“La scuola degli idioti” di Marco Onofrio

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Ogni riferimento a fatti e persone reali è da ritenersi puramente casuale. Š 2013 Edizioni Ensemble, Roma I edizione novembre 2013 ISBN 978-88-6881-001-6 www.edizioniensemble.com direzione@edizioniensemble.com Edizioni Ensemble


Marco Onofrio

La scuola degli idioti

Edizioni Ensemble



Prefazione

Marco Onofrio, appena quarantenne, ha alle spalle una produzione incredibilmente folta. Poesia, critica, narrativa: c’è tutto, ed è il risultato di una energia creativa non comune. Onofrio non si risparmia, lavorando anche nel campo editoriale, ma soprattutto vive il suo essere scrittore con una consapevolezza rara per la sua generazione e per quelle successive. Libro dopo libro, insegue quello che nella sua mente è un preciso disegno di opera, un’architettura in cui un tassello non vale l’altro, ma è lì – in quel momento, in quel punto – per una ragione precisa, di dialettica con il passato (anche il suo, passato), di chiarificazione, di esperimento. Ma tutto è legato anche dove non sembra. E tuttavia è difficile mettere a fuoco l’«animale da tavolino» Onofrio: anche di persona, la sua bonarietà – pure corretta da qualche risentimento; da un nervosismo che, nel senso dell’etimo, compete anche ai muscoli, al corpo che si agita – la sua bonarietà, dicevo, non lascia subito intuire le visioni e i demoni da cui è affollata la sua mente. È un’immaginazione capace, dall’estrema, celeste e geometrica purezza, di precipitare in un istante nella zona limacciosa della vita, di affogare nella visceralità, di sen-

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tire – con un misto di euforia e disperazione – che la partita dell’esistenza si gioca anche (o soprattutto) nell’organico, nel sordido, nell’oscenità non solo fisica ma anche intellettuale. Onofrio riesce – in un poemetto come Emporium (2008), per esempio, quanto in questi nuovi racconti – a essere insieme iperrealista e visionario. Come fa? Il maiale in agonia del primo racconto, che ansima sofferente sull’asfalto, è crudamente realistico. Ma che ci fa lì? «Come ci è venuto? Chi ce l’ha portato?». È una visione – qualcosa di più che una metafora, perché Onofrio non la schiaccia su una pista di possibili significati. Ci mostra il maiale in agonia, lo descrive con accuratezza e all’improvviso fa spuntare, tra la folla, una bambina – «che si avvicina al maiale e lo accarezza sulla testa, l’orecchiuto setoloso capoccione». Così la tenerezza esplode proprio laddove tutto le è ostile: e Onofrio la cerca sempre, la spia, convinto che nella disfatta, nella goffaggine, nella miseria essa a modo suo resista, come un piccolo bagliore, l’irrinunciabile pietà verso le creature – l’innocenza, nello specifico, del «povero suino». «Mi chiama la coscienza a intervenire!» si legge alla fine del racconto, e il punto forse è questo: in Onofrio c’è sempre un trasalimento di natura morale, un’onda di indignazione, qualcosa che – nervosamente – lo spinge, nello spazio dei versi o del racconto, a umiliare chi umilia, a inchiodare chi strafà, chi spadroneggia («Sono uno schiavo, ecco: uno schiavo in un mondo di padroni associati»), chi si conforma, a infilzare gli ambigui, i viscidi, i corrotti, gli indifferenti, gli egoisti, gli opportunisti, i buffoni, dopo avere esplorato a fondo quello stato o strato dell’esistere. Detesta, insomma, chi troppo «sta al gioco»: chi nella vita «ha deciso di starci, di assecondar lo

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scritto nel copione, di interpretare il ruolo, il personaggio, le battute, senza il coraggio di frapporsi a sindacare». Lui, l’autore, invece ha da sindacare, e molto; e sfida, affonda, grida, s’incazza. Con questa prosa che non si accontenta dell’italiano standard, ma investe sul vocabolario per intero, anche quando è controtempo: Gadda, Manganelli, certo, ma sul pedale di un grottesco che è tutto personale e mescola maliziosamente ricercatezze sintattiche e lessicali a sbrachi da eterna commedia all’italiana, ai lazzi e ai peti di un cine-panettone più vero della vita. Poi, all’improvviso, di nuovo la tenerezza (celestiale, perfino, nel racconto «Icaro») e dopo un attimo ancora un «Giallo gabinetto» – il segno di un Decameron tutto suo, di Onofrio, dove i furbi, gli smargiassi, gli stronzi convivono con i puri, e la melma non è così distante dal cielo. In fondo mi viene da pensare a Onofrio, più che come a un nostro contemporaneo, a un romano del primo secolo dopo Cristo: c’è nei suoi racconti la bile di un epigrammista, di un autore di satire; c’è la bile e lo sprezzo di Marziale, l’improvviso struggimento di Giovenale. Quando, nelle pagine di «Giallo gabinetto», se la prende con un odierno, scintillante e cretino autore di best-seller, lo descrive intento a stringere mani, «sibilando moccoloni in mezzo ai denti, sfanculando a più non posso, senza mai sciogliere la “posa”, la cera da falsone, o spegnere il sorriso plasticato». Gli esplode così fra le mani un’intemerata contro i «gonfi d’albagia, superciliosi di supponenza, tronfi di saccenteria». Ancora una volta, Onofrio scruta dal margine un mondo umano che lo indispone, punta il dito, estremizza per toccare il vero («Mammoni, la carriera si fa baciando il culo»), indossa la toga del moralista, per poi – qualche

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pagina dopo – riprecipitare nella tenerezza che anche l’indigesto può suscitare. È il caso, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, di quelle eterne «pizzette» che si vendono nelle scuole a ricreazione: «quel grumo di pasta stantia, alta, molliccia, bagnata; quel coagulo di lievito guasto, leccato per caso di sugo rosa, in croste ammuffite di rimasugli e bucce di pelato, cosparso di caccole, di moccio e di cispa; quel ricettacolo di scatarri e capelli, asperso di schiuma detersiva, intriso di liquame e sciacquatura… una di quelle, sì». Una madeleine del tutto anti-proustiana, respingente e tuttavia – come ogni pagina di Onofrio – calda di vita. Nervosa, risentita e proprio per questo innamorata. Paolo Di Paolo

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Non conosciamo mai la nostra altezza finché non ci chiedono di alzarci e allora se fedeli al progetto la nostra statura tocca i cieli – L’Eroismo che recitiamo sarebbe una cosa normale se non falciassimo i cubiti per paura di essere un Re. Emily Dickinson

La mente è come un paracadute. Funziona solo se si apre. Albert Einstein



Maiale d’asfalto

All’angolo di una strada di città: un crocchio di persone. La mia attenzione attratta si protende, in cerca di motivi e spiegazioni. La gente che parlotta in capannello. Che è successo, che non è successo? Mi faccio così largo, con permesso, e finalmente vedo il polo, la questione. Compare proprio vero e inaspettato, fra i piedi degli astanti più vicini. Si tratta, incredibile a dirsi, di… un maiale sdraiato sul marciapiede. Vivo, ancora, ma forse in agonia. Ansima lievemente. Un involto ciccioso di pelo: roseo, lindo, ben curato… come bestia che faceva compagnia, come un vispo cagnolino o un dolce gatto, scaricato non da molto per la via. Ogni tanto dal grifo fuoriesce una bolla lattiginosa, che s’ingrossa piano piano e, prima di scoppiare, cresce e poi decresce al suo respiro. L’occhio del fianco esposto è semichiuso, folto d’irsuti crini: una fessura. Lo apre, talvolta: traspare una pupilla spenta e scura, velata da membrana, in cataratta. La coda riccioluta che freme, replicando a brividi, a sussulti. Stupore addolorato fra i presenti. Come è possibile? Un maiale fra i palazzi e le strade clacsonanti di città… Che ci sta a fare? Come ci è venuto? Chi ce l’ha portato?

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È inaccettabile e irreducibile a ragione: palese incongruenza di paese. Provano ad alzarlo, ma qualcosa s’intromette a resistenza (la povera bestia guaisce pietosamente, da strappar le vene dentro al cuore). Ci si accorge dunque (ulteriore sorpresa) che il maiale ha gran parte del fianco nascosto (coscia compresa) letteralmente saldato, sepolto, imprigionato nell’asfalto! Non si crede ai propri occhi. Cerchiamo, nonostante tutto, di trovare soluzioni. C’è uno che propone, ad esempio, di picconargli il marciapiede tutto intorno, fino a liberarlo. C’è ancora chi propone di affidarsi alle autorità – già, ma chi chiamare per un caso così unico e bislacco? La Polizia, i Vigili del Fuoco, la Protezione Animali, la Guardia Forestale… Qualcuno, più deciso, comincia a sfoderare il cellulare, per digitare il numero a soccorso… Quand’ecco che nel crocchio s’intrufola in silenzio, compare all’improvviso una bambina. Si avvicina al maiale e lo accarezza sulla testa, l’orecchiuto setoloso capoccione. Al suino vibra la coda, come a un cane compiaciuto e coccolone. Qualcuno si intenerisce. Ma qualcun altro nota che la bambina ha il volto punteggiato di cicatrici leggere, di macchie scure e pustole con la crosticina: probabilmente lo era anche prima, ma nessuno è in grado di testimoniarlo, ché ora soltanto ci si è fatto caso. E subito traspare l’evidenza di un pensiero, di un sentir comune e condiviso: il maiale è infetto, sì: è portator di morbo, epidemia! Una donna, allora, si slancia a trascinar via la bambina, che comincia a piangere ed urlare. Io mi dico che non è possibile: al morbo, per quanto virulento, occorrerebbe comunque un minimo d’incubazione, e non potrebbe mai dare

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sintomi così istantanei. Macché, vaglielo a far capire! Hanno fatto cerchio solidale: si tengono a distanza e urlano isterici contro il maiale, dicendo che bisogna eliminarlo. C’è chi si gratta e chi si tappa il naso, per scongiurar contagi; chi guarda fisso il maiale, con aria schifata e accigliata, e intanto si fa il segno della croce; chi, più di modi spicci, ha già adocchiato una macelleria, lì nei paraggi, per procurarsi un coltellaccio da brandire; chi, infine, sta chiamando i Vigili Urbani e l’Ufficio d’Igiene… A questo punto insomma vado via, poiché non so patir la sofferenza, e soprattutto la morte, di qualunque vita o chicchessia – bestie comprese. Tanto, ormai, m’è chiara inutilmente come il sole, di fato che nessuno può evitare, la miseranda fine del maiale! Mentre cammino lungo il marciapiede, raggiungo la bambina e afferro casualmente stralci, dal dialogo fra la madre di lei e la donna che l’ha portata via (un’amica? La governante?): è la madre che sta parlando delle pustole di sua figlia, conseguenti al morbo esantematico contratto fra i banchi di scuola, da cui – benché recentemente – può dirsi per fortuna ormai guarita. Ecco: come supponevo. Ho così la prova e la conferma, che il suino è un povero innocente. Mi chiedo se è il caso, poi, di contrastare il fato col destino. Ma sono uomo, non posso tralasciare: mi chiama la coscienza a intervenire! Così, dopo qualche indugio, torno di corsa indietro, acciocché lo risparmino dal sacrifizio.

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Ma, arrivato sul posto… non c’è l’ombra di nessuno, non c’è un tizio. Il marciapiede è vuoto – neppure più il maiale: neppure il calco del suo corpo sul marciapiede! Lo stupore mi divora ulteriormente. E resto lì, fermo come un palo a meditare…

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Damnati

Sto passeggiando con una ragazza; ma non sono certo che sia mia, cioè: per esserlo è… ma insieme al tempo stesso pure no… Come dire? Non so bene, in fondo, che persona sia. È una di quelle situazioni fatte a questo modo: un po’ strane, ibride, ambigue… Un rapporto nebuloso e complicato. Un’amicizia ai limiti del proprio annullamento, dai contorni troppo sfumati per esser veri. Un amore che non trova parole per dirsi, che non segna la strada nel tempo, che non trova il coraggio di essere e di andare, di percorrere il suo viaggio, di uscire allo scoperto e definirsi. Ci siamo e non ci siamo: vicini e lontani, sciolti e implicati, complici e avversari. Eppure partimmo insieme, un giorno: ricordo. E il fuoco? Si è spento per strada, lungo il cammino. Ardeva, copioso e sfavillante, ma riscaldava poco. Un fuoco freddo già di suo, una fiamma fatua, mentale, di testa: non di pancia. È per questo, insomma, che “non va”. Una lingua fredda di cristallo, di pura complicata idealità. Velleitari. Teorici. Incoerenti. Maturati solo in apparenza. Attra-

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versammo il mondo, così: ci avventurammo aperti alle distanze, nel deserto immane delle cose, lì, per foreste profondissime e sommerse, guadagnando varchi di pertugi, squarci occasionali, pei roveti immobili di luce, colmi dell’eterna primavera, suoni dissonanti e arcobaleni, trilli palpitanti e musicali, stanze che respirano nel cielo, monumenti d’acqua e di stupore, labirinti vergini d’amore, sfingi di silenzio e di dolore, croci di rovelli e congetture, santuari in simboli e confini, inespressi ponti sugli abissi, potenziali luoghi differenti, intricati punti nelle forre… Noi, sì: mossi dall’istinto a far le guerre, torturarci a colpi di pensiero, tratti dal richiamo delle stelle, sublimando in mille modi le visioni – come le pulsioni originali – ricercando il cuore dell’essenza, la radice più profonda del mistero… o la sera dentro l’alba di domani (senza riuscire mai, peraltro, se non per radi accenni ed illusioni). Ed eccoci, dunque. Noi. Diversamente uguali. Sconosciuti all’altro e al proprio nome. Ignoto, ciascuno a se stesso. A camminarci addosso, a continuare. A prometterci un “ancora”, un dopo che si parta dall’adesso. Questa assurda inesplicabile odissea. La strada indecidibile, infinita: dove porti, a quale meta, non ho idea… Da un verso camminiamo ai nostri piedi, sì, producendoci in uno strambo passo claudicante o, per meglio dire, zampettante (come avessimo tre gambe, in vece di due, o comunque una di troppo, ingombrante, inservibile all’uso). Incogniti, costanti, autodiretti: segnati dal prodursi dei conflitti, dal divenir dei tempi all’intervallo. Dall’altro mi sembra, invece, che cavalchiamo un “coso” alla

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disdossa, non meglio precisato, elicoidale: un testrupattolo a molle, un giriballo urfido a banane, un dispettoso loffio cigolante, un ospitello strascicato e cigolante, un musichiere cavallino con la mossa, metà meccanico metà animale. Cavalchiamo e camminiamo, e viceversa, tutt’insieme procedendo in un sol dire, col silenzio che nel cuore ci attraversa, di moto uniforme (seppur non propriamente rettilineo), e concorde, implicito, animato. È un implicato dare consanguineo, un veicolato porsi all’infinito, dove ogni luogo ne richiama il successivo, contenendo la misura che separa, oltre il prossimale. C’è una macchia liquida e sfocata, al centro della mia visione. Non vedo e non discerno: “sento”… come un animale, come un cane cieco che, annusando il mondo col tartufo, cerca di portarlo a sensazione, di ridurlo a secrezione distintiva. E non arriva mai, la spia finale, il traguardo che concluda questo errare. Percorriamo un sentiero ronzante di luce sporca, giallognola, sulfurea di riflesso opalescente, fumante e vanescente senza posa, come in mezzo ai fili d’erba una mucosa. Arti penduli che s’intrecciano, lacci e slacci, sviticchiano e avviticchiano legami. Cartilagini, penosamente strascicate. Nebuloso annaspio. E intanto ci beiamo della nostra silenziosa conversazione, punteggiata di riprove attese al varco, e di prove superate o compromesse, come amanti in un calesse, sprofondati negli istanti dell’attesa, madornali o decisivi, apertura occlusa di conferma, punti nobili e sospesi di paura, e pentagrammi intorti d’emozione, e mistiche avventure di passione, nelle introdotte chiavi dei

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forzieri, i disperati fondi dei bicchieri, i dissonanti blesi, i ganci di domanda al cuore appesi, su un muro di rimpianti e pentimenti, e l’infinita voce ai sentimenti, l’universale soglia della vita: l’ombra della luce in fondo al tempo, il suono delle stelle in controcanto, il mare dell’eterno dentro al vuoto, il muto movimento della luna, sottili e inesplicabili moventi, disposti cambiamenti suscettivi, nel cuore che si chiama e non si dona… Come stampelle all’asta dell’armadio: oppure perticoni esclamativi, a chiudere, sì: a chiedere risposta. Macché: siamo due domande ambulanti, due questioni inquestionabili, due complicate soglie di follia, che nessuna soluzione può avallare. Soltanto l’aporia può contenerci. Un nodo incavicchiato a triplo giro: la stringa e la serranda, così sia. La via, ci vuole bene. Allacciati al dubbio, a rodere nel tarlo il chiavistello, in cerca di un possibile intervallo, un volo nel profondo del gran cielo, o l’anima del mondo, l’infinito: il dito che ci spinge dentro l’occhio. Leggermente nervosi e brucianti anzichenò, per altro: dico laggiù, a quelle lande estreme, le ctonie dimensioni del budello, il gastrointestinale, in quanto che produce il suo daffare, e compie diligente il proprio uffizio, la pastinaca al burro e al pepe nero, che disinfetta e netta l’orifizio. Ma leggeri, anche: leggeri, beati, sconosciuti al male. Man mano che si sale al pianerottolo d’Urano, tenendoci per mano, alle celesti inconsistenze dello spirito mentale. E abbiamo il sorriso, il sorriso, sì, affiorante volto della luce, dal colore del sogno e del vuoto. Ci sorridiamo all’interno, al cuore più profondo di noi stessi,

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laddove quasi sempre c’incontriamo… anche se al di fuori, magari, stilliamo gocce e lacrime di sale, dilavando polvere nei letti… e salutiamo tutti, dai fiumi che nel volto son scavati, nuotando in fondo ai mari prosciugati. Camminiamo accanto, assieme composito e uniforme, per sentirci più vicini e solidali, nel seguir le nostre orme come ali: anche senza guardarci in volto, perché questo soprattutto fa paura. Ma ecco che, a un tratto, ci troviamo amaramente ad incontrare, a calpestare quasi, il corpo di un uomo riverso sul sentiero, occupante per intero la misura. Dorme: il suo respiro vibra sonoro, sfiorando il rantolo, il lamento (non russa, però). È di mossa strana e involontaria: ondeggia senza posa la sua testa, come un maglio, in emicicli di pendolo all’intorno, con rotazione spasmodica e alternata, protesa ad uno sforzo massimale… come tentando, più e più volte, ma sempre inutilmente, di scioglierla dai vinchi cervicali, la boccia occipitale, per imbucarla al mezzo delle spalle, nel suo profondo centro, nel cavo del sacello pettorale. Come immerso nel cuore di un incubo vivo: annaspa con le mani, braccia tese a perpendicolo sul corpo, agguantando l’aria dall’interno, fili invisibili dal cielo. Come corde di arpa. Gli occhi grandi e pallati, aperti all’universo, spalancati. Lo sguardo grigio di metallo. Le pupille a pizzo, appuntite capocchie di spillo. Il naso da pinocchio, lungo e sottilissimo al confine: un’escrescenza viola di petecchie, rizoma tuberoso, protuso, variolato e tremolante.

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Le guance scavate come fosse. Le borse rosse sotto gli occhi, le palpebre infiammate. La pelle pesta di lividi: laddove gialla itterica, laddove blu cianotica, o verde bottiglione, o pallida di biacca, oppur marrone. Le ciglia tutte belle in evidenza, come bistrate col rimmel. La bocca che si apre e che si chiude, in spasmi fetali, vagiti primordiali di silenzio: sbadigli, forse. Lo aggiriamo con circospezione, probabilmente senza riuscire a non urtarlo (ché, certo, non è poi così agile la dinamica del nostro andamento, e così precisa la manovra che possiamo: facciamo tuttavia del nostro meglio). Gli rivolgiamo parole di conforto, che vorremmo carezzevoli e sicure, qualora risuonassero a conferma, ma che invece, per quanto noi cerchiamo di evitare, si dispongono da sole a interrogare, segnate da un rovello esistenziale, minate internamente e irresolute. Ci risponde farfugliando suoni ottusi, che vorrebbero esplicare a loro volta. Ma è una forza velleitaria e inconsistente… una “forma informe” di vaporoso niente, che tremolando varia e si fa vana, che si produce male e inutilmente. Ha un sorriso ebete nel sogno, le immagini stampate sul suo viso. Ci guarda con espressione ammiccante, con una luce assurda e lontana, dall’infinito cuore del suo tempo: come da un altro mondo, dalla luna. I suoi occhi riflettono il cielo, le sue mille evanescenti sfumature. Sbarrati, mistici, lucenti. Iniettati di musica e dolore: guardano senza vedere, aperti su un mare di vuoto, rovesciati intensamente al loro interno.

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Finito che ha di risponderci, poi, riprende in un momento come prima, pari pari, la rotazione della testa ad emiciclo e, insieme, il movimento carfologico di mani – brulicante a spasmi l’annaspio. Noi proseguiamo il cammino. Poco più in là, c’è una macchina gialla lasciata di traverso, con lo sportello aperto e il motore ancora acceso. Mi sembra una Mercedes degli anni Settanta, di quelle che oggi usano i rom. Ed ecco che, associando immantinente il “prima” e il “dopo”, si produce naturale l’inferenza, nella strana lucentezza del pensiero. E lo dico alla ragazza, che la macchina, molto probabilmente, è del tizio sdraiato per terra: aveva urgentissimo bisogno di riposar le membra stanche, e compensare i danni, dopo anni di guida ininterrotta. Ostruito il nostro passo dall’intoppo, nella sua linearità, continuiamo adesso in diagonale, lungo un ideale marciapiede di città. Ecco, è fatta: il sentiero che di nuovo ci appartiene. Dopo un po’, però, sentiamo a distanza, quasi con le antenne vibrazioni, che lui si è finalmente alzato e, avendoci concesso un vantaggio appena sufficiente, comincia ad inseguirci, braccarci alle calcagna i pantaloni, a muoverci la guerra coi cannoni. Lo affrettiamo a più non posso, a tutta birra, il nostro ansimicchiante claudicare, dopo aver commesso, senza fallo, qualche errore imperdonabile esiziale! (Chissà che abbiamo detto! O cosa mai ha capito! E come lo ha tradotto equivocando, il permaloso!) …E convinti, per logica conseguenza, di meritare troppo il suo castigo, la dura punizione, dalla sua mano ultrice e sanguinaria.

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Ci raggiungerà, certo, seppure noi corressimo al galoppo: è scritto, sì, è inciso nella scienza delle cose, stampato nella luce in fondo all’aria. Ed è pure giusto che accada – questo è il fatto! Ci rifugiamo infine in una stanza matrimoniale, che forse è casa nostra. Come in albergo, con letto a doppia piazza e bagno incluso. Mi volto e vedo che la ragazza… è già sotto le lenzuola, nuda, donde tosto m’invita a raggiungerla, a occupare senza tema il mio bel posto, per proteggerci a vicenda e consolarci, ammazzando il tempo dell’attesa (e in quale modo, posso immaginare)… Le dico se è scema, se le pare questa l’occasione… Dal futuro so che lui è entrato: dal presente che entrerà, che anzi è in procinto di farlo, dal momento che sta per arrivare. Devo capire da dove, attraverso quale andito o fessura. Assicuro meglio la porta, e le finestre. E intanto la ragazza mi richiama, lagnosa e impaziente: ha bisogno di coccole e carezze: di godere ancora, per una volta almeno, le gioie e le dolcezze dell’amore. Non mi curo neppure di risponderle, intento come sono a controllare. Ecco: ora è più sicura, la faccenda. E allora? Resta la porta del bagno, quasi tralasciavo: anche da lì, madonna, c’è il rischio concreto che lui irrompa. La apro. Si spalanca su un androne buio ed ammuffito (fortore d’aria umida mi punge), dal quale – dopo un po’ – affiora un lontano sfarfallio, riflesso sfrigolante di cerino, formicolio di luce da una grata, che piove a innaffiatura di lassù (forse, la

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bocca di un tombino?)… e la sagoma di una scala a chiocciola, sospesa di vertigine nel vuoto, a torre nell’abisso verticale. Per più di un quarto, invece, lo sguardo può spaziare all’interno di una chiesa, vista dall’abside, dietro l’altare ma da un lato, di scorcio, con la prospettiva sghemba di navata, i banchi a pecorella inginocchiata, le lucine rosse delle insegne, sui confessionali, la fiamma tremolante ai candelieri (e mi arrivano colpi di tosse, ripetuti e infine soffocati, e scricchiolii di legno, e scalpiccii di passi, in echi rimbalzanti nel silenzio). Giungerà dalla scala, credo, oppur direttamente dalla chiesa, facendosi largo fra le quinte stesse al boccascena, oltre la tenda viola del sipario. Incoraggiato, certamente, dal prete bellimbusto col Ferrari: un tipo malandrino e delatore, insieme alla sua gente di congrega, fedeli più ferventi e baciapile, ma pure gli scagnozzi e i caudatari, da quello sopra tutti prediletti, che ci godono, in fondo – e sono molto avvezzi e predisposti – nel farsi i cazzi d’altri a piedi pari: ci prenderanno gusto a fomentarlo, uno dopo l’altro in successione, a spingerlo all’attacco come un cane… Ma sì, sicuramente. Ho la sensazione sempre più netta che sarà qui a momenti, il figlio di mignotta. Non c’è più altro da fare: siamo condannati! È firmata, ormai, la sentenza della pena capitale. Mi spoglio nudo, allora, e raggiungo la ragazza dentro il letto (“Finalmente!”, sento che sussurra, e, rinfrancata, mi accoglie in un tenero abbraccio, col suo corpo caldo e vellutato). E così lo attendiamo, prossimo imminente, tremando e accarezzandoci, ridendo e piangendo insieme, mentre facciamo l’amore, assaporando piano e intensamente, disperati, gli ultimi istanti della nostra vita.

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