“Quadro senza tempo” di Fabrizio Santi

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Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, istituzioni, luoghi ed episodi sono frutto dell’immaginazione dell’autore e non sono da considerarsi reali. Qualsiasi somiglianza con fatti, scenari, organizzazioni o persone, viventi o defunte, veri o immaginari è del tutto casuale.

In copertina: Convento do Carmo © Martina Donati Progetto grafico: Livresse Realizzazione grafica: Federico Taibi © 2013 Edizioni Ensemble, Roma I edizione aprile 2013 ISBN 978-88-97639-65-7 www.edizioniensemble.com direzione@edizioniensemble.com Edizioni Ensemble


Fabrizio Santi

Quadro senza tempo

Edizioni Ensemble



ad Alba e Vittoria



Prologo

Settembre a Heidelberg è forse il mese più ineffabile. La coda dell’estate che scivola via veste una città profumata e galleggiante in un silente torpore non ancora mutato nel ritmo meccanico degli opachi giorni d’inverno. Le timide e vaporose brezze di un autunno bizzarro nell’avvento sommuovono appena le gonfie chiome dei tigli, all’ombra dei quali si ergono edifici che parlano una storia di filosofi e dissidenti. E mentre le strade formicolano di un quieto passeggio, il fiume Neckar riflette i tramonti attraverso una luce purpurea che solo a quell’ora sembra brillare. Heidelberg: la superba abbazia di Neuburg; la fiabesca casa del Cavaliere; il palazzo di Federico; la Heiliggeistkirche, che nei sonnolenti pomeriggi dorati sembra ancora narrare le tesi di Calvino e Melantone; la fitta foresta fuori le mura; lo scellerato patto di Faust. A nord della città, superata la Bergstrasse appena al margine del parco sul fiume, la Grünestrasse si avvolge sul fianco della collina di Heiligenberg per immergersi nei quartieri verdi di Maximilians e Friedensengel. La fila di case ammantate di erica e gelsomino varia qua e là la fisionomia a seconda delle sfumature dei tetti. Anche il pomeriggio del 14 settembre 20…, l’atmosfera del quartiere Wittelbacher era la solita. Dopo la fontana al termine

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del muretto che cingeva la scuola elementare, i gruppetti di bambini accompagnati dai genitori prendevano la via del ritorno, imboccando le tre strade principali che confluivano nello slargo antistante. Una di queste era la Gutembergstrasse, delle tre forse la più stretta. Anche qui le case si somigliavano e le differenze si mostravano solo nelle fantasie dei giardini. Accanto a una sobria abitazione a tegole brune, dalla cortina solamente accennata, ve n’era un’altra appena accesa dal lucore dorato di un crepuscolo sereno. Di fronte a un minuscolo giardino, una graziosa cassetta delle lettere da poco tinteggiata, con sopra infissa una targhetta: «Dr. T. Klinsmann». La porta d’ingresso era di un bel verde smeraldo e apriva su un disimpegno che nella scelta del mobilio e delle due stampe annunciava la casa di uno studioso. La sala da pranzo e il soggiorno, soffusi da una luce liquida che si mescolava ai raggi rosa di un abat-jour vicino al sofà, erano inframmezzati da una bizzarra libreria in massello scuro, stracolma di libri e riviste. I titoli dei testi e dei periodici coprivano i campi del sapere più disparati, molti in tedesco, ma un’altra moltitudine in inglese, italiano, latino. Dietro il divano, a lato di un lustro mezza coda Blüthner su cui, sparpagliati, poggiavano alcuni spartiti di Lieder di Schumann, stava un treppiedi sul quale era posto il telefono. Di spalle, a lato di una vetrinetta olandese, Theodor Klinsmann parlava all’apparecchio. Non una vera e propria conversazione; parole inframmezzate, annuizioni, monosillabi. – Quando? Oh no! Ma come è accaduto? –. Silenzio. – Sì, va bene. Sì, ho capito… E così… oh! Va bene. Grazie. Ciao, Augusto. Theodor Klinsmann abbassò il ricevitore molto lentamente, poi rimase immobile, con lo sguardo fisso sul disegno di Egon Schiele che aveva di fronte, fra lo specchio molato e la fi-

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nestra. Sentì un velo di lacrime bagnargli poco a poco gli occhi e a stento trattenne un sussulto che forzava per mutarsi in singhiozzo. Le parole di Augusto Semerano dall’Italia sembravano avere un’eco. Chissà da dove chiamava. Ma che importanza aveva? Augusto non aveva introdotto a lungo l’argomento e, pensando di rendere omaggio al professore, aveva annunciato l’accaduto in un tedesco timido e impacciato, dimenticando che Theodor ancora ricordava e parlava molto bene l’italiano. Ma in nessuna lingua il messaggio poteva essere meno triste: zia Greta non c’era più. L’aveva lasciata due anni prima in Italia, sorridente e gioviale, come sempre. Sembrava ieri. Theodor amava pensare che, come il tempo sembrava essersi rappreso attorno ai mesi incantevoli del suo soggiorno italiano, così la storia del mondo, riflesso della sua stessa storia interiore, immobile in quel momento, non avrebbe più consentito di invecchiare né a lui, né al professor Semerano, né a zia Greta, né a tutti gli altri. La telefonata di Augusto Semerano, figlio del professor Guido, aveva però sgretolato in un istante quella sua vuota illusione. Le ultime notizie che aveva ricevuto dall’Italia risalivano a circa tre mesi prima. La zia stessa l’aveva voluto salutare; gli aveva detto che stava lavorando a una prefazione in tedesco delle poesie di Catullo. Il clima era tiepido, ma l’implacabile estate italiana era alle porte. Forse aveva anche trovato un indizio che poteva far luce sulle strane assenze di Semerano padre. Nient’altro. La poltrona accanto al pianoforte, sulla quale Theodor si abbandonò malinconico, lo accolse confortevole. Con lo sguardo fisso sulla veranda che immetteva nel giardino, udì il motore della Volkswagen dei Grünegrass borbottare dal box vicino. Partendo, l’auto mosse le fronde dei cespugli di pitosforo che separavano le due case. Un raggio obliquo di luce filtrata dagli albe-

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ri antistanti si poggiò sulla siepe e tra le foglie gli parve di scorgere degli insetti colorati. Dove era cominciata la sua avventura? Subito al suo approdo in Italia? Nei primi mesi itineranti per la penisola? O quando aveva ammirato per la prima volta la costiera amalfitana dove la zia era vissuta? Non riusciva a capire. Era lui che rammentava e con la propria volontà sceglieva i prodromi e gli epigoni tipici di una storia, o era la storia come tale che aveva scelto per lui la propria manifestazione nell’ordine che essa aveva ritenuto più necessario al senso di se stessa? Come storia, appunto. Una storia, pensava Theo, ma una storia senza epilogo e che tuttavia voleva imporsi come esperienza trasformante. Ma era veramente cambiato il professor Theodor Klinsmann? Se lo era, perché non aveva trovato il significato del suo viaggio? L’avrebbe scoperto più tardi? Forse mai? O forse stava cercando ciò che non esisteva? Per un momento il groviglio delle domande supreme lo arrestò e in quel frangente provò la sottile angoscia delle infinite possibilità dell’artista creatore. La notte del dubbio sembrò aggredirlo e renderlo sgomento. Fu un attimo però e per fortuna durò poco. La contrazione degli arti provocatagli da quel breve panico lentamente si sciolse. Ebbe come un sospiro e il ritmo dei suoi pensieri si acquietò. Il tiglio verde e chiomato del giardino dirimpetto era ancora lì, solido e immobile. L’ineluttabilità di quella realtà certa e salda in se stessa, che garantiva per sé e per lui, sembrò rassicurarlo. Sfumò l’ansia, i sentimenti erano rientrati nell’alveo che li custodiva e Theo era di nuovo assieme alle cose e nel mondo. La finestra socchiusa sul giardino lasciava filtrare un tenue profumo di speronella. La luce del pomeriggio iniziava a dileguare e il manto scuro della sera gradatamente si poggiava sulla collina di Gaisberg, dietro la vecchia stazione. Quasi in modo automatico, Theodor accese un avana che

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giaceva appena consumato su un treppiedi di ciliegio. Una nuvola di fumo odoroso si gonfiò di fronte a lui e nelle volte paffute di bianca cortina, uno a uno, cominciarono ad apparirgli i personaggi del suo soggiorno italiano.

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Theodor aveva sempre provato una grande stima e un enorme affetto per zia Greta. Greta Hoffman von Bülow, una delle più illustri latiniste che l’Università di Heidelberg potesse annoverare tra i suoi accademici. L’afflato dell’ammirazione per la storia romana era continuo in lei e il richiamo del paese dove la civiltà latina aveva visto la luce era di inesauribile potenza; così, al suo sesto o settimo viaggio in Italia, si era decisa a una permanenza assai più duratura. Dopo un anno vissuto a Milano, la zia aveva scelto la costiera amalfitana come sua dimora. La vecchia casa diroccata tra gli alberi di limone sotto il monte San Costanzo, nei pressi di Marina del Cantone, acquistata e restaurata con i proventi della casa di Esslingen, le era sembrata il luogo ideale per trasformare l’Italienische Reise di tradizione ottocentesca in una permanenza prolungata, e soddisfare così la sua irrefrenabile necessità di vivere l’estasi del mondo mediterraneo, sognato con vivida gioia tra le brume del Baden-Württemberg nei lunghi pomeriggi bigi dell’adolescenza. Nella sua immaginazione, aveva trovato sulla punta della penisola sorrentina, dinanzi al canale di mare di Bocca Piccola che la separava dall’isola di Capri, il filo della maestà greca e quello della razionalità latina saldamente intrecciati tra loro; il luogo di una ci-

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viltà immensa, illuminata da un sole radioso sull’orizzonte di quel mirabile contrasto tra lo smeraldo della macchia mediterranea e il turchino del mare. Non era il luogo preciso, certo, dove erano nati e cresciuti i valori fondanti del mondo moderno, ma era un luogo che, per fortuita circostanza, qualcosa promanava e altro lasciava trapelare; qualcosa che solo per colore di immagine richiamava a lei, appassionata amante del mondo classico, la stupefacente verità degli antichi padri. Era stata la sua cultura, però, la sua lingua madre, assieme alla conoscenza dell’italiano, ad attirarla cinque anni dopo a Siena, dove l’illustre professor Guido Semerano stava curando la prefazione e le note introduttive di alcuni testi filologici di Schleiermacher. Semerano l’aveva conosciuta a Sorrento a un convegno e aveva capito, in una tiepida sera d’aprile, che non avrebbe più potuto fare a meno di lei. Fu proprio a Siena, dunque, nell’astrusa casa di Semerano, che Theodor Klinsmann fu ospitato a metà del suo anno sabbatico concessosi a settembre, dopo le prime collaborazioni universitarie nel sud della Germania. La casa di zia Greta, appena fuori la città, era minuscola per contenere ospiti. Il professore era cortesissimo nei suoi riguardi, lo trattava con affetto e discrezione, quasi a rendergli grazie di essere il nipote della persona ora a lui più cara e preziosa. Prima di giungere in quel di Siena, però, Theodor aveva già percorso la penisola in latitudine e longitudine. Dopo la laurea in filosofia a Monaco, alcune pubblicazioni di rilievo su studi semiologici e diversi seminari tenuti all’università gli avevano accreditato, nella sua città, una certa autorità professionale. Certo, la carriera universitaria era ancora lunga, ma l’impeto di prendere in anticipo, nel cammino accademico, l’anno di interruzione sabbatica per l’agognato viaggio in Italia era stato violento. Alla realizzazione di tale pro-

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getto aveva contribuito una piccola somma percepita dallo svincolo di una proprietà di famiglia di cui aveva ereditato una cospicua parte. “La carriera può attendere”, aveva pensato; la terra della luce lo stava aspettando. E il viaggio era stato intrapreso. Dalla Valle dei Templi ai ghiacciai azzurri del Gran Paradiso, nel convulso desiderio di respirare l’essenza di quel paese per lui magico, Theodor aveva cercato per settimane, senza posa, il luogo eccellente dove batteva il cuore di quella cultura, della sua storia e della sua arte. Se in quella chiesa, in quella piazza, in quello scorcio azzurro o in quel filare di olmi gli sembrava di recepire il giusto segno che la ricerca del suo Santo Graal era giunta finalmente a termine, subito un lieve tremito dell’animo gli suggeriva che il “luogo sacro” era forse più avanti, o forse alle sue spalle o chissà quanto lontano a venire. Quasi metà del suo viaggio era compiuto. Era a Firenze. Lì, per giorni e giorni aveva sognato i fasti delle corti medicee: i tesori di una pittura eterna, il rinascimento dei menestrelli e delle antiche contrade, il Palio, i banchetti e le feste dei cembali, dei liuti e dei madrigali, floride bellezze dal niveo incarnato e seriche vesti, elmi e scintillanti armature, le punte dei cipressi, messi e vigneti, il sorriso di dolci colline, olio traboccante dagli orci e vermiglie bevande, casate, stemmi, effigi e araldi, corti sontuose e zecchini dorati, banchieri e soldati, arte e scienza, creatori e grandi ingegni, banditi e uomini immensi… Ma né gli interminabili pomeriggi nei corridoi degli Uffizi né le lunghe e pensose ore a fissare in silenzio i mirabili quadri di piazze sospese nell’attimo di un trattenuto respiro avevano colmato il vuoto che tormentava il suo intelletto. Era quasi aprile. Tantchen Greta l’aveva voluto con sé a Siena “perlomeno per una settimana o due”. Così gli aveva detto quando lui l’aveva chiamata dal capoluogo. Theo non se l’era fatto ripetere più di una volta. Non aveva certo pro-

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gettato di rimanere nella provincia senese; anche se terra di confortanti bellezze, il suo piano prevedeva un passaggio in quei luoghi di alcuni giorni appena. La zia e il professore, però, si erano dimostrati come immaginabile molto premurosi, i suoi denari erano scemati con flusso maggiore delle aspettative e tutto questo l’aveva convinto che forse il soggiorno si poteva prolungare per un po’. “Solo per un po’”, aveva pensato lui. Ma non sarebbe stato così. Una delle prime persone che Theodor aveva conosciuto a Siena era stato Anselmo, il restauratore. Camminando un pomeriggio per via Stalloreggi si era infilato quasi casualmente in una traversa e qui gli si era parato dinnanzi l’uscio di una bottega. Era entrato e, dietro una torre di sedie stile impero, aveva visto Anselmo per la prima volta. Aveva una settantina d’anni ben portati, un bel viso rubicondo, gli occhi glauchi e una capigliatura riccia bianca (spesso scarmigliata, avrebbe poi constatato). – Lei è straniero? – gli aveva chiesto l’uomo appena l’aveva visto sulla soglia. – Sì. Perché, si vede? Theo era uscito dal negozio quasi due ore dopo. Quante volte vi era rientrato in seguito a parlare con il suo primo amico italiano. Gli piaceva quella bottega quasi sempre deserta, profumata di legni e satura di oggetti accatastati che attendevano riparazioni, lucidature, levigature e suggerivano l’idea di pazienti proprietari che a scadenze regolari visitavano l’odorosa spelonca con la fragile speranza di vedere i loro mobili finalmente restaurati. Che conforto quelle mattine e quei pomeriggi passati in compagnia del suo amico. Gli piaceva ascoltare il suo vernacolo regionale e smarrirsi in quella foresta di antichi arredi. Già, la

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bottega del vecchio Anselmo. Quante ne aveva sentite dallo stravagante proprietario. E come rise quel giorno quando Anselmo gli raccontò del sagrestano ubriaco di Radicofani. – “Radicofani”, ma davvero? – chiese stupito. Poteva esistere un paese con un nome simile? – Sì, sì, Ra-di-co-fa-ni – scandì bene Anselmo. – Suona buffo nella tua lingua? – Sì, veramente buffo – rispose ridacchiando Theo. – Dove si trova? – Qui nel sud della Toscana, alle falde del monte Amiata, vicino la val d’Orcia. È una bella terra, la dovresti vedere! – Perché no? Un giorno magari la vedrò. Purtroppo a ottobre rientrerò a Heidelberg. Ci sono ancora un’infinità di posti che avrei voluto visitare. – Hai ragione, Theo, non c’è tempo per vedere ogni cosa. E poi, tutto sommato, l’Italia non è così perfetta come l’hai studiata sui libri d’arte. Ci sono luoghi che, a mio avviso, si dovrebbe tener nascosti. – Come ovunque. – Come ovunque, è vero. Che dire poi, io all’estero ci sono stato pochissimo. – Puoi sempre venire a trovarmi in Germania. – Ma se parlo solo l’italiano! – Ti starò sempre vicino. E poi girando per il Württemberg un sagrestano sbronzo lo troviamo anche da noi. Anselmo rise: – Già, il Dragoni! Personaggio unico. Tutte le sere alla taverna del Mago Merlino di Montalcino entra sproloquiando contro il sindaco e la giunta comunale, poi esce ciucco che non si regge in piedi e comincia a rivangare i suoi antichi trascorsi amorosi. Sembra che la nipote del parroco l’abbia rifiutato tre volte.

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– Dra… Dragoni sarebbe il nome? – Sicuramente il soprannome. Il soprannome qui è diffusissimo. C’è gente credo che abbia addirittura dimenticato il proprio nome di battesimo. – Usanza stravagante. – Da voi non usa? – Sì, li abbiamo anche noi… ehm… Beiname o Spitzname si chiamano. Ma tu, Anselmo, vivi qui; cosa sai della locanda del Mago Merlino che sta in un altro paese? – Io sono nato a Montalcino. Vivo qui da vent’anni, ma mio fratello, che è rimasto nella nostra casa paterna, mi ospita spesso il fine settimana. Ci torno volentieri. – E il sabato vai all’osteria… Pardon, alla taverna? – No, no, ci vado pochissimo, ma del Dragoni lo sa quasi tutto il paese. – Così questo sagrestano sarebbe diventato una star di Montalcino? – Che vuoi fare, la vita è quella dei piccoli borghi. Basta poco a far parlare la gente per settimane intere. E inoltre… – Anselmo s’interruppe per un attimo. – Sì?… – lo sollecitò Theo. – Pare che… insomma, non siano solo le sue pene amorose a destare interesse. Theodor inarcò un sopracciglio. – Ci dovrebbe essere un’altra faccenda dietro – continuò l’amico. – E sarebbe? – Ma, che dire, non so quanto sia vero, forse son chiacchiere di pettegoli ma… qualcosa che riguarda il suo passato. Certi fatti strani. – Continua, su!

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– Ora non so proprio con precisione. Sono cose sul suo conto, o forse solo storie che racconta. Be’, in una parola: il Dragoni gli è spesso ’mbriaco come una zucchina, ma c’è delle volte che ha raccontato delle cose particolarmente interessanti. – Le persone che riferiscono di questo sono attendibili? – Mah, vediamo, il Mario, Sganga, il Bartocci… Sì, direi di sì. Persone più che credibili. Fammi pensare… Ah, Irene! Sì, anche Irene. – Irene? – Sì, la figlia di Binanti, il pittore. Ecco, lei sicuramente ha ascoltato frammenti delle sue conversazioni. Theodor ora non sorrideva più. Fissava il suo gioviale amico quasi a cercare una causa ragionevole del proprio malcelato stupore. – Irene? Sì, la ricordo, l’architetto. Anche lei è di Montalcino. Suo padre abita ancora lì, se non sbaglio. – Sì, è lei. L’hai vista qualche volta qui la domenica prima della mostra. – Insomma, cosa racconterebbe questo Dragoni? Anselmo allargò le braccia. – Per quel che ho saputo, sembra che il sagrestano farfugli cose attorno a chiese con passaggi segreti, cripte abbandonate, oggetti scomparsi, strane fughe… – Furti di opere d’arte? – azzardò Theo. – Assolutamente no! Questo lo so per certo. Lui dice di essere vincolato da un segreto e che gran parte della sua esperienza misteriosa deve rimanere tale. – Per quale ragione? – È appunto quello che tutti gli avrebbero chiesto. Ma lui niente. Fermo, irremovibile! D’altronde afferma che se dicesse la ragione per cui certe cose le tiene nascoste è come se rivelasse le cose stesse. – E ne avrebbe raccontato solo una parte?

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– Probabilmente gli piacerà essere al centro delle attenzioni. Accade spesso nelle sere d’inverno. Tra una partita a carte e un bicchiere, ai tavoli la gente chiacchiera, qualcosa si dice per il vero e qualcosa s’inventa per destare curiosità. Così la compagnia smaltisce la malinconia della stagione e il tempo passa. Theodor distolse per un attimo lo sguardo da Anselmo. – Tutte le storie sono più o meno vere, dici. Perché quelle del Dragoni hanno questo peso, allora? – Credo sia successo qualcosa che può confermare parte dei suoi discorsi. – E Irene sa qualcosa anche di questo? – Sì, penso di sì. Theo rimase per un momento pensieroso e Anselmo se ne accorse. – Sei scettico? Klinsmann abbozzò una specie di sorriso. – No, non tanto. È che… è che pensavo a Irene. – Ah, Irene! – fece Anselmo. – Carina davvero! – Sì, è carina, cioè… Hübsch. Come dite qui? Graziosa, ecco sì, graziosa! Ma non è solo questo. – E allora? – È che sembra strano da parte di una ragazza del genere. Io la conosco poco, però mi sembra una donna molto intelligente. Inoltre, so che il padre è un uomo di cultura, un eccellente pittore, dicono. – È così, infatti. – Trovo strano – proseguì Theo – che una donna come lei passi le serate in una taverna e che si lasci infatuare dai vaniloqui di un sagrestano ubriacone. – Che Irene non trascorra le serate nelle osterie questo è certo. Può darsi che al Mago Merlino ci sarà stata qualche volta, magari in compagnia di qualcuno e vuoi il caso che sia ca-

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pitata quelle due o tre volte in cui il Dragoni recitava le sue avventure. – O farneticazioni? – Può darsi. A ogni modo anche lei lo ha sentito parlare di questo. – Che cosa strana, Anselmo. Strana davvero. L’anziano sospirò. – Cosa vuoi che ti dica, Theo. Io te l’ho riferita come l’hanno raccontata a me. Questo sagrestano, d’altronde, l’ho visto veramente poche volte. E poi, alla mia età, caro professore, cosa vuoi, non si ha più la curiosità per certi impicci. Se un giorno magari Irene si affaccia alla mia bottega potreste incontrarvi di nuovo e chissà che… – No, no, non ci pensare – fece Theo, con il tono di chi ha oramai esaurito l’interesse per l’argomento. – Magari se vedi Irene chiamami pure, ma non credo che parleremo di sagrestani. Anselmo ammiccò con un sorriso sornione e si appiombò sulla sedia che teneva sempre accostata all’uscio del negozio: – Come si dice in Germania? Sehr schönes Mädchen. È così, vero? – Bravo, Anselmo. Impari bene il tedesco!

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