ISBN 978-88-6332-100-5
Lucia Dini
NON TI HO MAI DETTO
Edizioni Miele
“Da Donna a Donna “ Narrativa
“Soltanto una cosa rende impossibile un sogno: la paura di fallire� Paulo Coelho
Dedico questo libro al sogno che ho di lui, e a quel sogno che lui mi ha permesso di sognare. Con immenso e profondo senso di gratitudine, per tutto quello che ha saputo darmi, per l’intrecciarsi delle nostre vite, le emozioni condivise, la forza che mi ha trasmesso e per l’amore che mi ha lasciato nel cuore.
Nei miei giorni e nelle mie notti, nei pensieri e nelle illusioni, in ogni istante vissuto con lui accanto. Lucia
INTRODUZIONE DELL’AUTRICE La forza dei sogni. Il potere che attiva nelle viscere della vita la capacità di sognare. Troppo spesso le persone non hanno sogni, per paura, perché la vita impone una concretezza che lascia poco spazio alla fantasia. Ma talvolta i sogni diventano realtà, se abbiamo il coraggio di sognarli, quando siamo in grado di trasformarli in obiettivi da raggiungere. E loro trasformano le nostre vite, le alimentano, diventano motori di ricerca. Questo sogno è una fantasia, un’ispirazione, questo sogno è un desiderio. Ha il volto di un angelo, di un diabolico angelo rapitore di anime… qualcuno dice. Ha il carisma di un divo di fama internazionale, e la semplicità di un uomo qualunque. È la guida, il punto di riferimento, è l’iniezione di fiducia e coraggio nell’affrontare la vita, anche quando non vuoi, o non puoi, quando non ce la fai a viverla. Il sottile confine tra l’illusione e la realtà, la mia, quella di ciascuno. È ciò che vorremmo che fosse, un miraggio da raggiungere, un’intuizione da cogliere al volo, una sensazione da inseguire, una passione e un dolore. Stupendo come una giornata di sole, luminoso come un’alba, irraggiungibile come un gabbiano, impalpabile come uno spirito. È solamente un sogno. 11
CAPITOLO 1 COSI’ UN ANGELO MI HA PRESA PER MANO I momenti più dolci dei miei 15 anni sono le domeniche pomeriggio. Nella camera da letto adiacente al salotto, mio padre trascorre ore a deliziare le orecchie dei presenti col divino suono del suo violino. Mentre ognuno è immerso nelle proprie faccende, una musica sottile e celestiale echeggia tra le mura di casa e per la via sottostante. Di tanto in tanto, sconosciuti passanti si fermano ad ascoltare, rapiti e attenti. Le poche volte che mi intrufolo nella stanza dell’arte, guardo il letto sommerso dagli spartiti, e il volto maturo e olivastro di mio padre che sembra un tutt’uno con lo strumento che stringe tra le mani. Il violino è la massima espressione di sé, anche perché l’ha costruito da solo. È il suo rifugio, specie in questo momento della vita. Ogni volta che riposa le sue dita, e ripone lo strumento, un silenzio gelido e profondo pervade la casa. Io siedo al tavolo grande e ovale della sala da pranzo: me ne sto ore a sfogliare gli album di fotografie, a riempire fogli bianchi da disegno in modo disordinato, verde… giallo… rosso... azzurro. So già che la mattina seguente, a scuola, le mie compagne racconteranno dei loro pomeriggi in discoteca, dei ragazzi che hanno conosciuto, degli abiti comprati in quel negozietto della via centrale che a loro piace tanto. E di quante “vasche” hanno fatto per la 13
piazza con la fontana. Invece, io non potrò raccontare nulla, di nessun sogno che sono in grado di sognare. Sono trascorsi solo pochi mesi da quando la mamma se n’è andata, “è volata in cielo vicino a Gesù“, mi dice la preside dell’Istituto Parificato, Suor M.… vattelapesca. Ogni volta che percorro il corridoio di casa, lo sguardo si posa su quel buco enorme in piena anta dell’armadio, sul legno sfondato con un pugno violentissimo che diedi quella mattina, mentre al telefono la nonna annunciava la scomparsa di sua figlia. Da allora, la mia vita si è ribaltata, capovolta. Da allora, nulla ha più un senso, nulla ha più colore, o sapore, nessuna gioia, o luce. Le pastiglie di Tavor mi tengono compagnia sul comodino accanto al letto. A dire il vero, non ho voglia di dormire, se mi addormento sogno il dolore della perdita più dolorosa che c’è, e al risveglio il cuscino è sempre zuppo di lacrime e sofferenza. Magari, ci vorrebbe un lungo sonno, un lungo sonno… che non mi faccia più soffrire. Mio fratello F. accende il televisore, e i canali passano in rassegna di tutto un po’. Ma che bisogno c’è di schiacciare vertiginosamente i tasti del telecomando, senza il tempo di capire l’inizio e la fine di ciò che si sta guardando? Mi gira la testa. “E poi c’è sempre quel ragazzino odioso e viziato figlio di papà; non lo sopporto, è dappertutto! Imparasse un po’ a ballare, e a cantare. E qualcuno ha il coraggio di chiamarla musica”. L’estate tarda ad arrivare, o forse sono io a non sentire il calore del sole, il calore della vita. 14
Ho tanto freddo dentro, ed è così buio. Non riesco a trovare un motivo, uno stimolo che mi faccia desiderare di svegliarmi la mattina seguente, l’arrivo di un’altra alba che precede una giornata da vivere e da inventare. Nemmeno la Madre Superiora dell’Istituto riesce a trovare parole adeguate a lenire la mia sofferenza, e riempire un vuoto enorme: “Cara Lucia, per quanto tu ora non possa comprenderlo, questo è il disegno di Dio”. “Allora dica a Dio che disegno meglio io!”. L. e T. fanno a gara per tirarmi fuori di casa, il sabato in giro per shopping, la domenica potremmo andare al cinema; poi mercoledì sera non dimentichiamo il concerto! Quale concerto? Ma di cosa stanno parlando? “Vuoi scherzare? Abbiamo già i biglietti, anche per te, lui è fantastico, bello da morire. E poi canta da Dio! Devi assolutamente venire al suo concerto!”. Lasciamo un attimo da parte Dio, che già non c’è un buon rapporto. “Nella maniera più categorica, mi rifiuto di trascorrere una serata a guardare quel ragazzino saltellare da una parte all’altra; già non lo reggo via cavo, e cambio canale appena lo vedo”. Come spesso accade, la maggioranza vince. Le mie amiche hanno coinvolto anche mio fratello, e l’amico di mio fratello, pure il padre dell’amico di mio fratello. Non ho scampo. Mi lascio trascinare allo stadio, e mentre brontolo come una pentola di fagioli prendiamo posto in cima alla gradinata, l’ultima in alto. 15
Accidenti! Da qui non si vede niente! A guardare le centinaia, migliaia di volti eccitati che attendono trepidanti lo spegnersi delle luci bianche dello stadio, considero il fatto che sono la sola a non provare il minimo interesse, né per la situazione del momento, tantomeno per te che da un momento all’altro farai il tuo ingresso tra fumi e fasci di luci multicolore. Ma che diavolo ci faccio qui? Aiuto! Voglio tornare a casa, voglio scavalcare questa marea di borse, giacche, sacchetti di plastica e bottiglie di minerale, e correre lontano. Ma un boato si leva alto nel cielo fino a toccare le stelle, il buio totale è squarciato dai fari accecanti; la rullata di tamburo introduce l’inizio dello show. Una luce bianca dall’alto del palco si sposta in continuazione, come a inseguire l’omino vestito di rosso e blu che non sta fermo un attimo, e attraversa la pedana in lungo e in largo. “Eccolo! È lui!”. Tutto lì?! Un puntino nella luce. “È bellissimo, ancora di più che in tv”. L. e T. seguono rapite ogni nota, ogni gesto, ogni movimento di quel tuo corpo sottile che ancheggia ad un ritmo forsennato. Migliaia di mani applaudono rumorose, migliaia di voci urlano fino a coprire la musica. Due ballerine si avvinghiano a te come tralci di edera, altri due ballerini volteggiano lievi, poi scompaiono sul lato. A guardarti col binocolo, non sei poi tanto male… e in fondo tieni bene la scena. Fermo di fronte all’asta del microfono, fasciato in 16
una tuta di raso bianco, introduci una canzone che sa di mieloso romanticismo. Le chitarre assordanti lasciano il posto alla magia del pianoforte, i mille bagliori si riposano nei proiettori. Un unico fascio di luce ti investe, perdendosi nel fondale del palco. All’improvviso, come in un film, ogni cosa intorno a me sfuma i contorni e smorza i suoni, le urla del pubblico si fanno lontanissimi echi e le braccia protese al cielo sembrano ali di gabbiani. Non riesco nemmeno a recepire le parole della canzone, le note del piano, e il buio prende il sopravvento anche sui volti circostanti. Tutto è rarefatto, una pellicola a rallentatore. Una figura di donna sbuca dal fondo del palco, ti è accanto. Quando la luce la investe, un tumulto di stupore e sbigottimento. Un sussurro lieve sfiora le mie labbra per un flebilissimo “mamma”… Una mano scivola attorno al tuo braccio, l’altra, lenta, è un gesto di richiamo. Come a dirmi: “Avvicinati, vieni a raggiungerci”. È una donna sorridente quella che mi sta chiamando, serena, il volto dolce di madre, una dolcezza che nella vita raramente avevo potuto vedere. Pochi istanti che sembrano durare un’eternità. Lei si stringe a te, fermo al centro della scena, poi si dilegua tra le pieghe del fondale. Una, due lacrime scendono veloci sul mio viso, non riesco a posare lo sguardo altrove se non verso quella visione, quel sogno o allucinazione. Verso un dolore che ha preso forma, e che ancora una volta se n’è andato. Sono come inebetita, mentre le luci e i suoni tornano prepotenti ad invadere ogni cosa. 17
Ma tutto, ora, ha un colore diverso, un diverso significato. Non so ancora quale, non so dove o cosa devo cercare, ma so che non sarà più come prima. Il rientro a casa ha per me il sapore di un lungo silenzio; mentre le voci di L. e T. scandiscono elogi e complimenti sullo spettacolo, sulle luci, sulle canzoni, sulle ballerine, su di te, tanto su di te, tutto su di te… i miei pensieri volano alti, ripercorrono il tempo all’indietro e si posano su quella immagine di donna al tuo fianco, quella immagine di mamma che teneramente mi chiamava a sé. “Ma allora, cosa ne pensi adesso?”. “Carino… sì, carino”. Non posso, non posso dire che questa serata ha sconvolto la mia esistenza, e che non faccio che domandarmi “Perché lui?”. Già, ma per quale motivo proprio tu? Con tutti i ragazzi che esistono, proprio uno comodo e abbordabile è andata a scegliere. Cosa avrà voluto dirmi? Non posso condividere con nessuno questo sogno ad occhi aperti. I giorni a seguire sono pieni di te. Il tavolo ovale è invaso da pagine di riviste il cui comune denominatore è il tuo viso, il tuo nome, la tua storia. Voglio sapere tutto, e mentre faccio scorpacciate di notizie e pettegolezzi, scopro la persona che sei, la tua sensibilità, il tuo cuore. Alle domande più impertinenti rispondi sempre col sorriso, con calma, una dolcezza che mi affascina, con una solidità che a me manca. Scopro… che mi piace ciò che sto scoprendo. Mi piace tutto di te, ogni angolo del tuo viso, ogni suono della tua voce, ogni ciuffo di capelli e ogni gesto di tenerezza. La mia ricerca è facile, in ogni copertina rimbalza la 18
tua immagine, le iniziali del tuo nome in ogni forma e dimensione. Ancora non mi rendo conto che, queste iniziali, rimarranno incise nella mia vita per sempre. Sono trascorse settimane ormai da quel concerto, ogni sera i pensieri si affollano e la mente cerca di metterli in ordine: ci sono tante cose da fare l’indomani, e non vedo l’ora che arrivi il nuovo giorno per… Un momento, ma cosa sto dicendo? Un sobbalzo di emozione. Soltanto adesso mi accorgo di avere un nuovo sogno da sognare, un motivo per desiderare l’alba di una giornata da vivere, e da inventare. Ma certo, ora ho capito. Sul tavolo, una fotografia di te vestito di bianco, al centro della scena, la stessa immagine di quella sera. Nella foto non c’è la figura di donna, di mia madre che si stringeva a te; ma nella memoria, sì, rammento il suo richiamo. Questo voleva dirmi, voleva che tornassi a sognare la vita. E ha scelto te come strumento meraviglioso per ridarmi il sogno, la speranza, uno stimolo. Tu, un raggio di luce che ha illuminato un buio più profondo di una notte senza stelle. Tu, un angelo che mi ha presa per mano, e mi ha riportata a volare.
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CAPITOLO 2 NON CI POSSO CREDERE! “I cipressi che a Bolgheri alti e schietti, van da San Guido in duplice filar…”. La meravigliosa quanto interminabile poesia di Carducci è la sola rimasta nella memoria. Mi sovviene al ritorno verso casa, mentre con l’auto percorriamo lunghe strade alberate lasciando alle spalle l’inconfondibile città del Palio. La Fiat 500 è diventata ormai un’istituzione, la nostra “casa” viaggiante, mia e di mio padre, la nostra migliore alleata per rendere indimenticabili le gite fuori porta. Un cimelio, che quando scoppietta e brucia olio ci segnala che vuole proprio riposare. Giusto il momento di sgranchire un po’ le gambe e fare quattro passi nella natura. Di sicuro, i viaggi più divertenti della mia vita. Potrei recitare ogni strofa, ricordo persino le ore trascorse a ripetere all’infinito ogni parola, una domenica pomeriggio, seduta accanto alla nonna. Che donna straordinaria, nonna A. La “roccia” della famiglia, quella su cui si può sempre contare, col cuore grande ed un incredibile coraggio. Sto parlando di coraggio vero, quel sentimento che si dimostra nelle circostanze più difficili che solo la vita sa mettere davanti. Fino ad un anno fa, erano due le foto in bianco e nero sul suo comodino, accanto al letto; i due uomini più importanti nel suo cuore. Il nonno lo ricordo 21
molto bene, è stato con noi fino a poco tempo fa; il giovane accanto non l’ho conosciuto, ma da lui ho ereditato il nome. Zio L., il fratello minore di mamma I., si ammalò gravemente di un brutto male che lo privò della vista, e anche della vita. Credo sia terribile, per una madre, perdere un figlio, non immagino doverli seppellire entrambe. Ma lei non ha mai lasciato indietro il suo cuore, il sorriso rassicurante, il volto gioviale e la voce squillante, con la quale mi chiama quando ti vede in televisione: “Corri Lucia, corri che c’è lui!”. Anche la nonna sa molto bene quanto il sogno che ho di te mi abbia restituito la voglia di vivere. Solo da poche ore abbiamo lasciato Siena, e siamo nel cuore dell’entroterra toscano. Il paesaggio che si mostra dinanzi è bello da togliere il fiato; filari infiniti di pini e cipressi accompagnano il nostro rientro, rendendolo ancora più dolce. “…Vedi come pacato e azzurro è il mare, come ridente a lui discende il sol…”. Mi chiedo se i colori del tramonto nelle rime del Carducci, siano gli stessi che riempiono i nostri occhi, ora, di pura magia. Papà D. sorride teneramente, mentre mi guardo le mani. Sono ancora strette alle tue, e ancora sento il rossore delle mie guance quando ti avvicini per un bacio lieve. Non riesco a credere che sia accaduto davvero, di aver colorato il mio sogno con le tinte della realtà. Eppure, solo poche ore fa ti ho guardato negli occhi, ti ho sfiorato il viso, ti ho abbracciato forte. Mi accoccolo sul sedile accanto al posto di guida, vorrei riuscire a tenere compagnia a mio padre che anche oggi percorrerà centinaia di chilometri verso 22
casa. Chissà tu quanti chilometri percorrerai, verso dove. Il capo si reclina sul finestrino, il sole infuocato inebria la mente, scalda il cuore. Anche se fuori fa un freddo gelido e i vetri dell’auto si fanno opachi e umidi di brina. Papà sta dicendo qualcosa, non riesco a sentirlo. Il rumore del motore mi culla come una dolce cantilena soporifera, le palpebre calano senza preavviso. Solo il tempo per sperare di sognare di te…
In oltre un anno, ho raccolto centinaia di foto e ritagli di giornali che ti riguardano. Mio fratello lo chiama “il librone”, l’insieme dei maxi quaderni a quadretti nei quali ho trascritto ogni parola e appiccicato ogni immagine di te. La prima pagina è un foglio bianco. Ogni volta che la guardo, immagino una penna tra le tue dita che scorre veloce a riempire lo spazio vuoto. Nella città in cui vivo, le giornate di sole a dicembre sono limpide e terse, il vento soffia forte dal mare, spazzando via le foglie secche. E pure qualche cappello di alcune anziane passanti. Sono molto eccitata, mentre saluto L. e T. fuori dal cancello, dopo la scuola; l’indomani papà D. mi accompagnerà ad un tuo concerto, il primo di quest’anno. Loro sorridono e mi abbracciano forte, ma lo so che un po’ di invidia le rode. È bizzarro, in fondo sono state loro a trascinarmi al tuo spettacolo lo scorso anno; e io che non ci volevo andare! La mattina presto, le raccomandazioni della nonna ci accompagnano fino alla portiera dell’auto: “Per favore, fate attenzione alla neve”. Ma in Toscana non c’è la neve! Mio padre lo sa molto bene, stiamo parlando della sua terra, toscano doc fin nelle viscere. 23
In macchina, non abbiamo alcun bisogno della radio, intoniamo una hit parade di brani uno dopo l’altro da fare un baffo a “Discoring”, mentre col dito sulla cartina stradale seguo il percorso segnato dal pennarello. “Come fai a fare il musicista, che sei stonato come una campana?”. Papà sorride, lo fa spesso, nonostante il dolore che ha dentro, ancora. Credo che la mamma gli manchi moltissimo, lo so, lo sento. Non ne fa parola, del vuoto immenso che porta con sé; il suo punto di riferimento, l’amore maiuscolo per il quale aveva accantonato la sua arte, per il quale ventuno anni di differenza non erano riusciti a tenerli lontani, se n’è andato via, dove lui non può raggiungerlo. Ma non conosco persona più positiva e gioviale di lui, compagno di risate anche per gli amici di mio fratello, che la sera si radunano attorno al tavolo ovale fino a tarda notte ad ascoltare le peripezie di quel giovane talento, e delle scorribande che mettevano a perdere i negozianti di mezza Livorno: “Va bene, va bene, ovvìa, ancora una battuta! Poi, tutti a nanna”. Non parliamo quasi mai di te, io e mio padre: non ce n’è bisogno. Lui ...conosce il mio cuore. Che adesso batte all’inverosimile. Quanto è bella Siena, antica, intrisa di storia. Riconosco le vie ciottolate inquadrate in televisione durante il Palio, siamo nel centro della città. Ormai è ora di pranzo. Una donnona alta e robusta se ne sta in mezzo alla piazza: “Guarda, c’è una vigilessa”. 24
“La senta, che mi sa dire dove sta il palasport?”, è meglio che parli lui. La signora in divisa prosegue a scrivere sul blocco che tiene ben stretto, e non accenna ad alzare lo sguardo. Ma, avrà sentito? “Sessirigiracel’haddavanti”. Wow! D’un sol fiato. In effetti, è proprio alle nostre spalle. In una trattoria nascosta e solitaria, appena fuori dal centro, il cameriere ci porta il menù; al tavolo a fianco una decina di persone fanno baccano come se festeggiassero qualcosa. Indossano delle felpe nere e gialle, tutte uguali. Il capotavola si alza e si allontana; sulla maglia sotto la giacca sbottonata leggo la scritta in bianco “staff”. Vuoi vedere che lavorano per lo show di stasera? Se ne vanno, è ora di tornare al lavoro. Non posso non pensare che ogni giorno hanno la possibilità di starti accanto, e un po’ le invidio. Cosa darei per vederti anche solo un istante! Me lo farei bastare per tutta la vita. Davanti al cancello chiuso del palasport, non c’è anima viva; il freddo si è fatto ancora più pungente. Qualche metro più in là, E., il tour manager, attende l’arrivo di una macchina da far posteggiare all’interno della struttura. Mio padre inizia a conversare con lui, si riconoscono dall’anno precedente: difficile che un’accoppiata così bizzarra come la nostra passi inosservata. Non so come, sta di fatto che mi trovo seduta al calduccio su una seggiolina, di fronte ad una grossa porta bianca. “Ma come sei riuscito a farci entrare?”. Papà come al solito abbozza un sorriso sornione, la favella 25
toscana deve aver fatto ancora il suo effetto. E. entra ed esce continuamente da quella porta enorme, il viso è sempre un po’ teso, e impartisce disposizioni molto precise agli addetti alla sicurezza. Il piccolo spazio con le seggioline diventa sempre più affollato. Non ho freddo, anzi, eppure mi accorgo che il collo sta quasi per scomparire tra le spallucce inarcate; mi sto raggomitolando come un gatto attorno a se stesso. “Cosa ci sarà dietro quella porta? C’è un tale via vai”. Uno spiraglio lascia intravvedere una figura esile e minuta, i capelli corti e biondi, che ora si infila un giaccone col pelo e borbotta qualcosa in un’altra lingua. La riconosco, il suo volto mi torna in mente come un lampo, uno squarcio di luce nella memoria. “Ma sì, pà, non ricordi, lo scorso anno mi cercò tra il pubblico a spettacolo iniziato per portarmi la foto autografata! Come potrei sbagliarmi”. Come può sbagliare il cuore. La voce severa di E. mi distoglie: “Per favore, tutti fuori, restano solo gli addetti ai lavori”. Ops, e adesso? Il folto gruppetto che se ne sta in piedi davanti a noi aspetta di entrare dalla porta segreta. Sono di una radio della provincia. Altri più in disparte sono parenti e amici dell’organizzatore. Sta arrivando una biondona su dei trampoli con una minigonna vertiginosa. Brrrr!, col freddo che fa fuori! C’è una gran confusione, ora, e il mio stomaco si accartoccia come prima di un’interrogazione. Come mai tutti qui? Non so quante volte E. passa e ripassa accanto, 26
nemmeno ci guarda, come non ci vedesse. Restiamo seduti ancora un po’, fin quando non ci dirà di emigrare riconsegnandoci al freddo e alle stelle. Un po’ alla volta, il gruppetto di giornalisti si sfoltisce. L’ultima ad uscire è la fatalona dalle lunghe gambe. Il pubblico sta per entrare, tra poco apriranno i cancelli. Mi chiedo come sia possibile la nostra presenza ancora qui, si sono dimenticati di noi. C’è un gran silenzio, ora, se ne sono andati tutti. La grande porta si apre quanto basta per scorgere ancora R., il suo sorriso dolce, gli occhi celesti che cercano… aiuto!, sta guardando da questa parte. “Lucìa, vieni. Lui ti sta aspettando”. Improvvisamente mi gela la schiena, le dita intirizzite stringono le mani di mio padre. “Per favore, vieni con me”. Nemmeno per sogno! Mammina mia!, pensaci tu. E come ci arrivo a quella porta? Le gambe non mi sostengono, l’emozione gioca brutti scherzi, le ginocchia fanno “giacomo giacomo”. Barcollo un po’ all’indietro. Nello spogliatoio, i musicisti e le coriste si preparano ad entrare in scena per le prove, i tecnici passano con chiavi inglesi e cacciaviti. Decine di bottiglie di minerale invadono le panche giallo limone, ogni attaccapanni è occupato da asciugamani e borsoni. Abiti in raso e lustrini sono appesi ovunque. Non ti scorgo subito, sei girato di schiena, chino a stringere i lacci delle scarpe, una diversa dall’altra. Ti alzi, ti volti, il tuo sguardo mi investe. Oddio!, cosa sei. E quanto sei alto! Il tuo sorriso potrebbe illuminare tutto il circondario 27
da quanto fa luce, le mie mani sono strette tra le tue, calde e affusolate. Passa qualche secondo prima che riesca a comprendere che quello che ho davanti non è il poster nella stanza di L., o il ritaglio di giornale che T. tiene nel diario. “Ma sei proprio tu…”. Lo so, sto facendo la figura dell’oca, del resto non mi esce una sillaba mentre mi chiedi di poter sfogliare le pagine di “quella enciclopedia che tieni tra le mani”. Ma certo, il “librone”. Mi chiedi di me, da dove arrivo, se ho già visto dei tuoi concerti e se mi sono piaciuti. Non riesco a distogliere lo sguardo dal sorriso col quale accompagni ogni pagina che giri, lento, attento. Non so risponderti, non posso dirti che mentre ti guardo rivedo l’immagine che mi ha ribaltato la vita, più di un anno fa. “Lucìa… è un nome molto presente nella mia vita”. Ed è il nome che va a riempire la prima pagina in bianco: “A Lucìa tanti baci…”. Come d’incanto, il sogno prende forma e colore. Ha il sapore di un tuo bacio, il profumo della tua pelle, il colore dei tuoi occhi. La grande porta si richiude alle spalle, mentre raggiungo mio padre appollaiato sul sedile ad aspettare di raccogliere cosa resta di me, del mio cuore esploso dall’emozione. Dal varco sulla sinistra si accede direttamente agli spalti già affollati di un pubblico multicolore, al quale è dato il privilegio di assistere alle prove del suono. Tu compari sulla scena, sei ancora vestito come ti ho lasciato in camerino. Le scarpe sono ancora di due colori diversi. 28
Per tutto lo spettacolo, i miei occhi sono lucidi e la voce stenta ad uscire. Vorrei unirmi al coro della gente che sottolinea ogni verso delle tue canzoni, vorrei battere le mani a ritmo della musica. Vorrei ballare insieme a te che inciti il pubblico in un tripudio di ovazioni. In realtà, vorrei soltanto essere ancora in quel camerino, con te accanto, con te vicino, tanto da sentire il tuo respiro. Terminato lo show, resta solo il tempo per correre fuori dal palasport, appena per vederti salire sulla macchina lunga e scura con cui ti allontani. Un dolore sordo mi attanaglia la gola, fa ancora più male guardarti andar via, adesso.
“Lucia!, siamo quasi arrivati a casa. O che dormita c’hai fatto!”. Papà D. è fuori dall’auto, siamo fermi all’autogrill. “Stavo sognando di lui”. Un momento, non è che ho sognato tutto? Il concerto, e il resto? Scendo, di scatto, un po’ d’aria fresca mi fa bene. Il rumore di un clacson mi fa sobbalzare all’indietro, un lunghissimo tir mi passa accanto; sulle fiancate nere e lucide, il tuo nome a caratteri cubitali. Il “librone” è ancora stretto tra le mie mani, con le dita sfioro ogni lettera della dedica in prima pagina. Un sospiro di sollievo. Avevo paura che l’immagine di te svanisse, come quella di mamma I. che si stringeva accanto. Temevo che anche tu ti perdessi, tra le pieghe del fondale del mio cuore. Grazie. E al prossimo sogno.
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