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LA MODERNITĂ€ LETTERARIA collana di studi e testi diretta da Anna Dolfi, Alessandro Maxia, Nicola Merola Angelo R. Pupino, Giovanna Rosa
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La città e l’esperienza del moderno a cura di Mario Barenghi Giuseppe Langella Gianni Turchetta
Tomo II
Edizioni ETS
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www.edizioniets.com
In copertina GUSTAVE CAILLEBOTTE, La Place de l’Europe, temps de pluie, 1877
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo di Università degli Studi di Milano - Dipartimento di Filologia Moderna Università degli Studi di Milano Bicocca - Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673314-6
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PREFAZIONE
Intorno alla fine del XVIII secolo, lo sviluppo dell’industria e l’avvento dell’economia di mercato, l’urbanizzazione accelerata, l’ondata rivoluzionaria, i cambiamenti delle istituzioni politiche e giuridiche cambiano irreversibilmente l’Europa e poi il mondo intero, segnando una discontinuità storica profonda e dando avvio a quanto collochiamo sotto il termine “modernità”. Anche la letteratura occidentale cambia per sempre, abbandonando nel giro di pochi anni il sistema millenario dei generi e degli stili, per entrare nell’era del romanzo, del realismo e di una pressoché illimitata libertà espressiva, di cui siamo ancora eredi. L’avvento della modernità sconvolge l’ordine delle cose, ma anche i soggetti e la loro esperienza. Come ha scritto Marshall Berman, nel suo memorabile L’esperienza della modernità, «essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo». L’esperienza del moderno si colloca dunque sotto il segno dell’intensità e dell’ambivalenza; ma si colloca anche in un contesto specifico: la città. Lo spazio urbano rappresenta la dimensione più naturale e caratteristica della modernità. Dalla fine della letteratura di antico regime, i destini dei personaggi letterari e le forme della rappresentazione si definiscono con evidenza sempre maggiore all’interno di ambienti e scenari cittadini, o in relazione ad essi. Una sintonia profonda contraddistingue insomma il rapporto fra la letteratura moderna e la città – o, per dir meglio, le città, non solo perché gli ambienti urbani differiscono molto tra loro a seconda dei contesti geografici e storici, ma perché la città in quanto tale è per definizione un luogo articolato, multiforme, metamorfico. Oggi le città si allargano sempre più, il mondo è sempre più urbanizzato, ma l’ampliamento territoriale pare andare di pari passo con l’affievolirsi della spinta all’agglomerazione, da sempre vettore primario dell’urbanizzazione. Di qui metafore come “città diffusa” o “arcipelago metropolitano”, che cercano di render conto delle nuove organizzazioni ter-
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LA CITTÀ E L’ESPERIENZA DEL MODERNO
ritoriali, fra razionalità e disordine, dispersione, sprawl, termine provvisorio di arrivo di un percorso iniziato due secoli e mezzo fa. I testi raccolti in questo volume, legati al convegno della MOD organizzato nel 2010 da tre atenei milanesi (Statale, Cattolica, Bicocca) offrono una ricognizione ad ampio spettro dei rapporti tra città e letteratura dal Settecento ai giorni nostri. Immagini, ritratti, rappresentazioni di città diverse, nella più ampia varietà possibile di prospettive e di forme letterarie: città grandi e piccole, centrali e periferiche, sonnolente e tumultuose, da un capo all’altro dell’Italia ma anche oltralpe e oltreoceano, ritratte con attenzione minuziosa o viste di scorcio, intuite, patite, godute, vissute. Un affascinante caleidoscopio di scenari cittadini che è anche una capillare ricognizione sulla vocazione urbana della modernità. Alla ricca messe di indagini su aspetti, momenti, movimenti, singoli autori ed opere si aggiungono contributi provenienti da specialisti di discipline diverse dall’italianistica, nella convinzione che gli studi sulla fenomenologia letteraria degli scenari urbani possano trarre giovamento dal confronto con gli sguardi, diversamente orientati, del sociologo, dell’antropologo, del fotografo, dell’urbanista: i quali del resto si sono a loro volta storicamente avvalsi, e continuano ad avvalersi, di immagini e idee offerte dall’invenzione narrativa e dalla elaborazione poetica. Mario Barenghi, Giuseppe Langella, Gianni Turchetta
16 giugno Sessione A
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Manuela Spina Catania nel secondo Settecento Tra le suggestioni dei viaggiatori europei e il «basso delle grevi rappresentazioni» nei versi di Domenico Tempio
Le fastose antichità archeologiche, i quartieri percorsi da fiumi di lava pietrificata, il vulcano vigile sullo sfondo… paesaggi e architetture, natura e storia raffigurano agli occhi incantati dei colti tour-isti europei il regno vagheggiato della bellezza assoluta, testimoni di un passato immortale e di un presente à la recherche di remoti e nuovi prestigi. Mistificazioni, naturalmente, idealizzazioni della lontana isola mediterranea che si trasformano in suggestivi resoconti letterari e iconografici. Catania è la città che tutti i viaggiatori del tempo (Riedesel, Houel, Münter, Borch, Goethe, Stolberg…) lodano sopra ogni altra in Sicilia. Per contro, la Catania di Tempio si presenta come una città mutilata e contaminata, mal ricostruita, con molti edifici lasciati incompiuti. Una chiara metafora dell’inettitudine dei catanesi, della corruzione, dell’affarismo egoista, della mancanza di volontà politica e di senso civile. Ma procediamo con ordine. Causò indignazione, nella seconda metà del Settecento, la confusione degli illuminati enciclopedisti tra Palermo e Catania, di certo le due maggiori città della Sicilia, ma antipodiche per collocazione geografica, destini e tradizioni: l’una tirrenica, l’altra ionica; la prima fiorente e popolatissima capitale, la seconda distrutta e tormentata dalle calamità; Palermo regale per fatalità, Catania operosa per indole e per necessità… Ci riferiamo naturalmente all’errore grossolano e piuttosto noto della francese Encyclopédie1, segnalato con toni beffardi dall’erudito benedettino 1 Nell’edizione del 1765 alla voce Palermo si legge infatti: «Palerme, en latin Panormus; ville détruite en Sicile, dans le val de Mazzara, avec un archevéché et un petit port. Palerme, avant sa déstruction par un tremblement de terre, disputoit à Messine le rang de capitale».
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Mauro Novelli «Indove andé?» Traumi e cadute per le vie della Milano portiana
e se per sort l’incontraran in straa me savaran poeù dì s’el ghe someja (El viacc de fraa Condutt, vv. 15-16)
Negli ultimi decenni i fari della critica – bastino qui i nomi di Dante Isella, Guido Bezzola, Gennaro Barbarisi – hanno illuminato nitidamente molti versanti dell’opera di Carlo Porta, concentrandosi sulle strategie stilistiche, sulla contestualizzazione nel panorama culturale del primo Ottocento, sulle tonalità dell’umorismo, sul profilo dei personaggi che ne abitano i poemetti. Sono invece rimaste nella mezz’ombra le complesse, originali prassi narrative1, un ambito ove assume primaria importanza la rappresentazione dei movimenti negli spazi pubblici. Su tale argomento verterà il presente contributo, con l’avvertenza che si intende ragionare in termini di funzioni ed effetti, rinunciando al corollario di prammatica in simili occasioni, ovvero alla rievocazione – ondeggiante tra l’elenco catastale e il nostalgico rimpianto − della Milano oggi irriconoscibile che si accampa al centro della poesia portiana. In questa, come è noto, a fronte del sistematico ricorso a fondali cittadini la campagna gioca un ruolo del tutto secondario. Piuttosto che inseguirne qualche estemporanea emergenza – nell’Apparizion del Tass, poniamo, o nella Guerra di pret − al riguardo pare opportuno riflettere sul valore paradigmatico della vicenda narrata nel Viacc de fraa Condutt. Il povero e lercio 1 Ma cfr. Giovanna Rosa, Fortune e sfortune della famosa Ninetta, che nacque al Verziere e divenne prostituta, in Ead., Identità di una metropoli. La letteratura della Milano moderna, Torino, Aragno, 2004, pp. 23-50.
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Novella Primo Del «vivere cittadinesco e sociale». Binarismi (e fruizione artistica) dello spazio urbano leopardiano
1. L’urbanizzazione letteraria del topos idillico (città versus campagna) L’attento scandaglio compiuto da Giacomo Leopardi, con approccio modernamente antropologico, intorno a ogni aspetto dell’umana società non trascura una disamina ampia e puntuale della problematica correlata allo spazio urbano, indagato – dal punto di vista teorico – nella sua genesi e nelle sue diverse tipologie, soprattutto nello Zibaldone. Più che ai riferimenti diretti al vissuto biografico del poeta di Recanati, riscontrabili prevalentemente nell’Epistolario e già ampiamente studiati criticamente1, si intende, in questa sede, prendere in esame la prospettiva costantemente binaria scelta da Leopardi per le sue riflessioni topografiche (città/ campagna; città antica/ città moderna; città piccola/ città grande ecc.) che permettono di intravedere proprio nella contrapposizione la dominante testuale usata nell’accostarsi alla città, dominante che dalle riflessioni teoriche si estende anche ai testi creativi. Già lo spazio letterario di Leopardi bambino è abitato da luoghi dai contorni sfumati che talvolta si discostano da quelli natali, derivando soprattutto da forti suggestioni letterarie (nella particolare rilettura della classicità che venne fatta dall’Arcadia) e anche iconografiche, a partire dal repertorio figurativo presente nella stessa dimora recanatese (si pensi ai «figurati armenti» affrescati sulle pareti di Palazzo Leopardi)2. 1 Cfr. almeno Aa.Vv., Le città di Giacomo Leopardi, Atti del VII Convegno Internazionale Leopardiano (16-19/11/1987), Firenze, Olschki, 1991. 2 Cfr. Gilberto Lonardi, Il cigno, Tommaso da Kempis, l’addio di Clelia: per la memoria figurativa del Leopardi poeta in «Rivista internazionale di studi leopardiani», n. 6, 2010, pp. 7-24.
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Valentina Murtas Le città ne Le Mie prigioni. un’analisi tematica e linguistica
Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda. Italo Calvino, Le città invisibili
In un’opera autobiografica incentrata sul racconto di una lunga prigionia, e quindi in una narrazione di una parte della vita trascorsa tra le quattro mura di una cella, l’immagine della città può assumere diversi significati. Indagheremo quale ruolo riveste la città nel racconto delle Mie prigioni (1832) di Silvio Pellico1, l’opera che ha dato il via in Italia al ricco filone memorialistico ottocentesco. Nello scritto autobiografico di Pellico, il tema della città è presente in tutta la narrazione, ricorrendo come lemma 2 città ventuno volte3 e una volta si trova il diminutivo cittadella, riferito a Brünn 1 Alla sua città natale Pellico ha dedicato una poesia dal titolo Saluzzo, nella quale racconta quanto forte era durante la prigionia il desiderio di ritornare nella sua città: «Io fra tai mura tetre e dolorose/ Pregava, e amava, e sentia desto il raggio/ Del poetar, che il cielo entro me pose/ Miei carmi erano amor, prece e coraggio;/ E fra le brame ch’esprimeano, v’era/ Ch’essi alla cuna mia fossero omaggio./ Io alla rozza ma buona alma straniera/ Del carcerier pingea miei patrii monti,/E allor sua faccia apparìa men severa». Cfr. Silvio Pellico, Cantiche e poesie varie di S.P., Firenze, Le Monnier, 1860, pp. 413-414. 2 Senza tenere in considerazione le ricorrenze dei nomi propri delle varie città, italiane e austriache, che popolano le Mie prigioni. 3 S. Pellico, Le mie prigioni. Memorie di Silvio Pellico. Il manoscritto del Museo Nazionale del Risorgimento Italiano di Torino, a cura di Laura Gatti, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2006: cap.
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Ida De Michelis Londra capitale del XIX secolo: il resoconto di Pecchio
«Il marciapiedi è il trionfo della democrazia» «La moda qui non è un desiderio di cambiare ma di perfezionare» «Non sapranno far sonetti, ma sanno far affari» G. Pecchio, Osservazioni semi-serie di un esule sull’Inghilterra, Lugano, Ruggia, 1831
Presentare Londra come capitale del XIX secolo significa innanzitutto porre in diretta concorrenza due modelli culturali di sviluppo della modernità occidentale, quello inglese, giustappunto, e quello francese, distorcendo provocatoriamente la definizione di Walter Benjamin di Parigi capitale del Moderno. La concorrenza tra i due paesi, e i due modelli, è non solo teorica e ideologica, ma manifesta storicamente nella diversità dei percorsi politici ed economici che fecero di queste due nazioni i poli nazionali fondanti dell’Europa moderna, Europa che nel corso del XIX secolo vedrà nascere e svilupparsi la potenza ben meno metropolitana ma altrettanto influente della Germania e, finalmente, anche il profilo di uno Stato unitario italiano, che tra le sue tante città e capitali faticherà a riconoscerne una unica, nazionale, come furono, e sono, rispettivamente Londra per la Gran Bretagna e Parigi per la Francia. Londra capitale sovrasta come Parigi e ancor più che Parigi su ogni altro centro urbano (Bristol, che viene seconda, ha 60.000 abitanti): ha infatti 750.000 abitanti alla metà del Settecento ed è avviata al milione al principio del secolo; ma essa non
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Mariarosaria Olivieri Il volto moderno della città tra mito letteratura e conoscenza in G.A. Borgese: dal modello europeo alla “città assoluta”
In apertura della parte II delle Città invisibili Calvino pone nelle parole rivolte da Kublai Kan a Marco Polo il tema della diversa visione del mondo legata al punto di vista di chi vive una realtà statica e di chi parte e conosce. Dice Polo: «Qualsiasi paese le mie parole evochino intorno a te, lo vedrai da un osservatorio situato come il tuo, anche se al posto della reggia c’è un villaggio di palafitte e se la brezza porta l’odore di un estuario fangoso». Risponde il Kan «Il mio sguardo è quello di chi sta assorto e medita, lo ammetto. Ma il tuo? Tu attraversi arcipelaghi, tundre, catene di montagne. Tanto varrebbe che non ti muovessi di qui»1. L’eterno tema del viaggio come conoscenza del sé e del mondo affascina Calvino come Borgese: proprio il secondo si mette nello stato del «pellegrino appassionato»2 o, altrove, dell’escursionista attento, come nel suo Escursione in terre nuove3, come Polo in quello del viaggiatore curioso. E se Polo non parla di Venezia perché la nostalgia lo prenderebbe, così Borgese negli anni dell’esilio americano non parla dell’Italia, ma come Polo racconta le città americane, cercando in esse ciò che ha lasciato in Europa, il modello delle città europea: Berlino, Parigi, Atene, esse stesse collettori della loro storia. Si rivolge Polo a Kublai Kan: «Ogni volta che descrivo una città dico qualcosa di Venezia» e alla imposizione del Kan che chiede chiarezza «Quando ti chiedo d’altre città voglio sentirti dire di quelle. E di Venezia, quando ti chiedo 1 Italo Calvino, Le città invisibili, in Romanzi e racconti, a cura di Claudio Milanini, Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 1992, vol. II, p. 377. Per il punto di vista nella narrativa cfr. G.Turchetta, Il punto di vista, Bari, Laterza, 1999. 2 Dal titolo di Ambra Meda, Giuseppe Antonio Borgese “Pellegrino appassionato”, Parma, MUP, 2006. 3 Giuseppe Antonio Borgese, Escursione in terre nuove. Visioni e notizie, Milano, Ceschina, 1931.
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Sara Lonati Gita ad Asmara racconti di viaggio dalla piccola Roma d’oltremare
Asmara. Africa’s secret modernist city1 è il titolo di una mostra che dal 2006 gira il mondo, in attesa che il patrimonio della capitale eritrea venga accolto nell’olimpo della Modern Heritage List dell’Unesco. «La povertà è la migliore tutela dei monumenti» han detto gli architetti europei riscoprendo Asmara: per scempi edilizi e snaturalizzazioni urbanistiche non ci sono stati né denaro né tempo. Le violenze della guerra per l’indipendenza dal regime etiopico del Derg non hanno fatto caso ai seicento edifici del maggior complesso al mondo d’architettura moderna prodotto dal colonialismo italiano. Durante gli anni Settanta, gli anni dell’assedio, Asmara e gli asmarini rimasti (i più di 50.000 coloni italiani se ne sono via via andati) sono riusciti a restare in piedi per non essere di nuovo dimenticati, soprattutto dall’ex madrepatria che chiamava la capitale della colonia primogenita ‘piccola Roma’. Ancora un poco restia a fare i conti col proprio passato coloniale dal punto di vista culturale, artistico e letterario, l’Italia, prima impreparatissima colonizzatrice liberale poi imperialista fascista, inviava, oltre alle truppe, da un lato ingegneri come Paolo Reviglio per costruire infrastrutture, e dall’altro governatori, intellettuali, scienziati, scrittori e giornalisti come Ferdinando Martini, Cesare Calciati, Giuseppe Vota, Orio Vergani, Alessandro Pavolini, Cesco Tomaselli e Curzio Malaparte per documentare e raccontare. Sono alcuni dei nomi più rappresentativi che in cinquant’anni, tra la fine dell’Ottocento e la seconda guerra mondiale, hanno raccontato il proprio viaggio eritreo su giornali, riviste e diari. Un viaggio che si pensava sarebbe divenuto col tempo, con l’abitudine e col progredire dei trasporti e 1 Edward Denison, Guang Yu Ren, Naigzy Gebremedhin, Asmara, Africa’s Secret Modernist City, London, Merrell, 2003.
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Elisabetta Reale Madre, matrigna. Palermo nella drammaturgia italiana contemporanea: «Malaluna» di Vincenzo Pirrotta
Reale e trasognata, viva e vitale, madre e matrigna, Palermo diventa spazio drammaturgico prediletto per tre autori teatrali siciliani che vi sono nati, cresciuti, formati. Vincenzo Pirrotta, Davide Enia, Emma Dante rispettivamente con Malaluna, Maggio ’43 e mPalermu, danno vita a spettacoli intensi, quadri scenici accurati che raccontano una città e una regione, la gente che ci abita, la cultura del meridione, ma anche del Sud del mondo in genere, quasi fosse un luogo dell’anima, e attingono a piene mani all’immaginario di vita, storie, fatti e finzioni che è proprio della città di Palermo. È quello che accade per esempio con lo spettacolo Malaluna1 del palermitano Vincenzo Pirrotta, un flusso di ricordi e immagini evocate con il verbo e con il corpo, che colpiscono forti allo stomaco, suscitando emozioni e suggestioni, visioni di parola indissolubilmente legate alla città di Palermo. Vincenzo Pirrotta nasce a Partinico, centro agro-industriale della provincia di Palermo che muove verso Trapani, nel 1971, collocandosi inevitabilmente nel versante più occidentale dell’isola e questa specifica collocazione geografica si riflette nel suo teatro e nella sua lingua che acquista connotazioni e suggestioni diametralmente differenti rispetto agli autori provenienti dalla Sicilia orientale. Per comprendere l’immaginario di Pirrotta, il suo atteggiamento nei confronti del teatro e dunque i suoi testi è indispensabile guardare al ricco percorso di formazione che parte da un centro agro-industriale di provincia per approdare a contesti metropolitani. 1 Il progetto Malaluna (2003) nasce inizialmente come lavoro a quattro mani, realizzato da Vincenzo Pirrotta e da Peppe Lanzetta, per dare voce a due realtà simbolo del Meridione del mondo: Palermo e Napoli. Verrà poi ripreso dal solo Pirrotta con il nome di Malalunanuova. Il testo è ancora inedito e in fase di pubblicazione insieme ad altri dell’autore palermitano.
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Maria Rizzarelli «Una architettura fantastica dentro un lago di rovine». Apologhi per immagini della Palermo di Sciascia
L’immagine è poca cosa: un gesto o un’incrinatura. Un accidente del tempo che lo rende momentaneamente visibile e leggibile. George Didi-Huberman, Come le lucciole
Nel saggio del suo Cruciverba dedicato a Parigi Sciascia ricostruisce l’origine delle varie immagini della capitale francese che si sono sedimentate e sovrapposte nella sua memoria, offrendo indicazioni estremamente interessanti sul rapporto che intrattiene con quel luogo e che sembra possano estendersi alla sua relazione generale con lo spazio urbano. All’immaginario infantile, generato dalle informazioni provenienti fortuitamente dal mondo adulto (la frase di un maestro, la lettera di un vicino di casa, la sequenza di un film), si sovrappone quello prodotto dalla letteratura ed esso fa in modo che l’immagine reale, scoperta, frequentata e amata in età adulta si offra come un continuo dejà vu, «una continua verifica, delle cose già viste, già vissute, già amate nella città ideale, negli ideali soggiorni»1, ovvero nei soggiorni fatti di «idee» che la lettura del Paradosso dell’attore di Diderot e dei Miserabili di Hugo (questi i titoli che cita nel discorso) suggerivano. Parigi si presenta agli occhi di Sciascia come «una città libro, una città scritta, una città stampata»2, e soprattutto come una città che conserva intatta la sua bellezza malgrado i segni del tempo ne abbiano trasformato 1 Leonardo Sciascia, Parigi, in «L’Europeo», 11 dicembre 1974, poi confluito in Cruciverba, Torino, Einaudi, 1983, ora in Id., Opere 1971-1983, a cura di Claude Ambroise, Milano, Bompiani, 1989, p. 1277. 2 Ivi, p. 1274.
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Alberico Guarnieri LA CITTÀ LONTANA NE I MALAVOGLIA
Accingendoci a riflettere sulla centralità che ne I Malavoglia il narratore accorda al motivo della città occorre prendere le mosse dall’idea di spazio, che si profila sin da un incipit teso ad introdurre senza esitazioni il lettore in medias res: Un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare, proprio all’opposto di quel che sembrava dal nomignolo, come dev’essere1.
Il sostrato «favolistico» di un simile attacco, oltre a non contemplare «il ricorso a punti di riferimento esterni e comunque più familiari per il lettore»2, intende, altresì, rivelare un indizio relativo al carattere non episodico che la presenza dello spazio assume all’interno del romanzo, a palesare, appunto dal principio del racconto, la limitatezza delle «misure dell’universo del narratore», motivo per cui «Bastano i pochi chilometri che separano Trezza da Ognina o da Aci Castello per sfumare uomini e cose in una distanza pressoché leggendaria»3. Un tale sentire trova immediato riscontro nella prima immagine della città, che si presenta in modo talmente vago da apparire quasi impercettibile, nel bel mezzo della presentazione dei componenti la famiglia dei «Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo, e della Provvidenza»4. Nondimeno, siffatta incursione è caricata dall’io narrante di significati tesi a travalicare il dato meramente descrittivo, 1 2 3 4
Giovanni Verga, I Malavoglia, a cura di Nicola Merola, Milano, Garzanti, 1980, p. 5. N. Merola, Introduzione, in G. Verga, I Malavoglia cit., p. 5. Ibidem. G. Verga, I Malavoglia, cit., p. 6.
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Bartolo Calderone Anabasi e conversazioni di Vittorini e Comisso. Persefone ritornante o la venditrice d’arance (e meloni)
1. Omne ferret punctum «Avrei caro che mi cercaste un Senofonte che io potessi comperare», scrive Leopardi a Pietro Giordani in partenza per Milano. «Vorrei un Senofonte, perché è vergogna che ancora non l’abbia», continua ancora il poeta, impaziente di trovare finalmente un Senofonte da «portare in mano agevolmente e leggere passeggiando, omne ferret punctum, purché il greco non fosse asciutto asciutto senza niente né di versione né di prosa» (lettera a Giordani del 27 ottobre 1817). Anni dopo, in una pagina del suo Zibaldone (2 gennaio 1821, p. 466), il recanatese non manca di sottolineare la sperimentale dimensione diaristica dell’Anabasi senofontea: «Esaminate bene quell’opera: non è una storia ma un Diario o Giornale (si può dire, e per la massima parte militare) di quella Spedizione. Infatti procede giorno per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe, ec. ec. infatti l’opera si chiude con una lista effettiva o somma dei giorni, spazi, percorsi, nazioni, ec. lista indipendente dal resto, per la sintassi». Senofonte alla mano, Vittorini dà inizio alla sua «spedizione» in Sardegna. Parasanghe, spazi, percorsi («A Sassari, eh! Quanti parasanghi ancora?»): viaggio intrapreso con la (quasi certa) speranza di vincere il concorso bandito da «L’Italia letteraria» nel settembre del ’32 per il miglior «Diario del viaggio in Sardegna». La complessa vicenda editoriale dell’opera vittoriniana, dalla redazione di Quaderno sardo alla definitiva edizione mondadoriana del 1952 (dal titolo Sardegna come un’infanzia), è stata già puntualmente ricostruita da altri attraverso un’attenta disamina dei materiali d’archivio della casa editrice Novissima, per i cui tipi sarebbe dovuta
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Andrea Crismani La città nel teatro di Rosso di San Secondo: un approdo mitico oltre l’alienazione
Appare oggi piuttosto difficile determinare le linee di sviluppo del teatro di Rosso di San Secondo, soprattutto in relazione alla sua scarsa presenza sulle scene e all’incomprensione che ne ha caratterizzato l’opera fin dal suo nascere1 e che ancora oggi stenta a venire meno2. In questo senso lo stereotipo per cui Rosso apparterrebbe alla scuola grottesca pesa ancora oggi molto e altrettanto gravoso è, nell’analisi della sua figura, il pregiudizio che lo vede, al più, come un epigono di Pirandello3. Oggi, tuttavia, la critica più avveduta ha dimostrato irrefragabilmente la grandezza e l’autonomia di Rosso: rilevante appare soprattutto la particolare sfumatura che assume la sua drammaturgia che si riavvicina alla forma tragica, in linea con quel fenomeno della confusione dei registri frequente nel primo Novecento così turbato dal tracollo di certezze secolari, costretto a fare i conti con una crescente frammentazione del sentimento di sé e con la percezione del reale filtrata dalla psicanalisi e dal surrealismo. Anche i rapporti di Rosso con l’Espressionismo tedesco, dif1 Esemplare, in questo senso, il fraintendimento di Silvio D’Amico, Il teatro dei fantocci, Firenze, Vallecchi, 1920 e di Antonio Gramsci, Marionette, che passione!… di Rosso di San Secondo al Carignano, «Avanti!», 21 aprile 1918, poi in Letteratura e vita nazionale, Torino, Einaudi, 1954, p. 324. 2 Per i rapporti tra Rosso e la critica vedi Paola Daniela Giovanelli, La critica e Rosso di San Secondo, Bologna, Cappelli, 1977 e Giovanni Antonucci, La critica militante e il teatro di Rosso di San Secondo, in Pier Maria Rosso di San Secondo nella letteratura italiana del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 19-28. 3 D’Amico è il campione di questa linea interpretativa: infatti, nel terzo e più autorevole intervento, cfr. S. D’Amico, Il teatro italiano, Milano, Treves, 1932, pp. 145-146, egli attua un recupero di misura di Rosso proprio per via del suo legame con Pirandello. Per il gioco delle relazioni reciproche tra i due drammaturghi siciliani si veda almeno: Carlo Lo Presti, Pirandello e Rosso di San Secondo, in Sicilia Teatro, Firenze, I Centauri, 1969 e Paolo Mario Sipala, Pirandello e Rosso di San Secondo, in Rosso di San Secondo nella cultura italiana del Novecento, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1990, pp. 71-80.
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Samantha Viva La città metafisica di Sciascia
Saranno forse i profili asciutti e compatti degli oggetti, o la luce tagliente e impietosa con cui, in maniera quasi ossessiva, Giorgio Morandi li predisponeva in fila, ordinati, solidi e vulnerabili al contempo, a suggerirmi una vicinanza tra le coordinate del suo spazio metafisico con quelle delle lineari mappature dei contesti sciasciani. Quello che per De Chirico è uno spazio altro e per Carrà una metamorfosi geometrica, per Morandi è uno spazio concreto, saturo addirittura, risultante da una parità di livello e di tensione, di profondità e densità, tra la coscienza del proprio essere e dell’essere del mondo, ugualmente e integralmente vissute e comunicanti tra loro, come per un’osmosi continua1.
Così Giulio Carlo Argan descriveva la concezione artistica da cui partiva Morandi: per il quale, sostiene ancora lo stesso Argan, «lo spazio è l’insieme della natura e della coscienza e non si dà come costruzione ipotetica di una spazialità universale, ma come spazio vissuto, amalgamato al tempo dell’esistenza»2. Un pittore che prediligeva e creava acqueforti, piccoli capolavori che erano una delle passioni dello scrittore di Racalmuto, capace di collezionarne a centinaia, e per il quale, c’è da supporlo, il già citato artista bolognese, morto nel 1964, non doveva essere sconosciuto. Sebbene non ne faccia menzione, come invece farà con gli amici pittori, con cui amava riunirsi alla Noce. Uno spazio «vissuto e amalgamato al tempo dell’esistenza» è senza dubbio quello dei romanzi di Sciascia, un mondo «distorto», a volte in conflitto 1 2
Giulio Carlo Argan, L’Arte Moderna, Firenze, Sansoni Editore, 1970, pp. 340-342. Ibidem.
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Ornella Bonarrigo LA CITTÀ-CASBAH DI GOLIARDA SAPIENZA
Nonostante Goliarda Sapienza trascorra a Catania solo i primi 17 anni della sua vita, le immagini della città natale e dell’isola tutta, espressione del profondo sud, appaiono predominanti nel suo intero percorso artistico-letterario. Le suggestioni spaziali di Roma, dove la scrittrice si trasferisce malvolentieri per iniziare la carriera d’attrice teatrale e cinematografica1, non eguagliano infatti mai per intensità e per frequenza quelle catanesi presenti già nei suoi romanzi degli esordi: da Lettera Aperta, primo romanzo pubblicato nel 1967, che racconta l’infanzia e la prima adolescenza consumate a Catania, al Filo di mezzogiorno del 1969, resoconto di un tentativo di cura attuato da uno psicanalista sulla protagonista-autrice, in cui la città siciliana ritorna prepotente nei ricordi della paziente. Ma spunti in tal senso emergono anche dalle successive opere della scrittrice, L’università di Rebibbia e Le certezze del dubbio, L’arte della gioia e Destino coatto2. Catania diventa nuovamente protagonista assoluta della narrazione della Sapienza nel romanzo Io, Jean Gabin, pubblicato postumo nel 2010 1 Per la biografia di Goliarda Sapienza fondamentale sarà il volume, attualmente in corso di stampa, di Giovanna Providenti (La Porta è aperta), che gentilmente mi ha permesso di consultare. Cfr. anche Dacia Maraini, Ricordo di Dacia Maraini, in Goliarda Sapienza, Lettera Aperta, Palermo, Sellerio, 1997, pp. 9-11. 2 I due romanzi L’università di Rebibbia (Milano, Rizzoli, 1983) e Le certezze del dubbio (Roma, Pellicano libri, 1987, poi Milano, Rizzoli, 2007) sono strettamente collegati tra loro, perché il primo è il resoconto della breve avventura carceraria di Goliarda Sapienza, il secondo è la storia della sua reintegrazione nella società dopo la suddetta esperienza. L’arte della gioia (Roma, Stampa Alternativa, 1998, poi Torino, Einaudi, 2008) è l’opera più conosciuta della scrittrice e racconta la storia di Modesta, personaggio originale e anticonformista (a proposito delle vicende editoriali di questo romanzo, cfr. Domenico Scarpa, Senza alterare niente, in L’arte della gioia, cit., pp. 513-538I. Infine, Destino coatto (Roma, Empiria, 2002) è una raccolta di racconti onirici, che rappresenta la sua prima produzione.
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Sessione C
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Elisabetta Macaione Le immagini della città in Gadda
Le immagini della città sono per Gadda le proiezioni della sua esperienza dell’altro, tramite per uscire dal proprio isolamento ma anche elemento perturbante perché provoca nell’autore un senso d’impotenza e mancanza di controllo. Le emozioni contraddittorie che Gadda sente di fronte alla pluralità cittadina lo portano a scindere le sue immagini urbane in due tipi di rappresentazioni: una prima serie che sottolinea la carica attrattiva del molteplice cittadino e una seconda che invece risulta ossessionata da dettagli orrorifici. Tale scissione nevrotica nei confronti dell’altro, proiettata nell’immagine della città, cerca una sublimazione dialettica proprio nella rappresentazione urbana, nella combinazione dei possibili offerta dalla sua collettività. Ma l’autore non è in grado di ricucire la contraddizione tra queste due immagini: da una parte il terrore della folla, immagine di un inconscio regressivo che si nutre di narcisismo statico; dall’altra l’ammirazione della razionalità creatrice del molteplice urbano, rivelazione di un centro collettivo e dialogico che potrebbe liberare l’autore dall’invadenza materna. Le aggregazioni sociali urbane sono nel primo caso espressione di «un pragma bassamente erotico, un basso prurito ossia una lubido di possesso, di comando, di esibizione, di cibo, di femine»1. Le donne, immaginesimbolo dell’orgasmo della folla, sono ferme alla fase «narcissico-puberale»2 dello sviluppo psicologico, incapaci di riconoscere l’alterità perché per loro «tutto viene relato alla erezione perpetua e alla prurigine erubescente dell’Io-minchia, invaghito, affocato, affogato di sé medesimo»3. Queste femmine-folle-folli malate di narcisismo riflettono la frammentazione delle 1 2 3
Carlo Emilio Gadda, Saggi Giornali Favole e altri scritti I, Milano, Garzanti, 2008, p. 244. Ivi, p. 320. Ivi, p. 343.
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Mauro Bignamini Da Les Halles a Piazza Vittorio: itinerari intertestuali (e non) nella Roma del Pasticciaccio
«Roma è divenuta una città enorme, confusionaria e babelica, piena di ciarle, di scartoffie e d’infiniti preti»: così Gadda in una lettera alla nipote Anita Fornasini del 27 ottobre 19551. Tra le maglie della confessione ci sembra di sorprendere i contorni della Roma del Pasticciaccio: siamo nel fatidico 1955, l’anno della ripresa serrata del cantiere del romanzo. All’inizio del quinto capitolo, dedicato alle indagini sull’omicidio, leggiamo fra l’altro: «di pratiche ce n’era da gavazzarci, da nuotarci dentro: e gente in anticamera! Madonna! Più che ai piedi de la gran torre de Babele» (p. 124)2. Insomma la Roma degli anni Cinquanta sembra rinviare, per un intrigante gioco di specchi, alla «Babylon» del primo tratto della Cognizione, cioè alla Roma fascista dove Gadda aveva vissuto all’inizio degli anni Trenta, incontrandovi soltanto «caldo e tedio»3. La stessa Roma-«Babylon» è convocata nell’ottavo capitolo del Pasticciaccio, nell’ekfrasis dell’affresco dei due santi, Pietro e Paolo, ritratti mentre «camminaron l’Appia insino a Babylon» (p. 197), dunque in direzione contraria rispetto al tragitto dei due carabinieri, Pestalozzi e il Farafilio, verso la campagna romana. Pietro e Paolo vanno «verso la decollazione o la crocifissione a capo all’ingiù» (ibid.), quindi verso il martirio: forse un’allusione al «martirio» di Liliana, vittima, per mano della nipote Virginia, della «cattiveria del mondo»? Tanto più che la morte di Liliana duplica, per un ossessivo transfert autobiografico, il «sacrificio» di Enrico («don Ciccio rammemorò subito, con un lontano pianto dell’ani1 Cara Anita, caro Emilio, a cura di Federico Roncoroni, Roma, Edizioni di G. e M. Benincasa, 2002. 2 Tutte le citazioni dal romanzo sono tratte da Quer pasticciaccio brutto de via Merulana, in Romanzi e racconti, II, a cura di Giorgio Pinotti, Dante Isella, Raffaella Rodondi, Milano, Garzanti, 1989. 3 Cesare Cases, Un ingegnere de letteratura, in Patrie lettere, Torino, Einaudi, 1974, p. 56.
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Ilaria Rubino Le città di carta di Antonio Delfini. Vagabondaggi tra realtà e immaginario
«Tutta la sua vita era [ … ]; in quella passeggiata, negli sguardi ora ansiosi, ora distratti che lanciava sulle cose e sui passanti»1. Così Manlio Cancogni ricorda il Delfini da lui conosciuto, che con passo energico attraversava la Viareggio del dopoguerra tra piazza Mazzini e piazza D’Azeglio, quasi avesse da fare «qualcosa certamente di vitale»2. Senza dubbio questo vagabondaggio quotidiano era per lui un gesto irrinunciabile, che gli permetteva di riappropriarsi delle immagini della propria memoria legate a quello spazio cittadino per poi farne letteratura, riflessione poetica o semplicemente fantasticheria. È Cesare Garboli a suggerire che la costruzione dei racconti di Delfini trova radici proprio in questo attraversamento urbano, partendo dall’occhio «che vaga qua e là durante una semplice passeggiata»3. Ma questo «disorientamento geografico-sentimentale»4 non aveva la sua origine a Viareggio, città della vacanza fin dagli anni Venti e poi luogo del rifugio postbellico, bensì nella città di provincia che gli aveva dato i natali, lo aveva visto crescere e venire esiliato: l’amata-odiata Modena. Intorno ad essa ha orbitato tutta l’esperienza di Delfini uomo e scrittore, che ne ha fatto il capoluogo del proprio immaginario. Per Pratolini «la sua “provincia” è un luogo della fantasia e un’immagine storica»5 e Delfini ne tratteggia la pianta Manlio Cancogni, Ricordo di Antonio Delfini, in Antonio Delfini, a cura di Andrea Palazzi e Marco Belpoliti, Milano, Marcos y Marcos, 1994, p. 291. 2 M. Cancogni, Ricordo di Antonio Delfini, cit., p. 291. 3 Cesare Garboli, Introduzione a Manifesto per un partito conservatore e comunista e altri scritti, Milano, Garzanti, 1997, pp. X-XI. 4 A. Delfini, Introduzione a Il ricordo della Basca. Dieci racconti e una storia, Pisa, Nistri-Lischi, 1956, p. 81. 5 Vasco Pratolini, Appunti per Delfini in Antonio Delfini, a cura di A. Palazzi e M. Belpoliti, cit., p. 237. 1
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Elena Porciani La città e il caso nella Storia di Elsa Morante
Questo contributo costituisce il primo episodio di uno studio che si propone di analizzare il rapporto tra il contesto realistico della narrazione e gli elementi romanzeschi nella Storia di Elsa Morante1, intendendo per “romanzesco” non solo l’aggettivo derivato da “romanzo”, ma, più specificatamente, l’aggettivo che fa riferimento al romance2. A sua volta l’indagine rientra in una più ampia interpretazione della scrittura morantiana, volta a collegare il continuo uso di componenti romanzesche da parte dell’autrice alla rappresentazione del conflitto tra realtà e irrealtà che, al di là delle differenze tematiche e strutturali fra i testi, sta al cuore della sua poetica. In particolare, per quanto riguarda La Storia, conviene prendere le mosse dal fatto che il titolo completo è La Storia. Romanzo e che esso non solo evoca la compresenza di realtà e invenzione tipica del romanzo storico, ma anche rimanda alla struttura del libro, i cui capitoli sono divisi, com’è noto, in parti riassuntive del grandi eventi del periodo – la Storia con l’iniziale maiuscola – e in parti di invenzione narrativa – il romanzo. Ed è propriamente nell’ambito della vicenda di finzione che si devono ricercare gli elementi variamente ascrivibili al romance, alcuni dei quali – per entrare nello specifico del tema di questi atti – si legano all’ambientazione urbana dell’opera. Innanzitutto, con riferimento al sistema morantiano dei personaggi, che basa la tripartizione dei rapporti tra realtà e immaginazione su Achille, Don 1 Le citazioni dal romanzo, indicate con il numero di pagina di seguito al passo riportato, sono tratte da Elsa Morante, La Storia [1974], Torino, Einaudi, 1995. 2 A fronte dell’unico termine italiano “romanzo”, in inglese si dà la possibilità di un’alternativa tra novel, il romanzo realistico e psicologico, e romance, il romanzo caratterizzato da avventure, peripezie, colpi di scena, sogni, passioni amorose, scenari esotici e trame al limite del verosimile se non proprio sconfinanti nel sovrannaturale, e da personaggi che sono spesso supereroi più che eroi, dotati di poteri e forze al di là dell’umano.
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Ilaria Puggioni Da Karale a Cagliari: La città bianca nella narrativa di Sergio Atzeni1
«Raccontare Cagliari è stato uno dei motivi che mi ha spinto a cercare di scrivere racconti»2. Con questa dichiarazione di poetica, Sergio Atzeni si impegna a sublimare, in scrittura creativa, la mancanza di descrizioni letterarie sulla cosiddetta “città bianca” da parte di intellettuali locali. Per questo motivo, le sue pagine sono intrise di riferimenti, sottesi ed espliciti, all’amata città, fotografata sia mediante istantanee che ne ritraggono i luoghi e gli scorci – traducendoli visivamente sulla carta con l’espediente della cosiddetta «frase figura»3 – sia riproducendo realisticamente suoni vernacolari della lingua madre assorbiti dalla variante calaritana4, ricca e variegata di idiomi diversi, frutto della contaminazione storico-linguistica millenaria che tanto affascina lo scrittore. Attraverso un volo temporale che immortala Cagliari nelle varie epoche storiche, Atzeni offre un quadro della città a tutto tondo, oggettivo e internamente focalizzato, descrivendone i pregi e i difetti, e sottolineando la staticità caratteriale riassunta profeticamente in una massima illuminante di Passavamo sulla terra leggeri: «fu sempre il destino 1 Per quanto riguarda i riferimenti alla vita e all’opera di Atzeni si rimanda, in particolare, al volume monografico di Giuseppe Marci, Sergio Atzeni: a lonely man (Cagliari, Cuec 1999); e a quello che raccoglie gli atti del convegno dedicato allo scrittore sardo (Cagliari 25-26 novembre 1996), curato da Giuseppe Marci e Gigliola Sulis, Trovare racconti mai narrati e dirli con gioia (Cagliari, Cuec 2000). Indispensabili per un ulteriore e approfondita analisi critica dello scrittore sono i vari contributi offerti da Gigliola Sulis, Giancarlo Porcu e Giuseppe Grecu. 2 G. Sulis, La scrittura, la lingua e il dubbio sulla verità, «La grotta della vipera», XX, 66-67, 1994, pp. 38-39. 3 Così definisce la scrittura atzeniana Franco Cordelli in Frasi figure come cristalli lucenti, «La Grotta della vipera», XXII, 75, estate 1996, pp. 42-3. 4 Cfr. G. Marci, Sergio Atzeni: a lonely man, cit., p. 115 ss. Giuseppe Marci ha dedicato, in particolare, il quinto capitolo della sua monografia sull’autore sardo al tema della calarinità, interpretandolo sotto diversi profili tra cui quello linguistico-identitario.
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Federico Fastelli Immagine e funzione della città nelle prime opere di Luigi Malerba
Sosteneva Giulio Carlo Argan che «la forma della società è la città, e costruendo la città, la società costruisce se stessa»1. Se ciò è vero la rappresentazione letteraria della città dovrà corrispondere – in una misura per altro assai ardua da quantificare – alla rappresentazione stessa della forma della società, del suo farsi, evolversi, mutare. Dalle immagini della città, dalle funzioni che le sono delegate nella finzione letteraria, si dovrebbero poter sussumere, per così dire, le modalità di autoriflessione della società sulla costruzione di sé stessa, passando naturalmente attraverso la lente quanto mai idiosincratica e straniante della scrittura. I primi passi letterari di Luigi Malerba partecipano di quella meditazione sulla «mutazione antropologica», per dirla con Pasolini, avvenuta in Italia dopo il secondo conflitto mondiale, quando la struttura economico-sociale della nazione da essenzialmente agricola e contadina si fa industriale e cittadina. In questo senso essi appaiono di grande interesse proprio relativamente all’immagine della città che ne emerge. La città, per Malerba, è naturalmente una città: Roma. Quella Roma in cui lo scrittore giunge nel gennaio del 1950 “scappando”, come dichiarato in un’intervista, dalla “civilissima” Parma in cerca «di condizioni di clima favorevoli»2. In realtà è proprio Parma la prima città presente negli scritti di Malerba. Nella serie di racconti La scoperta dell’alfabeto – sebbene l’ambientazione non sia cittadina, ma centrata sulla campagna parmense – la città di Parma compare, se così si può dire, in negativo, diverse volte. In negativo perché di fatto Parma rappresenta uno spazio altro rispetto ai paesi che la circondano, ovvero uno spazio deputato Giulio Carlo Argan, L’arte moderna [1970], Firenze, Sansoni, 1997, p. 253. Doriano Fasoli, Solo critiche d’amore, in «Capitulum», gennaio 2006; ora in «l’Illuminista», nn. 17-18, dicembre 2006, pp. 77-80. 1 2
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Guglielmo Pispisa Centri, periferie e fughe. La dimensione spaziale nell’opera di Pier Vittorio Tondelli
Gente ordinaria e gente comune, gente che batte le strade provinciali e quelle comunali. Gente che fa, gente che produce, gente sottoccupata, gente incantata, gente improduttiva, gente selvatica, gente morbida, gente ubriacona, vecchia gente senza passato, giovane gente senza avvenire, gente lontana dalla cronaca e dal pettegolezzo: gente che costituirebbe a prima vista una massa anonima ma che, se indagata con solo un poco di attenzione, riserverà molte sorprese e curiosi aneddoti: insomma, gente di cui vogliamo raccontare per rendere il doveroso tributo allo zavattiniano incanto del quotidiano che da sempre ci avvince, come se ci trovassimo, insomma, in un travolgente remake neorealistico, in una metafisica dell’effimero e del banale1.
Con questa dichiarazione di intenti e di poetica, con questa celebrazione del particolare quotidiano inteso come chiave interpretativa della generale complessità del mondo e della vita delle persone che lo abitano, si apre il brano intitolato Storie di gente comune della sezione «Scenari italiani» di quella multiforme raccolta di narrazioni, cronache, reportages, recensioni, saggi, conversazioni che è Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta. Pare opportuno partire da qui per questa breve escursione nell’opera di Pier Vittorio Tondelli e dei suoi strettissimi rapporti con la dimensione spaziale nella sua maniera di fare e intendere la narrativa, perché quest’opera, come ha ricordato Fulvio Panzeri2 «[ … ]nasce come ipotesi di riunire in 1 Si tratta dell’incipit del brano Storie di gente comune, in Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, Milano, Bompiani, 1990. Di questa, come di altre opere dell’autore, ho consultato la versione definitiva raccolta nei due volumi Pier Vittorio Tondelli, Opere. Romanzi, teatro, racconti, a c. di Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 2000 e Pier Vittorio Tondelli, Opere. Cronache, saggi, conversazioni, a c. di Fulvio Panzeri, Milano, Bompiani, 2001, che in questa sede per brevità richiamerò unicamente col riferimento al volume I o II. 2 Cit., II, p. 1022.
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Nives Trentini Veronesi e la prospettiva bloccata: annullamento ed enfatizzazione della città in Caos calmo e in Brucia Troia
In Caos calmo e Brucia Troia il tema della città assume una declinazione particolare legata allo sviluppo della trama e all’elaborazione della condizione umana. In entrambe le storie, la presenza dell’infanzia, dei suoi luoghi e dei suoi tempi, supportano e arricchiscono la narrazione: i giardinetti davanti alla scuola di Claudia (figlia del protagonista di Caos calmo) o il brefotrofio di Brucia Troia (diretto da Padre Spartaco che accoglie ed educa secondo criteri punitivi dei poveri orfanelli), sono luoghi cittadini inusuali, frequentati dagli adulti solo occasionalmente: nelle due narrazioni l’attenzione non si accentra sulla metropoli, sulla sua problematicità e frenesia, ma si focalizza – diventandone la chiave – sul rapporto, o assenza di contatto, dell’uomo con l’urbe. È risaputo che nei secoli la città ha assunto e/o perso il ruolo di riferimento d’identificazione culturale, sociale e politica in cui s’intersecavano energie, conflitti, poteri. Semplificando, questo status, nella nostra contemporaneità, si trasforma fino a diventare il paesaggio del desiderio, della merce dove prevale il disordine, una certa «diffusività anarchica», un’«assenza d’identità precostituite e di appartenenze fondanti»1 che i percorsi e meccanismi innescati dal consumo riproducono. La scissione, centrale nella cultura moderna, che si sta concretizzando fra l’«interno» e l’«esterno», «tra l’esperienza soggettiva e l’esperienza del mondo, tra il Sé e la città», si rafforza sempre più, secondo Sennet, portando alla coincidenza fra «spazi della mente e percezione concreta del territorio»2. Ne consegue Massimo Ilardi, Il tramonto dei non luoghi, Roma, Meltemi, 2007, p. 25. Cfr. Richard Sennet, La coscienza dell’occhio. Progetto e vita sociale nelle città, Milano, Feltrinelli, 1992. 1 2
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Oretta Guidi Le due città di Mario Soldati: Torino-Roma, due proiezioni dell’io, due esperienze di vita
Nel momento in cui cerchiamo di definire i termini cronologici della modernità sentiamo quanto siano sfuggenti e ambigui i nostri tentativi così come abbiamo coscienza di quanto complesso e articolato sia il sentimento della modernità: oggi, tuttavia, forte è la consapevolezza di avere varcato le ideali colonne d’Ercole del moderno, perché percepiamo di essere dentro una temperie psicologica indefinibile che per comodità i critici hanno definito postmoderno. Al di là, tuttavia, di schematiche divisioni temporali, è forte il disagio esistenziale che ci spinge a sentirci giunti alla fine di un ciclo, alla fine di tutto. Lo stesso uomo della strada prova la sgradevole sensazione di essere alla fine della storia. La modernità nella quale erano riposte speranze e utopie è invecchiata troppo in fretta; le stesse utopie legate alla modernità sembrano giunte al capolinea, quelle stesse utopie che, secondo Zygmunt Bauman, «sono nate insieme alla modernità e solo nella modernità hanno potuto sopravvivere»1. Il grido appassionato di Arthur Rimbaud «Bisogna essere assolutamente moderni» appare ormai patetico se da più parti, da filosofi e scrittori, si ribadisce con insistenza l’esistenza di un tarlo che corrode il moderno, insomma si esperisce la crisi della modernità. Crisi di strutture, di oggetti, decadimento e corruzione fisica, ma non solo. Con ironia Luigi Malerba, visitando New York, osserva: «Come invecchia male la modernità», ed ancora, più freddamente: «L’immagine della modernità è già fortemente compromessa, ora è in gioco la sostanza della modernità»2. 1 Zygmunt Bauman, Modus vivendi. Inferno e utopie del mondo liquido, Roma-Bari, Editori Laterza, 2007, p. 111. 2 Luigi Malerba, Città e dintorni, Milano, Mondadori, 2001; la prima citazione si trova a p. 155; la seconda a p. 158.
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Alessandro Gaudio Sfera privata e spazio pubblico nell’idea morselliana di Polis
Il romanzo, a differenza della scienza, non ha mai svalutato i canali attraverso i quali il senso comune stabilisce il proprio contatto con i bisogni dell’uomo, gli oggetti fisici, l’esperienza ordinaria insomma. Esso è destinato a convivere al fianco di un’area viziata dal pregiudizio, dalle false opinioni e dalle distorsioni percettive: si tratta di un’area all’interno della quale l’uomo è maturo per l’errore, così come il romanzo lo è per la possibilità; qui si genera l’occasione di un discorso che, rispetto al senso comune, si svolge altrove, ma che non fa di esso un residuo periferico e abbandonato, proiettandovi una nuova rappresentazione. Romanzo e senso comune, dunque, si sostengono reciprocamente: sono aree che si spartiscono compiti e competenze diverse e che fanno riferimento l’una all’altra, secondo una strategia multipla. In quest’ottica condivisa, il senso comune è una forma di sapere rimossa, uno sfondo animato, ma anche una sostanza malleabile che riceve le nuove figurazioni impresse dal romanzo. Il pensiero romanzesco di Guido Morselli si appoggia, da un lato, su una costruzione scientifica e razionale, che però non assume la fisionomia cognitiva della certezza; dall’altro, insiste su questo tessuto esperienziale che è inevitabilmente parziale e lacunoso. Romanzi quali Il comunista, Roma senza papa e Contro-passato prossimo riconoscono nel senso comune l’interesse e la loro sanzione antropologica e sociale. Ad un certo punto, però, tale processo di riconoscimento termina: il sapere immanente al senso comune che fa da struttura grammaticale e teorica al romanzo trova una sua evidente via di sfogo nel principio dell’azione, in parte mutuando nel romanzesco l’impianto teorico di lavori ben noti a Morselli,
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Stefano Tonon «Quando saremo a Londra ci pianterem la giostra: diremo agli inghilesi che siamo a casa nostra». Il tema della città nell’opera di Luigi Meneghello*
I libri di Luigi Meneghello (1922-2007) sono strettamente legati alla cittadina natale di Malo, sia quelli del filone maladense (Libera nos a malo del 1963; Pomo pero del 1974) che quelli del filone civile (Piccoli maestri del 1964; Fiori italiani del 1976; Bau-sète! del 1988), tanto da fare del paese vicentino un luogo letterario accostabile alla Grado di Biagio Marin e alla Pieve di Soligo di Andrea Zanzotto. Ma rispetto a questi e ad altri autori veneti che con la loro opera celebrarono una lunga fedeltà alla propria terra d’origine, i suoi volumi parlano di Malo dalla prospettiva particolare del «dispatriato», dell’emigrato che, tornando saltuariamente nel paesino lasciato in gioventù, nota più dei compaesani rimasti i cambiamenti in atto, non solo urbanistici, ma anche linguistici e culturali. Meneghello infatti dal 1947 fino quasi alla morte visse in Inghilterra, prima insegnando letteratura italiana all’Università di Reading, località sulla valle del Tamigi, poi dal 1980, trasferitosi a Londra, dedicandosi a tempo pieno allo studio e all’attività di scrittore. L’occasione di un convegno sulla città offre la possibilità di sviluppare alcune considerazioni su un ambito poco studiato nell’autore di Malo, ossia il suo rapporto con la città e più in generale coi luoghi in cui ha vissuto. La materia inglese di Meneghello, legata soprattutto alla sua difficile integrazione nella società e nella cultura anglosassoni, e alla vita accademica di Reading, è emersa dall’officina dello scrittore solo negli anni Novanta, col Dispatrio (1993), un bilancio dell’esperienza inglese, il volume saggistico La materia di Reading e altri reperti (1997) e le Carte * La citazione fa riferimento a una canzonetta dei tempi del fascismo ripresa in Luigi MeneghelLe Carte. Materiali manoscritti inediti 1963-1989 trascritti e ripuliti nei tardi anni Novanta, volume II: Anni Settanta, Milano, Rizzoli, 2000, p. 116. lo,
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Chiara Lungo «Non te la porti tu una città?» Per un testo inedito di Luigi Meneghello
Tra i materiali “extravaganti” accennati da Francesca Caputo in una noticina di una più ricca rassegna del 1988 su Libera nos a malo, si rintracciano anche due brevi testi inediti1. La loro posizione defilata e quasi sommersa tra carte poi confluite in edizioni non tragga però in inganno sul loro valore: in questa sede si cercherà di mostrarne l’interesse, soffermandosi in particolare sullo scritto affidato a un plico di sette fogli dal titolo collettivo Città2. Un primo elemento che senza dubbio incuriosisce è fornito proprio dal tema cittadino, che può risultare quantomeno insolito per uno scrittore che attinge soprattutto dalla “materia paesana” per le sue riflessioni e narrazioni. La città è di norma argomento marginale in Meneghello, e serve principalmente per far risaltare dialetticamente il paese, o per fugaci comparse di taglio descrittivo. Considerata perlopiù negli aspetti antropologici, sociali e soprattutto linguistici, come modello negativo, permette all’autore di dar vita ad alcune delle caratteristiche dicotomie 1 Francesca Caputo, Luigi Meneghello: nuovi materiali per «Libera nos a Malo», in «Autografo», n. 14, giugno 1988, pp. 111-120. In questa sede la studiosa descrive e commenta un nuovo blocco di materiali, composto di quattro cartelle, che colma alcune lacune della prima e cospicua donazione del 1984, con la quale Meneghello inviava a Maria Corti i materiali preparatori di Libera nos a malo, I piccoli maestri, Pomo pero e Fiori italiani (per questa prima donazione si rinvia alla descrizione realizzata da Bianca Garavelli, «Il Fondo Luigi Meneghello», in «Autografo», II, n. 4, febbraio 1985, pp. 75-85). All’interno di una cartella (siglata inizialmente Cartella Reading, e ora cartella n. 5 secondo la numerazione d’archivio da me condotta), nonostante la sintetica annotazione d’autore “Libera Nos” apposta sul margine dall’autore, si trovano materiali che non appartengono alla genesi di quest’opera: 30 fogli mss. riconducibili a Pomo pero e due brevi inediti. 2 Il titolo è scritto da Katia Bleier, inseparabile compagna e preziosa collaboratrice dell’autore, ed è riportato su tutti i fogli. Il secondo testo occupa invece due fogli mss. ed è intitolato Casa: riguarda la cancellata di Villa Marzotto a Trissino, presso Vicenza.
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Monica Davini Un “conversatore” a Milano: Alberto Savinio
«Cette ville devint pour moi le plus beau lieu de la terre [ … ] Milan a été pour moi de 1800 à 1821 le lieu où j’ai constamment désideré d’habiter» Stendhal, Vie de Henry Brulard
Il profondo affetto che lega Alberto Savinio alla città di Milano, eletta a città del proprio destino1, prende forma nel ritratto che ne viene delineato nel volume dedicato al capoluogo lombardo, edito da Bompiani nel 19442: Ascolto il tuo cuore città, pensato come una testimonianza e un omaggio, forse il libro più bello di Savinio. Dunque, un libro per Milano, su Milano, e su tutto, «un libro discorsivo: un «entretenimento»3, avverte subito l’autore, che assume la forma di «un lungo e tranquillo conversare»4. Ma Savinio, rivolgendosi ai lettori, aggiunge un ulteriore avvertimento: un libro «discorsivo» non è un libro minore, ma al contrario un libro maggiore: un libro massimo. Un libro di là dalle grandi luci e dalle grandi ombre, di là dalle vette 1 Così scrive infatti l’autore nel 1951: «Potrei dire il mio affetto per Milano, le ragioni del mio affetto; ma c’è di più: Milano è la città del mio destino» (Alberto Savinio, Città del mio destino, in «Corriere d’informazione», 16-17 luglio 1951, ora in Alberto Savinio, Opere. Scritti dispersi tra guerra e dopoguerra (1943-1952), a cura di Leonardo Sciascia e Franco De Maria, Milano, Bompiani, 1989, p. 1378). 2 Il libro stava per essere licenziato nell’estate 1943, quando i bombardamenti su Milano cambiarono il volto della città. Il volume venne quindi pubblicato nel febbraio 1944. 3 Alberto Savinio, Introduzione ad Ascolto il tuo cuore, città, Milano, Bompiani, 1944, p. 5. 4 Ibidem.
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Alessandro Cinquegrani Utopie di disfilassi nella città del futuro. Ipotesi su alcuni racconti di Primo Levi
Scrive Konrad Lorenz, il padre dell’etologia comparata, commentando il primo e più grave degli Otto peccati capitali della nostra civiltà, la sovrappopolazione: L’accalcarsi di molti individui in uno spazio ristretto non solo provoca indirettamente, attraverso il progressivo dissolversi e insabbiarsi dei rapporti fra gli uomini, vere e proprie manifestazioni di disumanità, ma scatena anche direttamente il comportamento aggressivo. Molti esperimenti hanno dimostrato che l’aggressività intraspecifica viene incrementata se gli animali sono alloggiati in gran numero nella stessa gabbia. Chi non ha conosciuto di persona la prigionia in tempo di guerra o analoghe aggregazioni forzate di molti individui, non può valutare a quale livello di meschina irritabilità si possa giungere in tali circostanze. E proprio se uno cerca di controllarsi impegnandosi a dimostrare quotidianamente e in ogni momento un comportamento cortese, cioè amichevole, verso altri uomini che tuttavia non sono amici, la situazione diventa un vero supplizio. La generale scortesia che si osserva in tutti i grandi centri urbani è chiaramente proporzionale alla densità delle masse ammucchiate in un dato luogo. Punte massime spaventose vengono raggiunte, ad esempio, nelle grandi stazioni ferroviarie o nel Bus-Terminal di New York1.
Era il 1972 quando Lorenz scriveva queste parole sulle grandi città moderne, e in questi quarant’anni le metropoli si sono pericolosamente moltiplicate, rendendo quanto mai attuale la profezia che chiude il capitolo: La sovrappopolazione provoca indirettamente tutti quegli inconvenienti e quei fenomeni di decadenza che saranno l’argomento dei prossimi sette capitoli: la credenza che attraverso un adeguato ‘condizionamento’ si possa formare un nuovo 1
Konrad Lorenz, Gli otto peccati capitali della nostra civiltà, Milano, Adelphi, 1974, pp. 28-29.
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Angela Di Fazio Questione di tranquillità Il profilo urbano nei racconti fantastici di Primo Levi
A precedere – o a prevenire? ci chiediamo – lo sbarco lunare del 1969, troviamo una «nota in mala fede» dello scrittore Primo Levi, prestatosi, nel racconto Visto di lontano1, alla decifrazione di un fantastico rapporto selenitico, relativo al monitoraggio alieno delle forme di attività terrestri e – cosa più importante – alla formulazione di ipotesi pseudo-scientifiche sulla natura delle stesse. In un evidente ribaltamento di prospettiva, le curiosità vampiriche della guerra tecnologica russo-americana, con le rispettive speculazioni di scienziati e tecnici prezzolati, genia invisa al nostro, vengono proiettate sul secondo termine di una relazione di alterità, quella tra la Terra e la Luna, che, pur trovando una risoluzione più o meno pacifica nel secolo scorso, concerne tuttavia il sogno poetico e l’istanza autoriflessiva dell’umanità, dal greco Luciano in avanti. La città, quale catalizzatore di forze in atto, risulta qui centro nevralgico di un’operazione culturale di verifica e ridefinizione, mediante l’ottica straniata di un Ignoto osservatore lunare, della potenzialità di sviluppo, apparentemente inarrestabile, delle moderne società industriali. Fenomeni come l’accrescimento urbano, il congestionamento del traffico, l’inquinamento atmosferico, ne sono i caratteri fondamentali, rilevati per mezzo di variazioni di luminosità, che intervengono a fissare quelle progressioni e regressioni periodiche, le quali, in mancanza del consueto riferimento lunare, sanciscono l’alternanza del giorno e della notte. Come a dire, la superficie terrestre tramutata in nuovo spazio siderale con fari, lampioni, fanali, insegne al neon e lampeggianti a sostituire le stelle. La percezione dell’agglomerato urbano 1 Primo Levi, Visto di lontano, in Vizio di forma, Torino, Einaudi, 1971; ora in P. Levi, Tutti i racconti, Torino, Einaudi, 2005, pp. 211-220.
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Franco Tomasi - Mauro Varotto «Non sono un fottuto flâneur»: Vicenza diffusa ne I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan
1. Geografia letteraria: l’approccio e il progetto Questo intervento, assieme a quelli dedicati a Goffredo Parise di Emanuele Zinato e di Stella Spedo che compaiono in questo stesso volume, è pensato come parte di un discorso comune e primo esito di un progetto di ricerca interdisciplinare – avviato presso l’Università degli Studi di Padova – che intende sperimentare nuove modalità di confronto ed integrazione tra gli strumenti interpretativi della critica letteraria e della geografia umanistica. Già in tempi recenti, del resto, si sono registrati alcuni interessanti tentativi di far reagire le pratiche ermeneutiche delle due discipline; si pensi, ad esempio, per il settore geografico, alle riflessioni geoletterarie anglosassoni introdotte in Italia da Fabio Lando e dalla rivista sperimentale Laboratorio di Geografia e Letteratura, esperienze significative ma conclusesi, in realtà, negli anni Novanta1; oppure, sul fronte della critica letteraria, alla rinnovata attenzione teorico-critica posta alla categoria dello spazio quale elemento costitutivo del discorso letterario, ben oltre il ruolo e la dimensione che gli erano stati attribuiti nei decenni precedenti 2. 1 Cfr. Fatto e finzione. Geografia e letteratura, a cura di Fabio Lando, Milano, ETASlibri, 1993; «Laboratorio di Geografia e Letteratura», 3 voll., 1996-1998; cfr. anche M. De Fanis, Geografie letterarie. Il senso del luogo nell’alto Adriatico, Roma, Meltemi, 2001. 2 Per limitarci ad alcuni interventi recenti cfr. Bernard Westphal, La Géocritique. Réel, Fiction, Espace, Paris, Editions de Minuit, 2007; Vincenzo Bagnoli, Lo spazio del testo. Paesaggio e conoscenza della modernità letteraria, Bologna, Pendragon, 2003; «Studi Novecenteschi» 70, 2005, numero monografico dedicato al tema Letteratura e luogo; «Moderna», IX, 2007, numero monografico dedicato al tema Letteratura e spazio; Giulio Iacoli, La percezione narrativa dello spazio: teorie e rappresentazioni contemporanee, Roma, Carocci, 2008; Giancarlo Alfano, Paesaggi mappe tracciati. Cinque lezioni su Letteratura e Geografia, Napoli, Liguori, 2010.
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Emanuele Zinato Parise a New York: gli oggetti della mutazione
I. I reportages metropolitani di Goffredo Parise si inaugurano negli anni Cinquanta con una sequenza di interventi dedicati a Parigi1, città moderna per antonomasia, per concludersi negli Ottanta con Tokio, icona della città liquida e postmoderna. A metà strada stanno gli scritti newyorkesi di cui mi occuperò brevemente in questo intervento. Nel novembre del 1975 Parise è raggiunto a New York dalla notizia dell’assassinio di Pasolini. Nei tre mesi successivi, realizza otto articoli, pubblicati sul «Correre della Sera» e poi riuniti, con un’importante introduzione, in un volumetto dal titolo New York uscito nel 1977 nelle edizioni del Ruzante 2: si tratta, nel segno di Pasolini, di uno straordinario sondaggio sulla mutazione italiana (e veneta), vista dalla specola statunitense. Il concetto-termine «mutazione», di origine biologico-genetica, è stato utilizzato con accezione socioculturale da Montale prima del “boom” economico e poi da Pasolini negli anni Settanta per definire la trasformazione antropologica degli italiani durante l’irruzione della cultura dei consumi. Negli anni più recenti, è impiegato in senso più neutro e descrittivo da 1
Cfr. Ilaria Crotti, 1955: Goffredo Parise reporter a Parigi. Con due racconti, Padova, Il Poligra-
fo, 2002 2 Il reportage è stato successivamente incluso nel secondo tomo delle Opere di Parise pubblicato nel 1989 da Mondadori nella collezione dei “Meridiani” a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello e in Odore d’America, edito sempre da Mondadori nel 1990. In entrambe le edizioni non compare la premessa dell’Autore e l’aggiunta fatta da Parise all’articolo finale, dal titolo La nuova cultura popolare americana. Ora gli otto articoli apparsi sul «Corriere della sera», comprensivi della premessa autoriale, della nota aggiuntiva e delle lettere indirizzate da Parise a Vittorio Bonicelli durante il primo viaggio negli Stati uniti del 1961 sono disponibili nell’edizione curata da Silvio Perrella per Rizzoli, 2001 col titolo New York.
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Stella Spedo La Tokio di Parise: lo straniamento dello stile
L’eleganza è frigida, ultimo reportage di Parise, nasce da un viaggio in Giappone compiuto dall’autore nel settembre del 19801. Si tratta di un’opera difficilmente ascrivibile ad un preciso genere letterario, e del resto lo scrittore vicentino non ha mai considerato romanzo e reportage, i due generi da lui maggiormente praticati, come delle entità del tutto distinte. Infatti già in un’intervista del 1968 dichiara che per lui il reportage non è altro che «un romanzo, con una situazione in cui lo scrittore è il protagonista»2. In effetti nel suo ultimo resoconto di viaggio Parise riesce a raggiungere un alto grado di compenetrazione tra i due generi attraverso un mutamento della figura del narratore. Qui infatti la voce narrante non è la prima persona autoriale, ma viene delegata ad una fittizia terza persona, ad un Marco Polo, emblema del viaggiatore in Asia; trovando così, come sottolineato da Ilaria Crotti, «una mediazione espressiva esemplare, situata com’è tra l’urgenza di una parola individuale e il distacco da un’alterità espressiva»3. È evidente che la scelta di Marco Polo non è casuale: infatti già in Cara Cina il viaggiatore veneziano è presentato come un modello ideale di viaggiatore, dal momento che i suoi strumenti conoscitivi sono «gli occhi per vedere, il cervello per riflettere e infine la propria persona con tutto quanto possiede di lampante ed oscuro»4. 1 Il viaggio viene narrato in una serie di articoli usciti sul «Corriere della Sera» tra il gennaio 1981 e il febbraio 1982 ed in seguito raccolti in volume con il titolo L’eleganza è frigida, uscito presso Mondadori nel novembre 1982 Ora in Goffredo Parise, Opere, volume secondo, a cura di Bruno Callegher e Mario Portello, Milano, Mondadori, 1989 2 Manlio Cancogni, L’odore casto e gentile della povertà. Conversazione con Goffredo Parise, «La fiera letteraria», XLIII, 34, 22 agosto 1968, p. 16 3 Ilaria Crotti, Tre voci sospette: Buzzati, Piovene, Parise, Milano, Mursia, 1994, p. 183 4 Goffredo Parise, Cara Cina, Milano, Longanesi, 1966, ora in Goffredo Parise, Opere, volume secondo, cit., p. 716
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Vito Santoro Goffredo Parise a New York
Nel 1975 un lungo soggiorno – tre mesi – a New York fornisce a Goffredo Parise lo spunto per otto articoli, pubblicati l’anno successivo sulle colonne del «Corriere della sera» e poi riuniti in un unico volumetto dal titolo appunto New York. Finalmente lo scrittore riesce a scrivere un reportage sull’America. Aveva già tentato di farlo nel 1956, quando le truppe americane della Setaf giunsero a Vicenza. I soldati yankees, inizialmente poco numerosi e rintanati nelle caserme della ex Gil, dove restarono invisibili per qualche giorno, diventarono una presenza così costante e pervasiva nel territorio, da modificare, se non stravolgere, la routine quotidiana nonché l’immaginario dei locali. Anche Goffredo fu colpito da questo fatto, ma non riuscì a riportarlo sulla pagina secondo i moduli propri della scrittura cronachistica, bensì secondo quelli del racconto. Nacque così Gli americani a Vicenza, dove lo spunto naturalistico di partenza sfocia in quella cifra visionaria e funerea che aveva caratterizzato i suoi primi romanzi (pensiamo, ad esempio, alla descrizione del funerale del mendicante Gatto, il primo di tipo americano celebrato a Vicenza). È lo stesso Parise a definire questo testo dieci anni dopo, «una intuizione figurativa della funebre spettacolarità di oggetti americani (uomini e cose) che vidi cinque anni più tardi»1, alludendo al suo primo viaggio negli States, avvenuto nel marzo-aprile del 1961. In quei mesi, infatti, in compagnia del regista Gian Luigi Polidoro, dietro commissione del produttore Dino De Laurentiis, lo scrittore aveva percorso avventurosamente coast to coast 1 Goffredo Parise, Opere, vol. I, a cura di Bruno Callegher e Mauro Portello, Milano, Mondadori, 1987, p. 1616.
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Gilda Policastro IL PRETESTO DEI LUOGHI NELLA NARRATIVA APOCALITTICA CONTEMPORANEA: LA ROMA DI MALERBA E PINCIO
Alle «stagioni dell’apocalisse» si dedicava, negli anni Novanta, uno studio sul passaggio, in alcuni autori fondativi della modernità, dall’illusione mimetica alla percezione dell’oscuro fondo di indicibilità del reale. Il tema, originalmente declinato, divenne poi quasi di moda: una specie di passaggio obbligato nelle indagini successive relative alle narrazioni contemporanee (e non solo)1. Si ripresenta così a un convegno di messa a punto teorica della categoria di postmoderno, all’interno di un intervento dedicato alla «letteratura della guerra fredda»2: in realtà, della cosiddetta letteratura apocalittica, si rinvenivano, entro l’area tematica più ampia, sparuti esempi, e, anzi, si poneva l’accento, in quella circostanza particolare (invecchiata rapidamente, come diremo), su come, dopo gli anni Settanta, lo scenario della fine del mondo (o della post-apocalissi, meglio), tranne rare eccezioni (ad esempio La più grande balena morta della Lombardia di Aldo Nove3), paresse aver perso mordente narrativo, in concomitanza col ridursi degli spazi letterari per il fantastico tout court in favore di modalità rappresentative sempre meno fictional e sempre più mimetiche del mondo contemporaneo4. 1 Il libro di Giancarlo Mazzacurati, Stagioni dell’apocalisse. Verga, Pirandello, Svevo, uscì postumo, nel 1998 (Torino, Einaudi). A seguire, si vedano almeno il saggio di Bruno Pischedda, La grande sera del mondo. Romanzi apocalittici nell’Italia del benessere, Torino, Aragno, 2004, e gli atti del convegno Apocalissi e letteratura, a c. di Ida De Michelis, Roma, Bulzoni, 2005. 2 Ci riferiamo all’intervento di Florian Mussgnug, in uscita negli atti del convegno Che fine ha fatto il Postmoderno?, a c. di Martine Bovo, Ana Maria Binet, Enzo Neppi, Grenoble, 6-7 maggio 2010. 3 Aldo Nove, La più grande balena morta della Lombardia, Torino, Einaudi, 2004. 4 In realtà nel breve volgere di qualche anno, se non di alcuni mesi appena, il tema apocalittico sarebbe invece diventato di gran moda tra i narratori “generazionali”, che lo avrebbero eletto a scenario privilegiato di rappresentazione, sia pur con esiti molto diversi l’uno dall’altro: si va dall’apologo di Bambini bonsai di Paolo Zanotti (Milano, Ponte alle Grazie, 2010), l’esempio di miglior qualità letteraria, ai meno convincenti Nina dei lupi (Venezia, Marsilio, 2011), di Alessandro Bertante
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Carmen Sari «Un modo inedito di stare al mondo». Venezia raccontata da Tiziano Scarpa
Nelle opere di Tiziano Scarpa aventi quale leit-motiv Venezia si nota come quest’ultima assurga a cifra metaforica di un modo inedito di stare al mondo, ossia di una modalità altra di vivere la realtà urbana, la quale sembra fondersi con la dimensione umana insita in ognuno dei suoi abitanti, fino a formarne un tutt’uno. La città lagunare, prima di ergersi ad anomalia urbanistica, se confrontata con altre località, può definirsi un capriccio dell’Essere, un luogo in cui l’esistenza deve reinventarsi quotidianamente. Ripercorrendo in ordine cronologico la struttura dei testi significativi dello scrittore veneziano, si evince non solo una presenza ossessiva ed invasiva del tempo e dell’acqua, ma anche un bipolarismo fra il fascino decadente sprigionato dalla maestosità dei palazzi edificati lungo il Canal Grande e la corporalità, spesso frantumata, di personaggi ed oggetti. In Occhi sulla graticola, romanzo d’esordio, edito nel 1996 presso la casa editrice torinese Einaudi, accanto ad un’ossessione per il sesso, traspare l’esigenza di ricercare una verità che sembra sommersa dalle acque salmastre della laguna. Tale necessità si esplica sin dalla scena di apertura, che costituisce la sola in cui sopravviva una dinamica di eventi, in quanto nelle pagine successive, la voce narrante è tutta protesa ad esporre le relative cause e conseguenze. La vicenda si svolge sul Canal Grande, uno dei simboli stereotipo della città lagunare, costeggiato da storici ed imponenti edifici raffigurati nelle migliaia di cartoline souvenir rituali per qualsiasi tipologia di turista. Il protagonista, Alfredo, laureando in Lingue e Letterature straniere, con lo scopo di redigere la tesi di laurea sulle “brutte figure” delineate da Dostoevskij nei suoi romanzi, sale su un vaporetto e si posiziona nello spazio aperto per fumare, in tutta tranquillità, una sigaretta. Improvvisamente,
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Alessio Giannanti Immagini della città nella trilogia Memorie del mondo sommerso di Corrado Alvaro
Nella narrativa di Corrado Alvaro l’immagine della città contribuisce a definire quel binomio oppositivo paese vs. città che, secondo un’inveterata formula critica di Pietro Pancrazi, costituisce i due referenti (anche in termini simbolici) attraverso cui il personaggio introietta il dissidio tra l’antico «idillio paesano» e il moderno «labirinto», ovvero quella perturbante esperienza del moderno che deriva dall’incontro con la «babele cittadina»1. Come è stato più volte osservato, da questa dualità di esperienze sembra trarre la principale linfa tutta la sua produzione, non solo quella narrativa, se è vero quanto sostiene Leonardo Sciascia circa l’azione di una analoga prospettiva negli scritti saggistici 2. Nel dopoguerra Alvaro cerca di ridefinire su questi due imprescindibili binari il nucleo di una poetica “nuova”, che non può non tenere conto dalla tragica e ancora fumante lezione della storia, degli effetti nefasti prodotti dal ventennio fascista nella società italiana. L’autore concepì, già durante gli ultimi mesi del conflitto, l’idea di un ciclo romanzesco, che avrebbe dovuto intitolarsi Memorie del mondo sommerso. Come è noto, il progetto si interruppe dopo il primo romanzo, L’eta breve del 19463, che di fatto ha anche sancito il definitivo blocco nar1 Si veda Pietro Pancrazi, Corrado Alvaro nel labirinto [1934], in Scrittori d’oggi. Serie III, Bari, Laterza, 1942, pp. 78-84: la citazione è a p. 80. Il capitolo del libro corrisponde alla recensione di Corrado Alvaro, Il mare, Milano, Mondadori, 1934. 2 Leonardo Sciascia, Leonardo Sciascia scrittore editore, ovvero La felicità di far libri, a cura di Salvatore Silvano Nigro, Palermo, Sellerio, 2003, p. 140. Nel risvolto di copertina, che Sciascia ha scritto per la riproposta di Corrado Alvaro, L’Italia rinunzia? (Palermo, Sellerio, 1986), si sottolinea come nel pamphlet permanga (allo stesso modo della narrativa) questa peculiare modalità di guardare il mondo e l’«esperienza collettiva e storica» della guerra, con gli occhi del «paesano» e del «contadino». 3 Corrado Alvaro, L’età breve, Milano, Bompiani, 1946.
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rativo negli anni che precedono la sua morte. Soltanto il ritrovamento, tra le carte inedite, di Mastrangelina e Tutto è accaduto4, gli altri due romanzi previsti dal ciclo, e la loro pubblicazione postuma (1960 e 1961)5 ci hanno permesso di conoscere nella sua, supposta, integrità il piano dell’opera. Con il ciclo Memorie del mondo sommerso Alvaro intendeva mettere al centro del racconto la vita di un personaggio, Rinaldo Diacono, nel suo passare dall’infanzia alla piena maturità, dalle vicende familiari e paesane alla partecipazione agli eventi della storia più recente. Il tema (quasi onnipresente in Alvaro) del provinciale inurbato viene declinato, in queste opere, secondo una nuova volontà, maggiormente analitica, di indagare il fenomeno attraverso le varie età dell’uomo e il suo contatto con i diversi ambienti sociali e geografici. Infatti, i tre romanzi costituiscono altrettante tappe di due diversi tipi di movimento: sia quello in avanti (sebbene non lineare) della crescita di Rinaldo: infanzia, adolescenza e maturità; sia quello, per così dire, a cerchi concentrici che porta il personaggio dal piccolo paese calabrese alla città di provincia e infine a Roma, centro del potere politico e dei destini della nazione. La sovrapposizione tra la storia intima del protagonista e l’esperienza collettiva di un’intera nazione, nelle intenzioni di Alvaro costituiva l’occasione per una riflessione, in ambito narrativo, sulla storia degli ultimi cinquant’anni della società italiana, al pari di quanto andava facendo, con inaspettata lucidità politica, nel suo pamphlet L’Italia rinunzia?6, ma è facile scorgere, altresì, la volontà di interrogare la sua personale esperienza di intellettuale e di uomo meridionale (come dimostra il massiccio travaso di materiali autobiografici e un rapporto di forte intertestualità con la prosa Memoria e vita7, che lo scrittore aveva dedicato al ricordo del padre e all’infanzia in Calabria). L’età breve – l’unico della trilogia ad essere licenziato dall’autore – è il romanzo di formazione del piccolo Rinaldo Diacono, la cui vicenda umana è ambientata tra l’istituto religioso vicino a Roma, dove è mandato a studiare per riscattare dalla povertà la propria famiglia, e il suo paese d’origine, Corace, al quale dovrà fare ritorno in seguito all’infamante espulsione dal collegio. Alvaro mette in scena la piccola borghesia rurale che cerca attraverso l’istruzione e la cultura una emancipazione sociale dalla miseria contadina. Si descrive poi la particolare situazione di chi come 4 5 6 7
Corrado Alvaro, Mastrangelina, a cura di A. Frateili, ivi, 1960. Corrado Alvaro, Tutto è accaduto, a cura di A. Frateili, ivi, 1961. Corrado Alvaro, L’Italia rinunzia?, ivi, 1945. Cfr. Corrado Alvaro, Memoria e vita, in Il viaggio, Brescia, Morcelliana, 1942, pp. 7-39.
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immagini della città nella trilogia memorie del mondo sommerso
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Rinaldo, una volta emigrato, si trova a vivere la condizione lacerante di una doppia estraneità: sia rispetto alla «babele cittadina», che non gli apparterrà mai del tutto, relegandolo al perenne status di “diverso”; sia verso il proprio mondo di provenienza, rispetto al quale, dopo la bruciante esperienza della modernità, non è più possibile una reale riconciliazione; il giovane è ormai condannato ad essere uno straniero in patria. E infatti una volta ritornato in paese, Rinaldo è oggetto delle invidie dei paesani; la sua famiglia – che si è resa colpevole di aver sfidato l’immobilismo classista, portando «la rivoluzione in paese» – cerca di nascondere l’allontanamento dal collegio ed esaspera la conflittualità, lanciando nuove sfide, con una messa in scena ridicola che vede l’ostentazione di Rinaldo nei panni del «piccolo dotto». Ecco il senso del titolo: l’età breve è una stagione di felicità e spensieratezza che Rinaldo ha ormai perduto per sempre: l’arrivismo della famiglia lo ha lanciato in una corsa al successo che non ammette requie e gli impone una crescita dolorosa. L’epilogo del romanzo è infatti segnato da un precipitare degli eventi che determina una nuova separazione: Rinaldo viene costretto dal padre ad abbandonare Corace perché, nel gioco perverso delle menzogne, questi vuol fare credere ai paesani che il figlio è stato chiamato in città a compiere studi particolari sotto un’«alta protezione». L’aspetto più interessante di questa prova narrativa è il tentativo dell’autore di rivedere le proprie corde all’interno di un filone della letteratura europea e italiana (la centralità del tema dell’adolescenza è stato ben individuata da Lorella Giuliani in un recente saggio8) che nella tassonomia morettiana è chiamato «tardoromanzo di formazione», ovvero quella fase conclusiva del bildungsroman, in cui si intravvede la moderna crisi dell’individuo, «più vulnerabile e riluttante a crescere»9. Tutta la vicenda di Rinaldo può essere vista, infatti, come una serie di traumi e di imposizioni a crescere, a diventare uomo, che egli subisce dall’esterno senza mai accettarle (lo stesso finale corrisponde piuttosto ad una cacciata che ad una fuga). E tuttavia le ribellioni di Rinaldo non sono sempre regressive (nel senso di un rifiuto a crescere) ma vi è una tendenza anche 8 Cfr. Lorella Anna Giuliani, Alvaro, un caso critico. “L’età breve” e la costanza della ragione, in «Filologia antica e moderna», xvii, 32, 2007, pp. 93-109. 9 Franco Moretti, Il romanzo di formazione [1987], Torino, Einaudi, 1999, p. 262. Il capitolo sulla fase conclusiva del Bildungsroman e le sue proiezioni novecentesche, fu aggiunto da Moretti nella seconda edizione. Si veda «Un’inutile nostalgia di me stesso». La crisi del romanzo di formazione europeo, 1898-1914: ivi, pp. 257-73) che era precedentemente apparso in «Nuova corrente», 37, 1990, pp. 163-84. La MOD ha dedicato all’argomento un convegno (Firenze, 6-8 giugno 2005), poi confluito nel volume Il romanzo di formazione nell’Ottocento e nel Novecento, a cura di M.C. Papini, D. Fioretti, T. Spignoli, Pisa, ETS, 2007.
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a trasgredire – disubbidendo ai precetti dei religiosi e al volere del padre – che conduce nella direzione contraria, di una autonoma maturazione. Regressione vs. maturazione – che è una evidente trasposizione della dualità paese vs. città, sul piano dell’interiorità del personaggio – non sono soltanto i poli di una contraddizione in atto nel giovane Rinaldo, ma anche le opposte direzioni in cui la vicenda muove: le due leve che azionano la macchina narrativa dell’Età breve. Infatti il percorso di Rinaldo assomiglia a un movimento basculante in avanti e indietro (Morace ha parlato di «moto pendolare tra regressione e fortificazione»10), che è tipico di un personaggio che non cresce in forma lineare (secondo i presupposti “progressivi” del romanzo di formazione tradizionale) ma ristagna dentro un mondo di sogni e di angoscia del vissuto. Il narratore dell’Età breve dimostra scarsa attenzione al dato ambientale, che riemerge soltanto come un contrappunto descrittivo in alcune scene topiche. Tutto viene interiorizzato dalla parabola del protagonista; e se è vero che le contrapposizioni, di cui si è detto, si caratterizzano spesso in senso topologico (tra il paese di Corace e tutto quello che ne sta al di fuori) la città è più evocata che visualizzata e più che costituire una entità concreta, assurge a simbolo, a categoria morale. L’«andare in città» è per Rinaldo, innanzitutto l’esperienza del distacco, e quindi “città” è anche il lontano collegio, nella sua dimensione di segregazione e rinuncia, di separazione dal mondo familiare. Le effettive (fugaci) immagini della città sono due viaggi nella vicina Roma, che il protagonista associa all’idea della signora Guglielmina, una donna che lo mette in contatto con un moderno modello muliebre ben lontano dalla madre o dalle matrone conosciute in paese. La città, che si offre con la verzura primaverile cresciuta tra le rovine, rappresenta un contraltare all’universo concentrazionario del collegio, un’ondata di libertà dove poter trovare un senso agli istinti repressi e intraprendere quel viaggio alla scoperta dell’amore, che sarà al centro del romanzo successivo. Infatti al suo ritorno in collegio Rinaldo troverà il coraggio di tentare un (casto) approccio a una coetanea, la cui finestra si affaccia sul collegio, determinando così lo scandalo che lo ricondurrà in paese.
10 Aldo Maria Morace, Corrado Alvaro, in Aa.Vv., Storia generale della letteratura italiana, diretta da N. Borsellino e W. Pedullà, vol. XI - Il Novecento, Milano, Motta, 2000, p. 270. Il profilo è stato successivamente ripubblicato in A.M. Morace, Orbite novecentesce, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 2001, pp. 15-49. Analogamente Merola, riferendosi alla centralità della sessualità nella «dimensione identitaria» del personaggio, parla di una «concomitanza [ … ] tra la ripugnanza e l’attrazione», in Nicola Merola, Una discesa nel «mondo sommerso», in «Revista de la Societad Española de Italianistas», 2, 2004, p. 104.
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Nelle altre due opere del ciclo si può ritagliare con analogo profitto il tema della città e della sua dimensione perturbante nell’educazione sentimentale e nella crescita sociale del personaggio principale. Tuttavia occorre ribadire, preliminarmente, quanto la natura di opere incompiute e non licenziate dall’autore debba farci muovere con cautela critica, tanto più che i testi sono stati restituiti con un assetto filologico a dir poco traballante, come ebbe modo di denunciare per primo Armando Balduino, nella sua monografia del 1965, innescando un’aspra polemica con il curatore delle opere postume alvariane: Arnaldo Frateili11. La meritoria attività della Fondazione Corrado Alvaro fa ben sperare che, dopo una annosa questione legale, si possano finalmente raccogliere gli autografi e renderli disponibili alla comunità degli studiosi per uno studio filologicamente orientato – a questo punto non più rimandabile – dei due romanzi in questione. Il vaglio ecdotico, come ho sostenuto in altra sede12, potrebbe, tra l’altro, rendere giustizia all’ultimo Alvaro e avvalorare la tesi di una presenza crescente di elementi sperimentali, di innovazioni stilistiche e strutturali che ribalterebbe il giudizio su quanto la critica ha segnalato in Mastrangelina e Tutto è accaduto come uno stadio ancora embrionale, scorgendo dietro la sentenza onnicomprensiva di incompletezza il tentativo di Alvaro di ripensare la propria narrativa, alla ricerca di una sorta di transgenere letterario, cioè di una maniera romanzesca che tenti una qualche conciliazione tra la tensione al cosiddetto romanzo puro e la chiara volontà di utilizzare stili e temi di natura saggistica (come del resto dimostrerebbero le pagine diaristiche del dopoguerra). Mastrangelina, il cui titolo è ricavato dal nome della sorellastra del protagonista, comincia proprio dove era finito L’età breve, con Rinaldo che lascia il paese e va in giro per il mondo in cerca di fortuna. Gran parte del romanzo è ambientato in una cittadina di provincia, di nome Turio, durante l’anno 1914 – anche se vi sono altre brevi peregrinazioni a Napoli 11 Sulla questione si veda Armando Balduino, Corrado Alvaro [1965], seconda edizione riveduta e ampliata, Milano, Mursia, 1972, p. 145 e la nota 24, p. 207. Lo studioso parlando di Tutto è accaduto (ma il giudizio è ancor di più pertinente a Mastrangelina) sostiene che «sarebbe forse arrischiato dare un giudizio troppo minuzioso, e magari ingiusto insistere e discutere su singoli difetti, tanto più che esistono buoni motivi per credere che il curatore l’abbia dato alle stampe in modo piuttosto discutibile e arbitrario». Il curatore dei romanzi rispose alle accuse di Balduino in Arnaldo Frateili, Scrupolo di filologo, in «La Fiera Letteraria», 16 maggio 1965, p. 7, confermando sostanzialmente le perplessità filologiche avanzate e confessando anche che l’editore Bompiani non riuscì a vincere le resistenze del fratello dell’autore, don Massimo Alvaro, il quale non acconsentì che si lavorasse sulle redazioni autografe ma mandò dalla Calabria delle trascrizioni dattilografe degli originali. 12 Alessio Giannanti, Per un avantesto alvariano. “L’Età breve”, Roma, Aracne, 2004, pp. 17-19.
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e in città, non meglio precisate, all’estero e nel settentrione. Un narratore omodiegetico segue il protagonista nel suo sofferto e quasi picaresco percorso di crescita, fino allo scoppio della guerra, in una sera del maggio 1915, quando nell’oscuramento della città Rinaldo vede i soldati con i «fucili irti» che partono per andare a combattere al fronte. In Mastrangelina la città è il tramite della definitiva maturazione sentimentale, dapprima nella contrizione moralistica che l’eduzione clericale è riuscita ad introiettare nel ragazzo – che adesso ripete a sé stesso di voler sperimentare il «male», senza però riuscirvi fino in fondo – e, poi, nella dimensione alienata della mercificazione dei corpi, del sesso a pagamento nelle stanze anonime dell’albergo Pitagora. Assistiamo al ritratto impietoso degli appetiti meschini della provincia meridionale, la quale vive con contraddizione (e forse vergogna) il mito di una modernità, che consiste, quasi esclusivamente, nella libertà dei costumi, nell’esibizione del lusso e nella brama di possesso. Chi, come Rinaldo, ha tagliato le proprie radici ed è uscito dal paese sa che non è più possibile tornare indietro, perché ciò equivarrebbe ad una sconfitta. E al ricordo imbarazzato della miseria paesana si tenta di sostituire l’immersione nei facili piaceri di una città «malsana», in una «corruzione della fantasia» che è foriera di altrettanto cocenti delusioni, come dimostra la scoperta di Rinaldo dell’impossibilità di un rapporto felice con la donna: il motivo d’indagine che programmaticamente Alvaro aveva messo al centro di questa narrazione. La città è diventata con più evidenza il luogo-l’agente di uno sradicamento, di una inappartenenza che costituisce il tarlo incessante dello choc da esilio. In questa opera si avvia quel graduale passaggio dalla biografia (o autobiografia) del personaggio Rinaldo all’indagine sulla intera società italiana: come ha osservato Balduino, Alvaro con «fugaci ma acutissimi accenni al dilagante dannunzianesimo e al falso e confuso nazionalismo» vuole risalire alle cause della storia più recente, mettere sotto la lente d’ingrandimento quel «sostrato» culturale e morale che «avrà come sbocco immediato l’intervento e porterà più tardi al fascismo»13. Tutto è accaduto è il romanzo della maturità di Rinaldo Diacono. Lasciato sedicenne in Mastrangelina, Rinaldo abita adesso nella capitale ed è diventato un intellettuale («maestro di regia») stravagante e inquieto che, proprio a seguito di alcune sue esternazioni di dissenso nei confronti del regime mussoliniano, ha riscosso l’interesse e l’ammirazione ipocrita dei salotti dell’alta società romana, collusi con il fascismo. L’arco cronologico 13
A. Balduino, Corrado Alvaro, cit., p. 135.
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compreso dalla narrazione va dagli anni Trenta fino alla caduta del regime fascista e la Liberazione della città, con la descrizione di episodi e situazioni che riprendono quelle vissute direttamente dall’autore. In Tutto è accaduto l’esperienza della città non è più riferibile alla dimensione esistenziale del singolo protagonista, ma costituisce la polis deprimente di una forma di alienazione sociale, di un obnubilamento delle coscienze che ha il suo sconcertante trionfo con il regime fascista. L’indignazione morale che caratterizza molte pagine del diario Quasi una vita (la cui natura tuttavia non si esaurisce in un avant-texte delle opere di finzione ma ha ampi margini di autonomia) e il congiunto senso di impotenza e annichilimento trovano in queste pagine un corrispettivo quasi letterale14. Come già era per Mastrangelina, nell’erotismo imperante della città Alvaro vede il segno di una corruzione morale, che qui acquista una più ampia valenza sociale, quella di una famelicità che porta gli individui a commettere ogni genere di compromesso e di asservimento al potere. Rispetto a questo mondo, che pure ha iniziato a frequentare, Rinaldo non si fa integrare e anzi si ribella non già per un eroismo inesistente o per consapevolezza politica, ma per una naturale predisposizione, che ha fortificato nelle dolorose esperienze del passato, fatta di orgoglio e istintiva diffidenza. In quest’opera si realizza un forte rinnovamento di temi e stile, al punto che si è parlato di «romanzo di costume» e di «romanzo saggio». I molti aneddoti raccontati servono ad introdurre una lucida disamina del carattere degli italiani ed a denunciare, senza mezzi termini, le connessioni tra fascismo, borghesia e cattolicesimo. La Roma di Tutto è accaduto è quindi luogo dell’azione politica subìta coercitivamente, nei suoi nefasti effetti, ma offre anche la possibilità ad un intellettuale del sud (il protagonista è evidentemente un alter ego dell’autore nel suo rapporto con il fascismo) di confrontarsi e opporsi al divenire della storia, magari nei modi di quella dissimulazione onesta (che fu dello stesso Alvaro) con la quale Rinaldo tenta di recuperare dal passato la lena per una resistenza civile che arma di nuovo senso la sua esistenza. Un passato che, se non può essere scisso dai traumi di una crescita dolorosa, tuttavia sembra per il protagonista assurgere, mano a mano, ad una rivendicazione orgogliosa di una condizione di alterità non accondiscendente. 14 Corrado Alvaro, Quasi una vita. Giornale di uno scrittore, Milano, Bompiani, 1950. Sui rapporti di intertestualità tra il ciclo romanzesco e il diario, a più riprese segnalati dalla critica alvariana, si veda l’utile intervento di Carla Peragallo, L’officina di Alvaro. «Quasi una vita» e dintorni, in «Archivi del nuovo. Notizie di Casa Moretti», 4/5, 1999, pp. 69-100, che attinge anche da appunti inediti conservati presso l’Archivio Bompiani.
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Finita la guerra, si può dire che anche la nostra cultura letteraria, come l’intera società italiana, si è improvvisamente scoperta moderna. Corrado Alvaro non trova nella modernizzazione molte ragioni di entusiasmo. Per niente provinciale, anzi ben consapevole della nuova situazione in cui si trova la cultura italiana, in uno dei suoi ultimi articoli dal titolo Cacciatori di idee, apparso sul «Corriere della Sera» il 7 gennaio del 1956, usa persuasivi argomenti critici per prospettare l’idea di una società troppo efficiente nel ridurre la cultura ad apologia dei suoi fini: Il cinema, la radio, la televisione [ … ], mettono tutto a sacco, dai vecchi libri alla facezia uscita dalle labbra di un ignoto e che diventa denaro per chi la traffica. È una nuova forma di letteratura, per cui di un grande libro non resta che il meccanismo del suo intreccio, come una lisca di pesce. Questa nuova forma di letteratura ha orrore della cultura come troppo preoccupante, ma ne ha bisogno. È questo l’aspetto singolare del processo anticulturale del mondo di oggi.
Per Alvaro, quindi, la novità e la velocità dei mezzi di comunicazione di massa, la possibilità di compiere esperienze artistiche in pillole («la lisca di pesce»), oltre al repertorio di conoscenze semplificate e sminuite da un surplus di diffusione, sono evidenze che testimoniano un depauperamento della letteratura moderna, proprio ciò che da lì a poco sarà invece rilanciato come mutamento positivo da un’intera generazione di letterati (Arbasino, Sanguineti, Eco). E anche se Alvaro fu in più occasioni polemico di contrapposizioni generiche quali ‘vecchio’ da un lato e ‘nuovo’ dall’altro1 (una 1 «Uno scrittore non si deve mai spaventare di dire troppo né di non essere inteso [ … ] se ubbidisce veramente a motivi profondi e originali, egli rispecchia il suo tempo [ … ]. Perciò uno scrittore
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resistenza critica che viene etichettata come reazionaria e provinciale da Luigi Reina in Corrado Alvaro. Itinerario di uno scrittore, Rubbettino, 1994), in quel rivolgimento egli vide che in gioco non era soltanto la tradizione culturale, ma la stessa configurazione dell’umano. Quando sotto l’attacco dei giornali fascisti, nel 1928, dovette riparare a Berlino, percepì subito il caos e la nuova barbarie della crescita urbanistica senza controllo, fissandoli in un’immagine spettacolare dall’eco dantesca: «Berlino è per me come una foresta»2, un costrutto di cui si ricorderà in uno dei 75 racconti dal titolo Stranieri, del 1937, per descrivere appunto un’innevata città non meglio qualificata che al protagonista pare «fondata da gente uscita dalle selve e che s’era messa a ridurre tutto l’universo in merci comode»3. Ma la stessa idea di un incremento e moltiplicazione incessante della tribù umana in marcia verso la modernità, quindi verso l’inurbamento e la crescita demografica, si ritrovano nel lungo reportage alvariano degli anni Trenta sull’Unione Sovietica dove si recò in veste di corrispondente della «Stampa» di Torino. Ora, l’avvento della società rinnovata senza vero sviluppo, che Alvaro fissa nella figura vetero-testamentaria di un’«umanità nuova dopo il diluvio» 4, è osservata dallo scrittore a lungo e in presa diretta proprio in Russia, e del regime tecnocratico sovietico sono sviscerati tutti gli esiti irrazionali: dalla civiltà delle macchine modulata sull’ideologia della scienza, al dogma del progressismo tecnologico e produttivo, fino all’urbanizzazione compulsava. «Le città sono state occupate da intere popolazioni nuove venute dai campi e dai villaggi [ … ] sparizioni di classi intere e apparizioni di nuove»5: la folla, tuttavia, è descritta come in un déjà vu, perché «accomunata nella medesima povertà [ … ] ricorda le periferie delle nostre grandi città»6. Naturalmente, non ci sfugge il fatto che l’esperienza politica centrale per lo scrittore calabrese era stata la nascita e l’affermazione della società di massa fascista. non si deve mai proporre di essere più o meno attuale. Se egli è se stesso, veramente, egli è attuale», in Corrado Alvaro, Ultimo diario (1948- 1956), Milano, Bompiani, 1961², p. 220. 2 C. Alvaro a Nino Frank, 25 novembre 1928, in Alvaro-Bontempelli-Frank, Lettere a “900”, a cura di Marinella Mascia Galateria, Roma, Bulzoni, 1985, p. 44. Si veda anche Monica Lumachi, Corrado Alvaro e la cultura tedesca, in Aa.Vv., Corrado Alvaro e la narrativa europea del novecento, a cura di Francesca Tuscano, Assisi, Cittadella, 2004, pp. 101-144. 3 C. Alvaro, Stranieri, in Incontri d’amore (Milano, Bompiani, 1940), poi in 75 racconti (Milano, Bompiani, 1955), ora Settantacinque racconti, in Opere. Romanzi e racconti brevi, a cura di Geno Pampaloni, Milano, Bompiani, 1994, vol. II, p. 246: a quest’ultima edizione si farà riferimento d’ora innanzi. 4 C. Alvaro, Mosca 1934, in I maestri del diluvio. Viaggio nella Russia sovietica (1935), a cura di Anne Christine Faitrop-Porta, Reggio Calabria, Faenza, 2004, p. 76. 5 Ivi, pp. 75-76, miei i corsivi. 6 Ibid.
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Nel quinquennio 1950-1955 Alvaro concepisce l’edizione in volume dei 75 racconti, l’ultimo libro da lui pubblicato in vita, che esce per Bompiani proprio nel 1955, vale a dire un anno prima della sua scomparsa. In questa edizione del libro, l’aggettivo numerale del titolo è espresso emblematicamente in cifre, a differenza della ristampa postuma di due anni dopo in cui è invece riproposto nella variante alfabetica. I 75 racconti radunano per la prima volta una mole considerevole di narrazioni brevi: le trentadue, di Incontri d’amore, già edite autonomamente a Milano per Bompiani nel 19407 (con una dedica alla moglie, in tono di excusatio non petita: «A Laura, al vero amore. Corrado»)8, e le quarantadue più recenti, scritte nel dopoguerra, di Parole di notte, una notte che si confonde con la notte dei tempi9. Gran parte dei racconti raccolti nel volume uscirono precedentemente sui quotidiani con i quali Alvaro collaborava («Il Messaggero», «Il Tempo», «Il Mondo», «La Stampa», «Corriere della Sera») e di alcuni di essi sono stati ricostruiti i passaggi, la datazione e l’«ingegneria costruttiva»10 come la chiama Mario Strati, cioè il lavoro collettaneo che ne ha deciso la veste definitiva. Una prassi, questa del rimpasto, che potremmo definire novecentista tanto è simile al ready made dadaista: Alvaro, infatti, recupera i racconti nella sede del loro originario utilizzo, e, dopo la cernita e magari la correzione di alcuni titoli, li riutilizza dando ad essi una nuova destinazione d’uso, la silloge appunto. Tale operazione à rebours, tuttavia, ha interessato finora principalmente i racconti di Incontri d’amore; al contrario, quelli di Parole di notte attendono ancora una ricostruzione attendibile11. Le stimmate del clima storico cui si accennava all’inizio, del trapasso cioè dalla povertà agricola e provinciale alla nuova ricchezza industriale e alla vita urbana, quindi l’alba del miracolo economico, si avvertono maggiormente nei racconti del dopoguerra raccolti in Parole di notte, sebbene 7 Nello stesso anno Garzanti pubblica un’edizione del Novellino con la Prefazione di C. Alvaro (Milano, Garzanti, 1940). 8 La dedica è ora riportata anche nel carteggio alvariano degli anni 1934-1953, cfr. C. Alvaro, Cara Laura a cura di M. Mascia Galateria, Palermo, Sellerio, 1995, p. 116. 9 Già Enrico Falqui notò la preponderanza dell’elemento notturno nella scrittura dei 75 racconti, cfr. Id., Le ultime “parole”, in Omaggio a Corrado Alvaro, a cura di Carlo Bernari, Roma, Poligrafica Italiana, 1957, pp. 110-113. 10 Cfr. Mario Strati, Alvaro dei mosici: “Cesarino è grande”, in Corrado Alvaro e Cesare Pavese nella Calabria del mito, a cura di Aldo Maria Morace e Antonio Zuppia, Atti del convegno di Marina di Gioiosa (San Luca, Brancaleone, 26-28 aprile 2002), Soveria Mannelli (Cz), Rubbettino, 2007, p. 54. 11 Variamente contestata è la genealogia di Parole di notte tracciata da Giuseppe Rando in Corrado Alvaro narratore. L’officina giornalistica, Reggio Calabria, Falzea, 2004. Circa le suddette obiezioni si veda M. Strati, Introduzione, in Corrado Alvaro e il “Corriere della Sera”. Carteggio 1919-1955, a cura di M. Strati, Roma, Carocci, 2006, pp. 22-29.
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in Incontri d’amore vi sia già la traccia di un’incubazione tematica. L’Italia che Alvaro aveva avuto dinanzi sino agli anni Cinquanta, essenzialmente la stessa dagli anni Venti e Trenta fino al dopoguerra repubblicano e democristiano, ora stava per sparire, asservita improvvisamente all’imperativo economico, alla smania deformante di fare soldi, di emergere, di entrare nel meccanismo dello sviluppo. Il tema dell’ascesa sociale, rovello di chi si trasferisce in una grande città, è già presente in un racconto di Incontri d’amore risalente al 1932, dal titolo Caba: [ … ] ora che ero ben altro, ora che non dovevo temere più nessuno, che avrei potuto pagare, pagare; perché voi conoscete, credo, questa morale da bottegai della società moderna. Paga, non paga12.
Uno scenario da fine del mondo, al quale lo scrittore reagisce subito con un realismo pieno di sdegno e sconforto. Non a caso, in ciascuno dei 75 racconti la fabula è ridotta all’osso e la conclusione è sospesa, anzi, teorizzata proprio in questi termini nell’unico racconto metanarrativo dell’intero volume, Elegia per Magda13, dove l’andamento è prevalentemente descrittivo, e accade ben poco: ciò che conta di più è la visione dell’ambiente sociale con i suoi tipi umani, tutti un po’ anonimi, un tratto nel quale forse è racchiuso il messaggio più interessante del resoconto di Alvaro. Quasi non c’è costruzione narrativa, quindi, e probabilmente nemmeno un’autentica ambizione letteraria da parte dell’autore, che pare davvero troppo demoralizzato e svuotato per riuscire a rappresentare qualcosa di diverso da quello che vede. Tant’è vero che guarda e patisce tutto: il modo di viaggiare o di camminare della gente, l’anonimia degli idiomi, l’indiscriminato moltiplicarsi delle popolazioni urbane, la boria dei parvenus (La cavalla nera, I regali, L’impresario, Vertigine, Terza classe14, La capra, Niente di male, I giocattoli rotti, Distacco, Blanche, Due occhi di donna, L’asino della Quinta strada, Gente molto civile, Fiori finti15). Egli osserva con affanno ogni tipo di città, di paese o di isola che incontra: è il caso per esempio di Segreti, un racconto del 1940, il cui protagonista ritorna dopo anni nella cittadina che aspira ora a diventare capoluogo di provincia, e non la riconosce più, perché un vento modernista l’ha «spalancata»16: nuovi ed enormi viali la attraversano, è sparito il centro 12 13 14 15 16
C. Alvaro, Caba, in Incontri d’amore, cit., p. 243. Id., Elegia per Magda, in Parole di notte, cit., pp. 558-562. Racconti della sezione di Id., Incontri d’amore, cit. Racconti della sezione di Id., Parole di notte, cit. Id., Segreti, in Incontri d’amore, cit., p. 236.
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storico e un’architettura dritta e netta, derubata dei suoi vicoli, le nega qualsiasi avventura o segreto. In Dietro i cancelli, che è del 1937, Alvaro ci porta invece in una polverosa, affollata e crudele «città moderna»17 dell’isola di Cipro, dove insieme alla moglie si reca il protagonista in visita di un istituto di donne perdute. Lo scrittore fruga, poi, incessantemente tra le contrade, le strade, i marciapiedi, le borgate: in Senza parole, del 1938, l’io narrante vive in un quartiere di sordomuti, lembo di una «città cresciuta sulle sue rovine»18, che è presumibilmente Roma se «la sua polvere, il suo fango, la sua sporcizia contano molti secoli. Più di mille, più di duemila»19; nel rione in questione, tuttavia, è sparito il «rumore solamente umano di storia quotidiana, quello stesso rumore che accompagnò la vita per millenni è appena cessato da trent’anni, soverchiato dalle macchine»20. Al contrario, la Roma «lontana e incomprensibile come le vecchie civiltà spente»21 torna ad avere un’immagine da cartolina illustrata 22 e a mutare prodigiosamente soltanto nel racconto dal titolo Quel giorno, che altro non è se non il giorno per antonomasia, cioè il 25 aprile 1945, quando gli anglo-americani, con il cioccolato, le sigarette e la democrazia (si veda anche l’omologo “Cioccolata, sigarette”23), giungono a liberarla. Alvaro però guarda con pena la città distrutta dalla guerra, sia ne I giocattoli rotti24 sia in Il dolce sonno dei viventi, una città che «l’odio aveva risparmiato, ma che non significava più niente, almeno per noi. Una così delicata città, messa su in tanti secoli, e di cui eravamo ormai sazi, stanchi come di un malato che si è vegliato per tante notti»25. Lo scrittore studia anche il modo di parlarsi degli individui, o l’impossibilità di farlo (tema ricorrente del corposo gruppo di racconti: Lasciarsi, La sposa, Sua figlia, Piedi scalzi, Il caro nemico, La moglie di Giovannino, Speranza26, Distacco, Due occhi di donna, Difesa di un ladro, Cinquanta lire 27) e punta lo sguardo su quella strana folla urbana che marcia in colonna avanti e indietro con una meta quotidiana prefissata, come nell’allegorico racconto del 1935 intitolato L’orgia, dove il protagonista, chino su un prato, 17 18 19 20 21 22 23 24 25 26 27
Ivi, Dietro i cancelli, cit., p. 225. Ivi, Senza parole, cit., p. 228. Ibid. Ibid. Id., Quel giorno, in Parole di notte, cit., p. 411; datazione incerta. Ivi, p. 415. Ivi, pp. 421-439; dat. inc. Ivi, pp. 457-464; dat. inc. Ivi, Il dolce sonno dei viventi, p. 473; dat. inc. Racconti della sezione di Id., Incontri d’amore. Racconti della sezione di Id., Parole di notte.
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scruta l’infinitamente piccolo «di una fila di formiche [ … ], una accanto all’altra, a piccoli passi, diffidenti e curiose»28, e gli pare «la strada di una grande città vista dall’alto»29, insetti raccapriccianti e tenaci a tal punto che slittano e si rovesciano nella corsa, «come automobili di una città impazzita»30. Un espediente retorico simile è successivamente mobilitato anche per il sogno che fa «l’uomo con la mantellina da soldato»31, visionario perché troppo povero del racconto datato 1937 dal titolo“Tirati in là con gli scarponi”, il quale si addormenta in una chiesa e fantastica su un angelo che lo porta in Paradiso: qui il protagonista ritrova la stessa folla vista sulla terra, il medesimo paesaggio architettonico delle grandi città («erano stati demoliti i vecchi quartieri, c’erano strade moderne e razionali [ … ] la folla [ … ] parlava interminabilmente col rumore di un torrente»)32 e, finanche, simili disparità, se è vero che i beati stanno in una «città bella e luminosa, con grandi locali; [ … ] begli appartamenti [ … ], signori che si erano sempre dedicati agli affari e che ora vivevano di rendita, i quali avevano il loro posto anche in Paradiso»33, laddove, al contrario, per il «pover’uomo [ … ] il pane era oggi fresco e domani secco [ … ]»34. Inoltre, come se non bastasse, «il profilo di pinguino della gente ricca»35 torna a popolare la zona alto-borghese di Il nostro quartiere, dove le domestiche battono i tappeti preziosi dalle finestre, le ragazze in montgomery circolano su motociclette nuovissime, e un giovane prete chiede di essere trasferito ad altra diocesi per l’esagerata mole di peccati voluttuari che lì è costretto ad udire. C’è, allora, una generale accelerazione del ritmo di vita in questi racconti, non solo nelle città che vi sono descritte (Roma, Venezia, Napoli, Amalfi, Parigi, Berlino) ma anche nei paesi (laziali, calabresi) e nelle isole (Cipro). È un’accelerazione anonima, come se fosse eterodiretta, meccanica. Finanche nelle descrizioni di un oggetto apparentemente inoffensivo qual è il telefono si registrano caratteristiche di «fissità e indifferenza»36. Di automatismi rovinosi poi, tali da determinarne una vera e propria mutazione, è vittima l’immaginario dei personaggi che fruiscono di un’altra arte meccanica, il cinema: in Gente di cuore, l’icona sacra in capo al letto è «di quelle moderne 28 29 30 31 32 33 34 35 36
Id., L’orgia, in Incontri d’amore, cit., pp. 307-311. Ibid. Ibid. Ivi, “Tirati in là con gli scarponi”, cit., p. 359. Ivi, p. 357. Ivi, p. 359. Ibid. Id., Il nostro quartiere, in Parole di notte, cit., p. 513; dat. inc. Ivi, Due voci, due ombre, cit., p. 388; dat. inc.
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che tendono a somigliare a dive del cinema, ma castamente»37. Ma il cinema, e il contesto che gli ruota attorno, sono rappresentati a tinte fosche già in un racconto del 1931, L’idolo, e continueranno ad esserlo anche in resoconti del dopoguerra come La bella signora38 e Divina39. Ad alcune scoperte tecnologiche e scientifiche si deve, è vero, la ritrovata abilità deambulatoria della bambina mutilata durante il secondo conflitto mondiale e riabilitata da due «gambe americane», come in La civiltà40, ma il gioco non vale la candela, se poi ve ne sono di letali, tali cioè da esporre al rischio di annientamento l’umanità intera: è il caso della bomba ad idrogeno che minaccia di oscurare il sole nel racconto Un nome41, l’ultimo della silloge. Una costante di ciascuno di questi racconti, qualunque altra storia vi si rappresenti, è in definitiva il fatto che le città, mosse quasi da un oscuro burattinaio, crescono e si sventrano, i marciapiedi si riducono alla maniera delle strade di montagna, la colonna dei pedoni avanza ormai militarmente, mentre i treni si caricano di un’intera generazione di emigrati che, in balìa di spaesamenti interiori, vi sale per cercare fortuna nei gineprai dell’industrializzazione metropolitana del nord. Alvaro, emigrato «meridionale, povero e scrittore»42, nei 75 racconti ci consegna allora una fotografia nitida della storia urbanistica e civile italiana del primo Novecento, frenata da un ancestrale ritardo e dominata da una modernizzazione dispotica (visione nella quale ebbe gran peso l’esperienza politica del fascismo), priva perciò di un vero sviluppo. Critico, come Verga, nei confronti di un’idea cieca di progresso, Alvaro resisteva alla modernità: ma se è vero che il suo discorso intimo era imbevuto di malinconie provinciali, è vero pure che prima di tanti altri indicò i nuovi ingranaggi che si erano messi in moto e che stavano rimodellando l’esistenza. Perciò egli fu nello stesso tempo avanguardia e retroguardia. Vicino, più di quanto non si possa immaginare, ad alcuni scrittori della generazione successiva alla sua, come Bianciardi, Mastronardi e Parise, Alvaro visse e raccontò il mutamento sociale e urbanistico non nei termini di un gioioso affrancarsi dal passato, ma come una cancellazione violenta di esso, come una ferita inferta a una cultura e a una storia secolari.
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Ivi, p. 500; dat. inc. Id., in Parole di notte, cit., pp. 563-568; dat. inc. Ivi, pp. 653-658; dat. inc. Ivi, p. 624; dat. inc. Ivi, pp. 659-664; dat. inc. Id., Ultimo diario (1948- 1956), cit., p. 83.
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Dario Tomasello Città del malessere: la mappa precaria del romanzo italiano contemporaneo
Non è difficile liquidare la critica letteraria come superficiale, giacché non possiede la profondità e la complessità che la ricerca su campo conferisce J. Clifford, Ai confini dell’antropologia, Roma, 2004
Un processo di ristrutturazione realmente globale investe le città italiane, muta rapporti consolidati, recidendo legami di dipendenza regionale e locale e ricostruendo una diversa, spietata rete sovranazionale di dipendenza e di concorrenza1. Anche la metropoli italiana è attraversata dai sentieri del potere nella loro forma mutante. L’esercizio del potere occupa lo spazio perché flusso comunicazionale, informazione omologante, che diviene talora estetica privata, identificazione del personale. All’imprevedibile discrezionalità del mercato di consumo corrisponde quella del mercato del lavoro, dando così spazio a una logica di tipo “servile”, che ben si integra nelle realtà metropolitane odierne. Città del malessere generano una letteratura del malessere. 1 «I moderni nazionalismi racchiudono entro stati nazionali definiti su base territoriale comunità di cittadini che invece di condividere l’esperienza del contatto interpersonale o della subordinazione ad una figura della regalità, condividono la lettura di libri, opinioni, giornali, mappe e altri testi moderni [ … ] entro e attraverso l’esperienza collettiva di quello che Benedict Anderson ha chiamato “il capitalismo a stampa” e di mezzi come il cinema e la televisione che costituiscono ciò che viene sempre più spesso indicato come “capitalismo elettronico”, i cittadini immaginano se stessi come parte di una società nazionale», Arjun Appadurai, Modernità in polvere, Roma, Meltemi, 2001, p. 209.
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Dario Stazzone L’Orologio di Carlo Levi
L’Orologio è forse il romanzo leviano più complesso ed affascinante, un’«ingegnosa macchina letteraria»1 che tiene assieme vicende collettive e fatti autobiografici, accadimenti politici e dimensione onirica, restituendo un affascinante ritratto di Roma. Non è un caso che dopo il successo del Cristo si è fermato a Eboli la critica abbia avuto un atteggiamento generalmente negativo verso la seconda prova dello scrittore, ritenuta un’opera difficile, intrisa di cultura mistica e decadente. Per procedere ad un’accorta lettura del testo è utile distinguere, sulla scorta di Viktor Šklosvskij, tra la fabula e l’intreccio. La fabula rinvia ad un momento discrimen della storia italiana, la crisi politica del 1945 che mise fine al governo resistenziale giudato da Ferruccio Parri. Levi aveva seguito il passaggio politico da direttore del quotidiano azionista “L’Italia Libera”, e costituitosi narratore intradiegetico nel romanzo rievoca quella vicenda 2. La sequenza logico-cronologica appare assai più complessa nella frantumazione analettica e prolettica del continuum narrativo, nelle digressioni descrittive, nell’interpolazione dei ritratti letterari e dei sogni del protagonista che dilatano la narrazione tribuendovi un complesso spessore simbolico. La chiave di lettura de L’Orologio recentemente proposta da Rosalba Galvagno3 rinvia alle parole che Levi fa pronunziare ad uno dei suoi perso1 La definizione è di Carlo Muscetta, nell’ambito del giudizio icastico dato sul Cristo si è fermato a Eboli e L’Orologio in Leggenda e verità di Carlo Levi, in “Fiera letteraria” del 14.11.1946, e poi in Realismo neorealismo controrealismo, Roma, Lucarini, 1990, p. 70. 2 È interessante ripercorrere gli articoli del periodo raccolti da Filippo Benfante in C. Levi, La strana idea di battersi per la libertà. Dai giornali della Liberazione (1944-1946), Santa Maria Capua Vetere (CE), Edizioni Spartaco, 2005. 3 Si veda Rosalba Galvagno, La felicità e i romanzi, in Id., Carlo Levi, Narciso e la costruzione della libertà, Firenze, Leo S. Olcshki Editore, 2005, pp. 179-194.
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Emanuele Broccio RESISTENZA ALLA CITTÀ: FENOGLIO E LA TRAGEDIA DELLA VOLONTÀ
All’interno della produzione narrativa di Beppe Fenoglio, la rappresentazione della città, e l’apparato simbolico che la esprime, costituisce, secondo Francesco De Nicola, un paradigma spesso oppositivo più o meno marcato – ma ricorrente – con il mondo contadino, quello delle Langhe che – lontano da ogni suggestione bucolica – rappresenta il luogo della verità, dura ma precisa e riconoscibile, della vita e della morte1. Questa opposizione sottolineata da De Nicola è sostenuta con accenti più smussati da Saccone, che vede il rischio di ideologizzare eccessivamente e in modo troppo capillare il pensiero di Fenoglio, «ipostatizzando delle opposizioni che sono indubbiamente presenti nei suoi testi»2, ma sfumate poi e aperte a situazioni più complesse e persino contraddittorie, e perciò «più interessanti»3. Una considerazione dell’ambivalenza del tema della città nella prospettiva dell’opera tutta di Fenoglio è espressa anche da Eugenio Corsini: «Neanche la città, [ … ] rappresenta per lui» - comunque di estrazione cittadina - «[ … ] un polo positivo, un rifugio ideale, un ambiente culturalmente e moralmente superiore. Noia e non-senso, meschinità e volgarità sono le note dominanti dei racconti fenogliani ambientati nella cornice cittadina»4. E aggiunge, confermando la misura di complessità e contraddittorietà di cui parla Saccone: «Eppure quanta nostalgia per questa città non appena i vari protagonisti, per i motivi più diversi, si trovano fuori dalle sue mura»5. Francesco De Nicola, Introduzione a Fenoglio, Bari, Laterza, 1989, p. 132. Edoardo Saccone, Le guerre di Fenoglio, in Beppe Fenoglio oggi, a cura di Giovanna Ioli, Milano, Mursia, 1991, p. 64. 3 Ivi, p. 65. 4 Eugenio Corsini, Paesaggio e natura in Fenoglio, in Beppe Fenoglio oggi, cit., p. 22. 5 Ivi, p. 23. La connotazione nostalgico – simbolica che la città di Alba assume per i partigiani è sottolineata anche da Bàrberi Squarotti, che anzi si sofferma più sulla dimensione simbolica 1 2
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Alessia Scacchi I corpi celesti delle città Gli spazi urbani nei “rendiconti” critici di Anna Maria Ortese
L’analisi testuale dei testi ortesiani classificati come «rendiconti» critici1 è stata realizzata in occasione della ricerca di Dottorato, di cui questo estratto è frutto. Essa si avvale di numerosi materiali informatici, ottenuti dalla digitalizzazione dei volumi Il mare non bagna Napoli2 e Silenzio a Milano3. Grazie alle procedure algoritmiche ed alle analisi statistiche dei dati, ottenuti utilizzando un software freeware4, è stato possibile realizzare l’analisi narratologica che segue. Il lavoro resta comunque imperniato sull’accurato studio storiografico dei testi, i cui risultati sono stati filtrati attraverso la lente problematizzante del genere. Essa non può non caratterizzare ogni lavoro di critica affidato ad un soggetto nomade5 per definizione, come l’essere-donna che scrive; questo anche in linea con ciò che sosteneva l’autrice stessa, negli anni Novanta del secolo scorso, definendosi una «bestia che parla». Fin dagli esordi, il modo di narrare di Anna Maria Ortese si caratterizza per il forte protagonismo dei luoghi rappresentati. In particolare, 1 L’autrice stessa ama definire i suoi racconti con il termine “rendiconti”, qui dotati dell’appellativo “critici”, in quanto molto vicini ad una scrittura di stile saggistico. 2 Anna Maria Ortese, Il mare non bagna Napoli [1953], Milano, Adelphi, 1996, d’ora in avanti denominat MN. 3 A. M. Ortese, Silenzio a Milano, Bari, Laterza 1958, d’ora in avanti denominato SM. 4 TAPoRware 2.0 è un software gratuito costituito da un insieme di strumenti elettronici utilizzati per l’analisi testuale. Allestito dalla Faculty of Humanities della Mc Master University in Canada, grazie al progetto iniziale di Geoffrey Rocknell della University of Virginia – Institute for Advanced Technology in the Humanities. Implementato successivamente da Lian Yan e nel 2005 da Matt Petey. Al progetto aderiscono: Université de Montréal, University of Alberta, University of New Brunswick, University of Toronto, University of Victoria. 5 Rosi Braidotti, Soggetto nomade. Femminismo e crisi della modernità [1994], trad. it. a cura di A.M. Crispino, Roma, Donzelli, 1995.
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Andrea Chiurato «QUELLE LUCI CHE DA NAPOLI SI VEDONO COSÌ MALE». L’IMMAGINE DI MILANO NELL’OPERA DI ANNA MARIA ORTESE E RAFFAELE LA CAPRIA
Se volessimo stabilire un confronto tra la Milano letteraria di Anna Maria Ortese e quella di Raffaele La Capria sarebbe difficile resistere al fascino del paradosso. Il che è, di per sé, significativo. Il paradosso, in effetti, denuncia un imbarazzo della ragione: è lo scorcio fulminante che ci aspetta in fondo al vicolo cieco del ragionamento, che unisce solo per meglio separare. Ed è proprio quello che faremo con i due autori a cui ci accompagneremo nel nostro viaggio. Il primo ostacolo è, per così dire, bibliografico. La metropoli lombarda assume un peso radicalmente diverso nelle rispettive produzioni: per quanto riguarda la Ortese la ritroviamo con una certa continuità a partire da Silenzio a Milano (1958), passando per L’iguana (1965), Poveri e semplici (1968) sino a Il cappello piumato (1979); La Capria si limita invece ad una semplice “toccata e fuga”, dedicandole un breve scorcio in Ferito a morte (1961). Il materiale disponibile per la nostra analisi è, quindi, di consistenza molto diversa ma, in entrambi i casi, è possibile affermare che Milano rappresenti un ideale punto di fuga, la direzione privilegiata verso cui si orientano aspettative e speranze personali e collettive in un momento chiave nell’evoluzione della società italiana. Ciò non significa che l’immagine derivata da simili aspettative sia del tutto positiva o priva di contraddizioni, tutt’altro. Come vedremo il significato utopico di cui si carica la rappresentazione letteraria della “capitale morale” non la pone al riparo da tutta una serie di ambiguità, che derivano proprio dal vissuto biografico dei singoli autori. Da perfetti esuli, come amano definirsi, il loro sguardo tende a deformare gli oggetti lontani, riconsiderandoli sotto una luce ben diversa appena quest’aura fatta di desiderio e lontananza si dissolve. Prima di avventurarci sotto le guglie del Duomo occorre dunque fare un passo
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Emmanuela Carbé LA CITTÀ DI SABBIA: IMMAGINI LEVANTINE IN FAUSTA CIALENTE
All’interno del corpus narrativo cialentiano, che attende ancora un’adeguata indagine critica complessiva, l’immagine della città levantina è presente già dalle prove giovanili, attraversando le due guerre mondiali e la faticosa, controversa storia dell’Egitto coloniale e post-coloniale. «Straniera dappertutto»1, la Cialente arriva ad Alessandria nel 1921 in seguito al matrimonio con il musicista e compositore Enrico Terni, la cui famiglia abitava in Egitto da almeno tre generazioni. Le tracce dell’esperienza egiziana, conclusa nel 1947 con il ritorno in Italia, si sottraggono in extremis alla finzione narrativa nell’ultimo dei suoi romanzi, Le quattro ragazze Wieselberger2, caratterizzato da un autobiografismo si direbbe liberatorio, non esente da riflessioni (e ripensamenti?) sulla produzione letteraria anteguerra: Il Cortile a Cleopatra e Pamela ero stata indubbiamente suggestionata dall’ambiente in cui ormai vivevo da ben più di dieci anni. M’ero molto affezionata al paese e alla sua gente, cosa nuova per me, spinosa com’ero nei riguardi di quella che dovevo considerare la mia “patria” e questi ch’erano, in colonia, i miei “connazionali”; ma forse l’affetto e la mia simpatia venivano, almeno in parte, dalla mia reazione contro il mal celato razzismo che europei e levantini [ … ], manifestavano agl’indigeni3.
Con le Quattro ragazze siamo nel 1976, ed è evidentemente tempo di bilanci se quello stesso anno coincide con l’uscita di Interno con figure4, 1 Così la scrittrice usava spesso definirsi; si veda ad esempio l’intervista a Sandra Petrignani, in Le signore della scrittura, Milano, La Tartaruga, 1962, pp. 83-89. 2 Fausta Cialente, Le quattro ragazze Wieselberger, Milano, Mondadori, 1976. 3 Ivi, pp. 214-215. 4 F. Cialente, Interno con figure, Pordenone, Studio Tesi, 1976.
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Sarah Sivieri Città equivoca e città del riscatto. Su Allegro con disperazione di Gianna Manzini
L’idea di Allegro con disperazione, pubblicato da Mondadori nel 1965 e vincitore del premio Napoli nel 1968, comincia a prendere corpo nella mente di Gianna Manzini qualche anno prima, esattamente nel settembre del 1961. La scrittrice, appena tornata dall’amata Cortina, inizia infatti a scrivere sul suo diario qualche appunto in proposito, delineando pian piano la struttura e le motivazioni fondamentali che devono muovere i personaggi1. In data 6 settembre, inoltre, indica le fonti alle quali intende rifarsi nella stesura dell’opera: la Sonata in si minore di Franz Listz, il dipinto Las meninas di Velázquez e il film di Alain Resnais, sceneggiato da Alain Robbe Grillet, L’anno scorso a Marienbad2. Particolare interesse riveste, ai fini del discorso che si intende enucleare, la menzione della pellicola. Sia perché, molto probabilmente, l’architettura strutturale del romanzo risente di quella del film, sia perché si tratta di una testimonianza dell’ampiezza di interessi della scrittrice, forse più impegnata di quanto sia stato finora sottolineato anche sul versante della riflessione critica3. Da sempre interessata al cinema e, probabilmente, alle 1 La genesi del racconto si può leggere nel diario autografo della scrittrice, depositato presso il fondo Gianna Manzini della Fondazione Mondadori di Milano, d’ora in poi denominato FM (XII, 3/3-32). 2 Si veda l’appunto contenuto nel diario (FM, XII, 3/4). 3 Per quanto riguarda la statura di intellettuale e di critica di Gianna Manzini, oltre alle raccolte di prose incluse in Foglietti (Milano, Scheiwiller, 1954), Album di ritratti (Milano, Mondadori, 1964) e Ritratti e pretesti (Milano, Mondadori, 1960), si può fare riferimento alla rivista Prosa e agli interventi di Lia Fava Guzzetta. Si veda a tal proposito L. Fava Guzzetta, Gianna Manzini verso Virginia Woolf (passando per Pirandello), in Gianna Manzini. Una voce del modernismo europeo, a cura di L. Fava Guzzetta, Pesaro, Metauro, 2008 e L. Fava Guzzetta, Gianna Manzini e i quaderni internazionali di “Prosa”, in «Rivista di Letteratura Italiana», 2005, 1-2, pp. 473-481.
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Francesco Venturi «La perduta aristocrazia del rinchiuso». Riflessioni sulla città in Arturo Loria
Durante un viaggio a New York, tra il novembre del 1933 e il giugno del ’34, Arturo Loria tiene un carnet de voyage dove appunta annotazioni rapide e telegrafiche. A colpirlo e affascinarlo sono soprattutto i margini della città, il lato ctonio e clandestino del subway, tanto che arriva a vagheggiare il progetto di «un oscuro poema sui sotterranei di questa città»: New York. Si potrebbe scrivere un oscuro poema sui sotterranei di questa città, e sui tunnels e sui corridoi del subway. Per esempio si potrebbe parlare liricamente di un treno sotterraneo e della via che si percorre, guardando dal vetro del conduttore1.
Il contatto con il formicaio omologato della metropoli lo porta ad apparentare la città a un inferno meccanico e angusto; così si legge in una pagina del diario datata 24 dicembre 1933: È tanta la tristezza di una grande città che non si comprende come gli uomini, che ne soffrono, non si mettano d’accordo per abbandonarla o distruggerla. Talvolta si pensa che l’Eterno raduni tanti uomini in così poco spazio e li renda così 1 Il diario newyorkese compare nel quaderno «Compositions» (dal titolo stampato sulla copertina), conservato presso il Fondo Loria dell’Archivio Contemporaneo “Alessandro Bonsanti» del Gabinetto Vieusseux di Firenze. Il frammento è datato 24 dicembre 1933 ed è riportato da Rita Guerricchio, I diari di Loria, in La zona dolente. Studi su Arturo Loria, Atti del Convegno di studi «Omaggio a Arturo Loria» (Carpi 8-9 maggio 1992), a cura di Marco Marchi, Firenze, Giunti, 1996, pp. 180195:181. Sulla vita di strada nello spazio metropolitano americano si tenga conto delle considerazioni svolte, trent’anni più tardi, da Jane Jacobs, Vita e morte delle grandi città. Saggio sulle metropoli americane, traduzione italiana di Giuseppe Scattone, Torino, Einaudi, 2000 (ed. originale: The death and life of great American cities, New York, Random House, 1961).
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Giovanna Tomasello L’avventura notturna de GLI Indomabili di Marinetti nella città industriale
Nel 1922 vengono pubblicati Gli indomabili di Marinetti, che egli immediatamente definisce “libro parolibero”; ma lo stesso autore, ormai maturo, torna a domandarsi come chiamare quest’opera «che gli aveva assalito il cervello nel dormiveglia di un mattino di settembre durante un suo ultimo viaggio nell’alto Egitto». «Romanzo d’avventura?», si chiede, «Poema simbolico? Romanzo fantastico? Fiaba? Visione filosofico sociale?». Conclude il fondatore del Futurismo: «nessuna di queste definizioni può caratterizzarlo. È un libro parolibero, nudo, crudo sintetico simultaneo policromo poli rumorista, vasto violento dinamico»1, un’opera dunque di natura strettamente letteraria; ed è lecito ritenere che il paroliberismo per Marinetti comprendesse l’elaborazione pensata e risolta negli anni precedenti con le parole in libertà di Zang Zang tumb tumb e L’Alcova d’acciaio, scritto poco prima della composizione de Gli Indomabili. In realtà questo romanzo sembra chiudere, nel ’22, il ciclo che Marinetti aveva iniziato con il clamoroso e ottimistico romanzo del 1909 Mafarka le futuriste2, proprio perché in ambedue le opere, dove il linguaggio simbolista si esprime attraverso un impulso allegorizzante con un susseguirsi di analogie e rimandi metaforici, l’autore misura la sperimentazione presentando dei romanzi che esplorano i luoghi poetici dell’onirico e del paradossale. Ma mentre in Mafarka la nascita del Futurismo ambientato in una terra africana avulsa dalla civiltà rappresentava, attraverso la creazione dell’uomo meccanico, la realizzazione di un lento progetto che investe 1 Filippo Tommaso Marinetti, Gli Indomabili, in Teoria e invenzione futurista, a cura di Luciano De Maria, Milano, Mondadori, 1968, p. 841. 2 F.T. Marinetti, Mafarka le futuriste, Parigi, Sansot, 1909, traduzione italiana curata da Decio Cinti, Milano, Edizioni futuriste di «Poesia», 1910.
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Giovanna Caltagirone A MILANO IL FUTURISMO ERA GIÀ IL PASSATO. FILIPPO TOMMASO MARINETTI, LA GRANDE MILANO TRADIZIONALE E FUTURISTA
A Milano il Futurismo era già il passato e nessuno ne ebbe consapevolezza meglio di Marinetti che, sulla soglia della morte, detta e scrive le pagine dell’opera postuma, La grande Milano tradizionale e futurista1, in cui l’ossimoro del titolo attesta una costante culturale della città: laddove le avanguardie si fanno “simultaneamente” tradizione, dalla Scapigliatura al Futurismo. I cani del nulla, già dannunziani, diventano custodi non solo della morte del vate al Vittoriale 2 ma, a Salò, sulla stessa riviera occidentale del Garda, anche di quella di Marinetti: che nell’ultimo capitolo, Laghi e cani di Lombardia insegnano l’amicizia e la fedeltà, ad uno ad uno li evoca e li invoca ad emblema, forse, dell’anima di Milano, la «segretissima anima» che lungo tutta l’operetta va ricercando. Quella che il poeta implorerà da Reginella, la giovane argentina identificata anch’essa con «l’anima misteriosa e forte» della città: «rivelami nel bacio rivelami il cupo segreto della città e dei suoi torturati abissi». Ma giunge un momento in cui gli enigmi si sciolgono e i simboli giungono a chiarezza: il poeta futurista desiste dall’amato Baudelaire e scrive la sua Recherche. È l’estremo atto di coraggio cui potesse spingersi alla fine della vita, 1 Filippo Tommaso Marinetti, La grande Milano tradizionale e futurista, a cura di Luciano De Maria, prefazione di Giansiro Ferrata, Bellinzona, Arnoldo Mondadori Editore, 1969. Il volume contiene anche un altro inedito: Una sensibilità italiana nata in Egitto. Per le informazioni sul manoscritto e i criteri dell’edizione rimando alla Nota ai testi di De Maria. 2 Nella Grande Milano Marinetti rievoca la sua visita al Vittoriale per portare in dono a d’Annunzio «una leva di comando di trimotore Caproni»: «Caricare la leva sull’automobile e via nel nebbione milanese che ci accompagna fino al Lago di Garda e al Poeta che mi riceve battendo le mani felice come un bambino // – Gradisco molto questo dono che mi fa l’Aeropoesia Futurista e vi trovo anche una gentilezza della mia Milano aviatoria // – Sì è un dono di Milano futurista Gabriele» (ivi, p. 190).
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Alessandra Ottieri «La Terra dei Vivi» (1933). La Spezia città futurista
Negli anni Trenta del Novecento, ovvero nella sua ultima, declinante stagione, il movimento futurista – accantonato il furore iconoclasta dei primi anni e incanalatosi nei binari della cultura ufficiale espressa dal regime fascista – si frazionò in una moltitudine di futurismi locali. In Sicilia e in Puglia, nelle Marche e in Emilia, in Piemonte e in Liguria gruppi di giovani artisti e poeti, incoraggiati dall’onnipresente Marinetti, si raccolsero attorno a riviste e case d’arte, promuovendo mostre, premi, serate, sfide di poesia e di pittura che, al di là dei singoli risultati ottenuti, non sempre incoraggianti, lasciarono però un’impronta viva nella memoria e nella storia di molte città italiane. Il più delle volte l’azione dei gruppi futuristi locali si mostrò superficiale e velleitaria nelle proposte ed effimera nella durata, eppure non mancarono casi in cui l’inventiva e la capacità progettuale di architetti e artisti legati al movimento marinettiano si tradussero, nelle città in cui operarono, in iniziative concrete e durevoli: case private, monumenti, palazzi pubblici, ispirati ai disegni di Sant’Elia o alle teorie di Boccioni e Prampolini furono realizzati tra le due guerre dagli architetti Virgilio Marchi, Franco Oliva, Manlio Costa, Angiolo Mazzoni; altri edifici, nuovi o rimodernati, si arricchirono di mosaici, pitture murali e composizioni polimateriche firmate da Prampolini, Fillia, Depero. I nuovi materiali edili, le linee architettoniche più razionali e aeree, i pannelli polimaterici di grandi dimensioni e dai colori sgargianti installati nei centri cittadini destarono certo curiosità nell’opinione pubblica e spesso suscitarono polemiche e dibattiti tra gli specialisti, ma in ogni caso contribuirono a trasformare, modernizzandolo, il volto di molti comuni italiani. È appunto quanto accadde, al principio degli anni Trenta, a La Spezia, vivacissima città portuale al confine tra Liguria e Toscana, dove un gruppo
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Lorenza Miretti La Metropoli parolibera di Michele Leskovic
Le prime notizie relative a Metropoli risalgono al I Congresso Nazionale Futurista (Teatro Dal Verme, Milano, 23-25 novembre 1924). In quell’occasione Michele Leskovic, meglio conosciuto con lo pseudonimo Escodamè, presenta il poema “Metropoli” nel quale distribuisce le frasi parolibere tra differenti timbri vocali: tenore, baritono, basso e contralto, creando una nuova forma poetica ricca di possibilità [ … ]. Al Congresso presenta inoltre relazioni riguardanti: 1°) La declamazione e la necessità di un ambiente speciale in ogni città riservato alla declamazione di opere poetiche: il Poedromo. 2°) La poesia réclame nuovo genere poetico. 3°) Il libro italiano e contro gli editori e librai passatisti e antitaliani. 4°) I “nuovi sensi” ecc.
come lui stesso scrive nel curriculum che invia nel 19251 ad un amico, il futurista triestino Bruno Giordano Sanzin. Successivamente, Leskovic riprende quegli interventi e ne sviluppa i 1 Bruno Giordano Sanzin tra il 1974 ed il 1975 nella rivista «Ce fastu?» pubblica quel curriculum nell’articolo Escodamè. Poeta futurista friulano, che rappresenta il primo tentativo di ristabilire la verità storico-critica sull’attività svolta da Escodamè in seno al futurismo (B.G. Sanzin, Escodamè. Poeta futurista friulano, in «Ce fastu?», gennaio-dicembre 1974-1975, pp. 148-153). Gli interventi elencati da Leskovic parrebbero non coincidere totalmente con quelli contenuti nell’«Elenco delle idee esposte e discusse al Congresso», pubblicato nel n. 11 de «Il Futurismo», dove a Leskovic sono attribuite le seguenti relazioni: «Le parole in libertà tendono alla massima poliespressività conciliata con una sufficiente comprensione. − Declamazione distribuita fra differenti timbri di voci altisonanti. – Poedromo», mentre «L’avvenire del libro italiano» risulta trattato da Aniante, l’«Auto-réclame» da Depero e la «Scoperta di nuovi sensi» da Marinetti (cfr. [s. f.], Primo congresso futurista, in «Il Futurismo», 11 febbraio 1925, n. 11, pp. (1-3): numero interamente dedicato al «Primo congresso futurista» ed alle Onoranze a Filippo T. Marinetti del 1924).
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Monica Manzoni CITTÀ DI FUTURI IMPOSSIBILI. L’URBANISTICA DELLA PROTOFANTASCIENZA ITALIANA
E molti si sono immaginati republiche e principati che non si sono mai visti né conosciuti in vero essere. Niccolò Machiavelli
La città come figura emblematica della modernità e parte fondamentale della sua pur enigmatica e sfuggente costituzione ontologica è idea, come è noto, già avanzata da Charles Baudelaire1 e in seguito confermata da molti altri, tra i quali Georg Simmel 2. Tuttavia, se la città è in perpetuo cambiamento, come sosteneva sempre Baudelaire3, se essa è il luogo del contingente e del transitorio e se la modernità è destinata a seguire il suo esempio4, le città immaginate per il futuro, prossimo o remoto che sia, possono essere considerate previsioni attendibili, che hanno ambizioni di verosimiglianza e caratteristiche di probabilità? O non sono, piuttosto, semplici posposizioni, in un tempo a venire, dei fatti e dei problemi dell’oggi, in una versione aggiornata? Cfr. Elisa Mariani Travi, Baudelaire, Rimbaud e l’architettura, Bari, Dedalo, 1982, passim. Si veda Simmel e la cultura moderna, Atti del convegno internazionale (Roma 5-7 giugno 2008), Roma, Morlacchi, 2010, II voll., passim. Si rimanda in particolar modo al secondo volume, a cura di Consuelo Corradi, Donatella Pacelli e Ambrogio Santambrogio, Interpretare i fenomeni sociali. 3 E. Mariani Travi, Baudelaire, Rimbaud e l’architettura cit., p. 45. 4 Viene in mente la definizione di “modernità liquida” data, in tempi recenti, dal sociologo Zygmunt Bauman nel suo saggio Liquid Modernity, dove la metafora è utilizzata proprio per mettere in luce la frenesia e la perenne instabilità della vita post-moderna. 1 2
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Alexandra Zingone La città scritta, la città dipinta. Problemi, figure
Se «la città, la più grande tra le opere d’arte umane, appartiene al regno dell’immaginazione»1 – come ragiona Hillman, analista de L’anima dei luoghi e, in particolare di luoghi urbani – «l’idea di città, osserva Renzo Piano – è la più grandiosa invenzione della nostra civiltà»2. E se la civiltà letteraria e artistica europea del Novecento accoglie la città come motivo fortemente attivo del circuito creativo, essa circola abbondantemente come luogo – «La città è un luogo dove fenomeni diversi si incontrano»3 – e, allo stesso tempo, domina come idea: essa «è molte cose diverse riunite insieme. Non è un luogo. E’ un’idea»4. Fatto sta che tra scrittura e figurazione, tra referente reale e invenzione, la rappresentazione, o meglio, l’evocazione della prospettiva urbana – complice la formulazione della relazione critica tra il linguaggio e lo spazio – circola con largesse nell’esperienza del moderno, come cifra dominante e immagine ricorrente del testo creativo, come dominante semantica del circuito prosa-poesia; come oggetto di molteplici indagini teoriche, investigazioni, analisi e riflessioni in ambito storico-critico, oltre che icona privilegiata per produttive testimonianze pittoriche. Tra metodi e fantasmi. Tra percezione e proiezione. Tra realtà e invenzione. Tra quotidiano e mito. Metamorfosi di città: come recita la copertina della recente raccolta di versi di Michalis Pierìs: «E all’improvviso i luoghi divennero uno. // Vennero i luoghi in cui camminare, città / e quartieri e strade. Migliaia di luoghi / [ … ] // 1 2 3 4
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James Hillman, L’anima dei luoghi, Milano, Rizzoli, 2004, p. 96. Renzo Piano, L’Incontro. Rinascimento urbano, in «La Repubblica», 16 gennaio 2005. J. Hillman, L’anima dei luoghi, cit., p. 101. Ibid.
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Silvia Acocella LA CITTÀ COME “MONDO MINERALE” DEL MODERNO. L’OPACITÀ DELLE VETRINE E LA TRASPARENZA DELLE ROVINE
Se si dà profondità storica al quadro teorico tracciato da Northrop Frye, la città, nella sua nuova forma di metropoli, assume la figurazione archetipica del mondo minerale del moderno1. L’immagine del labirinto, associandosi alla simbologia demonico-infernale della città di Dite2, diventa nella letteratura europea tra Otto e Novecento il «volto mitico» della dimensione artificiale, come Benjamin scriveva in Parco centrale, i frammenti destinati alla conclusione del suo libro su Baudelaire3. La Parigi capitale del XIX secolo costringe, infatti, a una nuova peregrinatio nella dimensione urbanizzata e pietrificata del moderno, sotto il velo dell’indistinto, dove il dedalo delle strade può in ogni istante convertirsi in deserto (biblicamente, il deserto è un labirinto cancellato). Se il vissuto si disperde, è perché «in città ha origine la famigerata astrattezza della vita»4, come Musil afferma guardando Vienna, «vescica ribollente»5 nelle forme irrigidite della modernità (il quartiere Heuberb progettato da Loos6 era sotto i suoi occhi), forme che impediscono di narrare disperdendo 1 Northrop Frye, Anatomia della critica. Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterali, Torino, Einaudi, 2000 (in particolare le pp. 184-198). Lo sviluppo metropolitano in Italia è in ritardo, spesso inceppato dalla monumentalità delle città storiche: esemplare è il caso della Roma pirandelliana, metropoli opaca, che già ne Il fu Mattia Pascal trova il suo correlativo nel residuo di un’acquasantiera adibita a posacenere. 2 Ibidem. 3 Walter Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962, pp. 137-138. 4 Robert Musil, L’uomo senza qualità, nuova edizione italiana a cura di Adolf Frisé, introduzione di Bianca Cetti Marinoni, traduzione di Anita Rho, Gabriella Benedetti, Laura Castoldi, Torino, Einaudi, 1996, I, p. 738. 5 Ivi, p. 6. 6 Massimo Cacciari, Adolf Loos e il suo Angelo. Das Andere e altri scritti, Milano, Electa, 2002.
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Giulia Iannuzzi CITTÀ MEDIATICHE, CITTÀ DEGLI UOMINI. ALCUNI ESEMPI DI NARRATIVA FANTASCIENTIFICA ITALIANA DEI PRIMI ANNI SESSANTA
Proporrò una lettura di tre testi, che ho voluto accomunare e comparare in base a precise caratteristiche. Si tratta di due racconti e un romanzo ascrivibili al genere fantascientifico1, scritti e pubblicati da tre diversi autori italiani nella prima metà degli anni Sessanta e che ho scelto di accostare per la presenza di un tema-chiave: i mass media e la loro funzione nell’articolazione della società umana, la città come riflesso di tale articolazione2. Le tre narrazioni considerate appartengono tutte a un filone della narrativa di anticipazione per così dire di estrapolazione, di proiezione nel futuro di elementi osservabili nel presente. Tutte e tre le narrazioni possono a buon diritto essere considerate parte di un sottogenere distopico e di spiccata carica riflessiva politico-sociologica. In ordine cronologico di prima edizione i testi sono: Buonanotte Sofia di Lino Aldani, La falla temporale di Giacomo Leopardi di Anna Rinonapoli e Il sistema del benessere di Ugo Malaguti. Il primo è un racconto breve, firmato da uno dei pochi autori di fantascienza nostrana conosciuti anche all’estero. Buonanotte Sofia ha goduto di 1 Non vogliamo aprire qui disquisizioni teoriche relative al delicato argomento della definizione del genere. Suggeriamo dunque almeno qualche titolo sull’argomento: Lino Aldani, La fantascienza, Piacenza, La Tribuna, 1962; Kingsley Amis, Nuove mappe dell’inferno. Panorama della fantascienza, Milano, Bompiani, 1962; Carlo Pagetti, Il senso del futuro. La fantascienza nella letteratura americana, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1970; Darko Suvin, Le metamorfosi della fantascienza. Poetica e storia di un genere letterario, Bologna, il Mulino, 1985. Di seguito considereremo inoltre, per un’ascrizione dei testi al genere, le scelte tematiche e le sedi editoriali. 2 La stretta connessione tra rappresentazione della città e della società è d’altronde peculiare proprio nella tradizione delle utopie, sin dalle più antiche. Si veda Marcel Roncayolo, La città, Torino, Einaudi, 1978, in particolare il cap. VII: Rappresentazioni e ideologie della città. Sulla declinazione del tema nella narrativa fantascientifica si pronuncia qualunque guida tematica. Per un primo riferimento si può vedere il quinto volume della Grande Enciclopedia della Fantascienza, Milano, del Drago, 1981.
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Roberta Delli Priscoli LA CITTÀ METAFISICA NELL’OPERA LETTERARIA DI GIORGIO DE CHIRICO
La produzione letteraria di Giorgio de Chirico comprende tre significative opere, che si collocano tra il 1929 e il 1962: Hebdòmeros. Le peintre et son genie chez l’écrivain; Il Signor Dudron; Memorie della mia vita1. Nelle tre opere sono rappresentati scorci di città, geograficamente definite o di pura immaginazione, ma tutte viste e rappresentate in una prospettiva metafisica, che le trasforma in metafore di sogni emergenti dalle profondità dell’inconscio2. Il primo ad usare il termine “metafisico” per de Chirico pittore fu Guillaume Apollinaire nel 1913, in articoli pubblicati su «L’Intransigeant» e su altre riviste: data da quest’anno lo stretto sodalizio intellettuale che si instaurò tra i due3. L’anno seguente il pittore eseguì il Portrait prémonitoire de Guillaume Apollinaire, in cui misteriosamente, si direbbe metafisicamente, è presentita e preannunziata la ferita che il poeta francese riporterà ad una tempia nel marzo del 1916: nel ritratto è dipinto sulla testa del poeta un enigmatico cerchio, che sembra raffigurare una sorta di bersaglio4. 1 Su de Chirico scrittore, cfr. Carlo Bo, Introduzione, in Giorgio de Chirico, Memorie della mia vita, Milano, Bompiani, 2002, pp. 7-13. Cfr. anche il mio saggio Poetica del ‘nostos’ ed enigma dell’arte nelle «Memorie della mia vita di Giorgio de Chirico», in Memorie, autobiografie e diari nella letteratura italiana dell’Ottocento e del Novecento, a cura di Anna Dolfi, Nicola Turi e Rodolfo Sacchettini, Pisa, ETS, 2008, pp. 555-566. 2 Sulle città nella pittura di de Chirico, cfr. Giuliana Polenta, Residui di sonno negli occhi di Giorgio de Chirico, in G. de Chirico. Nulla sine tragoedia gloria, a cura di Claudio Crescentini, Roma, Maschietto, pp. 363-364. 3 Guillaume Apollinaire, Giorgio De Chirico, in «L’Intransigeant», Paris, 30 octobre 1913; cfr. Willard Bohn, Apollinaire inédit. L’énigme de Giorgio De Chirico, in «Revue des Lettres Modernes», 1980, n° 576-581, pp. 121-132; Nota biografica, in G. de Chirico, Ebdòmero, con uno scritto di Jole de Sanna e una nota di Paolo Picozza, Milano, Abscondita, 2003, p. 135. 4 Su questo ritratto, cfr. Laura Cherubini, Natura del mito, in Achille Bonito Oliva, La natura secondo de Chirico, Milano, Motta, 2010, p. 54.
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Simona Scattina Carlo Ludovico Ragghianti e la città “monumento”: dall’ambito della visione alla prospettiva dell’arte
Nell’epoca d’oro del documentario d’arte – crediamo che si possa definire così la stagione che dal 1948 arriva al 1956 – il cinema, interlocutore ‘privilegiato’ delle masse, svolge la missione di tradurre in spettacolo un sapere relegato nelle aule accademiche. Lo dimostra il fatto che in Italia storici dell’arte come Roberto Longhi, Rodolfo Pallucchini, Giulio Carlo Argan1 ed Enzo Carli instaurano una breve querelle sui nuovi modelli divulgativi del documentario d’arte. Alla fine degli anni Quaranta, all’interno della pratica del film sull’ar2 te , si delinearono quattro tendenze: quella della drammatizzazione o della narrativizzazione, rappresentata da Luciano Emmer; quella creativa – consistente nel fare del quadro il punto di partenza, se non il pretesto, per un’opera esteticamente autonoma – rappresentata da Alain Resnais e sostenuta da André Bazin; quella didattica, dei documentari di Roberto Longhi e Umberto Barbaro, che sostiene che «l’uso della macchina da presa, nella lettura cinematografica delle opere d’arte, deve limitarsi 1 «Per la prima volta, per mezzo del cinematografo, una pittura o una scultura o un’architettura possono essere eseguite come una musica ed acquistare la stessa forza d’impressione o di emozione che ha, sul pubblico, l’esecuzione di un pezzo di musica». Il pronostico, del 1949, è di Giulio Carlo Argan, per il quale la moderna critica d’arte «potrà dire d’aver finalmente raggiunto l’obiettivo cui mirava da quasi cent’anni: portare l’opera d’arte, nei suoi concreti e reali valori, al contatto delle masse e fare di essa un mezzo di educazione formale» (cfr. G.C. Argan, Lettura cinematografica delle opere d’arte, in «Bianco e Nero», n. 8/9, 1950). 2 La nascita del film sull’arte risale però a Ceux de chez nous girato nel 1913 da Sacha Guitry: «Non voglio che, fra cinquant’anni, i miei nipotini vengano a chiedermi: “Ma come nonno, vivevi nello stesso periodo di Claude Monet e non hai avuto l’idea di ‘cinematografarlo’ durante il suo lavoro?”. Bene, questo i miei nipotino non me lo rinfacceranno perché io quest’intuizione l’ho avuta» (cfr. Carlo Ludovico Ragghianti, Cinematografo rigoroso, in Arti della visione. I: Cinema, Torino, Einaudi, 1975, p. 29).
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Anna Antonello LE CITTÀ FASCISTE: TRA REALTÀ E IDEALE
In un volume di recente pubblicazione, lo storico Roger Griffin si poneva alcune domande fondamentali rispetto ai molteplici paradossi del fascismo: How did a regime dedicated to destroying the “progressive” forces of socialism and renewing Italy’s Roman heritage attract the active collaboration of so many of its most prominent modern artists, architects, designers and technocrats? [ … ]. How was it that the same regime could contemporaneously host Giuseppe Bottai’s modern art competition for the Bergamo Prize and sponsor some of the boldest experiments in modernist townplanning and civil buildings, while also promoting the “ultra-ruralist” painting of the strapaese movement. [ … ]. How could it launch initiatives to revitalize local customs and traditions, [ … ], make enormous efforts to instil in the entire population a sens of awe for the glory that once was Rome, lovingly restore the treasures of the country’s rich medieval, Renaissance, and ecclesiastical heritage to promote national pride and the domestic and foreign tourist industry, yet at the same time build motorways, drain marshes, electrify railways [ … ]?1
Ciò che incuriosisce in questa breve sequenza sono le contrapposizioni, talvolta di ordine ideologico e talvolta di ordine pratico, nate dalla convivenza di diverse correnti fasciste che cercavano nello stesso momento di rivalutare il passato o di proiettarsi verso una nuova modernità. Un personaggio illustre come Margherita Sarfatti già nel 1925 diceva di Roma che «si fa e si disfa architettura assai più che altrove»2. 1 Roger Griffin, Modernism and Fascism. The Sens of a Beginning under Mussolini and Hitler, New York, Palgrave Macmillan, 2007, pp. 18-19. 2 Margherita Sarfatti, Segni, colori e luci. Note d’arte, Bologna, Zanichelli, 1925, p. 238.
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Valeria Pala La città nella riflessione critica di Antonio Gramsci
La riflessione sulla città – come espressione della modernità, come schematizzazione del progetto politico sotteso all’esistenza e all’organizzazione degli spazi, come modello di interpretazione del mondo e della realtà contemporanei, come rete di rapporti e relazioni globali che riguardano i concetti attuali di nazione, di letteratura, di lingua e il senso dell’identità – è largamente presente nell’opera di Antonio Gramsci, a partire dagli articoli giovanili e dagli scritti precarcerari fino ai Quaderni del carcere. È importante premettere subito che l’argomento “città” di rado è affrontato singolarmente; il più delle volte esso appare infatti contrapposto alla campagna e complicato dalle ulteriori polarizzazioni tra Nord e Sud e classi dominanti e subalterne. Città e campagna sono dunque intese in un nesso di unità/distinzione che rimanda in primo luogo alla concezione dialettica della realtà storica, sociale, culturale e politica che anima costantemente il pensiero gramsciano. In secondo luogo la diade città/campagna è espressione di una precisa scelta ermeneutica ed epistemologica da parte di Gramsci, per la quale non è tanto l’opposizione in sé fra i due diversi spazi fisici, storici, sociali e culturali che conta quanto l’effetto da essa prodotto in termini di messa a punto del concetto di egemonia in una serie di ambiti di interesse che risultano dunque strettamente correlati. Il costante interesse per la lotta per l’emancipazione delle classi subalterne ispira ad esempio l’intervento del 1926 a Lione nel quale Gramsci auspica la «via ad un’alleanza» tra città e campagna, ovvero tra operai e contadini, «per la lotta contro il capitalismo e contro lo stato borghese»1. Gramsci è 1 Antonio Gramsci, Intervento alla commissione politica del III Congresso del PCd’I (Lione, 1926), ora in La costruzione del Partito Comunista 1923-1926, Torino, Einaudi, 1971, p. 483.
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Daniela Sannino Luigi Gualdo e Venezia: tra silenzio assordante, magica decadenza e rêverie
«Venise est la ville de la langueur et de l’ennui»1
Nei carteggi di Luigi Gualdo (1844 – 18982), nei suoi articoli, nelle sue poesie e nei suoi romanzi, Venezia – o, come egli preferisce definirla, la ville magique – appare come la città italiana prediletta al di sopra di tutte le altre, celebrata per il suo “carattere specialissimo” e perciò meta preferita dello scrittore, milanese di nascita e parigino d’elezione. I riferimenti a luoghi e mondi vissuti, assaporati nel corso della propria esistenza, sono continui nell’intera opera di questo singolare autore cosmopolita e poliglotta, ma non v’è dubbio che tutta la sua esperienza di raffinato viaggiatore ed elegante narratore possa essere condensata nelle considerazioni elaborate a proposito dei suoi soggiorni a Venezia. 1 Jean-Pierre Bertrand, “La nostalgie de la lagune”. Une nouvelle entre psychologie et décadence, in appendice a Luigi Gualdo, L’innamorato di Venezia – Une aventure vénitienne, a cura di J.-P. Bertrand e Luciano Curreri, Cuneo, Nerosubianco, 2009, p. 82. 2 L’edizione più completa ed affidabile – per quanto lacunosa e non priva di inesattezze filologiche – dell’opera di Gualdo narratore e rimatore resta, a tutt’oggi, quella realizzata oltre mezzo secolo fa da Carlo Bo (L. Gualdo, Romanzi e Novelle, a cura di C. Bo, Firenze, Sansoni, 1959), integrabile sul versante poetico con l’importante contributo dato sul finire degli anni ’80 da Renata Lollo: L. Gualdo, Le poesie (1859-1893), introduzione, notizia biografica e note filologiche a cura di R. Lollo, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1989. Per una bibliografia essenziale dedicata allo scrittore, invece, si vedano almeno i tre seguenti studi: Valeria Donato Ramaciotti, Luigi Gualdo e Robert de Montesquiou (con lettere inedite), in «Atti dell’Accademia delle Scienze di Torino», 1973, 107, pp. 281-367; Pierre De Montera, Luigi Gualdo (1844-1898). Son milieu et ses amitiés milanaises et parisiens. Lettres inédites à François Coppée. Pages oubliées, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1983 e Marilena Giammarco, Le forme della decadenza. Itinerari nella narrativa di Luigi Gualdo, Roma, Edizioni dell’Ateneo, 1987.
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Rita Pilia La dialettica tra i cronotopi della foresta e della città nella letteratura italiana del Novecento
In Estetica e Romanzo Bachtin scrive che «nel cronotopo letterario ha luogo la fusione dei connotati spaziali e temporali in un tutto dotato di senso e concretezza. Il tempo qui si fa denso e compatto e diventa artisticamente visibile; lo spazio si intensifica e si immette nel movimento del tempo, dell’intreccio, della storia»1. Proprio in virtù della dimensione temporale che lo domina il cronotopo subisce una continua evoluzione, da cui deriva una delle sue caratteristiche più affascinanti: l’ambivalenza. Pertanto non deve stupire che uno stesso cronotopo possa assumere valori diversi a seconda del contesto storico in cui è inserito, e neppure deve recare meraviglia il fatto che due cronotopi in apparenza così dissimili come la foresta e la città siano in realtà legati a doppio filo, in un rapporto dialettico di tesi e antitesi, e orientati verso un destino comune di desertificazione. Prima di poter approfondire il discorso sulla dialettica, tuttavia, è necessario considerare singolarmente i due cronotopi. Per quanto riguarda la foresta le immagini chiave sono due, entrambe dantesche: “la selva oscura” e la “divina foresta”. Nel primo caso la foresta è un luogo infernale, labirintico, in cui l’eroe, messo alla prova, corre il rischio di smarrirsi, soccombendo sia fisicamente che spiritualmente, nel secondo caso la foresta è luogo edenico, metafora dell’infanzia e di tutto quanto l’uomo consideri innocente. Per quanto riguarda il cronotopo della città, invece, cielo e inferno ritornano nell’immagine di Gerusalemme, armoniosa e pura, e in quella di Babilonia, caotica e immorale. L’aspetto più significativo di questo discorso non è tanto la somiglianza di valori quanto la loro specularità: in letteratura, infatti, ogni volta che il cronotopo della foresta assume una valenza 1
Michail Bachtin, Estetica e romanzo, Torino, Einaudi, 2001, pp. 231-232.
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Antonio Giampietro LA MISURA DEL REALE: SERRA E LA SUA CESENA
«Piove. È mercoledì. Sono a Cesena»1: come Eugenio Montale nel 1947 sul «Corriere d’informazione» quando commentava il suo soggiorno a Cesena, chiamato a presiedere a un premio letterario nell’ambito delle manifestazioni per il trentennale della morte di Renato Serra 2, anche noi vogliamo richiamare alla mente questo indelebile verso di Marino Moretti per introdurci nella città romagnola. E mentre rileggiamo la poesia dell’autore crepuscolare, delicate immagini scorrono e siamo immersi nel grigio borgo battuto dalla pioggia che lava le facce delle case. E il pensiero corre a una mattina lontana: ci troviamo con Renato Serra a percorrere un sentiero di breccia, inebriati dalla natura e dal profumo della pioggia, diretti in biblioteca. È egli stesso a condurci in questo luogo mitico che è la sua Cesena, nel preambolo al saggio Ringraziamento ad una ballata di Paul Fort. Bastano questi due accenni per comprendere come spesso nel Novecento le città siano entrate nella letteratura e nell’immaginario comune. Frequentemente si sono identificate con luoghi mitici, astrazioni mentali, più che presenze reali, vive in un tempo contingente. Cesena, però, come giustamente ha osservato Marino Biondi, «grazie a Serra e alla sua leggenda, è diventata un luogo che perviene curiosamente più che alla letteratura, alla critica letteraria, divenuta un emblema di cosa sia “la provincia”, come stile di pensiero e di vita»3. La città nativa è il punto 1 Marino Moretti, A Cesena, da Il giardino dei frutti, in In verso e in prosa, a cura di Geno Pampaloni, Milano, Mondadori, 1979. 2 Eugenio Montale, Un giorno a Cesena, in «Il lettore di provincia», dicembre 1985, 63, pp. 125-126. Già in «Corriere d’informazione», venerdì 23-sabato 24 maggio 1947. 3 Marino Biondi, Leggere Cesena e la Romagna: le città negli scrittori del novecento, in Il libro in Romagna. Produzione, commercio e consumo dalla fine del secolo XV all’età contemporanea, a cura di Lorenzo Baldacchini e Anna Manfroni, Firenze, Olschki, 1998, p. 827.
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Maria Panetta Il “Viaggio in Italia” di Prezzolini: le città d’arte, fra “rovine” e modernità
Nel 1900 Giuseppe Prezzolini, forse sulla scia dei «grandi viaggi artistici»1 inaugurati dagli amici Luigi Morselli e Giovanni Papini, che di certo lo contagiarono col loro entusiasmo2, decise di intraprendere un percorso di studio dell’arte italiana e iniziò a viaggiare per la penisola, toccando alcuni centri, noti per l’illustre patrimonio artistico, e visitandone monumenti e musei. Un’interessante testimonianza di questo suo viaggio culturale è racchiusa nel vivace carteggio che egli intrattenne col suo amico e sodale di sempre, Giovanni Papini 3: proprio sull’analisi di alcuni brani tratti dalle lettere dei due corrispondenti è incentrato questo intervento. Nell’estate del 1900 Prezzolini annunciava agli amici la propria decisione di partire dalla Francia (precisamente da Grenoble4) e il proprio ritorno a Firenze, il 29 agosto5. Già del 1 novembre 1900 è una lettera in cui egli, 1 Cfr. Giovanni Papini-Giuseppe Prezzolini, Carteggio, a cura di Gloria Manghetti e Sandro Gentili, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2008, I, lettera 11 di Papini e Morselli, del 31 luglio 1900, p. 50: «Giovanni ed io abbiamo iniziata la serie dei grandi viaggi artistici con la città di Prato». Cfr. anche la lettera 8 di Papini e Morselli, del 22 luglio, specie a p. 38; la cartolina illustrata n. 12 di Papini e Morselli, del 3 agosto 1900, da Pistoia (p. 53); la lettera 17 di Papini e Morselli, del 16 agosto 1900, pp. 59-64 (che descrive Pistoia, Empoli, Pisa e annuncia un giro di Morselli in bicicletta per Marche e Umbria). 2 Ivi, lettera 19, del 18 agosto 1900, p. 65: «le vostre peregrinazioni mi hanno fatto palpitare e con voi ho tremato nei pericoli, mi son dolto nelle disgrazie, con voi ho rivisto i monumenti della antica Toscana, che sono risuscitati davanti a me, mediante le magiche parole di Morselli e il suo stile brillante al quale per la chiarezza non nuocevano le illustrazioni un po’ enigmatiche ambe esse». 3 Cfr. G. Papini-G. Prezzolini, Carteggio, cit.; tutte le citazioni verranno tratte da questa edizione (e, in particolare, dal primo volume). 4 Ivi, lettera 19, del 18 agosto 1900, pp. 65-67. 5 Ivi, lettera 21, del 27 agosto 1900, pp. 68-69.
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Isabella Pugliese Immagini della città di Palazzeschi: il topos della passeggiata
La dimensione cittadina occupa un posto di rilievo nell’immaginario poetico di Aldo Palazzeschi e frequentemente tra i suoi versi si affacciano squarci di città e situazioni riconducibili a un’ambientazione tutta urbana. È stata più volte sottolineata dalla critica la predilezione dello scrittore, nella vita e nell’opera, per lo sfondo cittadino, sia che si tratti di intesservi la tela della propria esistenza, sia che si tratti di disegnarvi la trama delle proprie opere. Comune ai due mondi della vita e dell’arte resta la scelta urbana, prevalente su quella naturale. Palazzeschi predilige le affollate metropoli dove può essere anonimo, dove può vivere come uno sconosciuto, abitando non nelle strade principali, ma nelle viuzze minori. La fantasia del poeta fiorentino si accende soprattutto in città, di fronte alla bellezza creata dall’uomo a cui l’autore ha sempre detto di essere più sensibile, rispetto alla bellezza creata dalla natura: Poteva darsi che io vivessi in una città sola tutta la mia vita e c’è chi l’ha fatto e avrei voluto farlo anch’io, ma ne ho amate quattro o cinque e basta, di tutto il resto del mondo io non conosco niente: Firenze, Roma, Napoli e Venezia. Le bellezze naturali mi incantano, ma la bellezza creata dall’uomo mi esalta1.
La musa di Palazzeschi è dunque una musa cittadina, che trae la sua ispirazione dall’umanità variopinta che affolla le strade metropolitane, dal fiume di uomini e donne che l’attraversano e da quella continua festa di immagini e colori che costituiscono il nucleo reale dell’arte poetica 1 Carlo Mazzarella, Incontro con Palazzeschi (1960), ora in Scherzi di gioventù e d’altre età. Album Palazzeschi (1885-1974), a cura di Simone Magherini e Gloria Vanghetti, Firenze, Polistampa, 2001, p. 252.
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Antonella Santoro Trieste tra Svevo e Saba
1. Trieste costituisce un elemento fondamentale e imprescindibile nella formazione e nell’universo letterario di Svevo e Saba e perciò riveste un ruolo particolare nelle loro opere. Trieste, com’è ben noto, lascia un segno particolare nei suoi scrittori a causa della travagliata storia di città di frontiera, ai margini sia dell’Italia che dell’Impero asburgico. Fattore che spiega la sua identità anomala, frutto dell’incrocio di diversi elementi socio-culturali ed economici. Come ha detto Alessandro Cinquegrani: «La storia della città, dunque, [ … ], irrompe nella vita dei suoi principali autori»1. Angelo Ara e Claudio Magris hanno sottolineato come la mancanza di un’identità omogenea e compatta di Trieste (divisa sul piano culturale e sociale per la compresenza dell’elemento slavo, italiano e tedesco) comporta che gli scrittori triestini abbiano ritrovato la propria individualità nella letteratura, la quale assume così un valore esistenziale. A dirla sempre con i due studiosi: «L’“antiletterarietà” dei triestini, di cui si è tanto parlato, è l’atteggiamento di uomini che chiedono allo scrivere non bellezza ma verità, perché per essi scrivere vuol dire acquistare un’identità, non solo come individui ma come gruppo»2. Non è un caso allora che sia Svevo che Saba (nonché Slataper) condividano lo stesso modo ‘antiletterario’ di fare letteratura che consiste in un atto di riflessione e conoscenza, lontano da ogni sorta di esercizio formale. La mancanza di una matrice culturale unitaria in cui ritrovarsi determina in loro un approccio letterario non contemplativo ma analitico e fatto di 1 Alessandro Cinquegrani, Solitudine di Umberto Saba. Da «Ernesto» al «Canzoniere», Venezia, Marsilio, 2007, p. 22. 2 Angelo Ara e Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1987, p. 8.
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Mariella Muscariello Donna, provincia e città: Sibilla e le altre
In Italia lo sviluppo dell’urbanesimo coincide, negli anni ’70-’80 dell’Ottocento, con una massiccia presenza di voci femminili nei circuiti della produzione letteraria. Ammesse a partecipare al giornalismo e al mercato librario, le donne vi arrivano, però, gravate da una lunga storia di emarginazione che si materializza, nel loro immaginario, nei perimetri claustrofobici di case paterne e maritali, in luoghi-emblema di una femminilità coatta – stanze, cucine, conventi – e, soprattutto, nello spazio periferico della provincia1. Ed è così che, mentre molti scrittori sono chiamati a raccontare la nascente realtà metropolitana2, la scrittura delle donne, che sia di finzione o autobiografica, declina variamente storie di frontiera, di realtà minime e marginali. Che la geografia, come sostiene Moretti, lasci «le sue tracce sui testi, sugli intrecci» e agisca «sullo stile»3, è evidente nel romanzo Teresa di Neera, assunto qui, in un discorso necessariamente costruito per sondaggi senza alcuna pretesa di esaustività, a modello pertinente. Il romanzo si apre con l’inondazione del Po che è, per il paese di Casalmaggiore, avvolto in un’atmosfera umbratile e piovosa, come impantanato in un’ossessiva gradazione cromatica dal «grigio» al «nero», un “imprevisto” che interrompe, ma per poco, la cadenza monotona dei suoi ritmi vitali. Cessato il pericolo, il paese, 1 Si veda, in proposito, l’interessante volume Architetture interiori. Immagini domestiche nella letteratura femminile del Novecento italiano. Sibilla Aleramo, Natalia Ginzburg, Dolores Prato, Joyce Lussu, a cura di Chiara Cretella, Sara Lorenzetti, Firenze, Franco Cesati Editore, 2008. 2 Sui complessi rapporti tra intellettuali e realtà urbana negli anni Ottanta dell’Ottocento si vedano Giovanna Rosa, Il mito della capitale morale. Letteratura e pubblicistica a Milano tra Otto e Novecento, Milano, Edizioni di Comunità, 1982 e Amerigo Restucci, L’immagine della città, in Letteratura italiana, Storia e geografia, III. L’età contemporanea, a cura di Alberto Asor Rosa, Torino, Einaudi, 1989, pp. 169-220. 3 Franco Moretti, Atlante del romanzo europeo 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, pp. 5 e 46.
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Sergio Di Prima SBARBARO E LA CITTÀ: UN PROCESSO DI FUSIONE
Tema fondamentale ed ampiamente declinato nell’opera di Camillo Sbarbaro, la città è di volta in volta – lungo le sue pagine – scenario esteriore, paesaggio perdutamente amato, pietra in cui riflettersi e attecchire, fondale da scandagliare, entità in cui sciogliersi. Appena sfiorata nell’esordio poetico – elettivamente campestre – di Resine, la realtà urbana si accampa, nell’intima e tetra auto-confessione di Pianissimo, quale cupo teatro consonante ad un io che peregrinando vi aderisce: città sorda e sordida in cui l’autore può riconoscersi. Città tentatrice, che calamita alle sue pareti e risucchia nei bassifondi, come un morboso mistero da penetrare. Le superfici della città notturna – una Genova per il momento senza nome – sono materia risonante di funeree percussioni, deserto di pietra in cui il poeta agevolmente rispecchia – e riecheggia – la propria figura. In Esco dalla lussuria… lo vediamo camminare per «lastrici sonori nella notte», in una «città di pietra» dove la «Necessità» rintocca le «ore». Nella desolazione si specchia: A queste vie simmetriche e deserte a queste case mute sono simile. [ … ] Mi pare d’esser sordo ed opaco come loro, d’esser fatto di pietra come loro1.
1 Camillo Sbarbaro, Esco dalla lussuria…, in Pianissimo, Firenze, Libreria della Voce, 1914; citiamo da Pianissimo, a cura di Lorenzo Polato, Venezia, Marsilio, 2001, p. 45 [prima edizione: Mi-
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Virginia di Martino «PEI LASTRICI SONORI NELLA NOTTE»: L’ESPERIENZA DELLA CITTÀ IN PIANISSIMO DI CAMILLO SBARBARO
«La città era un vischio, ma il suo spettacolo m’era necessario, mi cibava di sensazioni»1. Con quest’affermazione Sbarbaro risponde alla domanda di Camon, che, intervistandolo, tenta di sondare l’origine dell’alienazione dell’io protagonista di Pianissimo e dei Trucioli: «Dunque: estraniazione sì, ma nello stesso tempo bisogno degli altri, della città? o per città s’intende un agglomerato sordo e opaco, senza corrispondenza in noi, senz’anima?»2. Leggendo i primi Trucioli, espressamente collegati a molte immagini di Pianissimo3, ci imbattiamo in un’altra confessione di Sbarbaro: «Io, sempre pronto a staccarmi, quando la febbre della città mi prende, alla vita mi radico»4. Lo spazio urbano è vissuto, dunque, come «vischio», come malattia, e, paradossalmente, come occasione di salute, di ancoraggio alla vita. A indicare quanto sia ambivalente il rapporto che vincola il poeta alla città, nello spazio vischioso che gli violenta la volontà, che ne reifica la dignità di uomo, egli si ritaglia la spazio e il tempo per gesti di tenerezza: «Solo gesto d’amore possibile: condurre a spasso la mia muta meraviglia»5. Sempre in cammino, difatti, ci si presenta il soggetto protagonista delle liriche di Pianissimo, il viandante ora sonnambulo e cieco, ora veggente e profeta, che si muove nel «grande / deserto»6 del mondo. E se nella prima parte della silloge l’orizzonte in cui Ferdinando Camon, Camillo Sbarbaro, in Il mestiere di poeta, Milano, Garzanti, 1982, p. 40. Ibidem. 3 «L’inizio dei Trucioli si riattacca (e anzi ripete e illustra) all’ultima poesia di Pianissimo» (ibidem). 4 Camillo Sbarbaro, Io, sempre pronto a staccarmi, in L’opera in versi e in prosa, a cura di Gina Lagorio e Vanni Scheiwiller, Milano, Garzanti, 1999, p. 134. Il volume sarà citato in seguito con la sigla OVP. 5 Ibidem. 6 C. Sbarbaro, Taci, anima stanca di godere, in Pianissimo, a cura di Lorenzo Polato, Venezia, Marsilio, 2001, p. 41, vv. 23-24. Le liriche di Sbarbaro saranno citate, salvo indicazione diversa, da tale edizione, per cui ne saranno specificati solo i numeri di pagina e di versi. 1 2
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INDICE DEL VOLUME
TOMO II COMUNICAZIONI Prefazione Mario Barenghi, Giuseppe Langella, Gianni Turchetta 5
16 giugno Sessione A Manuela Spina (Università di Catania) Catania nel secondo Settecento. Tra le suggestioni dei viaggiatori europei e il «basso delle grevi rappresentazioni» nei versi di Domenico Tempio
9
Mauro Novelli (Università di Milano) «Indove andee?». Traumi e cadute per le vie della Milano portiana
25
Novella Primo (Università di Catania) Del «vivere cittadinesco e sociale». Binarismi (e fruizione artistica) dello spazio urbano leopardiano
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Valentina Murtas (Università di Cagliari) Le città nel Le mie prigioni. Un’analisi tematica e linguistica
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la città e l’esperienza del moderno
Ida De Michelis (Università La Sapienza, Roma) Londra capitale del XIX secolo: il resoconto di Pecchio
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Maria Rosaria Olivieri (Università La Sapienza, Roma) Il volto moderno della città tra mito letteratura e conoscenza in G.A. Borgese: dal modello europeo a “la città assoluta”
67
Sara Lonati (Università di Ginevra) Gita ad Asmara. Racconti di viaggio dalla piccola Roma d’oltremare
81
Sessione B Elisabetta Reale (Università di Messina) Madre matrigna. Palermo nella drammaturgia italiana contemporanea: «Malaluna» di Vincenzo Pirrotta Maria Rizzarelli (Università di Catania) «Una architettura fantastica dentro un lago di rovine». Apologhi per immagini della Palermo di Sciascia
95
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Alberico Guarnieri (Università di Calabria) La città lontana ne I Malavoglia 111 Bartolo Calderone (Università di Catania) Anabasi e conversazioni di Vittorini e Comisso. Persefone ritornante o la venditrice d’arance (e meloni)
131
Andrea Crismani (Università di Padova) La città nel teatro di Rosso di San Secondo: un approdo mitico oltre l’alienazione
143
Samantha Viva (Università di Catania) La città metafisica di Sciascia
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Ornella Bonarrigo (Università di Catania) La città-casbah di Goliarda Sapienza
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INDICE
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Sessione C Elisabetta Macaione (Università di Bari) Le immagini della città in Gadda
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Mauro Bignamini (Università di Pavia) Da Les Halles a Piazza Vittorio: itinerari intertestuali (e non) nella Roma del Pasticciaccio 187 Ilaria Rubino (Università di Bari) Le città di carta di Antonio Delfini. Vagabondaggi tra realtà e immaginario
197
Elena Porciani (Università di Calabria) La città e il caso nella Storia di Elsa Morante
207
Ilaria Puggioni (Università di Sassari) Da Karale a Cagliari: la città bianca nella narrativa di Sergio Atzeni
215
Federico Fastelli (Università di Firenze) Immagine e funzione della città nelle prime opere di Luigi Malerba 223 Guglielmo Pispisa (Università di Messina) Centri, periferie e fughe. La dimensione spaziale nell’opera di Pier Vittorio Tondelli
231
Nives Trentini (Università di Barcellona) Veronesi e la prospettiva bloccata: annullamento ed enfatizzazione della città in Caos calmo e in Brucia Troia 241
Sessione D Oretta Guidi (Stranieri, Perugia) Le due città di Mario Soldati: Torino-Roma, due proiezioni dell’io, due esperienze di vita
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Alessandro Gaudio (Università di Calabria) Sfera privata e spazio pubblico nell’idea morselliana di Polis 267
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la città e l’esperienza del moderno
Stefano Tonon (Università Ca’ Foscari, Venezia) «Quando saremo a Londra ci pianterem la giostra: diremo agli inghilesi che siamo a casa nostra»: il tema della città nell’opera di Luigi Meneghello
273
Chiara Lungo (Università di Pavia) «Non te la porti tu una città?» Per un testo inedito di Luigi Meneghello
285
Monica Davini (Università per Stranieri, Siena) Un “conversatore” a Milano: Alberto Savinio
297
Alessandro Cinquegrani (Univeristà Ca’ Foscari, Venezia) Utopie di disfilassi nella città del futuro. Ipotesi su alcuni racconti di Primo Levi
307
Angela Di Fazio (Università di Bologna) Questioni di tranquillità. Il profilo urbano nei racconti fantastici di Primo Levi
319
Franco Tomasi - Mauro Varotto (Università di Padova) «Non sono un fottuto flâneur»: Vicenza diffusa ne I quindicimila passi di Vitaliano Trevisan
327
Emanuele Zinato (Università di Padova) Parise a New York: gli oggetti della mutazione 337 Stella Spedo (Università di Padova) La Tokio di Parise: lo straniamento dello stile
347
Vito Santoro (Università di Bari) Goffredo Parise a New York
357
Gilda Policastro (Università di Perugia) Il pretesto dei luoghi nella narrativa apocalittica contemporanea: la Roma di Malerba e Pincio
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Carmen Sari (Università Ca’ Foscari, Venezia) «Un modo inedito di stare al mondo». Venezia raccontata da Tiziano Scarpa
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Sessione E Alessio Giannanti (Università di Sassari) Immagini della città nella trilogia Memorie del mondo sommerso di Corrado Alvaro
393
Lorella Giuliani (Università di Calabria) La città perfetta e deforme nei 75 racconti di Corrado Alvaro
401
Dario Tomasello (Università di Messina) Città del malessere: la mappa precaria del romanzo italiano contemporaneo
409
Dario Stazzone (Università di Catania) L’orologio di Carlo Levi
417
Emanuele Broccio (Università di Messina) Resistenza alla città: Fenoglio e la tragedia della volontà
431
Alessia Scacchi (Università La Sapienza, Roma) I corpi celesti delle città. Gli spazi urbani nei “rendiconti” di Anna Maria Ortese
435
Andrea Chiurato (IULM) «Quelle luci che da Napoli si vedono così male». L’immagine di Milano nell’opera di Anna Maria Ortese e Raffaele La Capria
455
Emmanuela Carbè (Università di Pavia) La città di sabbia: immagini levantine in Fausta Cialente
463
Sarah Sivieri (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Città equivoca e città del riscatto. Su Allegro con disperazione di Gianna Manzini
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Francesco Venturi (Università di Siena) «La perduta aristocrazia del rinchiuso». Riflessioni sulla città in Arturo Loria
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la città e l’esperienza del moderno
Sessione F Giovanna Tomasello (Università L’Orientale, Napoli) L’avventura notturna de Gli Indomabili di Marinetti nella città industriale
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Giovanna Caltagirone (Università di Cagliari) A Milano il Futurismo era già il passato. Filippo Tommaso Marinetti, La grande Milano tradizionale e futurista 503 Alessandra Ottieri (Università Federico II, Napoli) «La terra dei vivi» (1933): La Spezia città futurista
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Lorenza Miretti (Università di Bologna) La Metropoli parolibera di Michele Leskovic
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Monica Manzoni (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Città di futuri impossibili. L’urbanistica della protofantascienza italiana
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Alexandra Zingone (Università La Sapienza, Roma) La città scritta, la città dipinta. Problemi, figure
555
Silvia Acocella (Università Federico II, Napoli) La città come “mondo minerale” del moderno. L’opacità delle vetrine e la trasparenza delle rovine
567
Giulia Iannuzzi (Università di Trieste) Città mediatiche, città degli uomini. Alcuni esempi di narrativa fantascientifica italiana dei primi anni Sessanta
577
Roberta Delli Priscoli (Università di Salerno) La città metafisica nell’opera letteraria di Giorgio de Chirico
585
Simona Scattina (Università di Catania) Carlo Ludovico Ragghianti e la città “monumento”: dall’ambito della visione alla prospettiva dell’arte
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Anna Antonello (Università di München-Pavia) Le città fasciste: tra realtà e ideale
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Valeria Pala (Università di Cagliari) La città nella riflessione critica di Antonio Gramsci
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Sessione G Daniela Sannino (Università di Edinburgh) Luigi Gualdo e Venezia: tra silenzio assordante, magica decadenza e rêverie
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Rita Pilia (Università di Siena) La dialettica tra i cronotopi della foresta e della città nella letteratura italiana del Novecento
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Antonio Giampietro (Università di Bari) La misura del reale: Serra e la sua Cesena
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Maria Panetta (Università La Sapienza, Roma) Il “viaggio in Italia” di Prezzolini: le città d’arte, fra “rovine” e modernità
667
Isabella Pugliese (Università Federico II, Napoli) Immagini della città di Palazzeschi: il topos della passeggiata
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Antonella Santoro (Università di Salerno) Trieste tra Svevo e Saba
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Mariella Muscariello (Università Federico II, Napoli) Donna, provincia e città: Sibilla e le altre
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Sergio Di Prima (Università di Messina) Sbarbaro e la città: un processo di fusione
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Virginia Di Martino (Università Federico II, Napoli) «Per lastrici sonori nella notte»: l’esperienza della città in Pianissimo di Camillo Sbarbaro
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Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di maggio 2012
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