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Cover Nutriscore e Nutrinform: il derby delle etichette ancora tutto da giocare

Nutriscore e Nutrinform:

il derby delle etichette ancora tutto da giocare

L’Europa dovrà completare l’analisi che sta conducendo sui sistemi adottati dai vari Paesi, ma qualunque decisione potrebbe avere un grande impatto sui prodotti locali e sulle private label che su essi hanno fatto il proprio punto di forza.

Dopo il 31 ottobre 2017 in cui il ministero della Sanità francese ha riconosciuto con un decreto il logo Nutriscore, lo stesso mese del 2020 il ministero delle Politiche Agricole italiano ha salutato l’introduzione volontaria del Nutrinform Battery. In quattro anni e mezzo il tema delle etichette fronte-pacco o “Fop Labels” nell’Unione europea è parso l’ennesimo braccio di ferro fra Parigi e Roma; tuttavia, se approfondiamo l’argomento, emerge un intreccio fra scienza, volontà politica ed economia della supply chain.

u Lavoro di squadra Sia Nutriscore che Nutrinform sono frutto di studi preparatori da parte di squadre di esperti. L’etichetta francese ha un “padre” ben identificabile in Serge Hercberg, epidemiologo e nutrizionista della Sorbona, membro dell’Alto Consiglio della Sanità pubblica francese dal 2007, che ha lavorato con la sua equipe allo studio “NutriNet Santé”. L’etichetta italiana, invece, è figlia del lavoro dell’Iss e del Crea, con il parere delle associazioni di categoria e sotto l’egida di 4 ministeri (Politiche Agricole, Salute, Esteri e Sviluppo Economico).

PARIGI O ROMA (O STOCCOLMA): IL DIBATTITO NELLA POLITICA EUROPEA

Stando alla versione di Bruxelles, il tentativo di rendere più intellegibile il packaging alimentare e di armonizzarlo in tutti i Paesi membri ha lo scopo di combattere obesità, sovrappeso e prevenire i tumori, nel solco degli SDGs delle Nazioni Unite (2015) e delle indicazioni della Fao (2019 e 2021). Un percorso cominciato con il Regolamento 2011/1169 e proseguito con la strategia “Farm to fork”. «Questo dibattito sulle etichette ha un che di simile a quello che imperversò nei primi anni 2000, quando si pretendeva di stabilire erga omnes la quantità di cacao nel cioccolato – ricorda Paolo De Castro, membro effettivo delle Commissioni Agricoltura (Comm. “Agri”, ndr), Bilancio, Commercio Estero al Parlamento europeo –. Sia chiaro: per ora non c’è nessuna iniziativa di legge europea a riguardo, siamo ancora in una fase precedente. Ci sono soltanto proposte nazionali o macroregionali come il Nutriscore e il Nutrinform, o anche il meno noto Keyhole scandinavo, che si candidano a diventare universali. L’Europa dovrà completare l’analisi d’impatto che sta conducendo sui sistemi adottati dai vari Paesi ma non è da escludersi che alla fine prenda atto che non ci sia bisogno di un nuovo sistema unico e obbligatorio, foriero di maggiore confusione». Malgrado la Commissione europea parli di “semplificazione”, infatti, nessun modello di Fop label punta a sostituire la tabella nutrizionale, bensì si aggiungerebbe a essa. «L’Unione europea è molto vasta e ingloba diversi climi, tipicità e culture alimentari. Stigmatizzare l’impatto sul consumatore di alcune sostanze, come grassi e zuccheri, sarebbe controproducente oltre che arduo – dice De Castro –. Non c’è alcun attacco al made in Italy in quanto tale, come alcuni fanno credere, si tratta invece di una divergenza fra scuole di pensiero: c’è chi ritiene, come gli esperti della Commissione Eat-Lancet, che il consumatore non sia in grado di scegliere e vada preso per mano negli acquisti sia per ragioni ambientali che sanitarie. Noi siamo lontani anni luce da questa convinzione». Il decreto ministeriale sul Nutrinform, però, contiene una clausola di opting out per le confezioni inferiori ai 25 cm2 di superficie e per i prodotti Dop, Igp e Stg. Ciò ha prestato il fianco a notevoli critiche. «Rivendicare in sede europea l’esclusione dei soli cibi tutelati non va bene, distorcerebbe il mercato. A mio parere miele, formaggi, insaccati, olio e succhi spremuti meriterebbero tutti di essere esentati dal semaforo, il quale semmai potrebbe essere applicato soltanto ai cibi che subiscono più di 3 passaggi di trasformazione, per esempio snack e merendine, in-

nescando così una sana competizione fra iperlavorati. Per com’è concepita, invece, l’etichetta altera la percezione di chi la legge, non a caso in Italia 17 delle 20 associazioni dei consumatori sono contrarie. Inoltre, se fosse estesa all’Unione, le grandi aziende alimentari compierebbero operazioni reputazionali basate sul colore, per esempio azionando le leve promozionali (come già in Belgio, Francia, Olanda e Germania), e si metterebbero in difficoltà i marchi del distributore, il cui valore aggiunto sta proprio nelle filiere e nel rapporto diretto coi produttori del territorio». Una possibilità per le grandi aziende di scalare il “rating” del semaforo potrebbe essere, infatti, cambiare alcuni ingredienti, il loro dosaggio o modificare alcuni passaggi, cosa interdetta a cibi che hanno una ricetta e una lavorazione fissate nel tempo da appositi Disciplinari. È il caso del Parmigiano Reggiano, del Prosciutto San Daniele o della Pasta di Gragnano, ma anche il Roquefort francese o il Jamón Serrano spagnolo. Secondo Oxfam, già nel 2013 i 500 marchi alimentari più famosi al mondo erano concentrati in 55 gruppi che facevano capo a sole 10 major: 6 di esse figurano nel registro di lobbying dell’Unione europea e c’è da chiedersi se un’unica etichetta non rappresenti un costo e una preoccupazione minori di 27 tutte diverse.

u Una strada lastricata di buone intenzioni Quando si parla di educazione alimentare, va ricordato che esiste già il c.d. “Programma frutta e latte nelle scuole”: presentato il 1° agosto 2017, riuniva due precedenti progetti, “Frutta e verdura nelle scuole” e “Latte nelle scuole”. In base al Regolamento 2017/39 dell’Unione, tutti gli Stati sono tenuti ad attuare il programma investendo una quota del 10-15% del budget annuale, che ammonta a 220 milioni di euro (erano 270 prima dell’uscita del Regno Unito). All’Italia ne spettano ben 26 milioni, l’11,8% del totale.

u Sistema a semaforo vs sistema a batterie, le differenze Nutriscore e Nutrinform sono profondamente diversi dal punto di vista concettuale. Il Nutriscore dà un giudizio complessivo e decontestualizzato a ogni alimento e lo fa assegnandogli un colore dal verde al rosso e una lettera corrispondente dalla A alla E, in base a calcoli effettuati su una quantità fissa pari a 100 g. Il Nutrinform espone semplicemente le calorie e i nutrienti contenuti nel prodotto sulla base della rda (razione giornaliera raccomandata) e in rapporto a quanto il corpo deve assumere in tutto quotidianamente.

VOCI PRO E CONTRO FRA PRODUTTORI, CONSORZI DI TUTELA E INSEGNE

In Italia sul piede di guerra ci sono le associazioni di categoria come Assica (che ha realizzato un report dettagliato in merito al dibattito sulle etichette), i produttori e i consorzi di tutela, da Nord a Sud. «I salumi appartengono a buon diritto alla Dieta Mediterranea, con il loro apporto di vitamine B12 – ha ricordato a Marca 2022 Doriana Sena, direttrice qualità e Hr del Gruppo Parmacotto –. Certo, vanno assunti nelle giuste quantità e un giudizio che prescinda da queste, come il Nutriscore, demonizzerebbe tutta la categoria». Da Andria, il Consorzio di tutela della burrata Igp a novembre 2021 ha persino bollato il semaforo (“misura che svalorizza l’immagine del prodotto”), appellandosi al Regolamento Ue 1151/2012. «Il Consorzio – chiarisce il direttore Francesco Mennea – ha avviato tutte le azioni ritenute necessarie per contrastare tali pratiche, incluso il rifiuto a modificare l’etichetta Igp (inserendo il semaforo) davanti alla richiesta di un compratore». Fra i distributori si distinguono “falchi” e “colombe”: chiusura assoluta da Coop Italia e dal Gruppo D.it, come ha specificato il direttore mdd Roberto Romboli: «con l’etichetta francese i prodotti italiani vengono penalizzati in quanto non contestualizzati a una rda realistica. In più noi abbiamo più di 1.900 referenze a marchio, ciascuna delle quali ha un codice colore: introdurne ancora altri, significherebbe ristampare tutte le grafiche. Parliamo di costi che vanno dai 200-500 euro ai 4-5.000 euro per referenza, a seconda che si produca un’etichetta da sovrapporre o si ridisegni una latta rifacendo l’intera banda stagnata». Più morbida la posizione di Carrefour, dove si dicono favorevoli alla citata esclusione di formaggi, salumi e olio dalle Fop labels. «Potrebbe essere una soluzione, data l’esigenza comune a Francia, Italia e Spagna – ha sostenuto a Marca 2022 Gilles Ballot, direttore marketing, merchandise ed e-commerce dell’insegna di Billancourt –. Abbiamo pack diversi fra Italia e Francia, soprattutto per i prodotti dall’America, e questo ci crea delle complicazioni. Certo, il cliente vuole chiarezza e anche noi, che si chiami Nutriscore o no. Intanto assicuriamo che rispetteremo sempre la Legge». A fine 2021 però la divisione italiana di Carrefour, con altre insegne e aziende alimentari, è stata destinataria di una delle 5 istruttorie Agcm sull’uso del Nutriscore in Italia.

«Nutrinform e Nutriscore sono stati presentati come “il rimedio” ma provano più che altro a chiarire ai consumatori alcuni aspetti della corretta nutrizione» spiega Vitaliano Fiorillo, direttore di AgriLab presso la Sda Bocconi di Milano. – La maggior parte degli studiosi concorda sul fatto che il Nutriscore offra una chiave interpretativa troppo superficiale; d’altro canto, il Nutrinform Battery, validato dalla comunità scientifica, ha una grafica poco intuitiva per il consumatore medio, che non ha abbastanza nozioni per comprenderlo a pieno. Bisogna sperare in una soluzione che non preveda solo colori e lettere e in un’educazione alimentare seria sin dall’infanzia». Del resto, se guardiamo i numeri e le proiezioni, la situazione non è delle più rosee. «Nel 2021, in Ue il 60% degli abitanti è obeso o in sovrappeso. – Sono parole di Michele Carruba, docente dell’Università Statale di Milano e fondatore del Csro – L’Italia si piazza meglio rispetto alla media europea in merito agli adulti, ma non si può dire lo stesso per la somma fra obesità e sovrappeso nell’infanzia, che è al 43% nella fascia 6-9 anni. Fermi restando questi dati, va detto che l’alimentazione è una materia complessa, non ci sono solo prodotti che hanno il “semaforo” e i fattori collaterali, come l’attività fisica, hanno grande importanza». Il professore è il primo firmatario di un articolo, pubblicato il 19 ottobre 2021 sul sito scientifico Springer, che contrappone Nutriscore e Nutrinform «Già la Mtl britannica (Multiple TrafficLight Label) non ci aveva convinti per due motivi: divideva gli alimenti in buoni e cattivi, cosa irreale, e non aveva un impatto significativo sull’obesità, sebbene fosse attenzionata da molte più persone che in passato. Il Nutriscore francese, poi, esprime un giudizio tranchant che rischia di non aiutare alcune tipologie di consumatori, come giovani in età di sviluppo, sportivi o malati cardiovascolari, ai quali cambia poco vedere giallo, rosso o verde su una confezione. Un altro problema di questa etichetta è l’efficienza dell’algoritmo, di cui gli ideatori hanno provato a convincere l’intera comunità scientifica europea». Come riporta lo stesso articolo su Springer, il punteggio da cui si ottengono il colore e la lettera apposti su ciascuna etichetta risulta sempre sbilanciato, visto che gli “elementi nocivi” come sale, grassi saturi e zuccheri valgono 40 punti, mentre gli “elementi salubri” come fibre, vitamine e proteine ne valgono 15.

QUESTIONE DI MORAL SUASION

«Una persona impiega mediamente 2-3 secondi per decidere cosa mettere nel carrello: questo spiega perché le istituzioni europee mirino a fornire indicazioni altrettanto immediate – dichiara Paolo Palomba, partner di IPLC Italy –. La proposta dell’Italia è uscita tardi, perdendo tre anni di vantaggio utili a condurre una moral suasion sul resto d’Europa, mentre i francesi applicavano il loro sistema; inoltre, le aziende italiane osteggiano qualsiasi indicatore che le penalizzi agli occhi della gente. Devono perciò entrare in gioco un po’ di trasparenza e coraggio da parte delle imprese, ma anche un logo più semplice. Noi italiani siamo ancora molto contorti nella comunicazione, soprattutto rispetto al blocco dell’Europa centrale, dove i messaggi al contrario sono forse troppo semplicistici». Quell’area è abitata dal 27% dei cittadini dell’Unione europea, una caratteristica che le conferisce un certo peso nei meccanismi decisionali comunitari: lì obesità e sovrappeso sono strettamente legati all’abuso degli inscatolati, un problema decisamente più netto rispetto a Italia, Grecia, Cipro, Portogallo e Croazia, i cinque Paesi europei riconosciuti “culle” della Dieta Mediterranea, dove si consumano pure molti freschi e dove lavorati e semilavorati sono anche frutto di processi produttivi storici e dagli echi artigianali.l

Maria Teresa Giannini giornalista professionista specializzata nel largo consumo

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