ISBN 978-88-6332-162-3 “Percorsi d’Autore” Narrativa
Domenico Grimaldi
Come ti vedi fra cinque anni? Giorni di ordinaria precarietĂ
Edizioni Miele
PRIMI TRE MESI A MILANO Venerdì sera Io non ho orari, non è stabilito da nessuna parte a che ora io debba uscire di qui, quando sia il momento giusto per alzarmi da questa sedia, senza il timore di essere considerato un ladro che sta sgattaiolando via dall’open space. Non ho un contratto che definisca la mia giornata lavorativa. La logica vorrebbe che me ne vada appena finiti i compiti della giornata e li ho già terminati un paio di ore fa, ma seguire questo criterio, in quest’ambiente, è come ostentare blasfemia in un luogo sacro. Bisogna sempre mostrarsi occupati. Nel caso ti venga posta la domanda “Tu come sei messo? Sei preso?”, mai rispondere “Sì sono così libero che mi sto annoiando” ma tergiversare in modo evasivo dicendo di star monitorando, verificando, analizzando, ma che volendo si può procrastinare se ci sono altre priorità. Questo stolto agire è il comportamento più intelligente qui. Un uomo seduto a una scrivania di un ufficio non può essere libero, è in ogni caso occupato, è sempre sul pezzo, come dicono da queste parti. Sono le 18, chi ha un contratto se ne sta andando, quindi potrei decidere di levare le tende anche io. Ma è meglio fare prima una verifica. Imposto il mio cellulare per fare chiamate in anonimo e telefono all’interno dell’ufficio del mio responsabile diretto. Suona a vuoto, deve essere già uscito. Per fortuna di venerdì difficilmente fa straordinari. Bene! Cercare sempre di andare via dopo chi ti controlla. Mi appoggio contento al pannello dell’ascensore, 5
mentre tiro un sospiro di sollievo già con le cuffie dell’Ipod nelle orecchie. Saluto con un cenno alcuni colleghi in fila davanti alla macchinetta del badge che mi guardano con uno strano sorriso che fa trasparire un po’ di paradossale invidia per la mia libertà, anche se solo formale, di non dover quotidianamente registrare il mio tempo in quella macchinetta. Finalmente via, non si respira più aria d’ufficio e non fa niente che sento le polveri sottili anche sui vestiti, il fine settimana mi si apre davanti e l’aria ha comunque il gusto della libertà. Un’altra settimana di lavoro da schiavetto si è trascinata via. Il termine schiavetto non è proprio quello più indicato, meglio dire una settimana di lavoro “usa e getta”, ossia da tirocinante o per fare i fighi stageur. Compenso di 700 euro al mese e devo ritenermi fortunato, tanto fortunato che ricevo una paga. Ti pagano poco, davvero poco, però così fai esperienza, dovresti essere grato, dovresti essere tu a pagare loro, i prodighi che ti beneficiano nel trasmetterti il loro prezioso know-how. Dopo il termine dei sei mesi, forse ti rinnovano la convenzione, fai altri sei mesi da ultima ruota del carro e poi, finalmente, ti assumono. Ma questo se sono dei fessi, dei veri e propri idioti. Molto più concreta è l’ipotesi di essere scaricato nel cesso come un pezzo di carta igienica usata. Perché, con tutta sincerità, per il lavoro che faccio occorrono tre settimane di esperienza per imparare e intendo partendo da zero. Gli anni all’università sono stati solo un continuo inzupparsi di inutile teoria per arrivare ad un pezzo di carta. Quindi, è molto più fruttuoso non assumere il vecchio stagista e prenderne uno nuovo. 6
Finché il mercato tira così tanto, pieno di disperati, giovani neolaureati, così felici d’imparare per pochi euro al mese o anche gratis, coi poveri genitori costretti a mantenere i loro cari parassiti anche dopo gli studi, perché assumere? Poi c’è la possibilità di far firmare un bel contratto a progetto o a tempo determinato, non altro che uno stage un po’ più retribuito. Si ha, così, l’onore di entrar a far parte della foltissima ma ininfluente lobby dei milleuristi. Purtroppo, c’è un problema per i cari dirigenti d’azienda, che hanno diritto a campar anche loro, così competenti nel perseguire l’imperativo venale di mostrare agli azionisti o soci, quanto siano sottomessi nel venerare il profitto dell’azienda. Il contratto a tempo determinato, ingiustificatamente, obbliga, dopo un limite di rinnovi, all’assunzione a tempo indeterminato. So bene che i miei dirigenti sono tipi più che dritti e che tra tre mesi non avrò maggior valore di una carta di pura cellulosa al 100%, quella che non irrita. Dovrei sentirmi incazzato, ma il random del lettore mp3 ha beccato una delle mie canzoni rock preferite, quelle che mi gasano così tanto da farmi svalvolare in una rabbia che ha solo qualità positive. Una vecchina, che mi ha notato avanzare canticchiando tutto infoibato per il fragore delle schitarrate noise che sento scaricare nelle orecchie, mi osserva timorosa per capire se io sia o no un elemento pericoloso. Allora la fisso sorridendo e canto strillandole in faccia “Sonica!!!” Che mi frega del lavoro, che andassero tutti sotto un tram, io sono giovane e il futuro è tutto per me. Ma l’umore mi cala in modo proporzionale nel discendere nel sottosuolo per prendere la metro. Ogni gradino è una coltellata al mio morale. Niente mi ammorba di 7
più del precipitare in quel buco verso il quale tutti corrono presi chi sa da quale fretta e non se ne comprende il motivo, visto che a quell’ora di punta passa un treno ogni pochi minuti. Che sono tre minuti in una vita dove si passano ore davanti al PC o dietro a uno sportello o ad assistere i clienti in un negozio? Eppure mi trovo anche io a correre come un matto, contagiato da quella frenesia. Che esperienza è prendere la metro a Milano il venerdì sera alle 18.30. I vagoni sono capsule fitte di gente che ha appena terminato la propria settimana lavorativa, ma che per tornar finalmente a ritrovare la libertà del fine settimana sono costretti a passare quegli ultimi tragici minuti a contatto con altre persone completamente uguali a loro: figure stressate, visi lunghi e tristi, che cercano di non guardarsi tra di loro per non riconoscersi. Questa visione è terrificante e perciò tutti hanno lo sguardo basso, sprofondato in riviste o libri o perso nel vuoto ascoltando musica da lettori mp3. Non ricordo chi ha detto che la metropolitana è la fogna umana, di certo non si sbagliava. Guadagno lo spazio vitale all’interno del vagone e anche io divento una molecola di quella massa informe, cercando un po’ goffamente di non perdere l’equilibrio o di essere trascinato fuori durante le osmosi di gente ad ogni nuova fermata. Dall’Ipod parte una canzone dei Kaiser Chiefs, troppo allegra non me la sento addosso. Ne faccio partire un'altra e si alza il canto lugubre di Nick Cave, troppo triste, mi ci vuole qualcosa di medio. Il terzo tentativo è quello giusto, un bel pezzo consolante e pieno di elettro-carezze degli Air. A casa, accomodatomi in mutande, decido di cenare 8
subito. Sono affamato, ma riesco a saziarmi con due cotolette che ho comprato in offerta al super mercato. Un euro e novantanove centesimi per duecento grammi di pollo impanato. Sono tre mesi che faccio la spesa in quel supermercato e sono sempre in offerta: misteri della grande distribuzione che mi hanno sempre affascinato. Sono passati già tre mesi, da quando sono andato via dal mio paesotto bello e addormentato nel meridione, dove pascolavo pago, tranquillo e accudito dall’amore e dalla cucina di mammà, per emigrare a Milano, motore economico e puttanaio a cielo aperto del Paese. E in tutto questo tempo avrò mangiato quelle cotolette una sera su tre, accompagnate da tantissima insalata del tipo più scadente, dell’ecoplastica, ma innaffiata, anzi, affogata in dell’ottimo e costosissimo aceto balsamico di Modena, uno dei pochissimi lussi di cui non riesco a privarmi. Mi sono trasferito a Milano dopo la laurea per fare esperienza mal pagata in un’azienda. La pura verità non è la possibilità di fare esperienze lavorative, quella è tutta una facciata, nient’altro che un alibi. Io volevo assaggiare finalmente come fosse la vita in una grande città, conoscere gente nuova, scappare dalle facili comodità familiari, che sono convinto mi tengano sprofondato ad annegare nelle paludi di una vita mediocre. Non ne potevo più del mio paese inutile, abitato da gente ancora più inutile, ma soprattutto del Sud Italia, dove c’è sì il sole, l’aria fresca del mare e l’affetto di mammà, ma io sognavo la pioggia, la polvere e il grigio di Londra, gli stenti e le avventure di una vita al limite del barbonaggio e la mia nuova famiglia sarebbe stata composta da altri individui sognatori, mezzi pazzi come me, fuggiti per scappare dalle mie stesse 9
ossessioni. Londra è rimasta un sogno, mi sono, comunque, accontentato di Milano. Lo smog c’è, lo zingaraggio un po’ meno, tanto col passare degli anni mi è passato il capriccio e tra lo stipendio da stagista e i soldi da casa riesco a cavarmela abbastanza dignitosamente. Mi manca solo di conoscere gente interessante e a dir la verità, mi capita di sentirmi incollata addosso una tristezza da solitudine più frequente di quanto non avrei mai immaginato. Nonostante tutto, riesco a non precipitare nella nostalgia, risollevando il mio morale pensando a tutte le volte che mi sono sentito così o peggio, anche quando ero circondato dal mio humus d’amici e famigliari. Ore 21. Arriva, puntualissima, la quotidiana chiamata di mia madre: “Tesoro! Come stai?” “Bene.” “Hai una voce strana, non è che sei raffreddato?” “Sto bene, ho detto.” “Ti copri quando esci? Ti metti il berretto e la sciarpa? Se ti ammali lì su, come fai? Chi ti cura?” “Sto attento, mamma.” “Hai lasciato qui tutte le canottiere di lana, vuoi che ti faccia un pacco, te le spedisco?” “No, ce l’ho” mento. “Hai cenato?” “Sì.” “Cosa hai cucinato?” “Cotolette e insalata.” “E la frutta?” “Una mela”. Bugia. Non compro frutta, spero che il loro apporto di vitamine sia compensato dall’ ACE che bevo la mattina, così comodo e veloce. Odio 10
sbucciare, ci metto un casino di tempo e mi vene male e poi trovo che le banane, il frutto più comodo, costi troppo. “Qui io ho cucinato la parmigiana.” “Buona” rispondo, cercando di rimanere monocorde. Non posso permettermi di mostrare a mia madre che solo sentire quella parola ‘‘parmigiana’’, mi ha fatto tornare la fame. Oh Dio! Che darei per un po’ di parmigiana, ma è una questione d’orgoglio, io ho 25 anni e non ho più bisogno di mia madre. “Tu sai fare la parmigiana?” “No.” “Non ci vuole niente, prendi le melanzane…” “Mà! Non ora, quando scendo giù m’insegni.” “E quando è che scendi?” “A Pasqua.” “A Pasqua! Ma non puoi scendere prima?” “Ho il lavoro.” “Torna un fine settimana.” “È stressante andare e tornare col treno in due giorni e l’aereo un po’ meno, ma costa troppo.” “Aspetta, che ti chiamo tuo padre” Cinque secondi di silenzio. “Tuo padre ti saluta.” “Ricambio. Va bene mamma, ciao, ci sentiamo domani” “Un attimo che ti devo dire una cosa importante. Quando torni ti faccio conoscere Lorella” dice mia madre, con un sorprendente tono ruffianesco. Negli ultimi tempi, non mi rompe solo per la salute e il cibo, ma si è anche messa in testa di trovarmi una fidanzata. Tutta colpa di quel citrullo di mio cugino, che si è sposato all’età per me ancora adolescenziale di 27 anni. Dal giorno dopo la cerimonia, mia madre mi ha 11
tormentato chiedendomi quando gli avrei presentato la sua futura nuora. È una bambina viziata che chiede un giocattolo: una bella nuora da portarsi in giro e da presentare alle amiche. “E chi è questa?” Dico, scocciato. “Ma come? È la figlia della mia amica Flora.” “Scusa, ma Flora non è anche tua cugina?” “Sì, ma che c’entra? Alla lontana, mi è cugina di secondo grado. Ma non te la ricordi? Una volta è venuta a mare con noi, quando eravate bambini, tu l’hai fatta mettere a piangere tirandole la sabbia.” “Uhm, non ricordo.” “Le ho incontrate tutte e due dal parrucchiere. Lorella si è lasciata da poco. Se la vedessi, come è bella con dei ricci biondi, una così brava ragazza, laureata in giurisprudenza con 110, e poi stanno bene a soldi, il marito di Flora ha un’azienda di pelati, se ti prendi Lorella il posto in fabbrica l’hai assicurato, torni finalmente a casa e sarai subito vicepresidente.” “Va bene mamma, ne parliamo quando torno, ora ti lascio che sono stanco e voglio riposare.” “Ciao, mi raccomando indossa il pigiama pesante.” “Ok, ciao ciao”. E anche oggi il supplizio è finito. Meglio acconsentire per telefono alle improbabili idee e proposte di quell’asfissiante di mia madre, ribattere avrebbe solo allungato il quotidiano supplizio post-cena. Più passa il tempo e più mia madre mi stressa. Già prevedo le sue insidie durante le tanto attese vacanze di Pasqua. Con terrore m’immagino lei che si affaccenda per la sua “Operazione Lorella”. Di sicuro, farà in modo d’invitare a casa lei e la madre. Senza dubbio, studierà e non so come fisserà l’appuntamento, un 12
giorno e in un momento della giornata in cui io sono inchiodato in casa. Per fortuna che nella settimana di Pasqua il campionato è fermo, se no, ci giurerei, mi potrebbe pizzicare durante le partite. Lei sa troppo bene che se me lo dice in anticipo scappo via, mi do alla macchia. Già sento il suo urlo dabbasso per chiamarmi che c’è Flora e Lorella che mi vogliono salutare. Poi le presentazioni: ecco qui il dottore, il mio primogenito, vedi come si è fatto grande e bello, e pensa te, non ha ancora la fidanzata. E il livello d’imbarazzo sale. Questa è Lorella, vedi che bella ragazza, dai siediti vicino a lei, parlale di Milano, io intanto faccio vedere la casa a Flora. E il livello d’imbarazzo s’impenna. Questa scenetta nella mia mente è come un incubo. Mia madre è stata sempre una maestra nel farmi imbarazzare, fin da quando ero bambino. Se passeggiavo per strada con lei mi veniva la tremarella per la paura di incontrare una compagna d’asilo, elementari, medie o liceo. Non potevo salutare nessuna che mia madre, con un sorrisino ebete ed insopportabile in faccia, partiva con l’affliggermi: “Tesoruccio, chi è questa bella bambina?” “Una mia compagna di scuola, mamma.” “È la tua fidanzatina?” “No mamma, compagna di scuola.” “Va bene a scuola? È una brava bambina?” “Sì mamma.” “E i genitori che lavoro fanno?”. La successiva risposta era molto importante nel prosieguo dell’inquisizione: figlia d’imprenditore o di libero professionista o di commerciante profittevole dava come risultato il faccione tutto sorriso di mia 13
madre e previsione di sicuri tentativi di stabilire un’amicizia coi genitori. Nel caso di figlia d’impiegato o d’insegnate (come mia madre) o piccolo commerciante, faccia neutra, proseguimento dell’inchiesta con altre domande sul rendimento scolastico, ma niente tentativi di legare future amicizie. Se si trattava, però, di figlia d’operaio, muratore o artigiano di qualsiasi genere: faccia delusa, espressione delle labbra indicanti disprezzo e fine inesorabile del terzo grado. Una soluzione, però, c’è per evitare quello strazio pasquale: presentare Anna a mia madre. Anna è la ragazza che ho frequentato durante i sei mesi precedenti al mio sbarco, carico di speranze e meraviglie per le mie sicure nuove intrepide esperienze in terra milanese. Anna è - con tutta sincerità per me cosa inspiegabile - innamoratissima di me. Ha sempre acconsentito ai miei assalti sessuali in quei sei mesi, nonostante soffrisse da morire per il fatto che non avessi la minima intenzione di mettermi con lei e che, cinico senza scrupoli, ad ogni suo ti amo rispondessi: “Io ti voglio un gran benone, amica mia.” Le ho sempre ripetuto che per mettermi assieme ad una ragazza io devo esserne innamorato, che in giro è pieno di coppie false ed ipocrite, dove tra entrambi o almeno per uno dei due non c’è amore, ma solo desiderio di non essere soli, o di dare soddisfazione alle rispettive voglie sessuali; che i ragazzi cedevano a questa ipocrisia per la paura di rimanere senza sesso, le ragazze per vergogna. “Io queste cose le faccio solo con chi è il mio ragazzo”. È un ritornello molto in voga tra le ragazze delle mie parti, un vero tormentone. Non è la prima volta che mi capita una storia del genere, ma le altre resistevano al massimo un mese, 14
poi mi lasciavano. Anna, invece, inspiegabilmente, mi sopporta. A differenza delle altre, riesce a superare il mio dichiarare apertamente che per me lei è solo sesso e che non speri che col tempo mi innamori, se non è successo in sei mesi non c’è più alcuna possibilità. Poi con la mia partenza per Milano, si è coronato, finalmente, il mio sogno di vivere via dai genitori e in una città che vedo come terreno fertile per vivere la vita, avere le ragazze e gli amici che ho sempre desiderato. Lei di certo non mi poteva trattenere. L’idea di perderla per me non ha rappresentato un ostacolo alla mia fuga. Neanche 800 km di distanza l’hanno fatta, però, ravvedere. Mi ha ripetuto che mi ama troppo, che non potrà mai amare più nessun altro, quindi, anche se sono lontano, non mi devo preoccupare, lei sarà una monaca di clausura, nonostante io le abbia risposto che per me poteva fare quel che voleva, a me non interessava, doveva ficcarselo in testa che non eravamo una coppia. Io a Milano non avrei cercato d’avere storie, ma se mi capitavano non avrei certo rifiutato. Qui ho mentito ed è la prima volta che l’ho fatto con lei, ma, in quel momento, mi è sembrato troppo crudele dirle che uno dei motivi che mi ha spinto al Nord è quello di trovare finalmente una ragazza con la quale non sia solo sesso, senza, però, rinunciare agli inizi alle facili avventure che di certo mi sarebbero capitate in una metropoli del genere. Non potevo dirle che non ce la facevo più, che avevo troppa voglia di stare con una di cui ero finalmente innamorato. Non potevo dirle che una sana invidia m’intristisce troppo, quando osservavo le coppie vere, dove riconosco il legame di un sincero amore. Ma a Milano, finalmente, avrei trovato la ragaz15
za giusta per me. Non so il perché di questa mia convinzione. Non credo di avere una ragazza ideale, anzi penso che siano stupidi quelli che pensano d’averla. Secondo me, alcune ragazze ti colpiscono più delle altre perché ti stupiscono con quel qualcosa in più che non saresti mai riuscito, manco vagamente ad idealizzare. Ho pensato che una volta raggiunte quelle libertà che solo una vita indipendente e metropolitana mi può dare, sarei finalmente riuscito ad essere chi volevo, ad uscire dal baco e quindi finalmente trovare di chi innamorarmi. Oppure, magari, è meglio fregarsene di essere sempre così fottutamente integro e mettermi con Anna. Che m’interessa se non sono innamorato? Se a lei andava bene così. Tanto io sono qui a Milano, posso fare quello che mi pare, tradirla senza problemi e quando finalmente incontrerò il vero amore la lascerò. Soffrirà, certo. Ma che colpa ne ho io? Le ho dato mille possibilità per farle capire che con me sarebbero stati solo dolori. Presentando Anna, mia madre finirebbe di rompermi. Farà la faccia storta, delusa perché Anna si è fermata alla Ragioneria, lavora saltuariamente come barista e il padre è solo un imbianchino. Sfoggerebbe tanti falsi sorrisi di finto compiacimento, però, poi potrebbe superare la delusione. Finalmente per la prima volta le presento qualcuna che è la mia ragazza. Oppure no, come mi saltano in mente queste idee assurde? Perché devo piegarmi a quest’ipocrisia? Devo solo essere paziente, aspettare, addirittura, forse, anche vedere prima questa Lorella. Chissà, magari è una bella porca. Ne ho davvero bisogno. Una scopata mi urge al più presto. Quando torno giù, certo, per scopare c’è Anna, ma ho 16
anche voglia di cambiare figa. Credo che si debba davvero essere innamorati alla follia per accettare la monogamia. La follia, o cos’altro, può vincere la consapevolezza che ogni ragazza ha un modo tutto suo di scopare. Andare a letto con una ragazza diversa è come fare conoscenza ogni volta con una nuova cultura, un nuovo mondo. È troppo alettante la voglia di provare com’è con un'altra, è come farlo di nuovo per la prima volta. Cazzo però! È da quando sono partito che non scopo. Tre mesi! Qui a Milano la cosa non è facile come prevedevo. Quelle libertine nordiche che te la danno subito! Certo, è più facile conoscere fregna, qui ce n’è tanta in giro. Ma non so, forse sono stato sfigato, ma in tre mesi sono riuscito ad uscire solo con una tipa, una siciliana, che ha fatto l’università a Milano e ormai ha rinnegato le sue origini ed è diventata più bauscia delle meneghine pure. Conosciuta in disco, ero sicuro di scoparmela al primo appuntamento. Cosa che non mi è mai capitata, è stata lei che mi ha approcciato, quindi ero sicuro di piacerle moltissimo. Il primo appuntamento andò benissimo, scoprimmo di avere gli stessi interessi: musica, libri, voglia di scappare e andare all’estero Quindi non credo di esserle apparso noioso. Poi la facevo ridere facilmente, perciò il touch-down mi sembrava assicurato quella sera, dovevo solo trovare il momento giusto per il contatto fisico. E lì furono guai, mi trovai a disagio, mi resi conto che avevo sempre sfruttato l’auto per il primo approccio. Era così semplice in quella scatoletta della mia auto: intimità, le luci soffuse, soffici e invitanti del cruscotto, che tagliano quanto basta l’ideale oscurità e poi naturalmente la giusta musica, che per me voleva 17
dire un bel pezzo remixato dei made for the lust, i mitici Depeche Mode con i bassi al massimo. Ma a Milano, per gli inizi, non potevo permettermi di portare su l’auto. ‘‘E ora come si fa?’’ mi chiedevo. Provai con una passeggiata, ma niente l’inaspettato disagio non scompariva, anzi gradualmente aumentava. Intorno al locale dove eravamo stati c’era un fiume di gente nonostante l’ora tarda. Alla fine, lei, forse scocciata, disse che era stanca e così chiamammo un taxi. Tornai a casa deluso ma non sfiduciato, per la seconda uscita sarei stato più sicuro di me, e quando il taxi sarebbe arrivato a casa sua, in modo deciso sarei sceso anch’ io e ci avrei provato sotto la porta di casa sua. Anche se un po’ mi scocciava l’idea che avrei dovuto pagare un altro taxi per tornare a casa, la tipa meritava il rischio della spesa, poi non era mica tanto remota l’ipotesi che sarei rimasto a dormire da lei. Così, per il secondo appuntamento andai a prenderla a casa. Lei voleva prendere un taxi anche all’andata, verso il locale, ma io le dissi ridendo che era inutile chiamare un taxi a Milano quando ci sono ancora autobus e metro che girano. Per arrivare al locale bastava prendere solo un bus. Ma lei insisteva perché quella sera aveva messo i tacchi alti e la fermata dell’autobus era a cento metri da casa sua e non sapevamo a che altezza era il locale, e quindi poi forse c’era altro da camminare. Io non cedevo, per quella sera prendere due taxi era già un grosso sacrificio per le mie scarne risorse monetarie, un terzo sarebbe stato un dissanguamento. Lei avrebbe sicuramente detto di voler dividere la spesa, ma era solo retorica, avrebbe accennato a mettere mano alla borsetta, ma poi sapevo, dannata cavalleria, che com’era stato per il primo 18
appuntamento, avrei pagato tutto io. Alla fine, l’avevo avuta vinta, ma lei si rabbuiò in viso e mi parve infastidita. Nonostante, per fortuna, l’autobus ci lasciò proprio nei pressi del locale, lei si mostrò fredda durante tutta la serata. Era un’altra persona rispetto alla prima uscita. Stava con me, ma si vedeva palesemente che avrebbe preferito essere altrove. Tutto ciò cancellò la mia sicurezza e così quella sera abbandonai i miei progetti. Almeno risparmiai i soldi del secondo taxi. La richiamai un paio di volte per rivederci, ma dopo la seconda scusa, decisi di rinunciare e mi dichiarai sconfitto. L’orgoglio mi precluse ogni voglia di piegarmi a ulteriori tentativi e non l’ho richiamata più. È già passato un mese, ma quella storia continua a farmi sentire un po’ abbattuto e sfiduciato. Non so se sia il caso o no di uscire questa sera. Ho una voglia matta di un bel locale, una discoteca, anche se odio andarci, è il posto giusto per conoscere qualcuna con la quale, me l’auguro, potrei essere più fortunato. Io odio andare a ballare, ho il disgusto per quella musica, detesto la gente da discoteca. I tipi da privé e gli splendidi PR li manderei tutti su un’isola deserta. Ma se voglio conoscere ragazze, quelli sono i posti ideali. Se non trovo una ragazza, c’è il rischio di finir con le puttane, quelle di professione, per fare distinzione. Dalle mie parti non vado mai a ballare, non ce n’ è bisogno. Basta attendere una buona pesca nella rete scopereccia dell’università ed è una fortuna, perché da dove vengo è molto più difficile conoscere ragazze in discoteca. Il livello d’ostilità delle ragazze è tanto alto che i pali che si prendono sono così indigesti, che mi fanno preferire la vigliaccheria alla possibilità di ferire il mio enorme orgoglio. Forse perché 19