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LA MODERNITĂ€ LETTERARIA collana di studi e testi diretta da Anna Dolfi, Alessandro Maxia, Nicola Merola Angelo R. Pupino, Giovanna Rosa
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La città e l’esperienza del moderno a cura di Mario Barenghi Giuseppe Langella Gianni Turchetta
Tomo I
Edizioni ETS
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www.edizioniets.com
In copertina Illustrazione di Andreina Parpajola
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo di Università degli Studi di Milano - Dipartimento di Filologia Moderna Università degli Studi di Milano Bicocca - Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
© Copyright 2012 EDIZIONI ETS
Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673313-9
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PREFAZIONE
Intorno alla fine del XVIII secolo, lo sviluppo dell’industria e l’avvento dell’economia di mercato, l’urbanizzazione accelerata, l’ondata rivoluzionaria, i cambiamenti delle istituzioni politiche e giuridiche cambiano irreversibilmente l’Europa e poi il mondo intero, segnando una discontinuità storica profonda e dando avvio a quanto collochiamo sotto il termine “modernità”. Anche la letteratura occidentale cambia per sempre, abbandonando nel giro di pochi anni il sistema millenario dei generi e degli stili, per entrare nell’era del romanzo, del realismo e di una pressoché illimitata libertà espressiva, di cui siamo ancora eredi. L’avvento della modernità sconvolge l’ordine delle cose, ma anche i soggetti e la loro esperienza. Come ha scritto Marshall Berman, nel suo memorabile L’esperienza della modernità, “essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo”. L’esperienza del moderno si colloca dunque sotto il segno dell’intensità e dell’ambivalenza; ma si colloca anche in un contesto specifico: la città. Lo spazio urbano rappresenta la dimensione più naturale e caratteristica della modernità. Dalla fine della letteratura di antico regime, i destini dei personaggi letterari e le forme della rappresentazione si definiscono con evidenza sempre maggiore all’interno di ambienti e scenari cittadini, o in relazione ad essi. Una sintonia profonda contraddistingue insomma il rapporto fra la letteratura moderna e la città – o, per dir meglio, le città, non solo perché gli ambienti urbani differiscono molto tra loro a seconda dei contesti geografici e storici, ma perché la città in quanto tale è per definizione un luogo articolato, multiforme, metamorfico. Oggi le città si allargano sempre più, il mondo è sempre più urbanizzato, ma l’ampliamento territoriale pare andare di pari passo con l’affievolirsi della spinta all’agglomerazione, da sempre vettore primario dell’urbanizzazione. Di qui metafore come “città diffusa” o “arcipelago metropolitano”, che cercano di render conto delle nuove organizzazioni ter-
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LA CITTÀ E L’ESPERIENZA DEL MODERNO
ritoriali, fra razionalità e disordine, dispersione, sprawl, termine provvisorio di arrivo di un percorso iniziato due secoli e mezzo fa. I testi raccolti in questo volume, legati al convegno della MOD organizzato nel 2010 da tre atenei milanesi (Statale, Cattolica, Bicocca) offrono una ricognizione ad ampio spettro dei rapporti tra città e letteratura dal Settecento ai giorni nostri. Immagini, ritratti, rappresentazioni di città diverse, nella più ampia varietà possibile di prospettive e di forme letterarie: città grandi e piccole, centrali e periferiche, sonnolente e tumultuose, da un capo all’altro dell’Italia ma anche oltralpe e oltreoceano, ritratte con attenzione minuziosa o viste di scorcio, intuite, patite, godute, vissute. Un affascinante caleidoscopio di scenari cittadini che è anche una capillare ricognizione sulla vocazione urbana della modernità. Alla ricca messe di indagini su aspetti, momenti, movimenti, singoli autori ed opere si aggiungono contributi provenienti da specialisti di discipline diverse dall’italianistica, nella convinzione che gli studi sulla fenomenologia letteraria degli scenari urbani possano trarre giovamento dal confronto con gli sguardi, diversamente orientati, del sociologo, dell’antropologo, del fotografo, dell’urbanista: i quali del resto si sono a loro volta storicamente avvalsi, e continuano ad avvalersi, di immagini e idee offerte dall’invenzione narrativa e dalla elaborazione poetica. Mario Barenghi, Giuseppe Langella, Gianni Turchetta
Denis Ferraris L’Oro e il Piombo: della città come paradigma dell’ambiguità
Tu m’as donné ta boue et j’en ai fait de l’or. (Charles Baudelaire, abbozzo di un epilogo per la seconda edizione delle Fleurs du mal1) Crediamo di continuare a guardare la stessa città, e ne abbiamo davanti un’altra, ancora inedita, ancora da definire, per la quale valgono “istruzioni per l’uso” diverse e contraddittorie [ … ]. Italo Calvino, Gli dèi della città2
«Arricchitevi!» Il sincerissimo ma subdolo e perfido consiglio di Guizot a quelli che volevano abbassare il censo durante la cosiddetta Monarchia di luglio è una dicitura contestata da certi storici. Esiste però una trascrizione di una risposta rivolta il 1o marzo 1843 al vicepresidente della Camera, il deputato liberale Dufaure, la quale suona così: Ci fu un tempo, tempo glorioso fra di noi, durante il quale la conquista dei diritti sociali e politici fu la grande impresa della nazione; la conquista dei diritti sociali e politici sul potere e sulle classi che erano sole a possederli. Questa 1 Il poeta si rivolge alla città di Parigi (questo testo venne steso nel maggio del 1860 ma in un componimento forse anteriore e intitolato Bribes Baudelaire aveva scritto: «J’ai pétri de la boue et j’en ai fait de l’or.»). Nell’epilogo in versi dei Petits poèmes en prose si trova questa dichiarazione d’amore: «Je t’aime, ô capitale infâme!…». 2 Prima pubblicazione in “Nuovasocietà”, n. 67, 15 novembre 1975 (ora in Saggi (1945-1985), a cura di Mario Barenghi, t. I, Milano, Mondadori, 1995, p. 347, coll. “I Meridiani”.
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Giorgio Bàrberi Squarotti VOLTI E RISVOLTI DELLA CITTÀ
Subito dopo la Guerra, Bontempelli pubblica due romanzi molto sperimentali che hanno come titolo emblematico la città, quella moderna, nuova, attiva, produttrice, industriale ed economica e anche culturale, che non può essere che Milano. La guerra con orrori e distruzioni sta rapidamente sbiadendo nella memoria degli abitanti della città fervida e creativa, e Bontempelli sigla i suoi viaggi per Milano novecentesca con due aggettivi fondamentali: La vita intensa, del 1920, e La vita operosa, del 1921. Bontempelli offre così l’assoluta alternativa alla città ottocentesca e anche del primo Novecento, la Milano che ha, nel ventre, miseria, violenza, prostituzione, lavoro oscuro e rovinoso, quella che rappresentarono Cletto Arrighi e Tarchetti, sul modello del ventre informe e malato di tutti i mali fisici e morali e politici di Parigi quali raffigurarono Baudelaire e Zola. È vero che i futuristi avevano tentato, poco prima della guerra, di celebrare la città come lo spazio delle nuove macchine, della tecnologia capace di sempre diverse e stupefacenti scoperte e invenzioni (Oxilia che descrive laudativamente l’automobile nella città come la vittoria esemplare e trionfale sulla malinconia sbiadita e sui lamenti dei crepuscolari, Marinetti stesso e Folgore e tanti minori ancora), ma la guerra aveva interrotto la costruzione letteraria della città moderna, libera da tutti i mali e dalle degradazioni delle narrazioni e delle descrizioni ottocentesche, consacrata nella sua bellezza tecnologica dall’architettura razionale, con metallo e cemento e grandi vetrate e tanta luce all’opposto del “passatismo” eclettico, neogotico, anche Liberty. Non si dimentichi che proprio ancora durante la guerra, nel momento più drammatico e rischioso per l’Italia, Delio Tessa scrive il suo poemetto più accanito ed esasperato, L’è el dì di mort, alegher, che racconta lo scatenarsi della plebe milanese alla notizia della sconfitta di Caporetto, nella certezza
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Ermanno Paccagnini CITTÀ E CAMPAGNA: UNA DIALETTICA IRRISOLTA
Credo che una premessa si imponga al mio intervento. Ed è che, a dispetto di un tema “città-campagna” richiamato spesso in questa sua formulazione topica, la bibliografia in materia è, di fatto, inesistente. Almeno a livello complessivo. Ma non ce n’è molta neppure a livello singolo, se è vero che basta scorrere il web per renderci conto che la voce preminente riguarda un autore come Pavese. Ovviamente questa precisazione non intende suonare come excusatio, ma solo quale premessa necessaria a spiegare e motivare il taglio del mio intervento, non tanto contenutistico, quanto tipologico e metodologico, con riferimenti ed esemplificazioni in tal senso sparse e non esaustive, se è vero che tra i sacrificati possono figurare autori la cui visione sul tema è comunque ben nota (bastino i nomi di un Manzoni o un Pasolini)1. Una impostazione necessaria che può ben spiegare una riflessione bibliografica. Escludendo cioè gli studi complessivi sul tema, di carattere soprattutto economico, le sole referenze bibliografiche complessive di carattere letterario si possono limitare al Michel Plaisance di Città e campagna (XIIIXVII secolo)2, e a Città e campagna nella letteratura del secondo Settecento di Alessandra Di Ricco3, che non per nulla aggiunge, nel titolo, Appunti per 1 Esula da questo intervento anche la presenza del problema in poesia, in qualche caso davvero centrale. Mi basti, in tal senso, il rinvio all’intervista di Enzo Golino ad Attilio Bertolucci Batte lento il cuore della campagna, in «Il Giorno», 12 marzo 1973, ora raccolta in Enzo Golino, Dentro la letteratura. Ventuno scrittori parlano di scuola, natura, operai, lingua e dialetto, storia, Milano, Bompiani, 2011, pp. 58-64, cui rinvio anche per le interviste ad altri autori, nelle cui risposte il tema spesso si affaccia. 2 In Letteratura Italiana. V. Le questioni, Torino, Einaudi, 1986, pp. 583-634. 3 «Italianistica», 3, settembre-dicembre 1991, pp. 487-505. Il saggio è poi confluito in Alessandra Di Ricco, Tra idillio arcadico e idillio “filosofico”. Studi sulla letteratura campestre del Settecento, Lucca, Pacini Fazzi, 1995.
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Guido Baldi Nascita di una metropoli: Roma nell’opera di d’Annunzio
1. Il piacere: i segni del moderno nella città dell’arte e dell’eleganza aristocratica Cercare di individuare nelle pagine dell’opera dannunziana i riflessi della trasformazione di Roma in metropoli moderna significa mettere a fuoco uno dei punti problematici centrali della visione dello scrittore, il suo rapporto con la modernità, avanzante fra lo scorcio del XIX secolo e i primi del Novecento nell’Italia appena unificata: un rapporto tortuoso e ambiguo, che subisce un’evoluazione nel tempo e conosce anche svolte di portata radicale. Nel romanzo “romano” per eccellenza, Il piacere, l’Urbe, «la Roma dei Papi», «la Roma delle Ville, delle Fontane, delle Chiese», appare contrassegnata in primo luogo dalla cifra della bellezza artistica, lasciata in eredità da splendide epoche del passato quali il Rinascimento e il Barocco, e dall’eleganza mondana di un’aristocrazia che, pur vacua e frivola, nei momenti topici della sua vita, cene, balli, corse, aste di oggetti preziosi, concerti, si dimostra pur sempre eletta depositaria della raffinatezza, del buon gusto e del savoir vivre: una città insomma ancora sostanzialmente collocata in una dimensione premoderna, che la sensibilità estetizzante del protagonista, centro focale di tutto il romanzo, può persino trasferire in un’atmosfera irreale, trasformandola in una fascinosa immagine di sogno nutrita di fantasie letterarie, come nella celebre pagina dedicata alla «notte nivale» sotto «un plenilunio favoloso»1. Un’immagine simile traspare dai versi più o 1 «L’aria pareva impregnata come d’un latte immateriale; tutte le cose parevano esistere d’una esistenza di sogno, parevano imagini impalpabili come quelle d’una meteora, parevan essere visibili da lungi per un irradiamento chimerico delle loro forme. [ … ] Il giardino fioriva a similitudine d’una selva
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Antonio Saccone IL MODERNO E LE NUOVE PERCEZIONI DELLO SPAZIO E DEL TEMPO: LA CITTÀ DEI FUTURISTI
1. «I caratteri fondamentali dell’architettura futurista saranno la caducità e la transitorietà. Le case dureranno meno di noi. Ogni generazione dovrà fabbricarsi la sua città»1: così è proclamato nel manifesto intitolato all’architettura futurista, anno 1914, autore Antonio Sant’Elia. Sono passati cinque anni dall’apparizione del futurismo sulla scena italiana ed europea. Il movimento fondato da Marinetti, inseguendo la tensione totalizzante iscritta, per così dire, nel suo codice genetico e, perciò, promulgando il diritto ad invadere tutti i settori dell’attività umana, ogni versante culturale o aspetto del costume, ha già dettato le sue prescrizioni alla letteratura, alla pittura, alla scultura, al teatro, alla musica. Ha già avviato il collegamento della sua capillare e proteiforme espansione con la ricerca di una comunicazione poliespressiva, nella quale e attraverso la quale far saltare le usuali frontiere tra le singole arti e, più in generale, tra l’arte e la vita. Il ritardo con cui l’architettura è inserita tra i linguaggi da rivoluzionare sub specie futurista è, tuttavia, solo apparente. L’attenzione per la città come fondale su cui proiettare il dinamismo della vita futurista e intessere le nuova modalità di percezione dello spazio e del tempo è, in realtà, immediata e, sin da subito, tutt’altro che irrilevante. Ancor prima di sancire la nascita del futurismo, Marinetti mostra, nella sua produzione in lingua francese, di nutrire un forte interesse per il tema della città. Nel 1904 una delle tredici sezioni, dedicata al Démon de la vitesse, in cui è suddivisa Destruction, silloge di poèmes lyriques, si traduce in un’esaltazione criptofuturista dell’orizzonte urbano, non priva di favolistica inquietudine. Il culto della città tecnicizzata («la 1 Antonio Sant’Elia, L’architettura futurista, in Marinetti e i futuristi, a cura di Luciano De Maria, con la collaborazione di Laura Dondi, Milano, Garzanti, 1994, p. 153.
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Sandro Maxia BONTEMPELLI E LA CITTÀ ABITABILE
In un convegno dedicato al tema della città in letteratura, con riguardo alla nozione di modernità, la figura di Massimo Bontempelli, nato a Como nel 1878 e morto a Roma nel 1960, trova una sua precisa collocazione, se non altro per il fatto di essere stato nel ventennio fascista un esponente di primo piano dell’ala modernista del Regime mussoliniano, espressione di quella cultura metropolitana, cosmopolita e esterofila, che non aveva avuto ancora un sua efficace presenza nella letteratura italiana, legata piuttosto alla campagna e alle piccole città di provincia. Ma poiché siamo a Milano, va anche detto del solido rapporto intercorso tra lo scrittore e la città che già Bonvesin de la Riva, nella famosa opera De magnalibus Mediolani, giudicava unica al mondo, tanto da meritare – cito dalla traduzione di Giuseppe Pontiggia – «il titolo di seconda Roma [e pertanto] che la sede del papato e le altre dignità fossero trasferite tutte qui da lei»; col che l’intelligente uomo di chiesa inaugurava una competizione con la ‘città eterna’ destinata a durare. Oggetto di giudizi contrastanti, la Milano del primo decennio del Novecento è considerata refrattaria al nuovo tanto da Marinetti, quanto da Alberto Savinio, pur memore dell’ammirazione dimostratale da Stendhal. «Milano – scrive Savinio in Ascolto il tuo cuore, città (1944) – anche come conformazione fisica, è atta alla civiltà chiusa. La sua forma a ruota la destina a raccogliere e ad accentrare [ … ]. Nel tempo della chiusa civiltà di Milano, l’arcangelo del mediocre, armato di scaglie d’oro e scintillante al sole, nuotava a larghe bracciate intorno alla Madonnina e, innocente e severo, vigilava sui tetti della sua diletta città». Ma con la guerra tutto ciò è scomparso: «La chiusa civiltà di Milano – conclude Savinio – finì nel 1914»1. 1
Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Adelphi, 1984, pp. 25-26.
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Clelia Martignoni PERCEZIONI DELLA METROPOLI E DELLA MODERNITÀ ATTRAVERSO LA POESIA DEL SECONDO NOVECENTO. VITTORIO SERENI E OLTRE
Nel Primo getto (1932) del romanzo incompiuto Un Fulmine sul 220, che è alla base di molti racconti della futura smagliante Adalgisa (dicembre ’43)1, Gadda commentava le trasformazioni urbane introdotte in Milano dal progetto di un piano regolatore del 1927 ricorrendo a una citazione dal Cygne di Baudelaire delle Fleurs du mal. Questo il frammento del ’32, con i versi baudelairiani citati imperfettamente a memoria (e poi corretti nella stesura successiva del ’352, e di qui nel racconto dell’Adalgisa che ne deriva, Quando il Girolamo ha smesso…): col nuovo piano regolatore la casa del Bartesaghi e il relativo orinatoio erano scomparsi; purtroppo anche la nostra vecchia Milano se ne va, per quanto Otto Cima avesse scritto un bellissimo articolo di protesta sul giornale. I nobili Cavigioli [in volume → Cavenaghi] non erano in grado di citare Baudelaire Le coeur d’une ville change plus vite Helas que le coeur d’un mortel…3
Così nel testo successivo: Dove sarebbero andati ad allogare i Cavigioli se dalle malefatte del Portaluppi4, reincarnato Barbarossa, aveva scaturigine un buio, una eternità nuova? [ … ] 1 Carlo Emilio Gadda, L’Adalgisa, Disegni milanesi, Firenze, Le Monnier, 1944. Per Un Fulmine sul 220, cfr. l’ed. a cura di Dante Isella, Milano, Garzanti, 2000. 2 Nel cap. IV, dal titolo Nuove battute sul Politecnico vecchio. 3 Da Un Fulmine…, cit., p. 44. 4 Architetto, docente e lungamente preside della Facoltà di Architettura del Politecnico, con Marco Semenza elaborò tra 1926-1927 un progetto di piano regolatore (perciò nuovo Barbarossa); ma il piano effettivo (1933) è di Cesare Albertini. Cfr. il vol. miscellaneo a firma di Dante Isella, Maria
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Nicola Turi Città “invisibili” vs città “invivibili”: urbanistica utopica e distopica nell’Italia del boom
Je ne vois qu’en esprit tout ce camp de baraques Ces tas de chapiteaux ébauchés et de fûts Les herbes, les gros blocs verdis par l’eau des flaques, Et, brillant aux carreaux, le bric-à-brac confus. Charles Baudelaire, Le cygne
Volendo indagare la rappresentazione letteraria dello spazio cittadino (presente e futuribile) in una porzione temporale grosso modo compresa tra gli anni Cinquanta e Settanta, appare una scelta quasi obbligata prendere le mosse da Calvino e dal suo atlante metaforico, catalogo di ‘possibili urbani’ ridotti (o elevati) a merce di scambio verbale tra Kublai Kan e Marco Polo che si dondolano imbozzoliti nelle loro amache fumando lunghe pipe d’ambra: muovere insomma dall’alba degli anni Settanta – quando il post fa ormai da prefisso anche alla neo-avanguardia, in ambito letterario, al boom industriale e urbanistico in ambito socio-economico – con l’obiettivo di vagliare poi à rebours le istanze utopiche e distopiche che percorrono una stagione delimitata delle nostre lettere e magari per estensione di comprendere cosa sia (che significati possa assumere, sulla base di quali stimoli) una città invisibile, fuori e dentro Calvino. Nel macrotesto in questione, in effetti, davvero invisibile, nel senso che gli occhi non ne rilevano la presenza, è solo la città di Bauci, centro dell’opera, che si perde sopra le nubi («chi va a Bauci non riesce a vederla ed è arrivato»1): 1 Italo Calvino, Le città invisibili [1972], in Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, “I Meridiani”, 1992, II, p. 423.
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Bertrand Westphal C’è posto sulla panchina. Il caos calmo del manager milanese (Veronesi, Covacich, Lolli)
Un ringraziamento speciale va al correttore ortografico del mio computer, che dopo aver faticosamente stabilito che l’italiano non è una versione erronea del francese ha trovato la soluzione più idonea: trasformare l’italiano in spagnolo. Alla p. 9, il correttore ha finalmente ceduto. Caos, si’, ma più calmo.
In città, capita che le panchine siano affollate. Ovviamente, vi sono quelle che costeggiano il prato dei campi di calcio. Queste devono essere lunghe. Infatti, si considera più efficace la squadra che ha la panchina più lunga. Oggi, la città è tanto più moderna quanto più luccicano il suo tempio calcistico e il panteon di giocatori che ospita. A Torino o a Roma, ci si puo’ imbattere in panchine dove molte divinità minori trovano posto. Tutti conosciamo Francesco Totti, ma chi conosce Bogdan Lobonţ? Ecco, lui è una divinità da panchina, anche se è il portiere della nazionale rumena. Però, dalle parti dell’Olimpico è solo un Ermete di ricambio. A Milano vige la stessa religione pagana. Pare che l’Inter abbia molti calciatori, per lo più italiani, da far sedere a lato del campo. Ma anche il Milan non scherza. Visto che è piuttosto facoltoso, il suo presidente apprezza molto che si popolino le panchine padane. Quelle degli stadi, intendevo. Ma forse non solo. Forse anche quelle dove la gente stanca, non sempre divina, si siede per tirare il fiato. Ed è qui che incomincia la nostra storia.
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Gabriele Basilico ABITARE LA METROPOLI
Nell’agosto del ’43 Milano fu devastata dal martellamento di 2000 tonnellate di bombe. Nei giorni successivi, come era normale che succedesse, i cittadini superstiti percorrevano i quartieri della città sotto shock cercando tra le rovine i frammenti di una vita normale, il cui corso era stato brutalmente interrotto. Tra questi si aggirava anche lo scrittore e artista Alberto Savinio – nato in Grecia e cresciuto tra la Germania e la Francia –, colpito dalla drammatica visione del nuovo paesaggio urbano. Vorrei qui ricordare la sua testimonianza, pubblicata come aggiunta finale all’ultimo capitolo del suo libro dedicato a Milano, Ascolto il tuo cuore città: 6. Giro tra le rovine di Milano. Perché questa esaltazione in me? Dovrei essere triste, e invece sono formicolante di gioia. Dovrei mulinare pensieri di morte, e invece pensieri di vita mi battono in fronte come il soffio del più puro e radioso mattino. Perché? Sento che da questa morte nascerà nuova vita. Sento che da queste rovine nascerà una città più forte, più ricca, più bella. Fu allora, a Milano che in silenzio tra me e il tuo cuore, ti feci la mia promessa. Tornare a te. Chiudere in te la mia vita. Tra le tue pietre, sotto il tuo cielo, tra i tuoi conchiusi giardini. 7. Sopra il portone del numero 30 di via Brera questa insegna: Impresa Pulizia Speranza. Che aggiungere? È detto tutto1.
Molti scrittori hanno saputo raccontare la città con intensa qualità letteraria, lasciando testimonianze di sottile perspicacia visionaria o di mirabile 1
Alberto Savinio, Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Bompiani, 1944, pp. 357-358.
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Giancarlo Consonni La bellezza civile tra crisi e necessità*
[ … ] la bellezza è la contemplazione e godibilità della forma in quanto forma, che s’offre allo sguardo che sa farsi veggente e contemplante. Luigi Pareyson
1. La bellezza civile come espressione e celebrazione del convivere 1.1. Vittorini: la bellezza delle città e la felicità degli abitanti Le città del mondo, il romanzo che ha per tema la Sicilia a cui Elio Vittorini ha lavorato fra il 1952 e il 1956, nonostante le diverse parti incompiute, ha il respiro dell’affresco. Si sente anche la lezione cinematografica: in un montaggio sapiente il lettore viene fatto viaggiare al seguito di quattro coppie che percorrono la regione in lungo e in largo: un padre e un figlio pastori; una vecchia prostituta a cui si unisce una giovane ‘apprendista’; un padre e un figlioletto, con il primo che cerca di seminare il secondo; infine, appena abbozzati, due amanti in fuga. Grande rilevanza hanno nel romanzo le città piccole e medie. Per parlarne l’autore si affida soprattutto ai due pastori che con il loro gregge si muovono lungo itinerari ripetutamente praticati. La scelta è funzionale all’invenzione di un punto di vista: i due pastori sono a loro modo dei flâneur che * L’espressione bellezza civile è di Giambattista Vico (Principi di scienza nuova d’intorno alla comune natura delle nazioni, Stamperia Muziana, Napoli 1744, ora in Id., Tutte le opere, Mondadori, Milano 1957, p. 170).
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Vincenzo Matera Com’è bella la città. Orizzonti immaginari dell’esistenza nelle società contemporanee*
1. Gaber. Inizio con una nota musicale, ricordando una celebre canzone di Giorgio Gaber, Vieni, vieni in città, del 1969. Un inno ironico, se così si può dire, alla città, alle sue luci, alle strade, ai negozi, ai cartelloni pubblicitari, al traffico, alle opportunità e alle possibilità di «costruirsi una vita» che il «venire in città» può offrire. Il testo della canzone chiama in causa la dimensione della modernità, la dimensione dell’immaginazione, la dimensione della progettualità. Il mio intento è infatti di trattare qui il tema del convengo (la città e l’esperienza del moderno) passando dalla nozione di immaginario (e di immaginazione), e delineando un percorso identitario all’insegna del desiderio di modernità, nel rifiuto di valori e modelli tradizionali. 2. Essere ciò che si è. Gerusalemme. Delineo quindi un itinerario che parte da Gerusalemme, una città in cui ogni pietra, specie della città vecchia, è rivendicata, un posto in cui in ogni angolo si incontrano o si osservano persone che portano in maniera più o meno esplicita, più o meno ostentata, più o meno consapevole, i segni della loro appartenenza. Da una fonte musicale passo quindi a una fonte letteraria: una breve sequenza della conversazione che Sonia Barnes, protagonista del romanzo La porta di Damasco di Robert Stone, ha con l’uniate armeno Mardikian, nella sua casa nei pressi della via dolorosa: * Questa comunicazione riprende e rielabora alcune parti di un saggio più ampio, cfr. V. Matera, La modernità è altrove, in F. Carmagnola, V. Matera, Genealogie dell’immaginario, Utet università, 2008.
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Guido Martinotti LANTELLO DANLE METRO. LE DISAVVENTURE DEL BARDO URBANO
1. La natura sociale del fenomeno urbano Sotto molti punti di vista, la città è un fenomeno intrigante: è là, esplicita e spudorata tanto che ogni essere umano la riconosce d’acchito; eppure fiumi d’inchiostro sono stati versati nella ricerca di una definizione generalmente condivisibile1. La città è indubbiamente il prodotto e la sede delle espressioni più avanzate della civilizzazione umana, ma allo stesso tempo viene temuta e odiata come ambiente artificiale e corruttore dell’umanità. È il manufatto protettivo più importante contro le avversità della natura per gli esseri umani che la abitano, ma viene anche descritta come l’ambiente più malsano in cui vivere: «la malaria urbana»2. Queste antinomie sono antiche quanto la città stessa e non sono facilmente risolvibili, 1 C’è chi a questo punto direbbe che senza una definizione non si può procedere. Ma una posizione rigorista di tal fatta, che ogni tanto riaffiora tra i più ingenui metodologi, nelle scienze sociali non è molto funzionale. Occorre accettare che si possa parlare di oggetti che sono per loro natura complessi, sfumati e sfuggenti, oltre che altamente dinamici, come un bolo di mercurio su un foglio di carta, puntando al massimo grado di rigore senza irrigidire eccessivamente il discorso. Del resto per trarre conforto dalla parola di un genio che quanto a rigore non era secondo a nessuno, possiamo ricordare cosa scriveva Charles Darwin proprio a proposito della materia centrale della sua opera. “Nor shall I here discuss the various definitions which have been given of the term species. No one definition has yet satisfied all naturalists; yet every naturalist knows vaguely what he means when he speaks of a species” (Charles Darwin, The Origins of Species, First Edition, 1859, Kindle loc. 597599, corsivo mio). 2 Giovanni Berlinguer, Malaria urbana. Patologia delle Metropoli, Milano, Feltrinelli, 1976; Mauro Magatti, Bauman e il destino delle città globali, Introduzione a Zygmunt Bauman, Fiducia e paura nella città, Milano, Bruno Mondadori, 2005, pp. xi-xv. Prevedibilmente dall’introduzione non si capisce molto quali saranno questi destini, ma si leggono frasi illuminanti come “Le città hanno un destino: almeno fino a quando non si fermano a pensare a se stesse e al loro futuro” (p. xiv).
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INDICE
Prefazione Mario Barenghi, Giuseppe Langella, Gianni Turchetta 5 Denis Ferraris (Université Sorbonne Nouvelle - Paris 3) L’Oro e il Piombo: della città come paradigma dell’ambiguità
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Giorgio Bàrberi Squarotti (Università di Torino) Volti e risvolti della città
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Ermanno Paccagnini (Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) Città e campagna: una dialettica irrisolta
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Guido Baldi (Università di Torino) Nascita di una metropoli: Roma nell’opera di D’Annunzio
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Antonio Saccone (Università Federico II, Napoli) Il moderno e le nuove percezioni dello spazio e del tempo: la città dei futuristi
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Sandro Maxia (Università di Cagliari) Bontempelli e la città abitabile
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Clelia Martignoni (Università di Pavia) Percezioni della metropoli e della modernità attraverso la poesia del secondo Novecento. Vittorio Sereni e oltre
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la città e l’esperienza del moderno
Nicola Turi (Università di Firenze) Città “invisibili” vs città “invivibili”: urbanistica utopica e distopica nell’Italia del boom
165
Bertrand Westphal (Université de Limoges) C’è posto sulla panchina. Il caos calmo del manager milanese (Veronesi, Covacich, Lolli)
177
Gabriele Basilico (fotografo) Abitare la metropoli
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Giancarlo Consonni (urbanista) La bellezza civile tra crisi e necessità
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Vincenzo Matera (Università degli Studi di Milano Bicocca) Com’è bella la città. Orizzonti immaginari dell’esistenza nelle società contemporanee
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Guido Martinotti (Istituto Italiano di Scienze Umane di Firenze) Lantello danle metro. Le disavventure del bardo urbano
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