«A questo punto smetti». Raccolta di poesie

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L’Editore è a disposizione degli aventi diritto con i quali non è stato possibile comunicare, nonché per eventuali omissioni o inesattezze nella citazione delle fonti © Centro Coscienza © 2015 Edizioni di Maieutica Corso di Porta Nuova 16 20121 Milano Progetto grafico e realizzazione editoriale a cura della Fondazione Tullio Castellani www.centrocoscienza.it


Indice

Introduzione

p. 5

Raccolta di poesie

p. 11

Note ai testi

p. 49

Bibliografia

p. 53



Introduzione

La ricerca poetica ha una lunga tradizione a Centro Coscienza e da molti anni un gruppo la pratica con corsi, seminari, conferenze. Ripensando il materiale dei corsi di poesia tenuti negli ultimi anni, i testi scelti, le note di commento, è emerso nei componenti del gruppo il desiderio di proporre, attraverso una selezione, un ulteriore livello di riflessione. Le ricerche sono sempre state orientate alla scoperta di eventi significativi che segnano le epoche di esistenza degli autori e dei corrispondenti riflessi nel loro linguaggio. Lungo questa linea, molti poeti hanno però espresso, a tempo debito, un momento di riflessione rivolto non più a tratti del percorso, ma all’intero arco della vita, dando luogo a testimonianze che potrebbero essere definite come “riflessioni conclusive”. Le caratterizza un mutamento dello sguardo d’insieme, una più risolutiva attitudine simbolica. Quale fonte e scenario di queste rappresentazioni spesso si offre la 5


natura, come avviene nella incantata atmosfera metafisica dell’inverno di Hölderlin, dove tutte le esistenze vengono accolte e viene offerta protezione al loro divenire (L’inverno dall’opera Poesie della torre, 1840). A questa grandiosa visione fa da contrappunto l’albero autunnale di Rilke, che insieme al proprio abito perde la forma della piena stagione e protende i rami spogli in un abisso di cielo «che non ci conosce», destando un profondo senso di smarrimento e di vertigine (Autunno dalla raccolta Poesie sparse, 1907-1926). Alla ricorrente presenza operante della natura, si alternano i temi direttamente rivolti all’interiorità: lì dove i percorsi toccano la materia incandescente dei punti di approdo. In una gamma di riflessioni poetiche che suscita meraviglia per ampiezza di campo e diversificazione di temi, emergono le valutazioni di prossimità o di lontananza rispetto agli orizzonti perseguiti. E i bilanci procedono, con colpi di sonda, a nuove e spesso spietate scoperte di sé e delle proprie scelte, come per esempio avviene a Zach, un interessante poeta israeliano, tra i meno conosciuti della raccolta, che non si sottrae a disincantati e complessi interrogativi sull’impostazione di tutta una vita: «Devo rassegnarmi a non potere, qui, / raddrizzare nulla. (...) / Ti ho forse più amata / perché volevo raddrizzare / qualche stortura, redimere // ciò che non 6


venni a redimere? / E non me ne vado ancora. / E certamente non finisce qui» (Tre poesie diverse dall’opera Sento cadere qualcosa, 1960-2008). Oppure, come avviene a Zanzotto, che a un certo punto della sua già affermata e rassicurante carriera poetica, si mette a lanciare caustici quesiti all’indirizzo della condizione ultraterrena, e inevitabilmente terrena, con simili bordate: «Che sarà della neve / che sarà di noi? Una curva sul ghiaccio / e poi e poi... // (…) Che sarà della neve, del giardino, / che sarà del libero arbitrio e del destino / e di chi ha perso nella neve il cammino?» (Sì, ancora la neve dall’opera La Beltà, 1968). Oltre dunque alla scoperta, all’attestazione e revisione di cose compiute, tutte tonalità variamente presenti in poeti di peso come Ungaretti, Quasimodo, Mandel’štam, Montale, Tranströmer, non poteva mancare l’urlo, un suono lungamente sentito in tutto il Novecento, nel quale si imprimono le vibrazioni risolutive di Anna Achmatova: «Ma io vi prevengo che vivo / per l’ultima volta» (dall’opera La corsa del tempo, 1965). Sono più rare, ed è comprensibile la particolare attenzione da esse suscitata, le testimonianze nelle quali la protesta esistenziale non trova campo, grazie a processi vitali compiutamente realizzati, come nel caso di Jiménez e di Wallace Stevens. 7


Jiménez fa sentire la sua voce dal vertice di un percorso artistico e umano, dal quale non esita a lanciare un inno di pienezza assoluta, sentendosi in grado ormai di «accarezzare / nuda la verità sulle [mie] ginocchia (…) andare finalmente a tutto, / perdere tempo – tempo e luogo –, / estasiarmi nel vivere, / fino a restare, eterno infine, morto!» (La gloria dall’opera Pietra e cielo, 1919). Stevens, da parte sua aveva già scritto precocemente un testamento lirico dedicato a un personaggio suggestivo quale «l’angelo della realtà», che precisava di essere «l’angelo necessario della terra» nel cui sguardo si sarebbe potuta vedere «la terra nuovamente // libera dalla sua dura e ostinata maniera umana» (L’angelo circondato da paysans, 1949, dall’opera Il mondo come meditazione). Più avanti negli anni, l’autore rivolge la sua dedica a uno degli stati raggiunti con la meditazione dicendo: «Sentiamo l’oscurità di un ordine, un tutto, / un conoscere, ciò che fissò il rendez-vous, // entro il suo confine vitale (...)» e il titolo della poesia Soliloquio finale dell’amante interiore (1950) potrebbe essere assunto come emblema dei testi scelti ai quali conferire insieme all’eleganza un’alta finalità. Va rilevato che la forma del soliloquio, come è facile intuire dalla materia trattata, è ampiamente presente, ma che spesso compare quella del colloquio; 8


colloquio tra sé e sé, tra io lirico e lettore, al quale viene affidato il patrimonio della volontà evocativa contenuta in queste composizioni: il senso di totalità che emerge da un’esperienza personale unica e originale. Senso legato inevitabilmente a ciò che è stato, a un passato che nella meditazione lirica trova la sua essenza più vera, anche se accade di trovare qualche autore che non si preclude uno sguardo, un accenno, una domanda su ciò che potrà avvenire adesso, giunto a questo punto, come dice il titolo di una poesia di Montale presente nella raccolta.

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