prima ora c’è il prof di mate, quel bastardo, che sarà in orario, perché lui, si sa, esce di casa alle 7,00 del mattino, lui non ha mica niente da fare se non pensare a quei noiosissimi teoremi trigonometrici. E il ragazzino lo sa, oh come lo sa, che già alle 8,10 e 00 secondi il prof farà l’appello, con quel suo sguardo spaventosamente vacuo di uomo consumato dalle astrusità malefiche delle matematiche, e che alle 8,10 e 01 secondi lo segnerà tra gli abietti ritardatari del giorno. Ma il padre non risponde. E allora meglio non insistere. Povero padre, non è facile scarrozzare in giro tutti questi figli. E poi, diciamocelo, cosa sono quegli orari bislacchi di inizio delle lezioni? 8,10 il liceo, 8,05 le medie, 8,15 le dorotee. Che poi ti fregano, perché tu ti aggrappi a quei cinque minuti, nel tuo piano quei cinque minuti sono fondamentali, sono il tempo che ti avrebbe dovuto condurre da piazzale della Vittoria in via Aldo Moro, e invece niente, passano così, terribilmente veloci, stando fermi, in una nuvola di smog, in mezzo a tutti gli altri, fermi anche loro. E come se la vita non fosse già abbastanza difficile hanno deciso di spostare il capolinea di tutti gli autobus cittadini alla stazione. Così in viale della Libertà passa un autobus ogni trenta secondi. E negli orari di apertura e chiusura delle scuole il viale si intasa. Perché i nonni parcheggiano come possono e dove possono. E mentre la nipotina si scambia i saluti di rito con le amichette, gli autobus, in colonna, aspettano. Gli autisti ci provano ad infiltrarsi nel dialogo delle amichette: ogni tanto, educatamente, pigiano il tasto del clacson. Ma cosa ne sa un autista
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di autobus di quello che devono dirsi a fine scuola due bimbette di otto anni? Del resto che idea è mai stata questa di far passare gli autobus tutti di lì? Per andare dove? Alla stazione? Ma a far che? Gli autobus devono andare in piazza, perché poi se no i commercianti chiudono, che in centro non ci va più nessuno. I viali che li lascino a noi, e alle nostre auto. Che così poi, dopo aver mollato i bambini a scuola, possiamo farci un giro all’iper. Altro che piazza. Certo che questa storia dei negozi del centro è ben strana, il mistero dei misteri di Forlì: prima, quando tutti gli autobus arrivavano in piazza, il problema era quello dei parcheggi. Prima, quando gli autobus stazionavano tutti sotto alla pensilina davanti al palazzo delle poste, il problema era che non potevano arrivarci le auto. Adesso che in piazza arrivano solo i due bus navetta che collegano il centro con stazione e parcheggi vari, il problema è che non ci vengono più gli altri autobus. Forse perché piaceva quell’allegra brigata di corriere variopinte che faceva vibrare le vetrate dei palazzi più nobili di Forlì, forse perché rallegravano le strade un po’ vuote del centro col loro portentoso gorgheggiare di pistoni obsoleti, forse perché
allietavano i radi passanti con i loro vapori nerastri. Bizzarrie dell’animo umano, sospiri di menti volubili, e forse solubili, che vanno in solluchero immaginando soluzioni finalmente nuove, che ci porterebbero una buona volta al passo coi tempi: un bel balzo in avanti, di quelli che neanche il Grande Timoniere avrebbe immaginato. Uno svincolo futurista che dall’asse di arroccamento, con un bell’arzigogolo cementifero sospeso nel cielo, conduca dritti al parcheggio di piazza del Carmine. Oppure un’autostrada a più piani, che dal casello di Forlì approdi direttamente su una delle bifore del campanile di San Mercuriale, da dove poi, si potrebbe scivolare agevolmente ai piedi della statua di Saffi. Oppure, perché no: il teletrasporto. Saremmo i primi del mondo. Entri con auto e tutta la famiglia in un box alla Star Trek a Villanova e in una manciata di nanosecondi ti rimaterializzi davanti alle scuole elementari di corso Diaz. In tempo per la campanella della prima ora, e per goderti un buon caffè in pasticceria. E allora fisici di tutto il mondo unitevi, datevi da fare, non perdetevi ad inseguire insulsi bosoni: Forlì ha bisogno del teletrasporto, adesso!
filosoficamente mUsicali
Le nuove agende 2013 targate Edizioni IN Magazine
agenda filosofica
music Diary 2013
Le riflessioni dei più grandi pensatori di ogni tempo sul benessere della persona, alla ricerca della formula filosofica per la perfetta armonia tra corpo e spirito.
Un’agenda che rivoluziona il modo di ascoltare e amare la musica, accompagnando gli spazi settimanali a una selezione di aneddoti, storie, curiosità legati ai grandi della musica rock e pop internazionale.
La salute dei filosofi
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