Canone inverso. Antologia di teoria queer

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Canone inverso offre una visione del queer come pratica teorica all’interno di discipline diverse, non pacificata e politicamente trasformativa. Scritti di Laurent Berlant, Leo Bersani, Judith Butler, Ann Cvetckovich, Samuel R. Delany, Lee Edelman, Eve Kosfsky Sedgwick, Sandy Stone, Michael Warner, Simon Watney.

€ 24,00

ETS

Edizioni ETS

antologia di teoria queer a cura di

Elisa A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono

Collana di intercultura di genere

Le autrici e gli autori che presentiamo tematizzano la tensione tra instabilità del desiderio e persistenza delle norme identitarie, la valenza pubblica degli affetti, la contestazione del mito della visibilità e della rispettabilità gay e lesbica, la resistenza alle dinamiche che generano nuove forme di abiezione dietro la facciata di una politica integrazionista della sessualità. L’orizzonte che si apre fa spazio a una politica che viene dopo l’identità e a un’etica antisociale e non riproduttiva.

Canone inverso

à ltera

Elisa A.G. Arfini (a cura di) Cristian Lo Iacono

I testi che compongono il volume, tradotti per la prima volta, ci introducono in un laboratorio dove gli strumenti del pensiero contemporaneo (marxismo, psicanalisi, femminismo, linguistica strutturale, studi culturali) vengono usati per scandagliare sia il dibattito pubblico, accademico, sia l’attivismo LGBT americano ed europeo dalla fine degli anni Ottanta.

Canone inverso

Cristian Lo Iacono è dottore di ricerca in Filosofia ed ermeneutica filosofica, attivista e responsabile del Centro di documentazione GLBTQ del Circolo Maurice di Torino. Ha pubblicato su Zapruder, Critica Marxista, il manifesto, Filosofia Politica. È autore di Althusser in Italia. Saggio bibliografico 1959-2009 (Milano, 2011) e ha curato il volume Il danno e la beffa. Un dibattito con Nancy Fraser su redistribuzione, riconoscimento, partecipazione (Lecce, 2012). La sua ricerca su Axel Honneth e Judith Butler (Maschere del riconoscimento) è di prossima pubblicazione.

I

nstabile e infedele conglomerato di senso, il queer è presentato come un metodo di critica permanente a una socialità sessuale e di genere normalizzata e assimilata.

immagine di copertina: Vito Perrone

Elisa A.G. Arfini è dottore di ricerca in Modelli, linguaggi e tradizioni nella cultura occidentale. Collabora con l’Università di Ferrara nell’ambito della sociologia dei processi culturali e degli studi di genere. Si occupa di studi di genere con una particolare attenzione per: costruzione narrativa delle identità; embodiment transgender; intersezioni tra studi sulla disabilità, teoria queer e teoria crip; metodologie narrative. Oltre a vari contributi in volumi collettanei e riviste, ha pubblicato Scrivere il sesso. Retoriche e narrative della transessualità (Roma, 2007).

L’intercultura di genere è un campo ibrido e irrequieto dove spostamenti e transiti sono costitutivi. Incrocia riflessioni teoriche e indagini culturali interdisciplinari attingendo a studi culturali e postcoloniali, studi sull’affetto, studi sulle donne, studi sulla mascolinità e studi queer per moltiplicare l’analisi di differenze, marginalità e dissensi. Questa complessa intersezionalità permette di sciogliere rigidità epistemologiche e leggere altrimenti, indagando anche spazi non organizzati intorno al genere. àltera si occupa di come cambia la cultura in un contesto globale e studia la costruzione tecnico-politica di genere e sessualità attraverso narrative, discorsi, forme, oggetti e strumenti farmacopornografici che producono e riassegnano performativamente identità di genere e identità sessuali.


Collana di intercultura di genere diretta da Liana Borghi e Marco Pustianaz

1. Il Sorriso dello Stregatto: figurazioni di genere e intercultura, a cura di Liana Borghi e Clotilde Barbarulli, 2010, pp. 200 2. Judith Halberstam, Maschilità senza uomini, a cura di Federica Frabetti, 2010, pp. 180 3. Clotilde Barbarulli, Scrittrici migranti: la lingua, il caos, una stella, 2010, pp. 214 4. Aa.Vv., Queer in Italia. Differenze in movimento, a cura di Marco Pustianaz, 2011, pp. 164 5. Paola di Cori, Asincronie del femminismo. Scritti e interventi 1986-2011, 2012, pp. 298 6. Canone Inverso. Antologia di teoria queer, a cura di Elisa A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono, 2012, pp. 336 7. Samule Grassi, Anarchismo queer. Un’introduzione, in preparazione

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Canone inverso Antologia di teoria queer

a cura di Elisa A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono

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www.edizioniets.com

Immagine di copertina di Vito Perrone

Š Copyright 2012 EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673217-0

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Indice

Avvertenza 7 La Cosa Queer: saggio introduttivo

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I

Simon Watney Lo spettacolo dell’AIDS

53

II

Judith Butler Atti perfomativi e costituzione di genere: saggio di fenomenologia e teoria femminista

75

III Samuel R. Delany Avversione/Perversione/Diversione

101

IV Sandy Stone L’“Impero” colpisce ancora: un manifesto post-transessuale

133

V

155

Eve Kosofsky Sedgwick Queer e ora!

VI Lauren Berlant La sfera pubblica intima

175

VII Michael Warner Normali, sempre più normali: oltre il matrimonio gay

201

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VIII Ann Cvetkovich Trauma e Tocco: sessualitĂ butch-femme

223

IX Lee Edelman No Future

245

X Leo Bersani Vergogna

271

Un percorso bibliografico tra le riviste

297

Bibliografia 303 Glossario 327

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Avvertenza

Le indicazioni bibliografiche sono riportate nel testo secondo il sistema (autore anno: numero di pagina). Gli unici accorgimenti che chi legge deve tener presente è che l’anno di pubblicazione è sempre quello dell’edizione in lingua originale citata, mente il numero di pagina è quello della traduzione italiana, laddove esistente. I riferimenti bibliografici sono stati così distribuiti: - Bibliografia relativa all’introduzione - Riferimenti bibliografici dei singoli testi - Bibliografia finale Si tratta di tre bibliografie indipendenti l’una dall’altra. Occorre tuttavia spiegare il senso di questa distribuzione. Poiché nell’introduzione proponiamo un quadro dei presupposti teorici e politici degli studi queer, abbiamo deciso di raccogliere qui, piuttosto che nella bibliografia finale, i testi di maggior importanza pubblicati prima della seconda metà degli anni Ottanta, periodo che teniamo come ideale spartiacque tra una altrimenti introvabile – e peraltro non necessaria – data di fondazione della queer theory. Vi si troveranno, ad esempio, il primo volume della Storia della sessualità di Michel Foucault (1978), ma anche anche testi che retrospettivamente sono stati identificati come anticipazioni del queer, come ad esempio L’idea omosessuale di Guy Hocquenghem (1972). I riferimenti interni ai singoli saggi sono i più disparati ed eterogenei. Si va dai testi fondatori a testi coevi e anch’essi riconducibili ad una metodologia queer, fino a testi di avversari teorici o politici o semplici estranei: da Andrew Sullivan a Hillary Clinton, da Habermas ai fondamentalisti cristiani. Ci è

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sembrato del tutto inopportuno raccoglierli in una bibliografia finale, e per questo abbiamo considerato qualche ripetizione come un danno non eccessivo verso chi legge. Le lacune ai testi, che si sono dovute imporre per ragioni di uniformità e spazio, sono segnalate con i convenzionali punti di sospensione tra parentesi quadre […]. L’intervallo completo dei testi sarà indicato nel colophon che li precede. Nel tradurre dall’inglese, si è persa la conveniente indeterminatezza di genere. Abbiamo scelto, per quanto possibile, di non appesantire il testo con doppie desinenze [es.: i/le perversi/e], convinte che il contenuto dei testi stessi fosse abbastanza inclusivo da non doverci costringere a precisazioni nominaliste (sono altre le le sedi in cui si rendono necessarie). Le note di contenuto sono generalmente da riferirsi all’autore o all’autrice del saggio, mentre le rare note dei curatori e quelle dei traduttori sono chiuse dalle convenzionali sigle tra parentesi (N.d.C.), (N.d.T.).

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La Cosa Queer: saggio introduttivo

In our view, it is not useful to consider queer theory a thing. Lauren Berlant & Michael Warner

Il tentativo di costruire un canone queer non può che essere proposto sotto il segno dell’ironia. Di fatto, nonostante alcuni degli autori e delle autrici che presentiamo abbiano assunto un ruolo quasi eroico nella rappresentazione della teoria queer, e nonostante i testi che presentiamo siano, ciascuno a suo modo, testi-chiave, sappiamo con certezza che questa è la nostra selezione e che ciò ha aggiunto un portato performativo al contenuto espressivo dei testi. Sappiamo che questo effetto è coestensivo a qualunque operazione di reiterazione, e dunque anche a quella forma particolare di reiterazione che va sotto il nome di traduzione culturale. Secondo Paul de Man: La traduzione è un modo di leggere l’originale che dell’originale rivelerà le debolezze intrinseche, non nel senso che così l’originale non sia più un’opera di valore o che altro, o che non sia più degna di ammirazione […], ma in modo più radicale: l’originale non è canonico, l’originale è uno scritto di lingua comune, in un certo qual modo – prosaico, comune – che, in quanto tale, rientra in quella categoria quanto nella categoria di originale. È desacralizzato. Decanonizzato, decentralizzato in modo radicale (de Man 1987 : 46).

In un’ottica decostruzionista che attraversa tutto il queer, il canone non è tanto l’espressione del nucleo imprescindibile,

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originario, essenziale, di una determinata cultura o di un’intera epoca storica, o addirittura di una civiltà, quanto il dispositivo atto a consolidarlo, il prodotto e la figura di una stabilità che ha bisogno di essere continuamente puntellata. È proprio questa instabilità dello stabile a rendere possibile intercettare – “sous rature”, sotto la cancellazione della crepa, o della traccia, per dirla con Derrida, tra le righe e negli interstizi della narrazione principale – la presenza di quegli elementi che il canone ha lo scopo di escludere. Se il queer può essere identificato come una modalità della pratica decostruttiva e desacralizzante delle scritture del sesso, la tematica del canone applicata alla teoria queer, può avere a nostro avviso un benefico per quanto paradossale effetto: rendere leggibile e decifrabile quello che “per definizione” si pone sotto una sfuggente aura dell’indedicibilità quasi sacrale: il queer appunto – ed è sintomatico il fatto che il termine stesso ‘queer’ non venga tradotto. Il nostro Canone è dunque inverso nel senso che, oltre a (de)canonizzare gli studi su quella che in altre epoche veniva definita l’“inversione sessuale”, sottostà a quelle stesse condizioni antimonumentali, ironiche e autoironiche che sole rendono plausibile un canone queer. I saggi che abbiamo raccolto coprono un arco temporale che va dalla fine degli anni Ottanta del secolo passato alla fine del primo decennio di quello presente. L’estrazione geografica delle autrici e degli autori – volendoci tenere agganciati alle “origini” – è essenzialmente angloamericana. Abbiamo cercato di dare una rappresentazione “plastica” della diffusione internazionale degli studi queer nella Bibliografia che chiude il volume, ampia e volutamente variegata. I testi scelti sono introdotti ciascuno da una breve presentazione a cui rimandiamo chi legge. È bene tuttavia dichiarare il criterio della scelta, posto che, ovviamente, nessuna scelta è mai libera da vincoli di vario tipo, anche legati all’industria editoriale globale, Abbiamo deciso di presentare il sorgere degli studi queer come l’effetto combinato di fattori teorici ed extrateorici (l’epidemia dell’AIDS da un lato, il dibattito sul costruttivismo dall’altro): Simon Watney e Judith Butler. Abbiamo poi seguito le riflessioni sull’identità sessuale (Samuel

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Introduzione 11

Delany) e di genere (Sandy Stone) attraverso due testi che sono anche due mirabili esercizi di scrittura autobiografica e politica, fino all’autodichiarazione performativa del “Queer e ora!” di Eve Sedgwick, il testo denso di partecipazione, di sapiente scrittura e di scrutinio critico che occupa il centro della raccolta. La seconda parte del volume dà conto dell’intensificazione dell’interesse di studiose e studiosi queer per temi “classici” della politica quali la sfera pubblica, la democrazia, l’uguaglianza1. Il testo di Lauren Berlant analizza con un approccio materialista il conflitto attorno alla cittadinanza, che vede coinvolte la destra conservatrice e le istanze delle soggettività stigmatizzate. Per certi versi complementare a questa operazione è il testo di Michael Warner, che svolge un discorso critico rivolto alla comunità gay e lesbica e ai suoi rappresentanti intellettuali2. Gli ultimi tre testi, di Ann Cvetkovich, Lee Edelman e Leo Bersani aprono uno squarcio su due temi che ci sentiamo di definire come cruciali per i destini della teoria: socialità e affetti. Anche se separati per motivi di ordinamento cronologico dal testo di Edelman, lo scritto di Cvetkovich e quello di Bersani dovrebbero essere letti come due modi diversi di abbordare il tema del tocco, dell’intimità, dell’affettività, di quanto ne va del corpo nel suo rapportarsi all’altra o all’altro. Allo stesso tempo i testi di Edelman e Bersani potrebbero essere letti come documenti di una riflessione sul tema dell’antisocialità queer, da far risuonare (e non da opporre) alle riflessioni sugli affetti queer rintracciabili nei testi di Berlant e Cvetkovich, e naturalmente in Sedgwick. Concludiamo questo breve schizzo senza evolverci in un atteggiamento prescrittivo. Chi legge rintraccerà un’intertestualità che in questa sede introduttiva non abbiamo voluto ridurre o chiudere in un percorso di lettura predeterminato. Nelle restanti pagine di questa introduzione ci poniamo essenzialmente tre obiettivi: fornire una ricostruzione del quadro di riferimento entro cui gli studi queer sono sorti; definire la differenza tra studi gay e lesbici e studi queer; presentare le tendenze attive e quello che potremmo definire il “lascito” della teoria queer.

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Allucquère Rosanne “Sandy” Stone è professore associato presso la University of Texas, Austin, dove ha fondato l’ACTLab, laboratorio per le tecnologie di comunicazione avanzata. È inoltre performer, ingegnere del suono, produttrice di video, installazioni e nuovi media. Nonostante la varietà di interessi e metodi, tutta l’opera di Stone è caratterizzata da un’attenzione particolare alla relazione tra identità e corpo, soprattutto quando i nessi causali tra i due poli sono messi in crisi: dalle contaminazioni tecnologiche, dagli sconfinamenti di genere, o dall’alterità razziale. In italiano è stato tradotto nel 1988 il suo Desiderio e tecnologia: il problema dell’identità nell’era di Internet, un testo dai molteplici registri espositivi in cui l’autrice si confronta con gli interrogativi posti dall’avvento dell’era virtuale e dà conto delle vicissitudini del desiderio quando è agito nel cyberspazio. Il “Manifesto post-transessuale”, che qui presentiamo, è un saggio influenzato principalmente dall’opera di Donna Haraway sulla figurazione cyborg, ma anche dalle teorie della mestiza di Gloria Anzaldúa. Si presenta come una risposta programmatica alle accuse che alcune femministe americane avevano mosso alle donne trans e alla stessa Stone, ritenute colpevoli di appropriarsi in maniera indebita del corpo femminile, e di mettere così in atto il definitivo sopruso maschile ai danni delle donne. A questa accusa di aggressione e inautenticità Stone risponde esortando le persone trans a rifiutare ogni complicità con il discorso normativo, a non “passare”, e a cominciare a produrre il proprio controdiscorso. A vent’anni dalla pubblicazione, questo saggio è considerato il testo seminale degli studi transgender.

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L’“Impero” colpisce ancora

IV

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per gentile concession dell’Autrice © Sandy Stone 1987-2004 Nei limiti di quanto indicato all’URL sotto riportato e contenente il testo originale integrale, è consentita la diffusione elettronica del presente articolo, che non può però essere stampato senza permesso. La traduzione italiana è liberamente scaricabile dalla pagina del volume nel sito dell’editore (www.edizioniets.com). The Empire Strikes Back: a posttransexual manifesto http://www.actlab.utexas.edu/~sandy/empire-strikes-back traduzione di Barbara De Vivo

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Sandy Stone

L’“Impero” colpisce ancora: un manifesto post-transessuale

1. Da ranocchi a principesse Le colline verdeggianti di Casablanca guardano dall’alto in basso le case e i negozi straripanti, incastrati tra le anguste e tortuose strade che odorano di spezie e sterco. Casablanca è una città molto vecchia, e forse solo per una casualità geografica Lawrence Durrell non ha potuto definire anche questa città come il “torchio dell’amore”1. Nel quartiere più moderno, situato su un ampio e soleggiato viale, si trova un edificio di per sé non degno di nota, se non fosse per una piccola targhetta d’ottone che lo identifica come la clinica del Dr. Georges Burou. La clinica si occupa principalmente di ostetricia e ginecologia, ma per molti anni ha avuto un’altra reputazione, del tutto sconosciuta al flusso di donne che ha attraversato le sue stanze. Il Dr. Burou riceve la visita del giornalista James Morris. Morris si agita in sala d’aspetto leggendo Elle e Paris-Match con scarsa attenzione, perché è lì per sbrigare una faccenda dall’immensa importanza personale. Dopo una lunga attesa viene chiamato dall’accettazione, e guidato al sancta sanctorum. Morris racconta: Sono stato condotto lungo corridoi e in cima a scale fino alle zone più recondite della clinica. L’atmosfera si faceva più spessa mentre avanzavamo. Le stanze avevano tende sempre più pesanti, sempre più vellutate, sempre più voluttuose. Apparvero dei busti, credo, e si percepiva una traccia di profumo intenso. Di lì a poco vidi avanzare verso di me attraverso le alcove semibuie di questo eremo, una figura che appariva come un’odalisca. Era Madame Burou. Vestita con un lungo abito bianco ornato, credo, di nappe intorno alla vita, riusciva

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delicatamente a combinare la lussuria di un caftano con l’igiene di un’uniforme da infermiera; era bionda, e accuratamente misteriosa. […] Poteri che sfuggivano al mio controllo mi avevano condotto alla Stanza 5 della clinica di Casablanca, e a quel punto non avrei potuto fuggire anche se avessi voluto… Andai a salutare la parte di me che si rifletteva nello specchio. Non ci saremmo mai più incontrati, e volevo guardare a lungo negli occhi l’altro me, fargli un occhiolino per augurargli buona fortuna. Intanto, sulla strada, un venditore ambulante suonava un arpeggio delicato con il suo flauto, un suono molto lieve e gioioso, ripreso ripetutamente in dolce diminuendo. Una schiera di angeli, mi dissi, e così fui scosso… verso il mio letto, e l’oblio (Morris, 1974: 155).

In questa narrazione della trasformazione, meravigliosamente “orientale” e quasi religiosa, esce di scena James Morris, entra in scena Jan Morris, mediante l’intervento delle pratiche mediche del tardo ventesimo secolo. Il passo è tratto da Conundrum, la storia del “cambiamento di sesso” di Morris e delle conseguenze che ha avuto sulla sua vita. Oltre alla strizzatina d’occhio come portafortuna, c’è un’altra cerimonia obbligatoria nota alle transessuali MtF, chiamata “torcere il collo al tacchino” (vedi paragrafo 3), che però Morris non riporta di aver praticato. Ritornerò su questo rito di passaggio in maniera più dettagliata in seguito.

2. Fare la storia Immaginiamo ora un rapido salto dai turbolenti vicoli di Casablanca alle dolci colline verdi di Palo Alto. Il Gender Dysphoria Program della Stanford University occupa una piccola stanza vicino al campus, in una tranquilla zona residenziale di questa benestante comunità. Il Centro, l’equivalente della clinica di Georges Burou in Marocco, è stato per molti anni l’istituto universitario più importante in Occidente per gli studi sulla disforia di genere, nota anche come transessualismo. Vi si stabiliscono eziologia, criteri diagnostici e trattamento.

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Il Programma ebbe inizio nel 1968, e il suo staff di chirurghi e psicologi per primo iniziò a raccogliere quante più storie possibili riguardo il transessualismo. Apro una parentesi per fornire una brevissima sintesi dei loro risultati. Un/a transessuale è una persona che identifica la sua identità con quella del genere “opposto”. Sesso e genere sono due dimensioni molto diverse, ma le persone transessuali solitamente scompaginano questa distinzione confondendo il carattere performativo del genere con la “verità” fisica del sesso, definendo la loro situazione come un essere nel “corpo sbagliato”. Anche se il termine transessuale ha origini recenti, il fenomeno non lo è. Il primo cenno a qualcosa che possiamo ricondurre ex post al transessualismo, alla luce dei criteri diagnostici contemporanei, risale al re assiro Assurbanipal, che – si racconta – indossava abiti da donna e tesseva assieme alle sue mogli (Walters e Ross, 1986: 1,2). Casi successivi di fenomeni molto simili al transessualismo sono riportati da Filone di Alessandria all’epoca dell’Impero Romano. Nel diciottesimo secolo il Cavaliere d’Eon, che visse per 39 anni da donna, rivaleggiò con Madame Pompadour per le attenzioni di Luigi XV. Il primo governatore coloniale di New York, Lord Cornbury, giunse dall’Inghilterra completamente vestito da donna e rimase così vestito durante tutto il suo incarico (Docter 1988). Al transessualismo non venne assegnato ufficialmente lo status di “disordine” fino al 1980, anno in cui venne inserito nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM) redatto dall’American Psychiatric Association. Come evidenzia Marie Mehl, questo avvenimento segna una vittoria di Pirro2. […] Nello stesso periodo, le teoriche femministe andavano sviluppando le proprie analisi. La questione del transessualismo divenne velocemente, e ancora lo è, esplosiva e fonte di divisioni. Per citare un esempio: Lo stupro […] è una violazione maschilista dell’integrità del corpo. Tutti i transessuali stuprano i corpi delle donne poiché riducono la forma femminile a un artefatto, appropriandosi di tale corpo per i

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propri fini […] Lo stupro, sebbene avvenga di solito con l’uso della forza, può essere anche compiuto con l’inganno.

Questa citazione è tratta dal libro di Janice Raymond The Transsexual Empire: The Making of the She-Male, pubblicato nel 1979, testo che ha ispirato il titolo di questo mio saggio. Ho letto in Raymond l’affermazione che i transessuali sono i prodotti di un malvagio impero fallocratico e sono stati progettati per invadere gli spazi delle donne e per appropriarsi del loro potere. Sebbene The Transsexual Empire abbia rappresentato un momento specifico dell’analisi femminista, prefigurando l’appropriazione del linguaggio della politica progressista da parte della destra radicale, qui ed ora, nel 1991, nel dodicesimo anniversario della sua pubblicazione, rimane un autorevole intervento sul transessualismo da parte di una bio-donna accademica. Per chiarire le poste in gioco di questo discorso voglio citare un altro passo tratto da The Transsexual Empire: L’atteggiamento maschile è particolarmente invadente. È significativo che le lesbofemministe che si costruiscono come transessuali si siano inserite nella comunità femminista in posizioni e/o performance di potere. Sandy Stone, l’ingegnere transessuale di Olivia Records, una casa discografica di “sole donne”, ne è un buon esempio. Non solo Stone è una figura centrale per l’Olivia ma vi ricopre anche un ruolo dominante. La visibilità che ha ottenuto in seguito alla controversia scatenatasi intorno alla casa discografica Olivia… serve soltanto ad accrescere la sua precedente posizione di potere e a dividere le donne, così come gli uomini sono soliti fare, quando rendono la loro presenza necessaria e vitale per le donne. Una donna scrive: “Mi sento stuprata quando Olivia fa passare Sandy come una vera donna. Dopo tutti i suoi privilegi di maschio, farà profitto anche con la cultura lesbo-femminista? (Raymond 1979)

Questo mio saggio, L’“Impero” colpisce ancora, parla di racconti morali e miti originari, delle narrazioni che costruiscono la “verità” del genere. Il criterio che lo informa è che “le arti tecniche sono sempre immaginate come subordinate all’idea artistica dominante, essa stessa radicata autoritariamente nella

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vita stessa della natura.” (Haraway 1985: 20). Questo saggio parla del modo in cui l’immaginario e il reale si definiscono mutualmente attraverso le iscrizioni e le pratiche interpretative del tardo capitalismo. Parla di postmodernismo, postfemminismo, e – oserei dire – di posttransessualismo. In ogni sua parte, il saggio deve moltissimo al lavoro di Donna Haraway.

3. “La cultura tardo-capitalista desidera far diventare ogni parte della realtà un’immagine della propria sicurezza”3 Torniamo ai racconti autobiografici transessuali. Durante questo periodo praticamente tutti i racconti pubblicati sono stati scritti da MtF. […] Il racconto più datato, parzialmente autobiografico, è quello di Lili Elbe, contenuto nel libro di Niels Hoyer Man into Woman risalente al 1933. Il primo libro completamente autobiografico è stato invece il tascabile I Changed My Sex! – un titolo non esattamente pacato e contemplativo – scritto dall’artista spogliarellista Hedy Jo Star nella metà degli anni ’50 (Star 1955). Christine Jorgensen, che si sottopose a un intervento chirurgico nei primi anni ’50 ed è senza dubbio la più nota transessuale contemporanea, non pubblicò la propria autobiografia fino al 1967; il libro di Star, invece, ha cavalcato l’onda dell’attenzione mediatica creatasi intorno all’intervento chirurgico di Jorgensen. Nel 1974 venne pubblicato Conundrum, scritto dalla celebre giornalista inglese Jan Morris. Nel 1977 venne pubblicato Canary, della musicista e performer Canary Conn. Inoltre, molte persone transessuali conservano quella che in gergo chiamano “C.O.T”: Cartella Obbligatoria del/la Transessuale. Questa cartella di solito contiene articoli di giornali e frammenti di note di diari segreti che riguardano condotte di genere “inappropriate”. I transessuali collezionano, inoltre, letteratura autobiografica. Secondo il Centro per la Disforia di Genere di Stanford, le cliniche mediche non lo fanno, perché considerano i racconti autobiografici completamente inattendibili. Per questa ragione, e poiché una

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discreta percentuale di questa letteratura è invisibile in molti cataloghi di biblioteche, questi archivi personali sono l’unica fonte di informazione. Sono fortunata ad averne alcuni a mia disposizione. Che tipo di soggetto si costituisce in questi testi? Hoyer (che rappresenta Jacobson mentre rappresenta Elbe che a sua volta sta rappresentando Wegener rappresentato da Sparre4), scrive: Uno solo sguardo di quest’uomo l’ha deprivata di tutta la sua forza. Sentiva che la sua intera personalità era stata schiacciata da lui. Con una sola occhiata l’aveva annientata. Qualcosa in lei si ribellò. Si sentiva come una scolara che viene ignorata dal suo adorato insegnante. Era consapevole di quella strana debolezza che attraversava tutti i suoi arti […]; era la prima volta che il suo cuore di donna aveva tremato davanti al suo signore e padrone, davanti all’uomo che si era nominato suo protettore, e capì perché allora si era sottomessa completamente a lui e al suo volere (Hoyer 1933: 163).

Possiamo porre a questo brano tutta la serie di usuali domande: non “da chi”, ma “per chi” Lili Elbe è stata costruita? Sotto lo sguardo di chi è caduto il suo testo? E di conseguenza, quali storie compaiono e scompaiono in questo tipo di seduzione? Potrebbe non essere sorprendente constatare che tutte le narrazioni che riporterò sono simili nel modo di descrivere “la donna” come feticcio maschile, come agente della reiterazione di un ruolo socialmente imposto, o come caratterizzata da un genere perfomativo. Lili Elbe sviene alla vista del sangue (Hoyer 1933: 147). Jan Morris, una giornalista di prima classe, persona di mondo, descrive la percezione che ha di se stessa ancora in relazione al trucco e all’abbigliamento, nell’essere in mostra, e si dimostra compiaciuta quando gli uomini le aprono le porte. […] Hedy Jo Star, una spogliarellista professionista, racconta in I Changed my Sex!: “Volevo il tocco sensuale della lingerie sulla mia pelle, volevo rendere luminoso il mio volto con i cosmetici. Volevo un uomo forte per proteggermi.” Io, nel 1991, ho incontrato qualche uomo abbastanza coraggioso da far proprio questo sentimento per se stesso, ma nel 1955 questa era una posizione riservata alle donne.

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Oltre a una ovvia complicità di queste narrazioni con ciò che definisce la performatività di genere del maschio bianco occidentale, le autrici rinforzano anche un modello binario e oppositivo di identificazione di genere. Vanno dall’essere inequivocabilmente uomini, sebbene infelici, all’essere inequivocabilmente donne. Non c’è alcuno spazio intermedio. Inoltre, ognuna costruisce uno specifico momento narrativo in cui la propria personale identificazione sessuale cambia da maschio a femmina. Si tratta del momento della neo-colporrafia – ovvero il momento della riassegnazione del genere o “dell’intervento chirurgico per il cambiamento di sesso”. Jan Morris, la notte precedente l’operazione, scrive: “Sono andata a salutare la parte di me riflessa nello specchio. Non ci saremmo mai più incontrati, e volevo fare una strizzatina d’occhio portafortuna all’altra parte di me […]” (Morris 1974: 115)5. […] Tutte queste autrici replicano la narrazione maschile stereotipata della costruzione della donna: abbigliamento, trucco, lieve svenimento alla vista del sangue. Tutte queste avventuriere passano direttamente da un polo dell’esperienza sessuale all’altro. Se c’è uno spazio intermedio nel continuum della sessualità, in questi casi rimane invisibile. E nessuna menziona mai il “torcere il collo al tacchino”. Non c’è da meravigliarsi se le teoriche femministe sono state diffidenti. Accidenti, sono diffidente anch’io. In che modo queste narrazioni dialogano con i testi medicopsicologici? In un periodo storico in cui un numero crescente di interazioni avvengono tramite testi, computer, conferenze e media elettronici piuttosto che tramite il contatto personale – in un periodo di chiusura dell’era meccanica e di apertura a quella virtuale, in cui la molteplicità e la comunicazione sociale prostetica sono ordinarie – e di conseguenza la soggettività individuale può costituirsi più spesso tramite iscrizione piuttosto che tramite relazione personale, persistono ancora momenti, che non possono essere evitati, di “verità naturale” incorporata. Nelle storie raccontate dalla maggior parte di questi libri, il più critico tra questi momenti era il primo colloquio che si svolgeva

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nella clinica per la disforia di genere, quello in cui i dottori, tutti uomini, decidevano se la persona aveva i requisiti giusti per l’intervento di riassegnazione chirurgica del genere. L’origine delle cliniche per la disforia di genere è una dimostrazione microcosmica della costruzione dei criteri che definiscono il genere. L’idea di base dietro alle cliniche sulla disforia di genere era innanzitutto quella di studiare un’aberrazione umana interessante e potenzialmente finanziabile, e in secondo luogo fornire aiuto, così come lo intendevano loro, per risolvere un “problema correggibile”. Alcune tra le prime cliniche per la disforia di genere di carattere non accademico effettuavano interventi su richiesta, il che vuol dire indipendentemente da qualsiasi valutazione da parte dello staff clinico riguardo a ciò che sarebbe stata definita l’adeguatezza al genere scelto. Quando negli anni Sessanta sorsero, su basi sperimentali, le prime cliniche universitarie per la disforia di genere, lo staff medico non effettuava interventi su richiesta, a causa dei rischi professionali che si correvano nell’effettuare operazioni sperimentali su dei “sociopatici”. A quei tempi non esistevano criteri diagnostici ufficiali; transessuale era, ipso facto, chiunque firmasse per richiedere assistenza. Dal punto di vista professionale si trattava di una situazione rischiosa. Fu necessario costruire la categoria “transessuale” sulla falsariga della tradizione e della consuetudine, e definire criteri plausibili per essere accettati in clinica. Dal punto di vista professionale, era necessario per il transessualismo un test o una diagnosi differenziale che non dipendessero da un sentimento soggettivo e semplice come quello di essere in un corpo sbagliato. Il test doveva essere oggettivo, clinicamente competente, e riproponibile. Ma persino dopo tante ricerche, non si è riusciti a sviluppare nessun test semplice e inequivocabile per la sindrome della disforia di genere (Laub e Gandy 1973; Irvine, 1990). La clinica di Stanford lavorava, tra le tante aree, nel campo che i suoi membri definivano di “aiuto alla persona”. Pertanto la decisione finale in materia di idoneità per la riassegnazione del genere venne presa dal personale sulla base del sentire individuale

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riguardo “l’adeguatezza degli individui al proprio genere prescelto”. La clinica ha assunto il ruolo supplementare di “clinica per la cura della persona” o “scuola delle buone maniere” perché, secondo il parere del personale, gli uomini che si presentavano desiderosi di diventare donne non sempre si “comportavano come” delle donne. La clinica di Stanford riconosceva che i ruoli di genere si potevano imparare (fino a un certo punto). Il loro impegno come scuola di buone maniere era un tentativo volto a produrre non semplicemente femmine anatomicamente leggibili, ma donne, cioè femmine con un genere. Come ha sottolineato Norman Fisk: “Ammetto ormai molto francamente che… nelle fasi iniziali stavamo palesemente cercando candidati che avrebbero avuto le migliori probabilità di successo” (Laub e Gandy 1973: 7). In pratica questo significava che i migliori candidati per l’intervento venivano valutati sulla base della loro capacità di performare il genere prescelto. I criteri costituivano una definizione di “genere” pienamente consensuale e accettata culturalmente, e nel sito della loro messa in atto possiamo localizzare un esempio concreto dell’apparato di produzione del genere. Tutto ciò solleva varie difficili questioni: chi sta raccontando storie al posto di chi, e in che modo chi racconta distingue le storie dette da quelle ascoltate? Una risposta è che le storie vengono distinte con grande difficoltà. I criteri che i ricercatori svilupparono e poi applicarono vennero definiti ricorsivamente attraverso l’interazione con i candidati. Il copione funzionava in questo modo: inizialmente, l’unico manuale sul transessualismo era l’autorevole lavoro di Harry Benjamin The Transsexual Phenomenon (1966). (Va notato che il libro di Benjamin è addirittura successivo, di circa dieci anni, rispetto a I Changed My Sex!). Quando vennero aperte le prime cliniche, il libro di Benjamin era il testo di riferimento fondamentale per i ricercatori. Quando i primi transessuali furono valutati per la loro idoneità all’intervento, il loro comportamento corrispondeva in modo soddisfacente ai criteri di Benjamin. I ricercatori pubblicarono saggi scientifici che vi facevano riferimento, e che venivano usati come basi per ottenere fondi.

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Sorprendentemente, c’è voluto molto tempo – vari anni – affinché i ricercatori si rendessero conto che la ragione per cui i profili comportamentali dei candidati corrispondevano così bene a quelli delineati da Benjamin era che anche i candidati avevano letto il libro di Benjamin, che era passato di mano in mano nella comunità transessuale, e che i candidati erano semplicemente molto felici di fornire un comportamento che li portasse a essere accettati per l’intervento (Laub e Gandy 1973: 8-9). Questo genere di riposizionamento creò interessanti problemi. Uno di questi era il dover determinare la gamma consentita di espressioni della sessualità fisica. Questa era un’area piuttosto vasta e oscura nell’auto-presentazione dei candidati, perché i soggetti di Benjamin non parlavano affatto della percezione erotica dei loro corpi. Di conseguenza nessuno di quelli che arrivava nelle cliniche lo fece. Secondo l’autorità del testo, uomini biologici che vivevano da donne e che si identificavano come transessuali, in opposizione ai travestiti maschi ai quali la sensibilità erotica del pene era concessa, non potevano sperimentare il piacere genitale. Nei dati relativi agli anni ottanta non c’è traccia di una singola transessuale MtF pre-operazione che provasse piacere sessuale genitale mentre viveva nel “genere di scelta”6. La proibizione continuò sotto forme mutate ma altrettanto interessanti nel momento post-operazione, e rimase talmente assoluta che nessuna transessuale post-operazione ammetteva di provare piacere sessuale, neanche con la masturbazione. La piena appartenenza al genere assegnato era conferita dall’orgasmo, reale o simulato, raggiunto attraverso la penetrazione eterosessuale. “Torcere il collo al tacchino”, ovvero il rito della masturbazione del pene poco prima dell’operazione, era una delle più segrete tra le tradizioni segrete. Riconoscere come naturale un tale desiderio avrebbe comportato “un atterraggio di fortuna”, ovvero una “inadeguatezza del ruolo” che avrebbe causato l’interdizione dall’operazione. Fu necessario fare un passo indietro. I due gruppi, da una parte i ricercatori e dall’altra le transessuali, stavano inseguendo fini separati. I ricercatori volevano sapere cosa fosse questa cosa che chiamavano sindrome della disforia di genere. Volevano

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una tassonomia di sintomi, dei criteri per le diagnosi differenziali, procedure per la valutazione, dei cicli di cure attendibili, e un follow-up meticoloso. Le transessuali volevano l’operazione. Avevano una lista di priorità molto chiara riguardo la relazione con i ricercatori, e consideravano i criteri di valutazione dei medici semplicemente un ulteriore ostacolo nel loro percorso – qualcosa da superare. In questo esprimevano inequivocabilmente il criterio originario di Benjamin nella sua forma più semplice: la sensazione di essere nel corpo “sbagliato” (Laub e Gandy 1973: 7). Tutto ciò sembra una ricetta non per una relazione semplice ma conflittuale, e così è stato. La situazione non è cambiata, nonostante che, col trascorrere del tempo, vi sia stato un considerevole dialogo tra i due campi. In parte ciò è stato reso possibile dalla constatazione da parte della comunità medica e psicologica che i criteri previsti per una diagnosi differenziale non erano emersi. […] Insieme ai dubbi risultati di una categoria diagnostica, viene l’inevitabile offuscamento dei confini, dal momento che un’ampia ed eteroglotta narrazione della differenza, finora invisibile alle professioni “legittime”, improvvisamente raggiunge la canonizzazione e simultaneamente viene omogeneizzata per soddisfare le costrizioni della categoria. Improvvisamente il vecchio racconto moralista sulla verità del genere, fatto da un gentile patriarca bianco di New York nel 1966, diviene universale negli anni ’80. La pluralità di voci delle esperienze vissute, mai rappresentate nel discorso ma presenti almeno potenzialmente, scompare: il berdache e la spogliarellista, l’austera casalinga degli anni Cinquanta e il mujerado, il mah’u e la rock star, dopo tutto sono la stessa cosa, se ce la mettiamo tutta7.

4. A chi appartiene questa storia, in fin dei conti? Vorrei evidenziare le ampie somiglianze che questo singolare accostamento evoca con il discorso coloniale, discorso con il quale dovremmo avere famigliarità: la fascinazione iniziale per

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l’esotico, che si estese fino ai ricercatori professionali; la negazione della soggettività e la mancanza di accesso al discorso dominante; e in seguito i cicli di riabilitazione. Sollevare queste questioni ha complicato la vita nelle cliniche. “Fare” storia, autobiografica, accademica, o clinica8, è in parte una lotta per incardinare una narrazione in una sorta di naturale ineluttabilità. I corpi sono gli schermi sui quali vediamo proiettate le definizioni transitorie che emergono dalle lotte in corso riguardo le credenze e le pratiche all’interno delle comunità accademiche e mediche. Queste lotte si compiono lontano dal corpo. Ognuna è il tentativo di guadagnare un terreno che è profondamente morale, di produrre una spiegazione autorevole e definitiva sul perché le cose sono in certo modo e sul perché – di conseguenza – debbano rimanere così come sono. In altre parole, ognuna di queste narrazioni è la cultura che parla con la voce di un individuo. Le persone che non hanno voce in questa teorizzazione sono proprio i transessuali. Così come è accaduto con gli uomini che sin dalla notte dei tempi hanno costruito teorie sulle donne, i teorizzatori del genere non hanno visto nei transessuali qualcosa che si identificasse con l’agentività. Così come le donne biologiche, i transessuali sono infantilizzati, considerati troppo irrazionali o troppo incoscienti per ottenere una vera soggettività, o clinicamente cancellati da criteri diagnostici; o, secondo una diversa costruzione di alcune teoriche femministe radicali, come robot nelle mani di un patriarcato insidioso e minaccioso, un esercito alieno programmato e costruito per infiltrare, snaturare, e distruggere le “vere” donne. I transessuali si sono resi decisamente complici anche di questa costruzione, nel momento in cui non sono riusciti a sviluppare un efficace contro-discorso. Qui e adesso, ai confini del genere, sul finire del ventesimo secolo, con il declino dell’egemonia fallocratica e la presunta comparsa di racconti eteroglotti delle origini, rileviamo che le epistemologie delle pratiche del medico bianco, la rabbia delle teorie femministe radicali e il caos dell’esperienza di genere vissuta si incontrano sul campo di battaglia del corpo transessua-

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le: un terreno violentemente conteso di leggende culturali, una macchina significante per la produzione di un ideal-tipo. Rappresentazione nella sua forma più magica, il corpo transessuale è memoria perfetta, impressa con la “vera” storia di Adamo ed Eva come la narrazione ontologica della differenza irriducibile, una biografia essenziale che è parte della natura. Una storia che la cultura racconta a se stessa, il corpo transessuale è la politica tangibile della riproduzione fondata attraverso la violenza testuale. La clinica è una tecnologia dell’iscrizione. Date queste circostanze in cui il discorso di una minoranza si sedimenta nel corporeo, un contro-discorso è cruciale. Ma è difficile generare contro-discorso quando si è programmati per scomparire. Il massimo scopo di una persona transessuale è cancellarsi, per confondersi il prima possibile con la popolazione “normale”. Parte di questo processo viene definito la costruzione di una “storia plausibile” – imparando a mentire efficacemente sul proprio passato. Quello che si guadagna è l’ammissione nella società. Ciò che si perde è l’abilità a rappresentare autenticamente le complessità e le ambiguità dell’esperienza vissuta, perdendo così quell’aspetto della “natura” che Donna Haraway teorizza nel Coyote – l’animale soprannaturale dei nativi americani che rappresenta il potere della continua trasformazione che è il cuore della vita attiva. Invece, l’esperienza autentica è rimpiazzata da un particolare tipo di storia, quella che conferma le vecchie posizioni elaborate. Tutto ciò ha un prezzo molto caro, ed è profondamente sminuente. Che lo desiderino o meno, le transessuali non crescono negli stessi modi delle “Ragazze Vere”9 o geneticamente “naturali”. Le transessuali non hanno la stessa storia delle donne geneticamente “naturali”, e non condividono con loro una comune oppressione, prima della riassegnazione di genere. Non propongo un discorso condiviso. Ciò che suggerisco è che nella storia negata delle transessuali possiamo rintracciare una narrazione dirompente rispetto ai discorsi convenzionali sul genere, che ha origine all’interno della stessa posizione minoritaria di genere e che può condividere una causa comune con altri discorsi d’opposizione.

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Ma il/la transessuale attualmente occupa una posizione che non risiede in nessun luogo, che si situa al di fuori dalle opposizioni binarie del discorso sul genere. Per un/a transessuale, in quanto transessuale, produrre un contro-discorso vero, efficace e rappresentativo, vuol dire parlare fuori delle frontiere del genere, oltre i poli oppositivi formulati, posti come le uniche posizioni possibili per generare discorso. In che modo allora il/la transessuale può parlare? E se potesse parlare, cosa direbbe?

5. Un manifesto posttransessuale Provare a occupare una posizione in quanto soggetto parlante all’interno della cornice tradizionale del genere equivale a diventare complici del discorso che si desidera decostruire. Possiamo invece cogliere la violenza iscritta nel corpo transessuale e trasformarla in una forza ri-costituente. […] Propongo di iniziare col portare l’accusa di Raymond che “i/ le transessuali dividono le donne” oltre se stessa, trasformandola in una forza produttiva per dividere, moltiplicandoli, i vecchi discorsi binari sul genere – così come lo stesso discorso monistico di Raymond. Per mettere in primo piano le pratiche di iscrizione e interpretazione che fanno parte di questa deliberata invocazione alla dissonanza, suggerisco di costituire i transessuali non in quanto classe o come problematico “terzo genere”, ma piuttosto come un genere in senso letterario – un insieme di testi incorporati il cui potenziale di frantumazione produttiva delle sessualità e degli spettri di desiderio resta ancora da esplorare. Per attuare tutto ciò, la categoria dei transessuali visibili deve crescere reclutando membri tra la classe degli invisibili, e tra coloro che sono scomparsi nelle loro “storie plausibili”. La cosa più cruciale che un/a transessuale possa fare, ciò che costituisce un successo, è passare. Passare significa vivere con successo nel genere scelto, essere accettati come membri “naturali” di quel genere. Passare significa rifiuto della mescolanza. Sinonimo di passare è la cancellazione del ruolo di genere precedente, o la

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costruzione di una storia plausibile. Considerato che la maggior parte dei transessuali sceglie la riassegnazione tra i 30 e i 40 anni, ciò significa cancellare una notevole porzione della propria esperienza personale. A mio avviso questo processo, in cui il/ la transessuale e l’establishment medico-legale/psicologico sono complici, preclude la possibilità di una vita fondata sulle possibilità intertestuali del corpo transessuale. Per negoziare le difficili ma produttive permeabilità multiple presenti nei confini e nelle posizioni di soggetto che l’intertestulità implica, dobbiamo cominciare a riarticolare il linguaggio di base attraverso cui la sessualità e la transessualità sono descritte. Ad esempio, né i ricercatori né i/le transessuali hanno cominciato a problematizzare l’adeguatezza descrittiva della categoria di “corpo sbagliato”. Di fatto, il “corpo sbagliato” è venuto in modo quasi automatico a definire la sindrome. È piuttosto comprensibile, penso, che un’espressione che sostiene lessicalmente il carattere fallocentrico e binario della differenziazione di genere debba essere esaminata con il più profondo sospetto. Fintanto che noi, sia accademici, clinici, o transessuali, ontologizziamo sia la sessualità che la transessualità in questo modo, ci precluderemo la possibilità di analizzare il desiderio e la complessità motivazionale in un modo che descriva adeguatamente le molteplici contraddizioni dell’esperienza vissuta di ogni individuo. Abbiamo bisogno di un linguaggio analitico molto più profondo per la teoria transessuale, un linguaggio che tenga conto dei tipi di ambiguità e di molteplicità di voci che hanno già così produttivamente informato e arricchito la teoria femminista. […] Secondo il mito fondatore binario e fallocratico che governa i corpi e i soggetti occidentali, vi è un solo corpo giusto per ogni soggetto di genere: tutti gli altri corpi sono sbagliati. Mentre medici e transessuali continuano a fronteggiarsi sul campo di battaglia della diagnosi che questo scenario suggerisce, i transessuali per i quali l’identità di genere è qualcosa di diverso e forse non determinato dalle caratteristiche genitali, sono messi in ombra da quelli per i quali il potere delle istituzioni medico-psicologiche, e la loro abilità nell’operare da guar-

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diane delle norme culturali, è l’autorità finale che stabilisce cosa conta come corpo culturalmente intellegibile. […] I transessuali che mettono in atto strategie per passare sembrano ignorare il fatto che creando identità monistiche e totalizzanti, rinunciando all’intertestualità fisica e soggettiva, si sono preclusi la possibilità di relazioni autentiche. Tali relazioni, ponendosi sotto il principio del passare, e negando il potere destabilizzante del farsi “decifrare”, iniziano sotto forma di menzogna. Ovviamente, passare non è una attività riservata ai transessuali: è familiare alle persone di colore10 che hanno la pelle abbastanza chiara per passare per bianche, o per gay e lesbiche nel closet o per chiunque abbia scelto l’invisibilità come soluzione imperfetta per la propria personale dissonanza. Essenzialmente sto riarticolando uno degli argomenti a favore della solidarietà elaborati da gay, lesbiche e persone di colore. Il paragone può essere ulteriormente esteso. Decostruire la necessità del passare implica che i transessuali devono prendersi la responsabilità di tutta la loro storia, iniziare a riarticolare le loro vite non come fossero una serie di cancellazioni al servizio di un genere di femminismo generato all’interno di una cornice tradizionale, ma come un’azione politica che inizia con la riappropriazione della differenza e la rivendicazione del potere di un corpo riconfigurato e re-iscritto. La rottura dei vecchi parametri del desiderio che le multiple dissonanze del corpo transessuale implica, non produce un’alterità irriducibile ma una miriade di alterità, le cui inattese giustapposizioni contengono ciò che Donna Haraway ha definito le promesse dei mostri – corporalità dalle forme in costante mutamento e territorio che eccede la cornice di ogni possibile rappresentazione (Haraway 1990). L’essenza del transessualismo è l’atto del passare. Un/a transessuale che passa obbedisce – per citare Derrida – all’imperativo: “non mescolare i generi. Non mescolerò i generi” (Derrida 1980: 301). Non potrei chiedere a un/a transessuale niente di più inconcepibile che rinunciare a passare per farsi consapevolmente decifrare, e leggersi ad alta voce – e tramite questa lettura difficile ma produttiva, iniziare a inscriversi nei discorsi dai quali

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si è stati scritti – diventando così (attenzione – oso dirlo di nuovo?) posttransessuale11. Eppure, i transessuali sanno che il silenzio può essere un prezzo estremamente alto da pagare per essere accettati. Io voglio parlare direttamente ai fratelli e alle sorelle che mi leggono/“leggono” questo dicendo loro: chiedo a tutti noi di usare la forza che ci ha guidati nell’impresa di ricostruire la nostra identità, e che ci ha anche aiutato a vivere nel silenzio e nel rifiuto, di re-visionare le nostre vite. So che sentite che la maggior parte del lavoro è ormai dietro di voi e che il prezzo dell’invisibilità non è poi così grande. Ma, sebbene il cambiamento individuale sia la base di tutte le cose, non è la fine di tutte le cose. Forse è giunta l’ora di iniziare a gettare le fondamenta per la prossima trasformazione. Note 1 Lawrence Durrell (1912-1990), scrittore e poeta britannico, nel romanzo Justine usa la definizione “the winepress of love” per descrivere l’atmosfera sensuale di Alessandria d’Egitto. Vedi: Durrell: 1957. N.d.C. 2 Vedi nota 7. 3 Trattasi di una citazione da Haraway 1984: 46. N.d.C. 4 Lili Elbe (1882-1931), nata Einar Mogens Wegener, è stata una delle prime donne transessuali a sottoporsi a interventi chirurgici per la riassegnazione del sesso. Dopo la morte di lei, Ernst Ludwig Hathern Jacobson scrive, con lo pseudonimo di Niels Hoyer, la biografia Man into woman. Nel libro, Hoyer usa lo pseudonimo di Andreas Sparre per riferirsi a Einar Wegener (vedi: Aldrich e Wotherspoon: 2002). N.d.C. 5 Mi sono ricordata di questo racconto poco prima del mio intervento. Caspita, ho pensato allora, sarebbe interessante diventare come per magia un’altra persona in quel modo binario e definitivo. Quindi c’ho provato anche io – andando allo specchio e salutando la persona che vi vedevo riflessa – ma sfortunatamente non ha funzionato. Pochi giorni dopo, quando potei avvicinarmi allo specchio, la persona che mi guardava ero sempre io. Ancora oggi non capisco dove ho sbagliato. 6 In particolare in relazione alla loro definizione per attività come la masturbazione pre e post-operatoria. L’assunzione del genere ontologizza l’economia erotica della superficie dei corpo; come sostiene Judith Butler, l’assunzione del genere regola quali parti del corpo vengono erotizzate o meno. Il conflitto emerge quando le medesime parti diventano multivalenti, per esempio quando porzioni dell’uretra (fisiologicamente maschile) sono usate per costruire porzioni della neoclitoride (di genere femminile nel maschio biologico). A mio avviso dovremmo usare questa idea vertiginosa come un esempio dei modi in cui possiamo immaginare la polivalenza quale intervento nella

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costituzione stessa delle posizioni di soggetto determinate dal binarismo di genere; in un’economia erotica binaria, “chi” prova sensazioni erotiche collegate con queste aree? 7 Nelle culture americane precoloniali le figure del berdache, del mujerado e del mah’u sono state identificate per indicare uomini e donne che assumevano un genere misto. L’antropologia contemporanea tende a inquadrare queste figure tra i fenomeni di travestitismo cerimoniale (Roscoe 1988, Jensen 2008). N.d.C. 8 Utilizzo qui e altrove la parola “clinica” restando consapevole della “vittoria di Pirro” di cui ha parlato Marie Mehl (in Steiner 1985). Ora che il transessualismo ha la difficile legittimità di una categoria diagnostica nel DSM, come mettiamo in moto il processo per farlo uscire dal manuale? 9 L’autrice usa l’espressione “GG”, una sigla che nello slang MtF sta per “Genuine Girl”, mentre il nome “Genny” risuona con “Genetically Natural”. N.d.C. 10 Traduco “person of color” con “persona di colore” in aderenza al testo originale, volendo rispettare i termini in uso al tempo in cui questo saggio è stato scritto. Allo stesso tempo riconosco la problematicità di questa traduzione: “persona di colore” rafforza l’idea che la bianchezza non sia connotata da colore ma rappresenti un carattere di invisibile universalità, una mancanza di colore. N.d.T. 11 Richiamo l’attenzione anche sulla teoria della mestiza di Gloria Anzaldúa, un soggetto indecifrabile che vive ai confini tra le culture, capace di discorsi parziali in ognuna di queste culture ma che rimane sempre solo parzialmente intelligibile in ciascuna di esse. Lavorando sulla falsariga di questa posizione, la “nuova mestiza” di Anzaldúa tenta di vincere l’illeggibilità, in parte prendendo il controllo del discorso e dell’iscrizione e inscrivendo se stessa nel discorso. Lo splendido Borderlands (1987) è un caso emblematico.

Riferimenti bibliografici Aldrich, Robert, Garry Wotherspoon, 2002, Who’s Who in Gay and Lesbian History: From Antiquity to World War II, Routledge, London-New York. Anzaldúa, Gloria, 1987, Borderlands: The New Mestiza = La frontera, San Francisco, Spinsters/Aunt Lute; trad. it. di Paola Zaccaria, 2006, Terre di confine: la frontera, Palomar, Bari. Benjamin, Harry, 1966, The Transsexual Phenomenon, Julian Press, New York. Conn, Canary, 1977, Canary: The Story of a Transsexual, Bantam, New York. Derrida, Jacques, 1980, “The Law of Genre”, Glyph, 7: 202-29; trad. it. “La legge del genere”, in Id., trad. it. di Silvano Facioni, 2000, Paraggi: studi su Maurice Blanchot, Jaca Book, Milano.

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Glossario

Barebacking (ingl. barebacking) In ambito omosessuale maschile, indica la pratica consapevole del sesso anale non protetto con una o più persone dalle quali si accetta di poter contrarre il virus dell’HIV. In alcuni casi l’eccitamento del rischio diventa intenzione di contrarre il virus, laddove il “cercatore” (bug chaser) pratica sesso con una o più persone sicuramente sieropositive, che fanno da “donatori” (gift givers). Pratica molto controversa tra gli stessi gay, essa è un genere pornografico di successo, e ha molto a che fare con la relazione tra sesso e malattia. Già agli inizi dell’epidemia dell’AIDS, molti gay continuarono a fare sesso non protetto ritenendo che l’AIDS fosse una montatura. Alla fine degli anni Novanta le terapie antiretrovirali hanno prospettato per molti gay sieropositivi la possibilità di una vita più lunga, e questo può aver indotto loro a praticare sesso non protetto. Nel corso degli anni, soprattutto nelle aree metropolitane americane ed europee, sono sorte micro-comunità collegate anche attraverso il web.

Battuage (ingl. cruising) Falso francesismo (in francese si dice draguer) che nel gergo gay italiano indica il gironzolare in luoghi pubblici, come parchi, giardini, bagni pubblici, cinema porno, stazioni ferroviarie o autostradali, grandi librerie, biblioteche, centri commerciali, in cerca di incontri sessuali occasionali da consumare per lo più in loco. Fa assonanza con “battere”, cioè prostituirsi, ma non implica necessariamente, anzi per lo più esclude, il sesso in cambio

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di denaro. Nonostante si possa ricondurre questa modalità di incontro alle magli repressive delle società cosiddette tradizionali, il battuage ha resistito alla liberalizzazione dei costumi e anche alla creazione di quella che Mario Mieli chiamava industria del ghetto: la nascita di locali privati, di solito a pagamento, dove fare sesso e la moltiplicazione di discoteche e altri luoghi d’incontro. E ha resistito anche all’esplosione dei siti di messaggistica e d’incontro tramite Internet. Ovviamente tra il battuage, i locali e le infinite sessioni su Gayromeo non c’è una netta linea di demarcazione, ma una (spesso defatigante) continuità.

Bio-donna/bio-uomo (ingl. cisgender) Specifica la congruenza tra il sesso assegnato alla nascita e l’identificazione di genere. Il termine inglese cisgender (che unisce il prefisso latino cis- “al di qua” con termine gender, genere linguistico e sessuale) indica quelle posizioni del soggetto che – contrariamente a transgender – e indipendentemente dall’orientamento sessuale, esprimono una concordanza tra l’identità di genere percepita e quella assegnata. Immaginando il genere come un fiume da attraversare, cisgender è chi non ha fatto il passo oltre il guado del binarismo di genere, trans- è chi sta dall’altra parte. Nella letteratura trans in particolare, è attestato l’uso dell’acronimo GG (Genuine Girls) per indicare le bio-donne.

Butch Figura della donna lesbica che assume una presentazione di genere in qualche grado maschile, tradizionalmente attraverso stili di abbigliamento e di ruolo erotico con altre donne. Complementare a questa figura è quella della femme (v.). In italiano si usa anche il termine camionara, con connotazioni spesso dispregiative, per indicare l’assunzione di una maschilità rozza e sciatta. Una specificazione dell’essere butch è la stone butch, ovvero la butch totale, che non consente di essere toccata sessualmente, scegliendo pertanto una sessualità esclusivamente

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attiva e una modalità di godimento dipendente dalla gratificazione altrui.

Dildo Giocattolo sessuale, che ricalca in forma più o meno esplicita il membro maschile in stato di erezione. Nell’ottica della denaturalizzazione del discorso fallogocentrista, il dildo rappresenta una figura che mette in crisi il rapporto privilegiato del pene (organo genitale) col fallo (significante simbolico), rendendo il significante privilegiato mobile e appropriabile da soggetti diversi da quello maschile.

Drag Termine di origine incerta che indica il travestimento, generalmente ai fini di spettacolo parodico e ironico, nei panni del genere opposto. “Drag queen” è la messa in scena del femminile da parte di uomini, “drag king” quella del maschile da parte di donne, anche se sono attestate esibizioni, molto sofisticate, con donne che si travestono da uomini per poi vestirsi da drag queen e viceversa. In generale il termine drag implica qualunque modalità di abbigliamento volto a marcare una determinata immagine, per lo più stereotipata: come ad esempio il “cowboy”, la “femme”, la “diva”, ecc. Come consapevole pratica politico-spettacolare propria di alcune sottoculture gay e successivamente lesbiche, il drag denuncia il carattere artificiale dei generi maschile e femminile che, lungi dall’essere espressioni di un’inevitabile natura, sono invece l’esito di operazioni di costruzione sociale.

Eterochecca (ingl. wannabe) Si tratta per lo più di un maschio eterossessuale che si atteggia da gay, ama frequentare comitive gay e lesbiche ma continua a provare attrazione sessuale per donne. Per questo è assimilabile ad un “aspirante” (wannabe). Questo fenomeno interessante,

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seppur marginale dal punto di vista sociologico, denota una certa “egemonia culturale” gay, almeno in certi ristretti ambiti.

Femme Figura della donna lesbica che assumendo per sé i tratti di una femminilità apparentemente eterosessuale, li agisce nell’ambito di una relazione erotica con altre donne, eventualmente butch (v.).

Fisting Pratica sessuale che consiste nella penetrazione della mano nell’ano o nella vagina del/la partner. Può essere interpretato come una erotizzazione di parti del corpo che non dovrebbero essere erotizzate, come sessualità non riproduttiva, e come figura della destituzione della centralità simbolica del fallo.

FtM (Femmina transizionata Maschio) / MtF (Maschio transizionato femmina) (ingl. Female to Male / Male to Felame, anche F2M, M2F) Nell’ambito transessuale/transgender, è il soggetto che transita dal femminile al maschile (FtM) o viceversa (MtF). Per gli adulti si parla reciprocamente di “uomo transessuale” e di “donna transessuale”. Il termine è usato sia nel linguaggio medico (in cui nasce), che in quello dei gruppi coinvolti, solo che mentre in quest’ultimo il genere usato è sempre quello di destinazione, in quello medico, almeno agli inizi, il genere usato, ad es., per le persone MtF era quello del sesso anatomico.

Mestiza Nell’ambito del femminismo post-coloniale, sopratutto di stampo chicano/a, la mestiza (anche “nuova mestiza”) è una figura del meticciato in cui le parti originali che vanno a costituire

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l’ibrido non sono più recuperabili; la coscienza mestiza rielabora positivamente il passato traumatico (coloniale, patriarcale) che l’ha formata, e valorizza le soggettività multiple e talvolta contradditorie che si formano intorno agli assi di classe, etnia, razza, religione, genere, sessualità, etc.

Orso (ingl. bear) Nella varietà espressiva delle sottoculture gay, è una forma di iper-mascolinità non conformista che valorizza alcuni attributi corporei maschili quali robustezza, barba, e peluria come elementi erotizzati, a dispetto di un modello di mascolinità gay patinata.

Passare (ingl. passing) Nelle società “multietniche”, la pratica del passare è utilizzata dai soggetti subalterni per dissimulare i tratti della propria appartenenza minoritaria, confondendosi con la maggioranza (gli ebrei in Germania, i neri negli Stati Uniti, ecc.). In modo simile, in ambito trans, il passare indica quelle strategie utilizzate dalle persone transessuali per non farsi riconoscere come tali bensì come bio-donne o bio-uomini (v.). Tra i gay, la cosiddetta “criptochecca” è colui che vuole passare per eterosessuale. Si tratta di una pratica con valenze discordanti. Secondo alcune è uno strumento attivo e transizionale di dissoluzione della costruzione identitaria, e quindi un’arma nelle mani dei soggetti razzializzati e minoritari, secondo altri è una forma di autoassoggettamento. Il non passare è detto essere decifrati/e (v.).

Pre-op/post-op Nell’ambito della transessualità, indica lo stadio a cui si trova un soggetto in relazione all’intervento chirurgico. Nonostante la varietà di interventi (non solo chirurgici) che possono

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riguardare uomini e donne trans, il binomio tuttavia si riferisce principalmente alla chirurgia genitale femminilizzante, che rappresenta l’intervento paradigmatico del percorso transessuale.

S/M Preferenza erotica e ambito culturale che fa riferimento al sadomasochismo e pratiche sessuali correlate (BDSM - Bondage, Discipline - Dominance, Submission - Sadism, Masochism), caratterizzate dall’erotizzazione del consensuale squilibrio di potere nell’interazione sessuale. Cultura trasversale rispetto agli orientamenti sessuali, caratterizzata da molteplici pratiche, un ricco vocabolario, e un complesso codice di abbigliamento (tra i più popolari, soprattutto tra i maschi gay, quello legato alla pelle e allo stile militare, detto leather). All’interno della relazione o situazione, top indica il partner che occupa il ruolo attivo o di controllo del partner bottom, ovvero ricettivo o controllato. Flip (o switch) è il termine che indica il cambio di ruolo in una coppia sessuale top/bottom (“to be flipped” indica in particolare il passaggio da top a bottom).

Transessualità Discorso e pratica soggettiva di transito dal genere assegnato alla nascita verso quello opposto. Esperienza storicamente inquadrata come disturbo psichiatrico e attualmente ancora fortemente medicalizzata, la trasessualità è una pratica che si confronta con la sorveglianza dei confini invalicabili tra i generi e con la disciplina dei corpi.

Transgenderismo Discorso e pratica soggettiva di transito tra i generi normativi che, a differenza di quanto avviene nella transessualità, non è vincolato né a una direzionalità univoca e teleologica del transito, né dall’adeguamento dell’apparenza anatomica del corpo.

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Velato, velata (ingl. closeted, in the closet) Essere velate (nel gergo gay italiano spesso usato al femminile anche per gli uomini), indica il non dichiarare pubblicamente la propria omosessualità. In inglese il processo è indicato dalla metafora del closet – letteralmente sgabuzzino o armadio – che è il luogo deputato al nascondimento di segreti, peccati, verità imbarazzanti. La stessa espressione “uscire fuori”, “venire fuori” (coming out) si riferisce alla metafora del closet. In italiano parliamo anche di “dichiararsi”, mentre lo “scoprirsi” è per lo più riferito a un processo autoriflessivo. Parliamo anche di criptochecca per riferirci agli omosessuali non dichiarati.

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Finito di stampare nel mese di maggio 2012 in Pisa dalle EDIZIONI ETS Piazza Carrara, 16-19, I56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com

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Canone inverso offre una visione del queer come pratica teorica all’interno di discipline diverse, non pacificata e politicamente trasformativa. Scritti di Laurent Berlant, Leo Bersani, Judith Butler, Ann Cvetckovich, Samuel R. Delany, Lee Edelman, Eve Kosfsky Sedgwick, Sandy Stone, Michael Warner, Simon Watney.

€ 24,00

ETS

Edizioni ETS

antologia di teoria queer a cura di

Elisa A.G. Arfini e Cristian Lo Iacono

Collana di intercultura di genere

Le autrici e gli autori che presentiamo tematizzano la tensione tra instabilità del desiderio e persistenza delle norme identitarie, la valenza pubblica degli affetti, la contestazione del mito della visibilità e della rispettabilità gay e lesbica, la resistenza alle dinamiche che generano nuove forme di abiezione dietro la facciata di una politica integrazionista della sessualità. L’orizzonte che si apre fa spazio a una politica che viene dopo l’identità e a un’etica antisociale e non riproduttiva.

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à ltera

Elisa A.G. Arfini (a cura di) Cristian Lo Iacono

I testi che compongono il volume, tradotti per la prima volta, ci introducono in un laboratorio dove gli strumenti del pensiero contemporaneo (marxismo, psicanalisi, femminismo, linguistica strutturale, studi culturali) vengono usati per scandagliare sia il dibattito pubblico, accademico, sia l’attivismo LGBT americano ed europeo dalla fine degli anni Ottanta.

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Cristian Lo Iacono è dottore di ricerca in Filosofia ed ermeneutica filosofica, attivista e responsabile del Centro di documentazione GLBTQ del Circolo Maurice di Torino. Ha pubblicato su Zapruder, Critica Marxista, il manifesto, Filosofia Politica. È autore di Althusser in Italia. Saggio bibliografico 1959-2009 (Milano, 2011) e ha curato il volume Il danno e la beffa. Un dibattito con Nancy Fraser su redistribuzione, riconoscimento, partecipazione (Lecce, 2012). La sua ricerca su Axel Honneth e Judith Butler (Maschere del riconoscimento) è di prossima pubblicazione.

I

nstabile e infedele conglomerato di senso, il queer è presentato come un metodo di critica permanente a una socialità sessuale e di genere normalizzata e assimilata.

immagine di copertina: Vito Perrone

Elisa A.G. Arfini è dottore di ricerca in Modelli, linguaggi e tradizioni nella cultura occidentale. Collabora con l’Università di Ferrara nell’ambito della sociologia dei processi culturali e degli studi di genere. Si occupa di studi di genere con una particolare attenzione per: costruzione narrativa delle identità; embodiment transgender; intersezioni tra studi sulla disabilità, teoria queer e teoria crip; metodologie narrative. Oltre a vari contributi in volumi collettanei e riviste, ha pubblicato Scrivere il sesso. Retoriche e narrative della transessualità (Roma, 2007).

L’intercultura di genere è un campo ibrido e irrequieto dove spostamenti e transiti sono costitutivi. Incrocia riflessioni teoriche e indagini culturali interdisciplinari attingendo a studi culturali e postcoloniali, studi sull’affetto, studi sulle donne, studi sulla mascolinità e studi queer per moltiplicare l’analisi di differenze, marginalità e dissensi. Questa complessa intersezionalità permette di sciogliere rigidità epistemologiche e leggere altrimenti, indagando anche spazi non organizzati intorno al genere. àltera si occupa di come cambia la cultura in un contesto globale e studia la costruzione tecnico-politica di genere e sessualità attraverso narrative, discorsi, forme, oggetti e strumenti farmacopornografici che producono e riassegnano performativamente identità di genere e identità sessuali.


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