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LA MODERNITĂ€ LETTERARIA collana di studi e testi diretta da Anna Dolfi, Alessandro Maxia, Nicola Merola Angelo R. Pupino, Giovanna Rosa
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La città e l’esperienza del moderno a cura di Mario Barenghi Giuseppe Langella Gianni Turchetta
Tomo III
Edizioni ETS
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www.edizioniets.com
In copertina FORTUNATO DEPERO, Cantiere sonoro metropolitano (Dinamismo sotterraneo metropolitano), 1950
Il presente volume è stato pubblicato con il contributo di Università degli Studi di Milano - Dipartimento di Filologia Moderna Università degli Studi di Milano Bicocca - Dipartimento di Scienze Umane per la Formazione Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano
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Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com www.edizioniets.com Distribuzione PDE, Via Tevere 54, I-50019 Sesto Fiorentino [Firenze] ISBN 978-884673315-3
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PREFAZIONE
Intorno alla fine del XVIII secolo, lo sviluppo dell’industria e l’avvento dell’economia di mercato, l’urbanizzazione accelerata, l’ondata rivoluzionaria, i cambiamenti delle istituzioni politiche e giuridiche cambiano irreversibilmente l’Europa e poi il mondo intero, segnando una discontinuità storica profonda e dando avvio a quanto collochiamo sotto il termine “modernità”. Anche la letteratura occidentale cambia per sempre, abbandonando nel giro di pochi anni il sistema millenario dei generi e degli stili, per entrare nell’era del romanzo, del realismo e di una pressoché illimitata libertà espressiva, di cui siamo ancora eredi. L’avvento della modernità sconvolge l’ordine delle cose, ma anche i soggetti e la loro esperienza. Come ha scritto Marshall Berman, nel suo memorabile L’esperienza della modernità, «essere moderni vuol dire trovarsi in un ambiente che ci promette avventura, potere, gioia, crescita, trasformazione di noi stessi e del mondo; e che, al contempo, minaccia di distruggere tutto ciò che abbiamo, tutto ciò che conosciamo, tutto ciò che siamo». L’esperienza del moderno si colloca dunque sotto il segno dell’intensità e dell’ambivalenza; ma si colloca anche in un contesto specifico: la città. Lo spazio urbano rappresenta la dimensione più naturale e caratteristica della modernità. Dalla fine della letteratura di antico regime, i destini dei personaggi letterari e le forme della rappresentazione si definiscono con evidenza sempre maggiore all’interno di ambienti e scenari cittadini, o in relazione ad essi. Una sintonia profonda contraddistingue insomma il rapporto fra la letteratura moderna e la città – o, per dir meglio, le città, non solo perché gli ambienti urbani differiscono molto tra loro a seconda dei contesti geografici e storici, ma perché la città in quanto tale è per definizione un luogo articolato, multiforme, metamorfico. Oggi le città si allargano sempre più, il mondo è sempre più urbanizzato, ma l’ampliamento territoriale pare andare di pari passo con l’affievolirsi della spinta all’agglomerazione, da sempre vettore primario dell’urbanizzazione. Di qui metafore come “città diffusa” o “arcipelago metropolitano”, che cercano di render conto delle nuove organizzazioni ter-
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LA CITTÀ E L’ESPERIENZA DEL MODERNO
ritoriali, fra razionalità e disordine, dispersione, sprawl, termine provvisorio di arrivo di un percorso iniziato due secoli e mezzo fa. I testi raccolti in questo volume, legati al convegno della MOD organizzato nel 2010 da tre atenei milanesi (Statale, Cattolica, Bicocca) offrono una ricognizione ad ampio spettro dei rapporti tra città e letteratura dal Settecento ai giorni nostri. Immagini, ritratti, rappresentazioni di città diverse, nella più ampia varietà possibile di prospettive e di forme letterarie: città grandi e piccole, centrali e periferiche, sonnolente e tumultuose, da un capo all’altro dell’Italia ma anche oltralpe e oltreoceano, ritratte con attenzione minuziosa o viste di scorcio, intuite, patite, godute, vissute. Un affascinante caleidoscopio di scenari cittadini che è anche una capillare ricognizione sulla vocazione urbana della modernità. Alla ricca messe di indagini su aspetti, momenti, movimenti, singoli autori ed opere si aggiungono contributi provenienti da specialisti di discipline diverse dall’italianistica, nella convinzione che gli studi sulla fenomenologia letteraria degli scenari urbani possano trarre giovamento dal confronto con gli sguardi, diversamente orientati, del sociologo, dell’antropologo, del fotografo, dell’urbanista: i quali del resto si sono a loro volta storicamente avvalsi, e continuano ad avvalersi, di immagini e idee offerte dall’invenzione narrativa e dalla elaborazione poetica. Mario Barenghi, Giuseppe Langella, Gianni Turchetta
17 giugno Sessione A
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Chiara Marasco TRIESTE E L’«INQUIETUDINE» DELLA MODERNITÀ
Trieste è posto di transizione – geografica, storica, di cultura, di commercio – cioè di lotta. Ogni cosa è duplice o triplice a Trieste, cominciando dalla flora e finendo con l’etnicità Scipio Slataper, L’avvenire nazionale e politico di Trieste, in Scritti politici, a cura di Giani Stuparich, Milano, 1954
1. La città e la periferia del mondo Nel 1929 Walter Benjamin osserva come per descrivere l’immagine della propria città occorrano «motivi che inducono a viaggiare nel passato anziché in luoghi lontani. Se una persona scrive un libro sulla propria città, esso avrà sempre una certa affinità con le memorie; non per nulla l’autore ha trascorso la sua infanzia nel luogo descritto»1. Dunque, come ribadisce Szondi, nella postfazione a Immagini di città, chi «descrive la propria città dovrebbe intraprendere un viaggio nel tempo anziché nello spazio», «un viaggio nel passato [ … ]. Non c’è descrizione senza distanza [ … ]. Che la città sia sempre quella, ma che quel tempo sia irrimediabilmente perduto»2. La città, però, è anche «lo sguardo che la osserva e l’animo che la vive; anche per questo essa, capitale della storia moderna e del suo sviluppo, è pure una capitale della letteratura; è divenuta non solo uno scenario, bensì 1 2
Walter Benjamin, Il ritorno del flâneur, in Ombre corte, Torino, Einaudi, 1993, p. 468. Peter Szondi, Postfazione, in W. Benjamin, Immagini di città, Torino, Einaudi, 2007, pp. 128-129.
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Novella Di Nunzio LA CITTÀ LABIRINTO: TRIESTE E LA SCOMPARSA DI ANGIOLINA
1. Nel saggio Complessità urbana e intreccio romanzesco, Steven Johnson analizza l’interazione tra città e romanzo nell’epoca della modernità. Superando un primo livello tematico consistente nel «sovraccarico sensoriale», e cioè nella trasformazione in esperienza estetica della percezione umana del nuovo spazio urbano, Johnson passa ad un più complesso livello strutturale, dimostrando come la città e le sue modalità autorganizzanti diventino, oltre il piano della storia, un vero e proprio modello di costruzione narrativa sul piano del discorso1. Secondo Johnson, lo spazio urbano moderno trae la propria struttura generale da un sistema autorganizzante che parte dal basso, e cioè dal particolare delle interrelazioni casuali tra i cittadini: «si gettino un milione di attori entro un sistema e li si lasci entrare in collisione come capita; da questo tipo di incontri casuali emergerà un ordine superiore: [ … ], gli incontri di marciapiede danno origine a quartieri e aree commerciali. Il caso genera ordine a un livello superiore»2. Usando come banco di prova L’educazione sentimentale di Flaubert, Johnson procede poi col dimostrare come il romanzo moderno utilizzi questo stesso processo di costruzione, così che, riprendendo la distinzione precedentemente menzionata tra livello tematico e livello strutturale, «la storia non si ferma a rimuginare sul sovraccarico sensoriale della strada; viceversa, è la strada a rendere possibile la storia»3. Pertanto, abbandonata una funzione di puro sfondo concernente il solo piano tematico-descrittivo, nell’ambito della nuova esperienza urbana offerta dalla modernità, la città Cfr. Seymour Chatman, Storia e discorso, Milano, il Saggiatore, 2003, in particolare le pp. 73-74. Steven Johnson, Complessità urbana e intreccio romanzesco, in Il romanzo, a cura di Franco Moretti, Torino, Einaudi, 2001, I: La cultura del romanzo, p. 738. 3 Ivi, p. 739. 1 2
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Barbara Sturmar «Tra monte e mar [ … ], un nùvolo par sora». La Trieste di Virgilio Giotti
In Trieste romantica, Virgilio Giotti chiede ai suoi lettori: «Siete mai stati a Trieste?»1. Il poeta li invita a visitare il capoluogo giuliano: luogo anomalo e caso unico tra le città italiane, in quanto periferico e incerto nell’identità sconvolta dai ripetuti aggiustamenti del confine geopolitico, dove l’angoscia frontaliera si somma ai labili e tuttavia imprescindibili concetti di italianità e triestinità. Una sofferta vicenda storica e intellettuale che si intreccia in modo inestricabile con la sua produzione letteraria 2. Angelo Ara e Claudio Magris, indagando sulla peculiarità del “caso Trieste”, hanno identificato un’unicità – spesso mitizzata – di un crocevia che rispecchia le tensioni europee, che fonde – talvolta drammaticamente – culture ed etnie diverse, in cui possono convivere l’irredentismo e il culto di Francesco Giuseppe, il cosmopolitismo e la chiusura municipale3. Proprio il particolarismo provinciale, insieme con l’enfasi nazionalista e la sofferta identità periferica, che caratterizzano tanta produzione letteraria locale, riflettono un fondo di «maternalismo» di matrice tutta triestina, nella felice definizione di Roberto Curci e Gabriella Ziani4. Non a caso la letteratura triestina tra fine Ottocento e metà del Novecento, pur avendo note distintive e peculiari tra i diversi autori, ha caratteri comuni, identificabili nel bisogno di autenticità morale, verità, concretezza e nel fermo 1 Virgilio Giotti, Trieste romantica, in Opere, a cura di Rinaldo Derossi, Elvio Guagnini e Bruno Maier, Trieste, Lint, 1986, p. 377. 2 A questo proposito si veda Katia Pizzi, Trieste: italianità, triestinità e male di frontiera, Bologna, Gedit, 2007. 3 A questo proposito si veda Angelo Ara - Claudio Magris, Trieste. Un’identità di frontiera, Torino, Einaudi, 1992, p. 189. 4 A questo proposito si veda Roberto Curci - Gabriella Ziani, Bianco, rosa e verde. Scrittrici a Trieste tra ’800 e ’900, Trieste, Lint, 1993.
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Marina Paino LA «TORINO D’ALTRI TEMPI» DI GUIDO GOZZANO
In un convegno dedicato alla rappresentazione letteraria dello spazio urbano quale metafora privilegiata dell’esperienza del moderno, un titolo ‘passatista’ evocante una città «d’altri tempi» potrebbe forse sembrare fuori di chiave, così come l’attenzione ad un autore come Gozzano che ha articolato attraverso differenti canali tematici il proprio ruolo di interprete di una modernità poetica italiana alla cui fondazione ha indubbiamente contribuito in modo determinante. In quello scorcio di inizio secolo, in cui altri poeti della stessa generazione (si pensi ad esempio a Sbarbaro) non mancano di legare all’immagine della città l’angoscia e la vertigine di un’esistenza senz’aura e senza aureola, Gozzano, che pur si muove nella Torino capitale dell’Italia proto-industriale, sceglie piuttosto di affidare quello stesso disagio alle descrizioni di figure di un mondo ormai irredimibilmente prosaico e alla palese finzione di una volontà di adesione ad esso, relegando a margine l’attenzione alla dimensione urbana cui preferisce ambientazioni campagnole o in interni in disarmo. Torino, la sua Torino, è tuttavia espressamente presente all’interno dei Colloqui con un’intera lirica ad essa dedicata e intitolata; una lirica collocata nella terza ed ultima sezione dell’opera, Il reduce, e verosimilmente ritenuta dal poeta tutt’altro che marginale nell’economia del macrotesto, visto che è tra quelle che egli aveva da subito preso in considerazione per l’inclusione nella raccolta, come testimoniano gli indici provvisori da lui abbozzati e ritrovati tra i suoi quaderni di appunti1. 1 Cfr. Andrea Rocca, Fra le carte di Guido Gozzano: materiali autografi per «I colloqui», in «Studi di filologia italiana», 1977, 35, pp. 395-371, in cui viene riprodotto e commentato il fascicolo autografo AG VIIIa (recante il titolo «I Colloqui») che contiene al suo interno pure due differenti piani provvisori dell’opera (poi riportati dallo stesso Rocca anche nella sua Nota critica ai testi, in Guido
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Matteo Veronesi «URBS GEMULA». IMOLA COME CRONOTOPO LETTERARIO FRA IDILLIO RUSTICALE E TEATRO DI GUERRA
Imola – occorre dirlo subito – non ha avuto, com’è ovvio, un rilievo e una risonanza letterari paragonabili a quelli delle maggiori città, dei centri più prominenti, per quanto concerne sia gli autori che di essa hanno, anche solo marginalmente, trattato, sia quelli a cui essa stessa ha dato i natali, o che vi hanno vissuto ed operato. Tuttavia proprio questa sua marginalità, questa sua natura tipicamente provinciale, questa sua umbratile e microcosmica defilatezza, possono renderla testimone di un punto di vista particolare, per certi aspetti straniante, rispetto al centro, o ai centri, con le loro linee di forza e di attrazione. Fin dalla sua origine, dalla sua formazione, dal suo sviluppo, Imola ha avuto una sua intrinseca natura dicotomica, bipartita, che pare giustificare, almeno sul piano delle congetture, una delle varie, diversificatissime ipotesi che sono state avanzate circa la genesi e l’etimo del suo toponimo, ovvero quella che lo farebbe derivare da urbs gemula, città duplice, divisa fra la nota origine romana e la successiva stratificazione longobarda (che sovrappose al soggiacente, e ancora tangibile, sostrato della centuriazione romana una dedalea raggiera di vie secondarie, vicoli, viottoli tendenzialmente concentrici, anche se incurvati e ritorti con movenze spiraliformi), fra le remote e logore vestigia romane e le tracce paleocristiane che ancora riaffiorano, magari nella veste di minimi dettagli decorativi o di minuti spunti iconografici, sotto l’eburnea e magniloquente veste neoclassica della forma urbis1, così come fra potere civile e potere ecclesiastico, tra Civitas Antiqua Corneliensis e Castrum Sancti Cassiani2 e, infine, come suggerisce il mio titolo, fra l’idealizzazione e 1
Rita Buscaroli e Simona Spoglianti, Le tracce del cristianesimo a Imola, Imola, La Mandragora,
1995. 2
Fondamentale, per questi aspetti, Franco Merlini, La rocca di Imola, Imola, La Mandragora, 1993.
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Anna Guzzi LA CITTÀ DI GHIACCIO COME EMBLEMA DELL’ARTE IN UN NARRATORE CONTEMPORANEO
Ho appena guardato fuori dalla finestra appannata: questa città è buia, ma piena di molti colori. Le ombre verdi, nel cielo, sembrano fili incantati. Li chiamano “aurora boreale”. I giapponesi fanno un lungo viaggio per fotografare questa notte privata del buio e tutto il verde della sua alba arcana. Nicola Lecca, Hotel Borg
Questo saggio presuppone l’idea che la critica abbia una vocazione militante e che non sia, quindi, illegittimo tentare di istituire gerarchie di valore in un campo magmatico e lontano dal canone come quello della narrativa a noi coeva. Campo magmatico, si diceva, dove il valore di scambio o, con un termine meno tecnico, il successo editoriale dei testi supera, in molti casi, il loro valore d’uso, l’indice cioè di una bellezza durevole nel tempo1. Il presente contributo si inserisce, inoltre, in un lavoro di ricerca sulla narrativa breve contemporanea, condotto dal Dipartimento di Filologia dell’Università della Calabria, ma, rispetto al percorso già sviluppato, 1 I risvolti didattici e teorici della questione sono stati trattati anche ne Il canone del Novecento tra teoria e didattica, comunicazione tenuta per il Seminario per l’Aggiornamento degli Insegnanti della Scuola Secondaria dal titolo Il canone letterario del Novecento e l’insegnamento a scuola e all’università (Università della Calabria, 24 novembre 2009). La si può leggere sul sito http://www.modlet.it/MOD_ per_la_Scuola/Calabria/Interventi_Calabria_2009/Guzzi_Il_canone_del_Novecento_tra_teoria_e_didattica.pdf. La terminologia marxista è mutuata da Onofri. Cfr. Massimo Onofri, Il canone letterario, Bari, Laterza, 2001, p. 8; Alfonso Berardinelli, Alla ricerca di un canone novecentesco, in Il canone letterario del Novecento italiano, a cura di Nicola Merola, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2000, p. 103.
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Silvia Morgani LA CITTÀ TRA ATTRAZIONE E REPULSIONE NELLA SCRITTURA CARDARELLIANA: DAL PERCORSO CREATIVO ALLA DIMENSIONE PRIVATA
Ho avuto padrone di casa un po’ dappertutto: a Roma, a Milano, a Venezia, a San Remo, sul lago di Como, a Lugano. Senza contare le proprietarie di trattoria o di pensione con le quali sono stato a contatto. Soggiorni, per lo più brevi ma intensi, confidenziali, e qualche volta assai felici1.
L’incipit della prosa La Comacina, contenuta nella raccolta Il sole a picco, introduce il poliedrico e irrequieto rapporto che il poeta di Tarquinia ebbe con le città: un modo di rapportarsi alla realtà urbana instabile e spesso problematico, ma vissuto così intensamente da venire elaborato letterariamente in tutte le forme del suo scrivere, dalla poesia alla prosa, fino alla dimensione privata della scrittura epistolare. Quest’ultima in particolare, sulla quale ci soffermeremo in questa sede esaminando il carteggio inedito di Cardarelli con Bacchelli tra il 1914 e il 19242, offre uno scorcio al grand’angolo e senza falsature legate alla dimensione creativa, sull’evoluzione emotiva del rapporto cardarelliano con le numerose città nelle quali si trovò a vivere, a scrivere e a intessere la sua vita letteraria. Il continuo errare da una città all’altra, per i motivi più diversi, è sempre stata per Vincenzo Cardarelli una condizione di vita necessaria, un modus vivendi così connaturato con la propria indole da diventare un refrain costante nella sua produzione letteraria. Nelle due raccolte in prosa, Il sole a picco 1 Cfr. Vincenzo Cardarelli, Il sole a picco, in Opere, a cura di Clelia Martignoni, Milano, Mondadori, 2007, p. 464. 2 Il carteggio Cardarelli-Bacchelli è l’ultima parte dell’epistolario cardarelliano ancora inedita e oggetto di studio della mia tesi di dottorato. Il corpus epistolare, composto da 201 lettere, è conservato presso la Biblioteca dell’Archiginnasio di Bologna, Fondo Bacchelli, buste 1-4. I diritti di trascrizione e pubblicazione delle lettere mi sono stati gentilmente concessi dagli eredi di entrambi i corrispondenti.
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Anna Ferrari LA «CITTÀ DEL LUNGO ESILIO» E IL «BUGIGATTOLO DEL PAESE»: UNA DICOTOMIA (QUASI) IRRISOLTA IN ROCCO SCOTELLARO
La conoscenza dell’universo poetico scotellariano, in apparenza così “semplice”, richiede in sede critica uno sforzo orientato in una duplice direzione che, attraverso una reciprocità di biografia e scrittura, intrecci intimamente l’esperienza di vita dell’autore alle ragioni e ai temi della sua opera1. Impegnato in una ricerca insieme morale e poetica, interprete di un’esperienza che condivide con una generazione, Scotellaro – organizzatore di una «unitaria proposta culturale fondata su una conoscenza sociale vissuta e approfondita criticamente»2 – trova nella scrittura il modo personale e necessario per esprimere la sua dimensione più autentica che, concepita come somma di elementi antichi e moderni, di vicende private e pubbliche, non è soltanto la contraddizione «sentimentale» dell’autore, ma riflette le «contraddizioni reali della sua società»3. I temi delle sue opere, difatti, si articolano tutti intorno ai due poli «io-mondo contadino» che, 1 Proprio perché lo scrittore «trova le sue motivazioni ultime nelle vicissitudini dell’uomo», Rocco Scotellaro è uno di quegli autori la lettura della cui opera «acquista un senso profondo solo a patto che se ne conosca la vicenda umana». Cfr. Rosalma Salina Borello, Linguaggio e ideologia in Scotellaro, in Il sindaco poeta di Tricarico, Roma-Matera, Basilicata, 1974, p. 63: «Non sono solo le sue prose, rimaste incompiute e le sue poesie, raccolte postume, a renderne rappresentativa la figura, ma la sua vita stessa, anzi la mescolanza di vita e di letteratura, non naturalmente nel senso dannunziano della vita come opera d’arte ma proprio all’opposto: di una continuazione, nell’attività letteraria, di quella politica». Per non incappare in banalizzazioni interpretative che porterebbero lasciare il campo a una vuota autoreferenzialità, vale la pena ribadire, dunque, quanto nell’approccio all’opera di Scotellaro sia necessario procedere dal testo al contesto, correlando «il poetico col biografico, non viceversa» (Giovanni Battista Bronzini, L’universo contadino e l’immaginario poetico di Rocco Scotellaro, Bari, Dedalo, 1987, p. 8). 2 La citazione è tratta dall’introduzione redazionale a Franco Fortini, La poesia di Scotellaro, Roma-Matera, Basilicata, 1974. 3 Ivi, p. 55.
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Marilena Squicciarini I colori della distanza: Luigi Fallacara da Bari a Firenze
Luigi Fallacara giunge a Firenze da Bari nel 1912, a ventidue anni, per frequentare la Facoltà di Lettere. Nell’autoritratto raccolto da Elio Filippo Accrocca leggiamo chiaramente l’entusiasmo che la città toscana suscita da subito nel giovane: «trovai nei caffè, nelle librerie, per le strade più insegnamenti che in quelle aule severe»1. La Firenze di quegli anni è infatti straordinariamente attiva e al centro di un vasto movimento culturale e letterario che sembra pervadere la città: si pensi alle pagine rivoluzionarie della «Voce» e di «Lacerba», le cui redazioni sono molto spesso ospitate dai tavoli di famosissimi luoghi di ritrovo come il Caffè Giubbe Rosse. Fallacara ha già alle sue spalle alcune prove poetiche2, che Macrì definisce «tecnicamente ineccepibili di buona scuola carducciano-pascoliana»3, ma nutrendosi di quel clima culturale produce per «Lacerba» risultati nuovi: Collaborare alle riviste fiorentine era la cosa più naturale per un giovane. Io cominciai appunto così: presentato da De Robertis a Papini insieme a Curatolo, gli portammo ciascuno una poesia; la settimana dopo apparvero tutt’e due su «Lacerba». Collaborare a «Lacerba» voleva dire far parte dell’avanguardia letteraria, voleva dire aver letto tutti i libri, sapersi portatori di un nuovo verbo 4.
Il riferimento è alla prosa lirica Noia, pubblicata il 1 dicembre 1914 e in seguito inserita nel testo postumo edito a cura del figlio Leonello, Dietro la 1 Luigi Fallacara, Luigi Fallacara, in Ritratti su misura, a cura di Elio Filippo Accrocca, Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 176. 2 La sua prima raccolta, Primo vere, viene pubblicata a Bari nel 1908. 3 Oreste Macrì, Studio biografico e critico, in L. Fallacara, Poesie (1914-1963), a cura di O. Macrì, Ravenna, Longo, 1986, p. 9. Definizione attribuita proprio alla raccolta Primo vere. 4 L. Fallacara, Luigi Fallacara, cit., pp. 176-177.
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Gioia Valdemarca La città dappertutto. Scrivere del Nordest
Attraverso internet è possibile trovare immagini satellitari dell’Europa di notte. Si vede generalmente un grande luccichio diffuso, più forte in prossimità delle grandi capitali, come Parigi, Roma, Londra. Ma ancora più forte appare la luce proveniente dalle tre grandi zone industrializzate europee: come per esempio dal centro dell’Inghilterra, in prossimità di città come Manchester, Birmingham, Liverpool; dalla zona della Ruhr e delle grandi industrie siderurgiche in Germania; e, ultima della lista ma non meno luminosa, dalla zona della pianura padana, che forma un triangolo luccicante, che parte dal Friuli arrivando fino a Torino, sviluppandosi poi verso sud fino a toccare la zona di Rimini. Una luce così forte proviene ovviamente da una zona ad alta, altissima densità urbana, dove i centri cittadini si distanziano gli uni dagli altri di pochi chilometri, ma dove questa distanza spesso non è percepibile, non essendoci un distacco vero e proprio tra un agglomerato urbano e un altro. Attorno al centro storico di una città, infatti, si sviluppa sempre una grande periferia, che si allarga poi a sua volta distendendosi fino a raggiungere i paesi vicini e le zone industriali, fino a toccare la più vicina periferia del centro urbano successivo. Il geografo Eugenio Turri, in un famoso saggio sulla geografia della pianura padana, definisce per questo quest’area una «città diffusa»1. Turri identifica principalmente due aree di grande diffusione urbana: una zona subalpina, che comprende le grandi città di Milano e Torino, per arrivare fino al Friuli, ed una fascia situata più a sud, che parte da Genova e comprende tutta l’Emilia. Al centro di queste due fasce di denso tessuto urbano si colloca la parte di pianura ancora occupata dalla campagna, che negli anni va sempre più assottigliandosi. 1
Eugenio Turri, La megalopoli padana, Venezia, Marsilio, 2000.
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Filippo Pennacchio La città immateriale. Nonluoghi e figure del transito in alcuni recenti romanzi
Se è vero, come sostenuto da Zygmunt Bauman, che il modello di individuo che si sta formando nell’epoca della globalizzazione è quello del turista1, e se magari è vero anche che lo scenario della contemporaneità va commisurato, come ha insegnato Marc Augé, rispetto a tre fenomeni o «figure dell’eccesso» – il restringimento dello spazio, l’accelerazione del tempo, l’individualizzazione dei destini2 –, sempre più spesso nei prossimi anni ci ritroveremo a sondare se e in che modo le dimensioni spazio-temporali della letteratura (i cronotopi bachtiniani) vadano riconfigurandosi in questo senso. Del resto, che la semiotica degli spazi letterari vada oggi aggiornata tenendo conto dei mutamenti indotti dal contesto socio-culturale in cui siamo immersi è ormai convinzione diffusa, o perlomeno così pare, a giudicare da quella mole di studi (penso per esempio a www.letteratura.global di Stefano Calabrese) in cui si teorizza non solo il diffondersi di una «letteratura globale», vale a dire di un format letterario che «elimina i localismi sino a raggiungere un minimo comune denominatore»3, ma anche, a fronte di simili mutamenti, una generale riconfigurazione dei tradizionali apparati romanzeschi. In breve, posto che l’idea di un tempo sovraccarico di avvenimenti, in cui si «moltiplicano per ogni individuo le occasioni in cui egli può avere la sensazione che la sua storia incroci la Storia» è oggi 1 Zygmunt Bauman, Dentro la globalizzazione. Le conseguenze sulle persone [1998], traduzione italiana di Oliviero Pesce, Roma-Bari, Laterza, 2001, pp. 87-112. 2 Marc Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità [1992], traduzione italiana di Dominique Rolland e Carlo Milani, Milano, Elèuthera, 2009. 3 Stefano Calabrese, www.letteratura.global. Il romanzo dopo il postmoderno, Torino, Einaudi, 2005, p. 60.
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Angela Francesca Gerace SCHIZZI DI CROMATISMO MORALE: VENEZIA NEI RACCONTI DI CAMILLO BOITO
Questa Venezia è tutta antitesi di allegria e di tristezza, di canti e di lamenti. Io sollecito quanto più posso Luigi a venire [ … ]. – Andremo in gondola qua e là, e s’egli vuole colore, n’avrà d’ogni specie1.
Tale istantanea di vita quotidiana, contenuta in una lettera (probabilmente dell’estate del 1871) indirizzata al fratello Arrigo, rivela la naturale propensione di Camillo Boito a individuare nella componente coloristica un elemento peculiare della «città delle lagune»2, quasi una tipica espressione di una condizione morale. Venezia, «città che innamora ed esalta tutti gli artisti, anzi tutta la gente non incadaverita»3, figura sovente nel corpus narrativo boitiano quale luogo, topografico e mentale, di cardinale importanza, nei racconti più noti (Il collare di Budda, Senso, Il maestro di setticlavio)4, come anche nelle narrazioni meno conosciute (Pittore bizzarro)5, vicine al bozzettismo naturalistico (Il colore a Venezia e Quattr’ore al lido)6 o costituenti vere e proprie annotazioni 1 Camillo Boito, Pensieri di un architetto del secondo Ottocento. Documenti e frammenti per una biografia intellettuale di Camillo Boito critico militante e architetto, trascrizione, note ai testi, saggi di commento di Marco Maderna, Milano, Archinto, 1998, p. 98. Per il pittore paesaggista menzionato, cfr. ivi, pp. 88-89 e p. 91, n. 20. 2 Ivi, p. 27. 3 C. Boito, L’anima di un pittore, Milano, Hoepli, 1885, p. 189. 4 Apparsi, rispettivamente, con il sottotitolo Storiella vana, su «Fanfulla della Domenica» (novembre 1880; poi nel volume di novelle del 1883), nella raccolta Senso. Nuove storielle vane (1883) e, con il sottotitolo Novella veneziana, in «Nuova Antologia» (dicembre 1891; poi in Storielle vane, 1895). 5 Edito, col titolo Un pittore bizzarro, in «Le Prime Letture» (settembre 1874), confluì nella prima edizione di Storielle vane, 1876, per esserne espunto nell’edizione del 1895. 6 Entrambi già Rassegne artistiche pubblicate in «Nuova Antologia» (gennaio 1875; agosto 1876), ebbero storie editoriali diverse: Il colore a Venezia, inserito in Storielle vane, 1876, ne fu espunto nell’edizione del 1895; Quattr’ore al Lido. Schizzo dal vero trovò posto in Senso. Nuove storielle vane, 1883.
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Federica Lautizi UN PIEMONTESE A NEW YORK. IMPRESSIONI D’AMERICA DI GIUSEPPE GIACOSA
Giuseppe Giacosa si reca negli Stati Uniti nel 1891, al seguito della compagnia della grande attrice Sarah Bernhard per seguire le prove del suo dramma, la Dame de Challant, che sarà rappresentato per la prima volta a New York, allo Standard Theatre, il 2 dicembre dello stesso anno. Egli si imbarca il 4 ottobre sul piroscafo Bretagne a Le Havre e sbarca sul suolo americano dopo otto giorni di navigazione1. Il suo soggiorno è raccontato in un libro intitolato Impressioni d’America2 e nelle numerose lettere inviate ai familiari3. La città viene descritta nel secondo capitolo, intitolato appunto New York: «New-York, a chi vi giunga d’Europa, si palesa intera al suo primo apparire. Si palesa, non si mostra. L’occhio ne vede una minuscola parte, la mente vi riconosce i segni espressivi dei suoi caratteri. Nessun’altra città forse, è così di subito parlante allo spirito e così sincera [ … ]. In New-York, 1 Giacosa sbarca il 12 ottobre a New York, l’indomani parte per Chicago, dove raggiunge la compagnia; da qui si reca a Cincinnati, Dayton e Detroit. Successivamente ha modo di visitare le cascate del Niagara e le città di Buffalo. Infine, rientra a New York per assistere alle prove dello spettacolo, in vista della prima, il 2 dicembre allo Standard Theatre. Ripartirà il 5 dicembre 1891. 2 Alcune parti del volume erano già state pubblicate nella «Nuova Antologia» del 16 agosto 1892 (Gli Italiani a New York ed a Chicago, pp. 619-640), 1 marzo (Chicago e la sua colonia italiana, pp. 15-33) e 1 maggio 1893 (New York, pp. 5-21), 1 gennaio 1894 (I Bars e l’intemperanza degli Americani, pp. 51-69). Tali parti, con l’aggiunta di alcuni capitoli, saranno raccolte nel volume edito da Cogliati (Milano) nel 1898. Il testo è stato recentemente ristampato ad opera di Franco Muzzio Editore (Padova) nel 1994. 3 Le lettere, consultabili presso la Biblioteca della Regione Piemonte a Torino e nell’Archivio privato, non aperto alla libera consultazione, sito a Colleretto (Ivrea), sono state in parte pubblicate da Piero Nardi, nell’opera: Vita e tempo di Giuseppe Giacosa, Milano, Mondadori, 1949, ristampato nel 2007, in edizione anastatica, a Roma (Edizioni di storia e letteratura). In questo contributo, comunque, si cita direttamente dagli autografi.
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Federica Adriano LE CITTÀ DI FEDERICO DE ROBERTO. CATANIA E ROMA NE I VICERÉ E NE L’IMPERIO
Mi è parso interessante indagare il ruolo svolto dalle città di Catania e di Roma nei romanzi uzediani I Viceré e L’Imperio, quali spazi privilegiati in cui l’autore ambienta situazioni atte ad illustrare la propria sfiducia nel progresso tecnologico e nella storia, intesa come immutabile vicenda di sopraffazione dei più forti e spregiudicati a danno dei più deboli e miti. Si tratta di una concezione esemplarmente raffigurata da alcuni esponenti della casata viceregale di Francalanza, da una parte, e da quanti ad essi si contrappongono per diversità di temperamento, interessi e valori. Tanto nel territorio catanese d’origine che a Roma, nel teatro istituzionale del nuovo Stato unitario, gli aristocratici rappresentanti della “razza” proterva sono destinati al potere e al comando. Nei Viceré tutto ha principio dagli istanti successivi al fatidico decesso della dispotica capostipite, donna Teresa nata Risà principessa di Francalanza, che nel 1855 chiude un’epoca, aprendo la contesa sull’eredità tra i “duri e violenti” rampolli degli spagnoleschi Uzeda. Onorando le sue imperiose ed ultime volontà, il cadavere della defunta viene imbalsamato dalle mani dei «Reverendi Padri Cappuccini» e deposto per le esequie in una preziosissima cassa a cristalli nella stessa chiesa che ospita la salma dell’ava, la Beata Uzeda, terrena testimonianza della grazia che il cielo ha voluto accordare alla sua schiatta ed oggetto di secolare quanto oscurantistica devozione. È proprio in occasione dei funerali della matriarca, celebrati con decoro barocco e fasto monumentale, che la città, i dintorni di Catania e il palazzo Francalanza emergono come centri fisico-storici nei quali si radica e da cui s’irradia l’immenso potere politico-economico, religioso e sociale della famiglia; la popolazione tutta intera, compresi i mendicanti, prende parte alla cerimonia pubblica, smaniosa di carpire qualche notizia
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Marja Härmänmaa LA GIUNGLA, LA PROSTITUTA E IL TUMORE. L’ANATOMIA DELLA DEGENERAZIONE DELLA CITTÀ MODERNA IN D’ANNUNZIO
1. D’Annunzio e la città moderna Come D’Annunzio nella vita evitò le grandi metropoli moderne, così esse scarseggiano anche nelle sue opere. L’osservazione della città moderna implica l’attenzione alla società del tempo presente da cui D’Annunzio volle isolarsi rifugiandosi dalla città in campagna o in periferia, dedicandosi all’estetismo invece che ai problemi sociopolitici, e mettendosi aristocraticamente al di sopra della gente comune, della «scoria umana», come nominò le masse in Maia1. Questa estraneità alla realtà attuale, che fu una delle caratteristiche del modernismo europeo, si manifesta in Baudelaire e successivamente negli impressionisti nella figura dell’artista che osserva la metropoli dal di fuori e vi si sente alieno2. In D’Annunzio, la medesima alienazione si realizza in modo esplicito già nel Piacere e nel Fuoco, i cui protagonisti vivono in ambienti lindi, ermeticamente isolati nei loro raffinati circoli dalla realtà quotidiana del tempo presente; mentre Le Vergini delle rocce offre una soluzione più drastica, in quanto Claudio Cantelmo addirittura fugge in campagna dalla Roma in corso di modernizzazione – cosa che, secondo Roberto Tessari, simboleggia la fuga dal presente nel passato3. Nonostante ciò, la città moderna non è del tutto assente nelle opere di D’Annunzio. Se nel Piacere la nuova Roma rimane sullo sfondo e Gabriele D’Annunzio, Versi d’amore e di gloria, Milano, Mondadori, 2001, II, p. 177. Sulla città nella letteratura europea, si veda in particolare Richard Lehan, The City in Literature. An Intellectual and Cultural History, Berkeley and Los Angeles, University of California Press, 1998. 3 Roberto Tessari, Il mito della macchina. Letteratura e industria nel primo novecento italiano, Milano, Mursia, 1973, p. 148. 1 2
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Gabriella Brugnara LE FUGHE DELLA TRASFORMISTA NINFA DANNUNZIANA TRA CITTÀ REALI E LUOGHI DELL’IMMAGINARIO
«L’Ellade scolpita / ove la pietra è figlia della luce»; il Rinascimento quale periodo in cui gli dèi pagani ritornano; il presente descritto in Maia come il tempo di Energèia, la decima Musa, sorella e figlia delle muse antiche, che «canterà la nuova civiltà della macchina che libera dalla fatica»1, in sintonia con la visione dannunziana di una scienza che deve collaborare alla crescita dell’Arte: attraverso una prospettiva di contaminazione tra queste istanze ci accostiamo alle città reali e dell’immaginario dannunziano, e ci mettiamo sulle tracce dell’elusiva creatura femminile che le abita. D’Annunzio, sorretto dall’idea di un passato concepito esteticamente come «eterno ritorno», insegue nel presente i fasti di un nuovo Rinascimento per l’Arte e per l’Uomo; non estranea a questa concezione è la sua scelta di trasferirsi alla Capponcina, prestigiosa villa sulle pendici di Settignano dove, come il poeta stesso racconta, «per compiacere a un de’ miei spiriti allora dominante, io ritrovava senza sforzo i costumi e i gusti d’un signore del Rinascimento, fra cani, cavalli e belli arredi»2. Per almeno dieci anni, tra 1898 e l’esilio francese, la villa del poeta diventa il centro di attrazione letterario mondano per la buona società fiorentina: vi si guarda come al luogo ideale del rinnovamento artistico italiano, come al rifugio dove il poeta trascorre una stagione di splendente creatività e di dispendioso sfarzo. Tra Settignano, il Casentino e le spiagge del Tirreno nascono, infatti, Il Fuoco, Forse che sì forse che no, i capolavori poetici 1 Gabriele D’Annunzio, Note a Maia, in Versi d’amore e di gloria, a cura di Annamaria Andreoli e Niva Lorenzini, Milano, Mondadori, 1984, II, p. 957. 2 G. D’Annunzio, La vita di Cola di Rienzo ad Annibale Tenneroni, in Prose di ricerca, a cura di A. Andreoli e Giorgio Zanetti, Milano, Mondadori, 2005, II, pp. 1995-1996.
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Emanuela Scicchitano «DESCENSUS AVERNO». IL VIAGGIO DANNUNZIANO NELLE CITTÀ TERRIBILI
Giunto in Italia alla conquista del Lazio, Enea si reca presso la Sibilla Cumana, per apprendere in che modo vedere il padre defunto. La sacerdotessa lo rassicura dicendogli che agevole è la discesa agli Inferi, mentre laborioso è ritornare al mondo. Vi riuscirono solo coloro che raccolsero nella selva attorno all’Ade il ramo d’oro caro a Proserpina. Enea esegue gli ordini impartiti e scende agli Inferi, nei quali l’incontro coi suoi cari lo farà specchiare nel futuro di gloria che attende lui e la sua famiglia. La sua catabasi, che rinnova la memoria di quella odissiaca e ispira quella dantesca, funge, per il principe troiano, da tramite fra il suo status di esule, in fuga dal passato, e quello di combattente fondatore di una città e di una stirpe. La suggestione dell’impresa, raccontata da Virgilio nel VI libro dell’Eneide, rivive tutta nelle pagine di Frazer intitolate al Ramo d’oro, simbolo del recupero moderno del mito antico, e nel primo libro delle Laudi di Gabriele D’Annunzio, nel quale egli traspose sotto veste epica il periplo della Grecia, compiuto nell’estate del 1895. In Maia l’esperienza autobiografica è, dunque, confluita nella letterarietà, spogliandosi della sua cronicità e vestendosi dell’atemporalità del mito, prima osservato nelle sue macerie e poi rispolverato nella sua sacralità, sedimentato nella sua liricità. Le città morte, già descritte da Pausania, sono la fonte a cui abbeverarsi per infrangere i nefasti confini della fictio letteraria, che per secoli hanno circondato il mythos, ora tornato a suffragare l’actio, che dovrà compiersi una volta che il poeta, da novello Ulisse, avrà concluso il suo nostos in Italia, dove, prima di combattere la sua battaglia, compirà una discesa agli Inferi che, come già per Enea e Dante prima di lui, assumerà valore catartico. Egli approda presso le «Città terribili», luogo archetipico della modernità, nel quale l’esistenza umana appare ridotta a pura appendice del
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Enrico Elli UNA SCHEDA PER PIRANDELLO POETA: LE «ELEGIE DELLA CITTÀ»
La comunicazione intende mettere a fuoco una scheda poco nota della produzione poetica giovanile di Luigi Pirandello, negli anni 1887-1888, prima della pubblicazione di Mal giocondo. In quel periodo lo scrittore siciliano pensava ad una raccolta dal titolo Elegie della città, in cui avrebbero trovato collocazione una serie di poesie incentrate su Roma, nella quale egli si era da poco trasferito. Ma l’animo del giovane, che si sentiva ancora «forestiere» nella capitale1, era diviso tra il sogno e il rimpianto della Roma classica, di cui vedeva sopravvivere solo rovine in abbandono, e il «fango» materiale e morale nel quale egli vedeva invece affondare la terza Roma, diventata ormai «bisantina». Le Elegie della città che nascono da questo sentimento ambivalente sono tessute di lessico e immagini classicheggianti, ma il contenuto rimanda all’attualità ed è spesso polemico (sulla scia del Carducci giambico) e amaramente ironico (sulla linea, invece, di quello che sarà l’umorismo pirandelliano). Lo stesso atteggiamento si ritrova in pagine famose dei Vecchi e giovani e del Fu Mattia Pascal (con la celebre immagine di Roma ridotta da «acquasantiera» a «portacenere»). La raccolta, per altro, non verrà realizzata. Alcune delle Elegie della città finiranno, con varianti, nella sezione Triste di Mal giocondo, altre si leggono ora tra le Poesie varie raccolte da Lo Vecchio-Musti nel volume mondadoriano Saggi, Poesie, Scritti varii2, altre ancora restano confinate nelle lettere ai familiari. 1 Pirandello fa dire a Mattia Pascal nell’omonimo romanzo: «Scelsi allora Roma, prima di tutto perché mi piacque sopra ogni altra città, e poi perché mi parve più adatta a ospitar con indifferenza, tra tanti forestieri, un forestiere come me». 2 Luigi Pirandello, Saggi, Poesie, Scritti varii, a cura di Manlio Lo Vecchio-Musti [1960], Milano, Mondadori, 1973 (d’ora in poi SPSV).
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Pasquale Marzano CITTÀ «DI CARTA» E NOMI DI LUOGHI «SENZA VEDUTE» NELLE NOVELLE PER UN ANNO DI LUIGI PIRANDELLO
Le città entro i cui confini si muovono i personaggi di Pirandello sono numerose, ma quelle di cui si narra con maggior frequenza sono senz’altro Girgenti, o Agrigento, e Roma, tanto da spingere qualche critico a distinguere le novelle pirandelliane in «siciliane» e «romane»1, malgrado Luperini la ritenga una scelta «criticamente poco motivata» e quindi da scartare, fondamentalmente perché irrispettosa della volontà dell’Autore, che mirava a sovvertire qualsiasi ordine precostituito, cronologico o tematico, nell’elaborazione dell’ambizioso e incompiuto progetto bibliografico delle Novelle per un anno2.
1. Agrigento/Girgenti e Porto Empedocle Pur considerando il rilievo di una simile avvertenza, in questa sede sarà utile non tenerne molto conto, così come sarà opportuno rifarsi ad alcuni dei contributi consacrati parzialmente o totalmente all’habitat delle novelle, distinguendole in base ai luoghi nei quali sono ambientate, come i due studi di Lauretta, sostanzialmente analoghi, che si concentrano soprattutto su Agrigento, considerato un «luogo emblematico», indi1 Cfr. p. es. Roberto Alonge, Pirandello. Tra realismo e mistificazione [1972], Acireale-Roma, Bonanno, 2009, pp. 21-60 e 77-125. Naturalmente si tratta sovente di un criterio economico e non teso a inquadrare e definire uno spazio narrativo non sempre nettamente delineabile. 2 Romano Luperini, Pirandello [1999], Roma-Bari, Laterza, 2000, p. 141. I testi di Pirandello ai quali si attingerà per le citazioni sono in Luigi Pirandello, Novelle per un anno, a cura di Mario Costanzo, premessa di Giovanni Macchia, 3 voll., Milano, Mondadori («I Meridiani»), voll. I e II, 19965; vol. III, 19972.
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Alberto Carli CITTÀ DI CARNE. LUOGHI E TEMI CITTADINI NELLA LETTERATURA POPOLARE E GIOVANILE MILANESE DI SECONDO OTTOCENTO
Tutto ciò che è profondo ama mascherarsi. F. Nietzsche
Negli anni Sessanta del XIX secolo, all’indomani dell’unificazione nazionale ancora in fieri, l’ormai prossima capitale morale dell’Italia unita, Milano, estesa su poco meno di ottocento ettari di superficie, aveva «un aspetto in tutto modesto»1 e provinciale. La città contava circa duemila abitanti. Tanti erano, infatti, gli abitanti nella cerchia dei bastioni e buona parte di loro risiedeva nell’area delimitata da quella dei Navigli, dato che lo spazio compreso tra la fossa e i bastioni stessi corrispondeva a un’estensione di cinquecento ettari scarsamente abitati. Non ancora inglobati i Corpi Santi e non superate, dunque, le mura spagnole, il Milanin della Scapigliatura e dei numerosi altri vagiti letterari moderni si articola in un dedalo di «vie strette, tortuose»2, spesso buie, a tratti pericolose (come nel caso del celebre «bubbone slabbrato del Bottonuto»3), e di meno asfittiche strade selciate «col trottatoio in mezzo», fiancheggiate da «casette allampanate e giallognole»4. Di tanto in tanto, avvicinandosi al duomo, sorge anche «qualche bel palazzo dalle linee classiche», idealmente molto lontano dalle numerose e grandi case a più piani, di nuova concezione e adatte a ospitare, pur sempre nella miseria, un capiente flusso migratorio. Tali moderne 1 Carlo Linati, Prefazione, in Racconti della Scapigliatura, a cura di Ezio Colombo e C. Linati, Milano, Bompiani, 1942, p. 16. 2 Ibidem. 3 Paolo Valera, Milano sconosciuta, a cura di Enrico Ghidetti, Milano, Longanesi, 1968, pp. 99-102. 4 C. Linati, Prefazione, cit., p. 16.
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Manuela Cottini FRA CRIMINE E FOLLIA. PRIGIONIA DELLA MENTE E DEL CORPO NELLE CITTÀ NASCOSTE DI SECONDO OTTOCENTO
Quando il poeta è morto, ecco i corvi della psichiatria calar sul cadavere, palparlo, misurarlo, sezionarlo, classificarlo, in categorie prestabilite, e frugar tra le sue lettere e le sue carte. Luciano Zuccoli
Nel 1880 Paolo Valera pubblicò il seguito ideale alla Milano sconosciuta, Gli scamiciati. Si trattava di un’opera, a detta dello stesso autore, «modesta, ma che riuscirà, speriamo, di una verità straziantemente vera»1. Il più celebre palombaro del ventre milanese, secondo il quale per poter parlare della plebe bisognava «averla avvicinata, essere disceso nel sottosuolo, saperne i costumi, le sofferenze, i digiuni e le ingiustizie»2, dava voce, con marcata consistenza e inequivocabile denuncia, a un drappello di piccoli delinquenti, capeggiati da «Carlino»3 Nosetti. Vengono così narrati al lettore non soltanto il clima di una Milano che si avventurava verso la sua natura di metropoli, dimenticando i Navigli e il Barchett de Boffalora, ma, soprattutto, la discesa agli inferi degli abissi umani, lungo le vie della reclusione penitenziaria: Leggete i codici vecchi e nuovi, compulsate la legge sulla Pubblica Sicurezza, penetrate gli anditi spaventevoli della Questura, passate dal banco degli accusati 1 Paolo Valera, Introduzione, in Gli scamiciati. I bassifondi della Milano di fine Ottocento in pagine di crudo verismo, Vimercate, Libreria Meravigli, 1992, p. 10. 2 Ivi, p. 7. 3 P. Valera, Gli scamiciati, cit., p. 90.
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Massimiliano Mancini L’IMMAGINE DELLA “CITTÀ MODERNA” NEI TESTI DI DELIO TESSA
Vi sono alcuni testi “classici” che fondano – direi – la nozione e l’immagine della “città moderna” e la consegnano alla tradizione letteraria ottonovecentesca. Nella descrizione di Londra lasciataci da Friedrich Engels a metà dell’Ottocento (in Die Lage der arbeitenden Klassen in England), la città si presenta come folla enorme di persone che si muovono e si incrociano senza posa in uno spazio smisurato, come massa di uomini che, per compiere i miracoli della civiltà metropolitana, «hanno dovuto sacrificare la miglior parte della loro umanità». A Londra – scriveva Engels – «si può camminare per ore intere senza arrivare neppure all’inizio di una fine [ … ]. Il brulichìo delle strade ha qualcosa [ … ], contro cui la natura umana si ribella. [ … ]. Si sorpassano in fretta, come se non avessero nulla in comune, nulla a che fare fra loro; [ … ], la sola intesa, tacita, è quella che [ … ], non si intralcino a vicenda; [ … ], non viene in mente a nessuno di degnare gli altri sia pur solo di uno sguardo»1. Una descrizione deformante della folla metropolitana, ancora di Londra, la incontriamo in una novella di Poe, dove, sotto la tetra luce dei lampioni a gas, i passanti si trasformano in automi inquietanti, che ripetono azioni insensate: La maggior parte [ … ], pareva non curarsi d’altro che di aprirsi una strada in mezzo alla folla. Fronti aggrottate, occhi mobili, svelti [ … ]. Altri [ … ], anch’essi numerosi, avevano gesti smaniosi, volti congestionati, parlavano da soli, gesticolavano, quasi la stessa calca della folla li facesse sentire in solitudine. Quando incontravano un ostacolo, subito cessavano di mormorare, ma i gesti si facevano 1 I passi di Engels sono citati, tra i primi esempi di rappresentazione della “folla” di una città moderna, da Walter Benjamin in Angelus Novus. Saggi e frammenti, traduzione e introduzione di Renato Solmi, Torino, Einaudi, 1962, pp. 97-98.
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Cinzia Gallo La città di Roma nei romanzi “bizantini” di Ugo Fleres
I due romanzi che Ugo Fleres1 pubblica nel 1887, Vortice ed Extollat, pur trascurati dalla critica2, costituiscono un’importante testimonianza della cosiddetta “letteratura bizantina”, portandoci nel cuore della Roma sommarughiana, al contempo luogo reale ed ideale. La città, infatti, individua lo spazio in cui si muovono i personaggi, tutti altamente rappresentativi dei ceti, dei gruppi presenti nella capitale negli anni ottanta dell’Ottocento, influenza il loro modo di pensare e di agire, è essa stessa portatrice di significati. I primi capitoli di Vortice, così, che descrivono due momenti del carnevale romano del 18833, lo spettacolo dei moccoli al Corso e il veglione al Costanzi, in accordo con l’elemento più appariscente delle riviste bizantine, la nota frivola, pongono l’antitesi fra Pio Lafastigia, «poeta non ancora 1 Menziono i più recenti contributi critici su Fleres: Stefano Calabrese, Sogno e romanzo: dalla parte del lettore, in Le metamorfosi del sogno nei generi letterari, a cura di Silvia Volterani, Firenze, Le Monnier, 2003, pp. 201-208; Alberto Granese, Le “Profane istorie” di Ugo Fleres, in Narrativa minore del secondo Ottocento in Sicilia, Atti del Convegno (Messina 11-13 dicembre 2003), a cura di Giuseppe Rando, Messina, Sfameni, 2004, pp. 151-159. 2 Alcune recensioni appaiono sui giornali dell’epoca. Ricordo, per Vortice, gli articoli della «Gazzetta letteraria» (25 giugno 1887); del «Corriere di Catania» (29 giugno 1887); dell’«Illustrazione italiana» (10 luglio 1887) e, per Extollat, gli articoli della «Gazzetta letteraria» (7 maggio 1887); del «Fanfulla della domenica» (15 maggio 1887); del «Capitan Fracassa» (29 maggio 1887). E, poi, per ambedue i romanzi: Benedetto Croce, La letteratura della nuova Italia, Bari, Laterza, 1945, VI, p. 147. Vortice viene pubblicato a Catania, dall’editore Tropea, Extollat a Torino, dall’editore Triverio. Tutte le citazioni dai romanzi si riferiscono a queste due edizioni. 3 Tale data si ricava da vari indizi presenti nel testo: il barone Porzia ricorda di essere stato in esilio a Londra con Mazzini 35 anni prima (p. 48: Mazzini rimane nella città inglese fino al 1848); il narratore ricorda le feste per gli «sponsali Savoia-Baviera» (p. 102: sono le nozze fra Isabella di Baviera e Tommaso duca di Genova, dell’aprile 1883) e definisce il Palazzo delle Arti, in via Nazionale, «ancora fresco di fabbrica» (ibidem: esso è inaugurato con un’esposizione artistica il 22 gennaio 1883).
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Magdalena Maria Kubas ANTONIA POZZI: PAESAGGI URBANI, LUOGHI DELL’UMANO ED ESPERIENZA DELLA NATURA
1. Premessa Ad Antonia Pozzi oggi viene attribuita una coscienza ecologica ante litteram1: nella sua produzione artistica il paesaggio naturale occupa il posto centrale. In questa prospettiva acquista importanza l’esperienza opposta, anche se rappresentata in misura minore, quella dei luoghi dell’umano e della città. Nell’opera poetica pozziana le occorrenze del termine “città” sono cinque: «una città sconosciuta» (Domani, 492, v. 5), «un’immensa / città di fiori / sepolta –» (Nevai, 184, vv. 11-13), «una città nuova» (Tre sere, 196, v. 7), «Sulla città / silenzi improvvisi» («Don Chisciotte», 234, vv. 1-2), «la tua città» (a Emilio Comici, 273, v. 7). Inoltre, nell’ambito di poesie di viaggio si trovano immagini delle seguenti città: Messina (I musaici di Messina, 116), Venezia (161), Atene (220) e Portofino (278). In Antonia Pozzi il concetto dello spazio urbano ha due accezioni principali: la città e i paesaggi umanizzati, luoghi dell’umano e della cultura contrapposti alla natura. Nella prima parte del presente intervento l’opposizione tra questi due tipi di spazi risulta funzionale alla definizione della posizione dell’io poetico nel mondo della cultura. Ricordiamo che la poetessa, allieva di Antonio Banfi all’Università di Milano, laureata nel 1935, fu compagna di studi di Sereni, di Mondadori, dei fratelli Monicelli, di Cantoni, di Formaggio e dei fratelli Treves. La donna appartenne a pieno 1 Ornella Spano, La montagna di Antonia Pozzi. Appunti per una lettura ecocritica, di prossima pubblicazione. 2 D’ora in poi il numero che accompagna i titoli delle poesie pubblicate in Antonia Pozzi, Parole, a cura di Alessandra Cenni e Onorina Dino, Milano, Garzanti, 2001 è il numero di pagina nell’edizione di riferimento.
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Ilaria Accardo UN SINGOLARE “NEAPELREISE”. NAPOLI NEI RACCONTI DI VITTORIO IMBRIANI
Per iniziare il discorso sulla Napoli imbrianesca è efficace una premessa ecfrastica: la descrizione di una cartolina tipica assai, che si può trovare in un qualsiasi negozietto di souvenirs, un collage folkloristico francamente kitsch. Immaginiamo il golfo – sullo sfondo campeggia il Vesuvio – circondato (nell’ordine) da: Logo della Napoli Calcio, Roberto Murolo, Eduardo e Peppino De Filippo, Pulcinella, Pino Daniele, il Mandolino, Caruso, San Gennaro, Totò, Maradona, Sophia Loren, la Pizza Margherita, Troisi… Un’immagine ridondante, sovrabbondante, stratificata. Un mitogramma. Per mitogramma l’antropologo e archeologo francese André LeroiGourhan intendeva, a proposito dell’arte parietale primitiva, un genere di raggruppamenti complessi, le cui figure si organizzano in uno spazio e in un tempo che possiedono alcune proprietà spazio-temporali del mito. Tali «composizioni sono costituite da personaggi – animali, uomini e donne – che assumevano il loro senso autentico solo nel momento in cui venivano animati da un discorso»1. Così la nostra cartolina: per raccontare in breve Napoli ai turisti, si sceglie una costellazione di figure, oggetti, simboli; cose lontane, anche, per epoca e funzione. Una narrazione, insomma, che procede per salti ed ellissi, un catalogo che sottintende un racconto. Questa la logica, la strategia adottata da Imbriani per tradurre in parole la città di Napoli, che nei suoi testi si rivela per brani, per frammenti, per apparizioni, di per sé poco significativi, se non si coglie l’anima del discorso. 1 Julien Ries, Simbolo. Le costanti del sacro, in Opera omnia, traduzione di Riccardo Nanini, Milano, Jaca Book, 2008, IV, tomo 1, p. 72. Nel passo citato si richiamano le teorie di Leroi-Gourhan.
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Mario Musella Partenope pseudo-futurista: la mancata realtà urbana di Napoli nell’immaginario futurista
Sin dal suo ufficiale atto di nascita, 20 febbraio 1909, il Futurismo ha sempre esplicitato la privilegiata ambientazione urbana non solo della sua multiforme espressione estetica, ma della sua globale visione di vita e arte: la città incarna anzitutto il fondale, la quinta prediletta d’ogni proiezione inventiva futurista (dalla pittura alla poesia, passando per musica e architettura), ma contestualmente è assurta essa stessa a prioritario contenuto artistico, tema ricorrente e caro ai futuristi tutti nelle più svariate sortite creative. Già nelle prime righe del Manifesto fondativo infatti, che si apre col racconto simbolico d’una spericolata corsa in automobile, Marinetti ambienta tale iniziatica prova di temerità in un preciso contesto metropolitano; uno scenario urbano ritratto nel poetico orario crepuscolare, eppure da subito così stridentemente vivo, caotico e rumoroso: Sussultammo ad un tratto all’udire il rumore formidabile degli enormi tramvai a due piani, che passano sobbalzando, risplendenti di luci multicolori [ … ]. Poi il silenzio divenne più cupo. Ma mentre ascoltavamo l’estenuato borbottio di preghiere del vecchio canale e lo scricchiolar dell’ossa dei palazzi moribondi [ … ], noi udimmo subitamente ruggire sotto le finestre gli automobili famelici1.
D’altronde tutta l’estetica d’inizio Novecento, non solo quella futurista, è euforicamente sconvolta dalle impennate della civiltà industriale, dall’avvento della macchina e dalla velocizzazione precipitosa di spostamenti e comunicazioni. Per primo Mario Morasso, inconsapevole precursore teorico 1 Filippo Tommaso Marinetti, Fondazione e Manifesto del futurismo, in «Le Figaro», 9 febbraio 1909; ora in Luigi Scrivo, Sintesi del futurismo, Roma, Bulzoni, 1968, p. 2.
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Angela Carpentieri Tra racconto, rappresentazione mitica e realtà, i volti della Napoli di fine Ottocento
Matilde Serao è stata spesso indicata come la scrittrice di Napoli, colei che più di altri ha saputo cogliere e raccontare l’immagine multiforme di una città come Napoli. Grande capacità di osservazione e acute descrizioni hanno permesso alla scrittrice di restituire ambienti e paesaggi così come li aveva visti e vissuti e di trasmettere, tramite la sua duplice attività di letterata e giornalista, a noi posteri, i cambiamenti culturali e sociali che in circa un quarantennio ha subito la città partenopea. Raccontare Napoli è impresa ardua, tutto a Napoli è sotto gli occhi di tutti, ma niente è come sembra. Una città sempre in bilico tra passato e presente, tra mito e realtà, in cui il comico muove sempre dal patetico. Una città che pirandellianamente è una e centomila, vecchia nelle sue piaghe ma giovane nello spirito, vive mille contraddizioni e mille verità. Napoli è costantemente sotto i riflettori, occupa spazi televisivi e riempie pagine di giornali, dalla camorra ai rifiuti, dalla malasanità alle tangenti, il tutto condito dal fatto bizzarro – degno della giocata a lotto – accompagnati dal retorico “succede solo a Napoli”. I fatti sono noti e innegabili ma, indagati solo superficialmente, ci restituiscono un’immagine di Napoli stereotipata e greve, lontano da ciò che questa città ha realmente rappresentato per secoli. C’è una Napoli mitica e fiabesca, come ce la racconta Matilde Serao nelle Leggende napoletane. Libro d’immaginazione e di sogno, in cui rievoca la nascita della città: «Le nostre leggende sono l’amore. E Napoli è stata creata dall’amore»1. L’amore, dunque, è il leit-motiv presente in tutte le brevi storie narrate, come quello di Cimone e di Parthenope, da cui sarebbe appunto sorta la città: «Parthenope, la vergine, la donna, non muore, non 1
Matilde Serao, Leggende napoletane, Napoli, Imagaenaria, 2005, p. 30.
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Domenico Giorgio La città / le città di Ermanno Rea tra scrittura e immagine fotografica
Nello scritto postumo Immagini di città, Walter Benjamin presenta se stesso in qualità di uno straniero che visita una città sconosciuta, vivendola attraverso un’ottica puramente spaziale, sincronica; al contrario, da nativo che ritorna nella propria città, soprattutto dopo un lungo periodo di tempo, ne ha una visione diacronica, vincolata non a labirinti architettonici ma a quelli della memoria personale, e forse senza che se ne accorga, mescolati a immagini della memoria collettiva che si sono sovrapposti nel tempo1. Aggiunge Maria Corti: «Tutti sappiamo che lo spazio fisico, geografico, cosiddetto reale è di necessità passibile di descrizione solo attraverso un metalinguaggio; figuriamoci un luogo mentale»2. La produzione della rappresentazione di un discorso sulla città può concretarsi attraverso un testo scritturale che potremmo definire “tradizionale”, supportato, meglio integrato, con un mezzo visivo, come quello fotografico, più adatto a cogliere e catturare lo sguardo nell’hic et nunc, laddove la città stessa diventa il testo tout court, e, quel che più conta, occorre considerare il linguaggio letterario non come semplice testo parallelo a quello visivo, ma come tale linguaggio riesca a interagire con quello visivo (fotografico, in questo caso), producendo un testo “altro”, né prettamente narrativo né specificamente di immagine, ma pervaso di un carattere profondamente unitario, magari debitore di entrambi i linguaggi, il cui tema è ovviamente la città, o le città. Il caso di Ermanno Rea mi sembra, in tale contesto, davvero esemplare: all’indomani dei traumatici fatti d’Ungheria, il cronista de «l’Unità» Erman1 Cfr. Peter Szondi, Postfazione a Walter Benjamin, Immagini di città [1963], Prefazione di Claudio Magris, Torino, Einaudi, 2007, pp. 127-144. 2 Maria Corti, La città come luogo mentale, in «Strumenti critici», VIII, 1, 1993, p. 14.
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Laura Cannavacciuolo La città figurata. I volti di Napoli nella Trilogia di Ermanno Rea
Uno degli elementi più suggestivi nelle pagine narrative di Ermanno Rea è il modo in cui viene tematizzata e figurativizzata la città di Napoli. Partendo da Mistero napoletano (1995) e procedendo con La dismissione (2002) e Napoli Ferrovia (2007), la rappresentazione della città assume infatti un ruolo centrale e, instituendo un singolare rapporto metaforico tra spazio urbano e personaggio, si riverbera nei destini e nelle identità criptiche delle protagoniste in un senso niente affatto stereotipico. I romanzi, raccolti nel 2008 in un unico volume dal titolo Rosso Napoli, ricoprono un asse diacronico di circa mezzo secolo, ripercorrendo la stagione delle speranze – poi disilluse – della ricostruzione postbellica, fino ad arrivare agli scenari decadenti della realtà partenopea contemporanea. Come suggerisce il titolo, protagonista indiscussa dei tre libri è Napoli, la città nativa fuggita nottetempo, in cui Rea decide di far ritorno dopo quarant’anni di assenza per intraprendere il suo personale viaggio alla riscoperta dei luoghi dell’infanzia e della giovinezza. Come si vede, questo primo breve soggiorno napoletano determinerà un ciclo di “ritorni periodici” che consentiranno all’autore di approfondire il suo personale discorso sulla città: nasceranno infatti tre opere narrative che, come scriverà egli stesso nella prefazione alla Trilogia, insieme formano «un unico fluviale romanzo basato su tre storie di donne. Tutte belle. Tutte dannate. Tutte specchio di quella Napoli che forgiò i loro rispettivi destini a immagine e somiglianza del proprio»1. 1 Ermanno Rea, Rosso Napoli. Trilogia dei ritorni e degli addii. Mistero napoletano – La dismissione – Napoli Ferrovia, Prefazione di Giulio Ferroni, con una nota dell’Autore, Milano, BUR, 2009, p. 37.
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Annibale Rainone Città e brani di città nell’impero di Gomorra
«Attraversavo con la mia Vespa questa coltre di tensione»1
C’è poco o niente di ciò che comunemente si definisce politically correct o, peggio, suggestivo, poetico, “letterario”, in questa che è, senza mezzi termini, la rappresentazione no-fiction della fornace infernale di un impero, di una città, che solo per ventura editoriale e biografica ha ripreso, traslando, il toponimo biblico di Gomorra. In realtà, come lo stesso autore ammette, «camorra è una parola inesistente, da sbirro»2, parola passepartout da operazione mediatica, un po’ come quella scritta all’imbocco della strada principale di un rione di Secondigliano che recita, traccia mnestica da Dante o meno, «Rione Terzo Mondo, non entrate»3. Ciò che è oggetto dell’opera prima di Roberto Saviano non è infatti, genericamente, un’inchiesta sul malaffare e sulla malavita organizzata di area campana, quanto piuttosto l’invenzione di una formula: una nuova potente formula ricavata dalla geografia immaginaria, nel senso indicato da Said4, ed applicata ad un disegno geopolitico tirato dal vero, esperito in parte sulla scorta della sua attività di giornalista di nera e ispirato, per contro, ad una Aüfklarung di segno enciclopedico che ha nella città il modello dominante quando non proprio la forza motrice dell’idea di complessità, altrimenti definita impero: “viaggio nell’impero economico e 1 Roberto Saviano, Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra, Milano, Mondadori, 2006, p. 105. 2 Ivi, p. 48. 3 Ivi, p. 107. 4 Cfr. Edward W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Milano, Feltrinelli, 2007.
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Mariangela Tartaglione LA CITTÁ «MOLESTA» DI ELENA FERRANTE
All’interno del variegato mosaico della produzione letteraria italiana a noi più prossima, senza dubbio una tessera interessante è quella rappresentata dalla scrittura di Elena Ferrante, autrice di tre romanzi di successo. I primi due in ordine cronologico – L’amore molesto (1992) e I giorni dell’abbandono (2002) – sono forse più conosciuti nelle note trasposizioni cinematografiche firmate rispettivamente Mario Martone e Roberto Faenza. A questi romanzi si affiancano, poi, il più recente La figlia oscura (2006) e un quarto testo dal simbolico titolo La frantumaglia (2003). Questo lavoro, infatti, si presenta agli occhi del lettore come una miscellanea di appunti, di riflessioni e d’interviste inedite, capaci di condurci nel cuore della segreta fucina in cui la scrittrice incessantemente opera e da cui si dispiega la tessitura delle sue relazioni con il mondo esterno, una tessitura a dir poco inconsueta poiché “filata” con il solo aiuto di carta e penna. In effetti, la liaison tra Elena Ferrante e la realtà che la circonda è tutta giocata sulla cifra dell’assenza: non si sa chi si celi dietro il suo nome, che faccia abbia, né dove viva; ogni dato sulla sua persona è omesso imperativamente, facendo sì che un alone di mistero avvolga l’intera figura fino a renderne sfuggente l’identità. Ad oggi, infatti, nessuno ha mai avuto modo di incontrare personalmente la scrittrice e tutte le interviste da lei rilasciate sono sempre state mediate per il tramite prezioso dei suoi editori (Sandra Ozzola e Sandro Ferri, per Edizioni e/o). Elena Ferrante ha scelto questo modus molti anni fa e non ha alcuna intenzione di cambiare la sua decisione. Così, all’uscita di L’amore molesto, nel tentativo di spiegare le ragioni di un riserbo tanto categorico, la Ferrante scrive ai suoi editori in La frantumaglia:
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Sessione D
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Agata Irene De Villi NEL «CEREBROSO TURBINE DELLA METROPOLI». MASSIMO BONTEMPELLI E MILANO
L’appuntamento di Bontempelli con la modernità si realizza certamente col trasferimento a Milano, città magmatica e tentacolare che svolge un ruolo da protagonista nel dittico delle Vite1. Pubblicate in volume rispettivamente nel ’20 e nel ’21, La vita intensa e La vita operosa disegnano la discesa dello scrittore nello sfavillante inferno metropolitano della Milano postbellica, città duplice, assunta qui non solo come scenario di un’identità eclissatasi nel ritmo accelerato e tutto superficiale imposto dall’operoso sistema neocapitalistico, ma anche come figura di un nuovo orizzonte conoscitivo, molteplice e plurale che Bontempelli abbraccia senza tentazioni regressive e, tuttavia, lontano dal furore orgiastico di stampo marinettiano2. La città intensa e operosa non costituisce, dunque, solo lo sfondo in cui si muove il nuovo flâneur, ma si presenta come soggetto che ridefinisce il personaggio, rinnovandolo, il che ne fa di diritto una sorta di attante. L’approdo a Milano genera, infatti, nel letterato reduce dalla prima guerra mondiale una crisi gnoseologica che nullifica di colpo i tradizionali strumenti interpretativi di cui l’osservatore dispone, suscitando un sentimento di smarrimento e angoscia. È possibile cogliere la tensione euristica che anima La vita operosa già a partire dalle prime pagine del romanzo, allorché il protagonista afferma: 1 La vita intensa fu pubblicata a puntate nel corso del 1919 sulla rivista «Ardita». La vita operosa apparve a puntate nel 1920 sulla rivista «I.I.I.» («Industria italiana illustrata»). Sul tema della città nel dittico de La vita intensa e La vita operosa si veda il recente contributo di Stefano Lazzarin, La città avventurosa: Bontempelli 1920-21, in «Transalpina», 2008, 11, pp. 87-99. 2 Sui rapporti tra Bontempelli e l’avanguardia futurista cfr. in particolare Antonio Saccone, La trincea avanzata e «La città dei conquistatori»: Bontempelli e l’avanguardia futurista in La trincea avanzata e «La città dei conquistatori». Futurismo e modernità, Napoli, Liguori, 2000, pp. 123-139.
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Daniela Bernard La Milano degli anni Quaranta di Carlo Bernari tra la redazione di «Tempo», l’Europa in guerra e i tavolini del Savini, del Craja e delle Tre Marie
Dopo la pubblicazione di Tre operai del 1934 e il successo del romanzo, ma anche le polemiche suscitate dal tema anticonformista della storia narrata, il giovane scrittore Carlo Bernari viene invitato da Galeazzo Ciano, figura controversa stretta tra l’interesse per la cultura e il ruolo famigliare e politico, a «non mettersi in mostra». Assume così vari pseudonimi («Siglai», «Caberna», «Beda») con cui firma i suoi articoli su alcune riviste come «Pan», «Il Tevere», «Il Mattino», «Primato», «Sera», «L’Europeo», «Quadrivio», con alcune delle quali aveva già collaborato nei primi anni Trenta e comincia per lui, come egli stesso affermò, la sua «sfortunata fortuna, o fortunata sfortuna letteraria»1. Intanto, dopo la pubblicazione di Tre operai si reca spesso a Milano dove Cesare Zavattini, suo unico punto di riferimento, gli fa da guida negli ambienti culturali. L’esperienza giornalistica riveste nella formazione di Bernari un ruolo rilevante ed è significativo come il metodo d’indagine mutuato dalla frequentazione con l’ambiente redazionale, influenzi la sua scrittura offrendole un coté cronachista da rivista illustrata, caratterizzato da uno stile rapido, quasi telegrafico nelle descrizioni, e una narrativa che si fa quindi asciutta e scarna. Di questo periodo milanese Bernari scrisse molti anni dopo proprio in una lettera a Zavattini, in cui, ricordando una fotografia che li ritrae mentre corrono, parla di Milano quale simbolo delle speranze e delle energie di tutti quei giovani intellettuali che lasciavano le proprie città e i propri affetti in nome della loro passione letteraria, dei loro sogni e delle loro ambizioni, ma anche con il desiderio di poter vivere in un ambiente culturale libero 1 Ritratti su misura di scrittori italiani, a cura di Elio Filippo Accrocca,Venezia, Sodalizio del libro, 1960, p. 68.
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Katia Trifirò Milano o la metropoli strana. Visioni urbane e trasfigurazioni fantastiche ne La doppia storia di Beniamino Joppolo
L’avventura intellettuale di Beniamino Joppolo1, siciliano fatalmente attratto dalle forme europee dell’avanguardia, è paradigmatica per certi versi di una condizione ascrivibile al milieu dei giovani artisti che, nell’Italia alle soglie del secondo conflitto bellico, riconoscono nella capitale lombarda – quella Milano delle utopie e del rinnovamento, dei fermenti e del riscatto – la città moderna per eccellenza, con i suoi luoghi-simbolo assurti a feticci di una realtà in divenire densa di possibilità: [ … ] a Milano tutti ridevano, sorridevano, e si guardavano cordialmente negli occhi, amici e nemici, praticizzavano le idee, i pensieri, la poesia, l’arte, oltre che il settore per se stesso pratico, e si muovevano con agilità spensierata, uomini e donne. [ … ] Tutti gli abili e i furbi della nazione si son dato appuntamento qui per arricchire con facilità, viver bene e sfruttare le proprie idee e le proprie tendenze2.
Così nel romanzo La doppia storia3, scritto tra il ’61 e il ’63 e pubblica1 Il presente contributo pertiene ad un progetto monografico sull’opera omnia di Beniamino Joppolo (Patti 1906 – Parigi 1963), oggetto del lavoro di ricerca da me svolto nell’ambito del dottorato in Forme delle rappresentazioni storiche, geografiche, linguistiche, letterarie e sceniche presso l’Università di Messina. 2 Beniamino Joppolo, La doppia storia, Milano, Mondadori, 1968, p. 308. 3 Il romanzo, summa artistica e speculativa dell’itinerario joppoliano, ne conclude la parabola intellettuale, che attraversa sinesteticamente tutti i generi dagli esordi poetici – come gran parte degli intellettuali tra fine Ottocento e inizi Novecento, da Pirandello a Palazzeschi – alla produzione narrativa, declinata nei racconti e nei romanzi, sia in forma autobiografica che di teoresi in chiave artistica e filosofica, sino all’approdo drammaturgico e alla pittura, formalizzando con Lucio Fontana lo Spazialismo. Joppolo apporta il proprio originale contributo alla sperimentazione novecentesca attraverso una solida elaborazione teorica e una copiosa produzione letteraria, ancora in parte inedita, fondando la prospettiva abumanista, secondo la definizione di Jacques Audiberti, di una poetica ascrivibile all’area dell’assurdo e dell’esistenzialismo, esito ultimo di un complesso percorso artistico, nutrito da radici futuriste, al quale non sono estranee le invenzioni surrealiste e le incursioni nel laboratorio espressionista.
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Rosa Pisano L’esperienza del “moderno” nella Milano di Un amore
Nel 1963 Dino Buzzati pubblica il romanzo Un amore presso Mondadori. La narrazione ruota intorno alla passione ossessa di Antonio Dorigo, stimato architetto cinquantenne, per Laide, una squillo trent’anni più giovane di lui. A dispetto della trama mondana, da romanzo rosa, e della presa diretta con cui sono riportate alcune scene, Un amore è giudicato dalla critica come un cambiamento decisivo nella produzione letteraria dell’autore, collocabile tra la migliore letteratura fantastica e surreale europea1. Fino a quel momento la narrativa buzzatiana è caratterizzata da atmosfere irreali e rimandanti all’inconscio, nelle quali i temi dell’illogico, dell’allontanamento dell’uomo dalla realtà contingente e del tormento che gli giunge dalla sua esistenza si tramutano in slanci allusivi verso figure inafferrabili. Basti pensare al Deserto di Tartari (1940), nel quale il protagonista Drogo costruisce la «fortezza» per destinarle l’impenetrabile afflizione della sua vita. Di questo personaggio il protagonista di Un amore conserva la ricerca dell’assoluto, che si concretizza nei due romanzi buzzatiani «come un vertice e come un abisso, un’ascesa e una discesa, un ideale di grandezza e di gloria, e un “gorgo”»2, sottolinea Pullini, che recensendo Un amore mette in risalto la preferenza accordata da Buzzati, anche in questo romanzo, alla trattazione di un solo tema per illustrarlo in tutte le sue sfaccettature3. Non senza una 1 In merito si rinvia a Giovanna Finocchiaro Chimirri, Rileggere «Un amore», in Il pianeta Buzzati, a cura di Nella Giannetto, Milano, Mondadori, 1992, p. 507. 2 Giorgio Pullini, «Il deserto dei Tartari» e «Un amore»: due romanzi in rapporto speculare fra metafora e realtà, in Dino Buzzati, a cura di Alvise Fontanella, Firenze, Olschki, 1982, p. 171. 3 G. Pullini, Un amore, in Volti e risvolti del romanzo italiano contemporaneo, Milano, Mursia, 1971, p. 152.
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Annalisa Carbone La Milano di Buzzati
Nella cornice di una Milano grigia, caliginosa e triste, fra salotti di case d’appuntamento e strade impregnate degli odori dei «camini, sfiatatoi delle caldaie a nafta, ciminiere delle raffinerie Coloradi, camion ruggenti, fogne, cumuli di detriti immondi rovesciati sulle aree fabbricabili della periferia»1, si sviluppa la vicenda dell’architetto Antonio Dorigo, quarantanove anni «un borghese nel pieno della vita, intelligente, corrotto, ricco e fortunato»2, che nell’inverno del 1960 fa un singolare incontro. Esso avviene in maniera del tutto casuale «in corso Garibaldi a Milano»3, lungo una strada dove sorgono «un gruppo di vecchissime case addossate le une alle altre in un groviglio di muri, balconi, di tetti, di comignoli. Dove lo spirito della città antica, non quella dei signori ma quella dei poveri, sopravviveva con una singolare potenza»4. Scoprirà solo più tardi che si tratta di una giovanissima prostituta, sedicente ballerina del teatro alla Scala di Milano. La caduta negli abissi di una relazione torbida e controversa è descritta parallelamente a una città di cui appare in superficie, nel romanzo, proprio la parte più oscura, più tetra, più fosca. Attraverso la rappresentazione della città Buzzati propone una complessa riflessione su alcuni temi fondamentali della letteratura moderna e postmoderna. La città è dunque allegoria, raffigurazione concreta, plastica di un nodo concettuale. Il protagonista, ormai completamente diseroicizzato, si muove in uno spazio urbano che evoca continuamente un quotidiano burocratico-aziendale perfettamente integrato nella dimensione parcellizzata ed anonima del lavoro. Al centro è costantemente 1 2 3 4
D. Buzzati, Un amore, Milano, Mondadori, 20094, p. 4. Ivi, p. 8. Ivi, p. 18. Ibidem.
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Antonia La Torre Peregrinationes moderne e gironi metropolitani. Trasfigurazioni infernali della città in Buzzati, Pasolini e Zavattini
Nel 1918, in quella sorta di lucida profezia e disincantata rilettura della storia universale che è Il tramonto dell’Occidente, Oswald Spengler individuava nel profilo della cosmopoli europea il paradigma della decadenza, l’emblema di un ineluttabile destino di consunzione, connaturato alla idea stessa di modernità. Egli, così, delineava già i caratteri di una città-inferno, di un «deserto demonico»1 che, una volta perso il suo «volto»2 primigenio, smarrito «il giuoco della sua fisionomia»3 e annichilitosi fin nell’«anima»4, per citare proprio un termine adottato dallo studioso, si sarebbe mostrato in tutto il suo fisiologico declino. Secondo la concezione ciclica dell’autore, quindi, «nella nascita della città è implicita la sua morte. Il principio e la fine [ … ] stanno fra loro nello stesso rapporto di anima ad intelligenza, di sangue a pietra»5. La civilizzazione, allora, finisce per rappresentare, al contempo, traguardo ultimo e altare sacrificale, vittoria e disfatta. Il presagio spengleriano, del resto, non appare così lontano dalla realtà se è vero che, a molti decenni di distanza, è possibile ritrovare all’interno della narrativa di Dino Buzzati e Pier Paolo Pasolini degli anni Sessanta, esempi di moderne peregrinationes entro i gironi di una urbanità trasfigurata, ove segni e simulacri della dimensione metropolitana non si ergono più quali vessilli di sviluppo, ma rappresentano le tracce tangibili della infernalità immanente. Agli occhi dei due protagonisti narratori, che proprio come nella Commedia dantesca si presentano entrambi nella doppia 1 2 3 4 5
Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Milano, Longanesi, 19783, vol. II, p. 793. Ivi, p. 782. Ibidem. Ivi, p. 778. Ivi, p. 796.
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Francesco Capaldo Il tema della città in Sereni e Raboni
Intorno al tema della città si intrecciano i motivi centrali sia della poesia di Sereni1 che di Raboni. Il primo, dopo l’esperienza di Frontiera, si allontana dal linguaggio ermetico per approdare alla poetica dell’oggetto; il secondo invece, dopo le sperimentazioni nell’ambito di una poesia concreta e aderente al reale, si spinge oltre i confini segnati dalla Linea lombarda2 sin nel territorio di quella «esistenziale». Già in Frontiera Sereni, nella lirica Nebbia, pur recuperando gli «oggetti» del reale (il traffico, i semafori, le fabbriche fonde, i magli, eccetera) evita volutamente, attraverso un linguaggio colto e letterario, un’apertura realistica verso lo spazio della città. I luoghi non vengono descritti, ma evocati, e «gli oggetti materiali» della città fanno emergere per rispecchiamento la dimensione dell’io poetico. In Frontiera si nota una tendenza, che si definirà meglio in Diario d’Algeria e poi nelle raccolte successive, a cogliere lo spazio urbano nel suo divenire, parallelamente con lo snodarsi e con il manifestarsi del fatto poetico. Nel corso della sua carriera di letterato, Sereni, in un percorso poetico lineare e coerente, attualizzerà la propria concezione della città in relazione allo svolgersi del divenire storico. La poesia, quasi fosse un documento, registrerà nel suo divenire, nel presente, la vita. La Luino di Frontiera3, limen simbolico della turbata giovinezza («Ecco le voci cadono e gli amici / sono così distanti / che un grido è meno / che 1 Giorgio Bàrberi Squarotti, La cultura e la poesia italiana del dopoguerra, Bologna, Cappelli, 1966. Si veda anche Franco Fortini, I Poeti del Novecento, Bari, Laterza, 1990. 2 Tommaso Lisa, Le Poetiche dell’oggetto da Luciano Anceschi ai Novissimi, Firenze, Firenze University Press, 2007. 3 Alessandro Di Bernardi, Gli specchi multipli di Vittorio Sereni, Palermo, Flaccovio, 1978.
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Adriana Mormina «Mi riafferri coll’aria dei giardini»: città e dintorni nella poesia di Vittorio Sereni
Il titolo di questa comunicazione include la citazione del verso con cui ha avvio il secondo tempo di Temporale a Salsomaggiore, il tempo della fiducia rinata per un luogo che mostra di nuovo la sua benevolenza dopo il passaggio di una pioggia burrascosa, apportatrice di minacce e infausti presagi. Il poeta, in dialogo con Emilia, che è donna e città allo stesso tempo, aveva chiuso la prima parte della poesia, vinto dall’amarezza, con un rimprovero: «Si spegne il tempo e anche tu sei morta»; ma presto egli cede al desiderio di riconciliarsi, e accoglie la promessa di bene portata dal profumo dell’aria: «Mi riafferri coll’aria dei giardini. / Gelsomini stillanti si riaprono a lenire la notte [ … ]»1. Ci sono almeno tre considerazioni che vanno subito avanzate, perché decisive rispetto al tema della presenza dei luoghi, e dei luoghi urbani in particolare, nella poesia di Sereni. La prima è che nel testo citato si ha una visione della città come spazio inclusivo della dimensione della natura, sebbene questa intervenga solo ad intermittenza a spargere l’odore confortante e benefico che avverte della sua presenza salvifica. Della labilità dei confini tra spazio urbano e spazio naturale bisognerà ricordarsi ancora, perché si tratta di una caratteristica costante del Sereni poeta. Va registrata quindi la seconda osservazione, e cioè che Temporale a Salsomaggiore ha un doppio movimento, alternando sconforto e ripresa, constatazione di un fatto doloroso e suo superamento nell’abbandono ad una speranza quando essa è in gran parte ancora invisibile. Questo dice molto, 1 Vittorio Sereni, Temporale a Salsomaggiore, in Id. Frontiera, in Vittorio Sereni, Poesie, edizione critica a cura di Dante Isella, Milano, Mondadori, 2004, p. 20. Tutte le citazioni delle poesie di Sereni sono tratte da questa edizione e saranno indicate d’ora in avanti solo col numero di pagina fra parentesi dopo la citazione.
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Nunzia Palmieri Fantasmi all’ombra dei bastioni: i confini delle città di carta
Esiste nella letteratura una lunga tradizione di geografie del confine, inteso come luogo dell’ombra, dell’inquietudine, delle apparizioni di fantasmi. Le mura, emblemi della presenza umana, della civiltà opposta alla barbarie, segnano un limite e risvegliano, nell’immaginario degli scrittori, la paura dell’ignoto, rievocando i terrori ancestrali legati alla perdita dell’identità, all’apparizione delle ombre e degli spettri. I bastioni difendono dalle invasioni nemiche e sono al tempo stesso punti privilegiati di osservazione: Manzoni, nel primo capitolo dei Promessi sposi, sceglie «le mura di Milano che guardano a settentrione» come punto di orientamento dello sguardo verso i monti e poi, quando Renzo entra per la prima volta in città, sposta l’occhio in direzione opposta: la strada della Porta Orientale mette in vista dei bastioni, sporchi e degradati, che mostrano i segni di un destino imminente. Renzo sta per affrontare l’inferno della città invasa dalla folla e presto si troverà di fronte agli orrori della peste, dei cadaveri, degli odori di morte e di putrefazione. Fece la strada che gli era stata insegnata, e si trovò a porta orientale. Non bisogna però che, a questo nome, il lettore si lasci correre alla fantasia l’immagini che ora vi sono associate. Quando Renzo entrò per quella porta, la strada al di fuori non andava diritta che per tutta la lunghezza del lazzeretto; poi scorreva serpeggiante e stretta, tra due siepi. La porta consisteva in due pilastri, con sopra una tettoia, per riparare i battenti, e da una parte, una casuccia per i gabellini. I bastioni scendevano in pendìo irregolare, e il terreno era una superficie aspra e inuguale di rottami e di cocci buttati là a caso. La strada che s’apriva dinanzi a chi entrava per quella porta, non si paragonerebbe male a quella che ora si presenta a chi entri da porta Tosa. Un fossatello le scorreva nel mezzo, fino a poca distanza dalla porta, e la divideva così in due stradette tortuose, ricoperte di polvere o di fango, secondo
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Silvia Zangrandi Città reali oltre il reale: incursioni del fantastico a Milano, Venezia, Roma
È ormai noto che il racconto fantastico del Novecento predilige luoghi familiari (interni di case comuni, strade di città reali) dove ambientare le sue storie: la scelta di collocare accadimenti fantastici in luoghi reali, che di per sé non hanno niente al di fuori dell’ordinario, inizia con i maestri francesi del fantastico di metà Ottocento (Gautier, Mérimée, Maupassant…) e si intensifica con quelli novecenteschi: grandi città, con le loro strade, i loro quartieri, diventano luoghi dove situare le narrazioni (basti pensare alla Londra di Wells1, alla Parigi di Cortázar2, alla Buenos Aires di Borges e Silvina Ocampo3, alla 1 Nel racconto The Door in the Wall (La porta nel muro, 1903), Herbert George Wells, dopo averci descritto con grande precisione alcune vie di Londra attraverso le quali il piccolo Lionel Wallace vagabonda – tanto che, libro alla mano, potremmo percorrerle! – il ragazzino scopre una porta verde in un muro, la attraversa e si trova immerso in un giardino fantastico, la gente che incontra è felice di vederlo e una giovane donna gli mostra un libro fotografico nel quale rivede la sua vita, poi lo riaccompagna fuori. In altri momenti rivede la porta, ma non osa più entrare, nonostante il ricordo della pace e della gioia che esiste al di là della porta lo ossessioni. Il racconto si conclude con il ritrovamento del cadavere di Lionel in un profondo scavo nei pressi della stazione: Wallace vi era entrato attraverso una porticina ricavata dagli operai. L’essenza del racconto è racchiusa nella domanda finale: cosa vide Lionel Wallace al di là della porta? Solo il baratro nel quale venne inghiottito o quel mondo meraviglioso che non osò per tutta la vita rivisitare attraversando la porta? 2 Una flor amarilla di Julio Cortazar, ad esempio, si svolge interamente a Parigi e i riferimenti topografici ci accompagnano lungo tutto il testo: il racconto del fatto incredibile viene riferito al narratore in un bistrot di Rue Cambronne; l’incontro con il proprio avatar avviene su un autobus cittadino (il n° 95); il protagonista scende alla fermata di Rue de Rennes benché avesse un appuntamento con un amico in Montparnasse, perché il ragazzino che rappresenta il suo doppio abita lì. 3 La tragica trasformazione dell’istitutrice per mano della bambina a lei affidata raccontata da Silvina Ocampo in El diario di Porfiria Bernal è ambientata a Buenos Aires. Qui Antonia Fielding suggerisce a Porfiria, di cui è educatrice, di tenere un diario. Un giorno la bambina obbliga Miss Fileding a leggerlo e la donna, con suo grande orrore, scopre che la bimba più volte la immagina simile a un gatto. Nell’ultima pagina del diario Miss Fielding leggerà in anteprima la sua trasformazione in gatto e il suo successivo vagabondaggio in forma felina per le vie di Buenos Aires.
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Francesca Piccolo Venezia ad occhi chiusi: ugo Pratt e Corto Maltese alla ricerca dell’Altrove
Eugenio Miozzi inaugura il capitolo quinto del secondo volume del suo saggio intitolato Venezia nei secoli, menzionando uno per uno gli «elementi edilizi, architettonici e pittoreschi che costituiscono la forma e la sostanza»1 di Venezia. In seguito a questo studio approfondito sulla struttura urbanistica della città, studio che non trascura alcun aspetto morfologico della stessa, Miozzi segnala le seguenti componenti: [ … ] ci sono le calli, i campi, i campielli, le crosere, gli squeri, le fondamenta, le rive; [ … ]; ci sono i giardini, le corti, le corteselle, gli orti; ci sono i canali che in numero di centocinquanta contornano le centoventi isole della città; ci sono i quattrocento ponti; e questi sono tutti elementi di essenziale importanza, perché sono essi che costituiscono l’ossatura e il corpo urbano sul quale si posano i monumenti, i palazzi, le chiese e le altre maggiori opere della città. Ognuno di questi elementi ha poi le sue caratteristiche speciali di forma e di stile, che sono germinate ed adottate [ … ], per conformarsi alle necessità specifiche dell’ambiente insulare e lagunare [ … ]2.
È assolutamente necessario, infatti, tener sempre presente che la città di Venezia sancisce la propria specificità attraverso quell’insieme di condizioni geografiche e topografiche uniche nelle quali essa versa. Come è ben noto, la Serenissima è costituita da un arcipelago/palafitta che galleggia in sospensione e i cui isolotti si aggrappano l’un l’altro attraverso brevi ponti irregolari; tra una riva e l’altra, i canali irrorano la città come fossero 1 2
Eugenio Miozzi, Venezia nei secoli: la città, Venezia, Libeccio, 1957, volume II, p. 11. Ibidem. Corsivo mio.
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Monica Lanzillotta Città in campagna e campagna in città nella poesia di Cesare Pavese
Città e campagna costituiscono, come hanno rilevato numerosi studi critici1, nuclei semantici centrali nell’opera di Pavese: la Torino industriale dei primi decenni del Novecento e le Langhe «non rappresentano solo un allestimento scenico» esterno alle vicende narrate, «ma fungono come ‘attanti’ veri e propri, cruciali nell’interpretazione del testo pavesiano [ … ] non sono soltanto “places of action”, ma funzionano anche come “acting places”, spazi che influenzano e determinano la fabula»2. Le Langhe, per un processo di ‘introversione’, passeranno gradualmente a rappresentare da rustico mondo di villani anneriti dal sole (è la blackness andersoniana, la nerezza come valore morale sovversivo, come ha notato la Guiducci 3), la dimensione ancestrale e mitica dell’infanzia (la campagna, nelle poesie 1 Per la bibliografia su città e campagna nell’opera di Pavese cfr. Monica Lanzillotta, Bibliografia pavesiana, Università degli Studi della Calabria, Centro Editoriale e Librario, 1999; Luisella Meisano, Cesare Pavese di carta e di parole. Bibliografia ragionata e analitica, Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2007. 2 Bart Van den Bossche, «La parabola stanca». Le fabbriche del simbolo nei racconti giovanili di Cesare Pavese, in Letteratura italiana e industria, Atti del XV Convegno dell’A.I.S.L.L.I., Torino, 15-19 maggio 1994, Firenze, Olschki, 1997, p. 791. 3 Armanda Guiducci, Il mito Pavese, Firenze, Vallecchi, 1967, pp. 65-106. L’annerirsi, nella poesia pavesiana, ha una duplice valenza: è quello di chi, in una vera e propria comunione con la vita vegetale e animale, si espone al sole (l’adolescente, l’eremita e l’uomo/donna-terra) o è quello dei contadini, che, come vien detto Negli istanti di gioia più grande (1928), hanno «l’aspetto sconsolato / della terra tremenda sotto il sole» (Cesare Pavese, Le poesie, a cura di Mariarosa Masoero e con Introduzione di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 1998, p. 234, edizione da cui d’ora in poi si citerà, indicando solo il numero di pagina tra parentesi). Oltre che nella poesia menzionata, la blackness ricorre in I mari del Sud (1930), pp. 7-9, Tradimento (1932), pp. 25-26, Il ragazzo che era in me (1932), pp. 308-309, Estate di San Martino (1932), p. 310, Paesaggio (1933), p. 12, Gente spaesata (1933), p. 13, Due sigarette (1933), p. 17, Paesaggio (1934), p. 23, Atlantic oil (1933), pp. 30-31, Gente che non capisce (1933), pp. 34-35, Civiltà antica (1934), p. 38, La cena triste (1934), pp. 51-52, Paesaggio (1934), p. 53, Donne appassionate (1935), p. 59, Paesaggio (1938), p. 332.
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Giovanni Di Malta La città periferica. Il carcere, Paesi tuoi, Il compagno e La casa in collina di Cesare Pavese
In una nota del Mestiere di vivere datata 16 febbraio 1936 Cesare Pavese, riflettendo sul suo Lavorare stanca, prende atto di un significativo rivolgimento tematico: «le poesie composte dopo l’ultimo Paesaggio, tutte, parlano d’altro che non Torino. Il caso sembra volermi insegnare a trasformare la mia disgrazia in un deciso rivolgimento di poesia»1. La «disgrazia» risale al maggio 1935, quando la redazione de «La Cultura» è in stato d’arresto e lo scrittore si trova rinchiuso nelle Carceri Nuove di Torino con l’accusa di fiancheggiamento al movimento Giustizia e Libertà; Pavese sarà tradotto al Regina Coeli in giugno, verrà condannato a tre anni di confino a Brancaleone Calabro in luglio, e rientrerà a Torino, in seguito al condono concessogli, nel marzo 1936. Il 13 settembre dello stesso anno Pavese conferma la svolta registrata il 16 febbraio: «mi accade passeggiando per Torino; non sento più la città come un pungolo sentimentale e simbolico alla creazione» (mv, 43). Gli undici mesi trascorsi a Brancaleone alimenteranno il romanzo Il carcere, dove si narra il trascorrere in un paese del Sud della condanna al confino assestata al protagonista Stefano. La città nel romanzo è assente perché il protagonista è stato arrestato e costretto ad allontanarsi da essa 2; ma se questa circostanza è di per sé lineare, può destare curiosità il fatto che un simile schema narrativo si ripeta in Paesi tuoi, nel Compagno e nella Casa in 1 Cesare Pavese, Il mestiere di vivere. 1935-1950 [1952], edizione condotta sull’autografo a cura di Marziano Guglielminetti e Laura Nay, nuova introduzione di Cesare Segre, Torino, Einaudi, 2000, p. 25; da qui in avanti per brevità siglato mv. 2 Mentre nel racconto Terra d’esilio, sorta di prima versione del Carcere, si esplicita che il protagonista proviene da Torino, nel Carcere si può solo dedurre da qualche allusione: «– sempre domenica! – disse Stefano. – Voi che avete vissuto in città, sapete quant’è noiosa la domenica» C. Pavese, Il carcere, in Id., Tutti i romanzi, a cura di Marziano Guglielminetti, Torino, Einaudi, 2000, p. 299.
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Claudio Panella La rappresentazione letteraria di Torino tra Otto e Novecento: effetti di realtà e contrapposizioni simboliche tra corpo urbano, fiume e collina
Questo contributo si propone di ricostruire come alcuni scrittori, vale a dire Augusto Monti, Cesare Pavese, Italo Calvino e Giovanni Arpino, abbiano concorso a creare un’immagine letteraria di Torino ben identificabile insistendo su taluni specifici elementi spaziali ricorrenti, sui loro confini e sui loro rapporti1. Illustrando la città attraverso la continua de scrizione di determinati percorsi2 tra essa e i suoi margini naturali, tutti questi autori hanno tratteggiato di opera in opera un’immagine di Torino quale punto di incontro più o meno positivo tra il corpo urbano vero e proprio e gli spazi naturali dei fiumi e della collina. Comune a tutti questi scrittori è anche un «modo realistico»3 di rappresentare la città, alla ricerca di un «effetto di reale»4, ossia di quella «il1 Cfr. Gyorgy Kepes, Note sull’espressione e la comunicazione del paesaggio urbano [1961], in La metropoli del futuro, a cura di Lloyd Rodwin, traduzione e introduzione di Giancarlo De Carlo, Padova, Marsilio, 1964, pp. 157-158: «La struttura simbolica dell’ambiente urbano viene resa leggibile secondo questa successione di fasi: 1. Scomponiamo il campo visibile dell’ambiente urbano in elementi: – case, strade, piazze, quartieri, settori – secondo la nostra percezione dell’individualità dei loro caratteri. 2. Leggiamo i confini – fiumi, mura, stacchi, mutamenti di forma o di espressione – che definiscono tali elementi [ … ] 3. Leggiamo i rapporti tra le parti in base ai loro legami e ai loro nessi [ … ] 4. Leggiamo tutti gli elementi insieme nella loro connessione, come un’unica struttura – la forma simbolica, il simbolo intrinseco del “tutto” urbano». 2 Cfr. Kevin Lynch, L’immagine della città [1960], traduzione e introduzione di Gian Carlo Guarda, Venezia, Marsilio, 1964, p. 111: secondo Lynch l’immagine di una città è sempre «strutturata secondo un organizzato sistema di percorsi». 3 Si fa qui riferimento alla terminologia elaborata da Northrop Frye di cui cfr. almeno Anatomy of criticism: four essays, Princeton, Princeton University Press, 1957, trad. it. Anatomia della critica – Teoria dei modi, dei simboli, dei miti e dei generi letterari, Torino, Einaudi, 1969. 4 Cfr. Roland Barthes, L’effet de réel, in «Communications», 1968, 1, pp. 84-89, trad. it. L’effetto di reale, in Id., Il brusio della lingua, Torino, Einaudi, 1988, pp. 151-159, dove il semiologo illustra come nel romanzo ottocentesco (tra gli esempi la Rouen di Madame Bovary) si sia formalizzato il
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Loredana Castori La città, il silenzio: il “varco” di Calvino e il telefono
La città labirintica nelle opere di Calvino è un «mondo interpretato», in cui l’«io lirico-intellettuale» si muove nel confuso ritmo delle città, ricercando una realtà altra nella quale cogliere una «maglia rotta nella rete» e fare i conti con la propria coscienza1. La letteratura sopravvive in una società in «cancrena» come coscienza, nelle « crepe e nelle sconnessure» nel modo di guardare il prossimo e se stessi, di porre in relazione fatti personali e fatti generali, di attribuire valore a piccole cose o a grandi [ … ], di trovare le proporzioni della vita, e il posto dell’amore in essa, e la sua forza e il suo ritmo [ … ] può insegnare la durezza e la pietà 2.
La letteratura resta la testimonianza drammatica, ma anche la più valida della crisi dell’uomo contemporaneo. Lo spazio interiore emblematizza, per contrasto, una società malata e dialetticamente vi si contrappone, interrompendo la continuità spazio-temporale: ma tra il mondo interiore e il mondo esterno c’è sempre il limite estremo, che impedisce la conoscenza totale sia del mondo esterno che dell’inquieta coscienza e crea l’impulso alla creazione di una geografia interiore. Nella Nuvola di smog le telefonate di Claudia rappresentano il varco nel grigiore della vita del pubblicista e irrompono nei «momenti di silenzio», al di là delle stanze della signorina Margariti, come segno montaliano di rivelazione della salvezza. La stanza «un po’ buia perché dava sul cortile per una porta-finestra [ … ] indipendente dal resto dell’alloggio» permette 1 2
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Italo Calvino, Il midollo del leone, in Saggi, I, Milano, Mondadori, 1995, p. 16. Ivi, pp. 21-22.
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Gianni Cimador La città della rondine: Calvino e l’architettura zodiacale
Soprattutto nelle Città invisibili, l’architettura assume un valore paradigmatico nella narrativa di Italo Calvino, per la sua capacità di dare al pensiero e all’immaginazione una consistenza nel mondo della materia, facendoli uscire da una dimensione meramente privata e chiusa in se stessa e proiettandoli su un terreno di progettualità creativa, di traduzione della “verità” in atto, in prodotto: come sottolinea Vittorio Gregotti, viene superata la polarizzazione hegeliana tra “oggettività prosaica” e “soggettività fantastica”, anche se la “qualità architettonica” consiste sempre nella fondazione di una differenza, nella «instaurazione di una distanza critica nei confronti del già prodotto, non per desiderio di originalità di mercato [ … ] ma per necessità senza alternative nella costituzione della cosa architettonica stessa»1. Tra architettura e letteratura c’è un’identità di metodo relativa al rapporto tra “verità” e “necessità” nella costituzione dell’opera, dal momento che in entrambe è la “necessità” a costruire la “verità” che si presenta come un obiettivo esterno da raggiungere attraverso un percorso infinitamente ramificato e non prevedibile, che soltanto alla fine dimostrerà la sua realizzabilità e si rivelerà quindi l’unico possibile nella costituzione della cosa progettata e immaginata mentalmente. Come nell’architettura, anche nella letteratura la “verità” è la costruzione di una possibilità ulteriore rispetto alla realtà data ed è ogni volta l’intransitività della scrittura, ovvero dei materiali, a mettere in moto un percorso progressivo di avvicinamento e disvelamento, animato dalla tensione verso un’espressione assolutamente completa e persuasiva. 1 Cfr. Vittorio Gregotti, Le scarpe di Van Gogh. Modificazioni nell’architettura, Torino, Einaudi, 1994, pp. 6-7.
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Nadia Rosso «Consumatore» e «vittima»: la memoria di Calvino, «cittadino delle città e della storia»
La forza dell’eremita si misura non da quanto lontano è andato a stare, ma dalla poca distanza che gli basta per staccarsi dalla città, senza mai perderla di vista1. Forse per poter scrivere di Parigi dovrei staccarmene, esserne lontano: se è vero che si scrive sempre partendo da una mancanza, da un’assenza. Oppure esserci più dentro, [ … ]2.
Il rapporto di Italo Calvino con le città è stato da sempre un rapporto ambivalente e tormentato, una sorta di compromesso e di miscuglio confuso di amore e di odio nei confronti di realtà fisiche e mentali differenti. Sanremo, Torino, Roma, Parigi, New York sono infatti lo sfondo di tante riflessioni e di tanti suoi scritti, città silenziose e discrete, capaci di suggerire allo scrittore emblemi e miti, idiosincrasie e avversioni. L’attrazione per Parigi, ad esempio, città della fuga, eremo eletto per osservare con la giusta distanza i fatti d’Italia, il suo stesso vivere dentro una nazione sempre più incomprensibile e sempre più invivibile, sarà sempre, nelle parole dello scrittore ligure, trascinante e al contempo estraniante. Parigi è infatti la protagonista indiscussa di tante opere letterarie, di tanti romanzi ottocenteschi che nella fantasia di Calvino rimarranno sempre legati a un’idea inossidabile di città. Essa è lo sfondo in cui si agita la Storia, 1 Italo Calvino, La taverna dei destini incrociati [1973], in Id., Romanzi e racconti, a cura di Mario Barenghi e Bruno Falcetto, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 19973, vol. II, p. 598. 2 I. Calvino, Eremita a Parigi [1974], in Romanzi e racconti, a cura di M. Barenghi e B. Falcetto, con una bibliografia degli scritti di I. Calvino a cura di Luca Baranelli, Milano, Mondadori («I Meridiani»), 19972, vol. III, p. 102.
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Rita Valentina Ronchei La città scritta: epigrafi e graffiti di Italo Calvino
Dai suoi “classici”, Galilei e Lucrezio, Calvino ha ereditato la concezione del mondo come libro, come realtà “in-tessuta” di scrittura: tuttavia, con rammarico, in un testo saggistico del 1983, Mondo scritto e mondo non scritto, l’autore ligure è costretto a constatare che lui, a differenza dei suoi autori canonici, non legge una realtà scritta nel linguaggio esatto ed assoluto della matematica e della geometria; bensì il suo mondo gli appare «scritto piuttosto come un mosaico di linguaggi, come un muro pieno di graffiti»1. Pur consapevole di questo deragliamento della leggibilità del mondo, il suo occhio-mente2 – per usare l’espressione coniata da Belpoliti – tenta ostinatamente di leggere un ordine “geometrico” nel “palinsesto” della realtà quotidiana. Simbolo per eccellenza di questa «[ … ] tensione tra razionalità geometrica e groviglio delle esistenze umane»3, come Calvino stesso appunterà nelle sue Lezioni americane, è la città. La metropoli nella modernità, infatti, si presenta come spazio della “molteplicità potenziale”, intreccio di infiniti alfabeti, realtà multi-sfaccettata ed iper-stratificata: errando nel complesso viluppo metropolitano, il letterato stenta ad adempiere a quello che, per lo scrittore britannico Ballard4, è il fine ultimo dell’arte, ovvero aiutare l’individuo a riscoprire la sua esatta collocazione nello spazio urbano e, in seconda istanza, nel mondo. Ritrovare il “senso della posizione” è conditio sine qua non per poter leggere la metropoli, per guardarla, nel senso che Debray assegna al termine 1 Italo Calvino, Mondo scritto e mondo non scritto, in Id., Saggi 1945-1985, a cura di Mario Barenghi, Milano, Mondadori, 1995, p. 1872. 2 Cfr. M arco Belpoliti, L’occhio di Calvino, Torino, Einaudi, 2006. 3 I. Calvino, Lezioni americane, in Id., Saggi 1945-1985, cit., p. 689. 4 James Graham Ballard, Crash, Milano, Bompiani, 1996, p. XVIII.
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Pasqua Gasparro Le città invisibili: scelte iconografiche per le copertine delle edizioni einaudiane
L’analisi della copertina della prima edizione delle Città invisibili rappresenta una tappa di una ricerca sugli aspetti paratestuali dell’opera di Italo Calvino e in particolare sull’apparato iconografico dei suoi libri e sulle funzioni che esso assume nell’interpretazione della sua opera. Gli studi finora condotti sull’argomento hanno sottolineato come, nel corso degli anni, le immagini che illustravano le copertine dei suoi libri, anche se attribuibili ad artisti molto diversi tra di loro come Picasso e Dürer, derivassero da scelte iconografiche che, secondo Mario Barenghi, andavano sempre nella direzione della «ricerca di precisione e leggerezza»1. Precisione e leggerezza che richiamano i valori più autentici della poetica calviniana, ma, insieme, interpretano esattamente l’identità grafica moderna e riconoscibile che la Casa Editrice torinese aveva intenso darsi e che si rivelava nel valore, evidenziato dall’editore in un’intervista del 1988, dell’«unitarietà grafica delle copertine Einaudi, voluta per esigenza di sobrietà e rigore e rispettata negli anni»2. Lo stesso editore, in merito ai criteri con cui erano scelte le illustrazioni da abbinare ai libri, dichiarava nello stesso anno su «La Repubblica» che, in una prima fase, copertine o sovracopertine erano illustrate dall’artista Francesco Menzio, ma che, dal 1945 in poi, la progettazione dei libri Einaudi aveva subito un mutamento con l’introduzione della fotografia e, soprattutto, di dipinti di grandi maestri: «Pavese ad esempio veniva presentato con quadri di Van Gogh, Hemingway con dipinti di Picasso, Calvino con 1 M ario Barenghi, Tra Picasso e Dürer. Le scelte di copertina, in Id., Italo Calvino, le linee e i margini, Bologna, il Mulino, 2007, p. 203. 2 L’intervista di Sergio Vezzali all’editore è contenuta in Disegnare il libro. Grafica editoriale in Italia dal 1945 ad oggi, a cura di Aldo Colonetti, Milano, Scheiwiller, 1988, p. 77.
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Maria Elena Palmisano Tracce di modernità: la pubblicità nella città di Marcovaldo
Natura versus cultura, campagna versus città: in Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, Calvino oppone ciò che è tradizione, e che appartiene al mondo naturale e agreste, a ciò che è modernità, e che appartiene al mondo urbano e industrializzato. «“Uomo di natura”, un “Buon selvaggio” esiliato nella città industriale»1 – come lo definisce lo stesso Calvino –, Marcovaldo cerca di recuperare, «in mezzo alla città di cemento e asfalto»2, le tracce di quella natura che, in realtà, non esiste più, andando incontro ad una inevitabile, quanto prevedibile, delusione. Scrutando «il riaffiorare delle stagioni nelle vicende atmosferiche e nei minimi segni d’una vita animale e vegetale»3, egli ritrova, da una parte, una natura che è ormai «dispettosa, contraffatta, compromessa con la vita artificiale»4 e, dall’altra, riscontra la presenza, sempre più invasiva e incalzante, di «cartelloni, semafori, vetrine, insegne luminose e manifesti»5, tutti segni della città ed evidenti tracce di modernità. Tra queste, uno degli elementi che maggiormente testimonia i mutamenti del paesaggio antropico ed urbano è la visibilità sempre crescente, che a volte si trasforma in invadenza ossessiva, della pubblicità. La città di Marcovaldo, metropoli industriale volutamente astratta ed indeterminata, perde quasi la sua autonomia funzionale per diventare supporto alla proliferazione di segni e messaggi veicolati dalle réclame. Tutto ciò contribuisce in maniera determinante a complicare il paesaggio urbano, 1 Italo Calvino, Presentazione 1966 all’edizione scolastica di Marcovaldo, in Id., Romanzi e racconti I, a cura di Mario Barenghi, Bruno Falcetto, Milano, Mondadori, 2005, p. 1233. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 1234. 4 Ivi, p. 1233. 5 I. Calvino, Funghi in città, in Marcovaldo, ovvero le stagioni in città, in Id., Romanzi e racconti I, cit., p. 1067.
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Ivan Pupo Per le vie di Praga, in compagnia di Ripellino
L’essenza di una città si può configurare sotto la specie di un genere letterario. Praga magica, il capolavoro saggistico di Angelo Maria Ripellino1 uscito da Einaudi nel 1973, sostanzia di humus praghese modi, forme e generi del ‘fantastico’, ovvero tende a fare del ‘fantastico’ la sostanza della capitale boema. Che lo studioso siciliano guardi alla sua patria del cuore, in particolare alla sua città di elezione, con le lenti del meraviglioso, che il suo viaggio nel cuore dell’Europa mitteleuropea sia innanzitutto un «itinerario nel meraviglioso»2, lo dice chiaramente il titolo stesso del libro, lo conferma poi al suo interno, quasi in ogni sua pagina, il densissimo impasto delle citazioni. Indulgendo anche noi al gusto elencatorio e collezionistico dello slavista palermitano, alla «smania di nomenclature» (PM, 18) tipica della sua scrittura creativa e saggistica, potremmo provare a passare in rassegna le innumeri aggettivazioni che fanno di Praga, in quello che rimane ancora oggi, a livello internazionale, il più affascinante libro ad essa dedicato, una città eminentemente ‘fantastica’, una città da cui emana la fascinazione tipica del ‘fantastico’. Limitiamoci invece per il momento ad estrapolare un solo frammento del mosaico, affidandogli il compito di suggerirci almeno un paio di isotopie utili ad un’interpretazione in chiave ‘fantastica’ della ripelliniana Praga di carta: [ … ] città di tre popoli (il ceco, il tedesco, l’israelitico) e, secondo Breton, capitale magica dell’Europa, Praga è soprattutto vivaio di fantasmi, arena di sortilegi [ … ] 1 Cfr. Angelo M aria R ipellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 2002 [d’ora in poi citeremo il libro da questa edizione usando la sigla PM, rinviando al numero di pagina con la cifra immediatamente successiva]. 2 Cfr. A.M. R ipellino, Letteratura come itinerario nel meraviglioso, Torino, Einaudi, 1968.
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Luigi Marfè STORIE DALLA CITTÀ MAGICA. RIPELLINO, PRAGA E I PIACERI DEL COLLEZIONISMO
Praga magica (1973) è il classico libro che non scende a compromessi con le regole del mercato editoriale. Sfoggia un’erudizione sfacciata, un lessico di antiquaria ricercatezza e una struttura frammentaria e divagante. Nonostante ciò, è stato uno dei pochi saggi italiani del secondo Novecento ad aver avuto vera circolazione all’estero. Ancora oggi, la sua prosa poetica si può trovare sulle bancarelle di Praga, tradotta in tutte le lingue e camuffata tra Lonely Planet e altri non-libri, come se fosse una guida turistica. Perché è avvenuto questo miracolo? Come è riuscita un’opera così ardua nell’impresa impossibile di diventare un libro di vasta diffusione? La Praga che ci descrive Angelo Maria Ripellino è un gomitolo di tempo, che pagina dopo pagina egli sdipana e riavvolge, fino a portare il lettore nei meandri più segreti di uno spazio geografico che nello stesso tempo è anche uno spazio testuale d’insondabile profondità narrativa1. 1 Cfr. Angelo M aria R ipellino, Praga magica, Torino, Einaudi, 1973. Il saggio è stato tradotto in boemo (Magická Praha, Praha, Odeon, 1992), inglese (Magic Prague, Basingstoke, Macmillan, 1994), francese (Praga magica. Voyage initiatique a Prague, Paris, Plon, 1996), tedesco (Magisches Prag, Tübingen, Wunderlich, 1982), spagnolo (Praga mágica, Madrid, Ollero, 1991), polacco (Praga magiczna, Warszawa, Panstwowy Instytut Wydawniczy, 1997). Tra gli studi che rivalutano la figura di Ripellino come poeta, saggista e intellettuale, vedi almeno i numeri monografici dei periodici Omaggio a Ripellino, in «La nuova rivista europea», III, 10-11, 1979; A. M. Ripellino poeta-slavista, a cura di M ario Grasso, in «Lunarionuovo», 21-22, 1983, Angelo Maria Ripellino, a cura di Federico Lenzi, «Trasparenze», 23, 2004; e le monografie di Gene Immediato, La poesia in ballo. Angelo Maria Ripellino poeta, Messina, Sicania, 1992, e Franco Pappalardo La Rosa, Lo specchio oscuro: Piccolo, Cattafi, Ripellino, Torino, Tirrenia Stampatori, 1996. Una bibliografia della sterminata produzione dello scrittore siciliano si può leggere in Angelo M. Ripellino (1923-1978). Bibliografia, a cura di Cesare de M ichelis, Roma, s.n., 1983. Altri articoli su Praga magica, e più in generale su Ripellino, sono quelli di A lessandro Fo, La poesia di Ripellino, in Angelo M aria R ipellino, Poesie, 1952-1978, Einaudi, Torino, 1990; Annalisa A lleva, Ricordi e appunti su Angelo Maria Ripellino, in «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», XX, 1999, pp. 213-241; Dante M arianacci, Ripellino
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Rosa Giulio La Parigi di Baudelaire come archetipo di città moderna nella poesia italiana del primo Novecento
La metropoli moderna entra per la prima volta nella poesia con Baudelaire: la città, come mitico labirinto, attira ed estranea, con ambiguo fascino, lo sguardo del poeta flâneur. I «faubourgs brumeux» (Spleen), le ciminiere e le guglie («les tuyaux, les clochers»), che, come grandi alberi, osserva dalla sua mansarda, mentre «fleuves de charbon» salgono «au firmament» (Paysage), rappresentano per lui il trionfo dell’inorganico, l’esclusione del «végétal irrégulier» e il dominio «du métal, du marbre» (Rêve parisien)1. Lo spleen (o anche ennui) di Baudelaire, inteso come sentimento dell’insufficienza esistenziale, trova, infatti, il suo polo dialettico non solo nell’Idéal (l’Infini, il Paradis), quale aspirazione a un’edenica realtà assoluta, ma anche nell’Artificiel, che si identifica con l’anti-natura e trova la sua più completa configurazione in Les Paradis artificiels, in cui Le Goût de l’infini si alterna con L’Idéal artificiel; da questo rifiuto del naturalismo deriva l’elogio della moda, dell’arredamento, del maquillage, del dandy e, pertanto, il tema degli interni, ideali microcosmi artificialmente ed esteticamente prodotti dall’uomo, convive con il motivo del paesaggio irreale, onirico, fantastico, come non solo nel Rêve parisien, ma anche in La Vie antérieure. Nello scenario della brulicante città, in pieno giorno, si aggirano spettri misteriosi, infernali allegorie degli incubi che assalgono l’incauto passante. Ed è possibile nel traffico caotico di questo «colosse puissant» incontrare, impastoiati nella neve e nel fango, Les Sept Vieillards, inquietante moltiplicazione del primo «sinistre vieillard», sette mostri dall’aspetto eterno 1 Cfr. Charles Baudelaire, Les fleurs du mal, in Oeuvres complètes a cura di Claude Pichois, Paris, Gallimard («Bibliothèque de la Pléiade»), I, 1975 (20019). D’ora in poi le poesie di Baudelaire saranno indicate, direttamente nel testo, solo dai titoli, non dalle pagine, per comodità del lettore che può riscontrarle su tante traduzioni pubblicate in Italia con l’originale a fronte.
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Antonello Perli Etica della città eD estetica della poesia moderna: prosa lirica da Baudelaire ai “vociani”
Pianissimo di Sbarbaro è stato definito «poema di città» da Giorgio Bàrberi Squarotti, il quale ha opportunamente rilevato che questo testo «è interamente ambientato nella città, come accade forse per la prima volta per un ‘poemetto’ nella letteratura italiana»1. Troviamo in Pianissimo un personaggio, quello del camminatore per le vie della città, di una anonima città prevalentemente, ma non esclusivamente, notturna (P4)2. La situazione di questo camminatore è quella del «sonnambulo» (P23), e si tratta di un’immagine mediante la quale il personaggio-narratore di Pianissimo denuncia il proprio stato fondamentalmente privativo di a-tonia (assenza di vitalità), di an-estesia (negazione dei sentimenti), di a-bulia (assenza di volontà), di in-coscienza (assopimento della coscienza), di in-esistenza (P8). L’analisi della «città di Sbarbaro» o del «poeta nella grande città» non può tuttavia ermeneuticamente fondarsi (come è stato fatto da taluni critici3) sulle categorie sociologiche dell’alienazione e reificazione dell’individuo nella moderna metropoli, rinchiudersi cioè nel «reale» di una coscienza storico-economica e di un’ottica meramente intellettualistica: i presupposti dell’esperienza sbarbariana della città (esperienza del personaggio da Sbarbaro messo in scena nei suoi testi) non sono già quelli di una registrazione da parte dell’intellettuale borghese della condizione reificata dell’abitante della città moderna in essa alienato, ma quelli di una visione introspettiva 1 Giorgio Bàrberi Squarotti, La città di Sbarbaro, in Atti del convegno nazionale di studi su Camillo Sbarbaro, Genova, Edizioni di Resine, 1974, p. 71 e p. 61. 2 Si citano le liriche di Pianissimo (con la sigla P seguita dalla numerazione progressiva dei ventinove componimenti) nel testo della princeps vociana (Firenze, Libreria della Voce, 1914). 3 Alludiamo a Giorgio Bàrberi Squarotti, La città di Sbarbaro, cit., e a A lessandro Romanello, Il poeta nella grande città : introduzione a Pianissimo, «Lettere italiane», xlviii, n. 2, aprile-giugno 1996, pp. 230-250.
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Federica Pastorino A Buenos Aires, dove il domani è oggi, ieri sarà poi
Yo soy María de Buenos Aires de Buenos Aires María, yo soy mi ciudad! María Tango, María del arrabal, María noche, María pasión fatal, María del amor de Buenos Aires soy yo! María de Buenos Aires, testo di Horacio Ferrer, musica di Astor Piazzolla.
Ho scelto di parlare di Buenos Aires in questo convegno intitolato La città e l’esperienza del moderno sia per proseguire studi già avviati con le ricerche per il dottorato che mi hanno condotto in Argentina metaforicamente e fisicamente, sia perché, durante l’ultimo Salone del libro di Torino, mi ha colpita la risposta che la scrittrice Laura Pariani ha dato alla domanda «Qual è la città italiana più grande del mondo?». «Buenos Aires»1. Un italiano che oggi giunge a Buenos Aires viene immediatamente colto dal dubbio di non essersi mosso dall’Italia: incontra persone dai volti, dai gesti, con nomi e cognomi italianissimi, italiane sono le insegne dei negozi e i menù dei ristoranti, familiari sono gli odori che escono da tali ristoranti, così come gli arredi nelle case private. Ma, in particolare, è la lingua che attutisce quel senso di estraneità che ci assale quando viaggiamo in un Paese straniero. La maggioranza degli abitanti di Buenos Aires, benché parli 1 Intervista a Laura Pariani condotta da Ermanno Paccagnini, Torino, Salone del Libro, XXIII edizione, 16 maggio 2010.
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Eva-Tabea Meineke La «forêt enchantée»: Parigi nel Paysan di Louis Aragon
Oltre ad esserne il centro geografico, Parigi si inserisce nella narrativa del surrealismo francese e vi svolge una funzione essenziale. Accanto a Nadja di André Breton (1928), Le paysan de Paris di Louis Aragon (1926)1 ne fornisce un famoso esempio. Nella città si rivela la surréalité, nata da uno stato particolare di coscienza, essenziale per la poetica di Breton nel Manifesto del surrealismo del 1924: «Je crois à la résolution future de ces deux états, en apparence si contradictoires, que sont le rêve et la réalité, en une sorte de réalité absolue, de surréalité, si l’on peut ainsi dire»2. Oltre a «surréalité», anche il termine «merveilleux» svolge un ruolo importante per i surrealisti. Nel Paysan de Paris Aragon aspira a ciò che chiama «le sentiment du merveilleux quotidien» (p. 16). E anche Breton vi fa riferimento nel suo manifesto, constatando che il meraviglioso non è lo stesso in tutte le epoche, ma che si traduce in sempre nuovi dettagli della realtà, capaci di animare la sensibilità per un certo momento3. Se per i romantici le rovine abbandonate immerse nel paesaggio erano fonte di mistero, per i tempi moderni Breton menziona come esempio la figura femminile assolutamente cittadina de «le mannequin»4: ciò ci porta all’importanza della città e del desiderio amoroso per l’ispirazione surrealista. Infatti è il desiderio amoroso che nel Paysan de Paris di Louis Aragon penetra piú profondamente la metropoli francese. 1 Louis A ragon, Le paysan de Paris, Paris, Gallimard, 1926, renouvelé en 1953. Le pagine sono in seguito riportate tra parentesi. 2 André Breton, Manifeste du surréalisme, in Oeuvres complètes, Paris, Gallimard, 1988, p. 319. 3 Cfr. ibid., p. 321: «Le merveilleux n’est pas le même à toutes les époques; il participe obscurément d’une sorte de révélation générale dont le détail seul nous parvient: ce sont les ruines romantiques, le mannequin moderne ou tout autre symbole propre à remuer la sensibilité humaine durant un temps». 4 Cfr. ibid.
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Rossana Esposito IL TOPOS DELLA CITTÀ D’ORIGINE NELLA SCRITTURA DI VIAGGIO DEL NOVECENTO
La scrittura di viaggio è costituita da modelli retorici propri di una tipologia testuale che può ascriversi a una modalità paragenerica più che a un genere letterario codificato secondo regole specifiche. Lo scrittore è consapevole dello scarto esistente tra l’esperienza concreta e tangibile del viaggio e la pratica mediata della trascrizione sotto forma di resoconto, diario, memoria, appunti, impressioni, taccuini, fino alle promenades e ai vagabondaggi: una varietà di forme testuali che riflette le diverse tipologie del viaggio e del viaggiatore. Non è possibile stabilire, inoltre, nell’ambito della cosiddetta «letteratura di viaggio» del XX sec., precisi confini cronologici che fungano da spartiacque tra gli scrittori della prima e quelli della seconda metà del novecento, se non il secondo dopoguerra, anche se la produzione di autori come Corrado Alvaro, Riccardo Bacchelli, Emilio Cecchi, Giovanni Comisso, Alberto Moravia si colloca tra gli anni ’30 e gli anni ’70. Tali scritti, nati in gran parte nel periodo rondista, sono caratterizzati da una ricerca di stile che li apparenta, nonostante temperamenti e vocazioni letterarie differenti, a conferma che i libri di viaggio da un lato rispecchiano i modelli culturali dell’epoca cui appartengono, e dall’altro rappresentano il punto di vista dello scrittore. Nel primo Novecento il racconto a posteriori del viaggio, che nasce dal reportage degli inviati speciali, non solo permette di «fermare il tempo» attraverso un processo di rimemorazione, ma offre nuove prospettive conoscitive e illuminanti intuizioni in chiave esperienziale e introspettiva. La riflessione autobiografica promuove il pensiero evocativo che procede per metafore, analogie, simboli e iconemi archetipici dove i segni diventano varianti di potenzialità immaginative. Ma il racconto di viaggio, proprio per il suo statuto speciale, si colloca all’interno di un sapere geografico,
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Elena Rondena IL LAGER: L’ORGANIZZAZIONE SCIENTIFICA DELLA CITTÀ INFERNALE
All’indomani dell’incendio del Reichstag, il 27 febbraio 1933, Hitler ottenne da Hindenburg la promulgazione del decreto per la Difesa del Popolo e dello Stato (Schutz von Volk und Staat) che, oltre a conferirgli pieni poteri, prevedeva il trasferimento delle persone arrestate per motivi politici nei campi di concentramento. Occorrevano nuove misure eccezionali che sostituissero il normale sistema carcerario, sia perché non si era in presenza di condanne emanate da tribunali, sia per il fatto che gli spazi erano insufficienti1. L’esistenza di tali campi non solo era nota, ma il regime stesso voleva che fosse conosciuta proprio con lo scopo di terrorizzare la popolazione. Infatti, per esempio, è molto significativa la conferenza stampa tenuta da Himmler, allora Kommissarischer Polizeipräsident della città di Monaco per annunciare pubblicamente l’apertura di Dachau2: Mercoledì 22 marzo 1933, nei pressi di Dachau, sarà aperto il primo campo di concentramento, in grado di accogliere 5000 persone. Abbiamo stabilito tale capacità senza tenere conto di considerazioni meschine, convinti come siamo di tranquillizzare in questo modo la popolazione nazionale e di agire nel suo interesse3.
Lo scopo di tali dichiarazioni, dunque, faceva parte di una precisa strategia perché il solo sentire nominare quei luoghi generava paura; quello che, 1 Joël Kotek - Pierre R igoulot, Il secolo dei campi. Detenzione, concentramento e sterminio: la tragedia del Novecento, Milano, Mondadori, 2001, p. 216. 2 Normalmente Dachau viene presentato come il primo campo di concentramento, in realtà viene inaugurato quando erano già operativi altri campi. Tuttavia è corretto assegnargli un posto privilegiato perché è diventato il modello da imitare per l’organizzazione dei campi. 3 Joseph Billig, L’hitlérisme et le système concentrationnaire, Paris, PUF, 1976, p. 206.
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Maria Cassano La città dell’uomo e la città delle merci. L’utopia olivettiana e la narrativa italiana degli anni Sessanta
L’architetto sa che la sua opera è inscindibile, indissolubile dall’ambiente. [ … ] Il rapporto tra l’architetto e la “sua” comunità diventerà la sua legge, la sua coscienza morale, segnerà la sua partecipazione creativa alla nascita della nuova comunità, illuminata dalla fiamma spirituale di coloro che l’avranno nutrita della loro sostanza umana1.
Queste parole non appartengono né ad un architetto o urbanista né ad un mistico visionario; ma appartengono invece all’industriale Adriano Olivetti, che nel 1938 prese le redini dell’azienda di famiglia, l’Olivetti, ‘la prima fabbrica italiana di macchine per scrivere’ fondata a Ivrea nel 1908 dal padre Camillo. La poliedrica personalità di Adriano lo avrebbe non solo portato a impegnarsi nel campo strettamente industriale e imprenditoriale, ma ad occuparsi anche di problemi di urbanistica, di architettura, di cultura, oltre che di riforme sociali e politiche, maturando negli anni una visione complessiva dei ‘luoghi’ del lavorare e dell’abitare. La sua sarebbe stata una «fabbrica radiosa» (come «radiosa» era la città di Le Corbusier), capace di accogliere e far entrare la luce ma anche di irradiare, diffondere bellezza; infatti la fabbrica «fu concepita alla misura dell’uomo perché questi trovasse nel suo ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di sofferenza»2. Per costruire questa fabbrica e la nuova comunità a cui aspirava, Adriano Olivetti, a partire dagli anni Trenta e fino ai suoi ultimi giorni, chiamò attorno a sé architetti, artisti, tecnici, letterati, sociologi, giornalisti; Ivrea diventò il cardine delle sperimentazioni olivettiane, lo spazio in cui si veniva organizzando la sua 1 2
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A driano Olivetti, Città dell’uomo, Milano, Edizioni di Comunità, 1960, p. 83. Ivi, p.100.
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Luigi Ernesto Arrigoni MODERNITÀ E ANTIMODERNITÀ DELLA CITTÀ DI SANDRO PENNA
Il rapporto fra Sandro Penna e la città è stato trattato solo di scorcio nella letteratura critica sull’autore. L’osservazione più acuta risale a Cesare Garboli, che nei Penna Papers segnala come nella poesia dello scrittore si sente il rombo [della civiltà industriale e moderna] vicinissimo ma anche lontano, come un temporale appena minaccioso. Si sente il rumore e il silenzio di città grandi e sconosciute: i tram, i cinematografi, i treni, gli stadi [ … ]. Le strade sono ancora quelle bianche di polvere di qualche decennio fa, quando la gomma della bicicletta lasciava sul fondo una striscia come di serpe. Ma sono anche le grandi strade affollate e bluastre di oggi, piene di volti terrei sotto il neon1.
Le antitesi, rilevate da Garboli, trovano significativa rispondenza in alcune contraddizioni intrinseche al corpus penniano nella diversità di configurazioni tematiche che si riscontrano sul piano diacronico delle poesie, nel differente trattamento del mondo della città nelle prose e nella più ampia ambivalenza fra configurazioni moderne e antimoderne. Qualche indicazione preliminare sull’argomento è fornita dalla biografia dell’autore. Dopo l’adolescenza e la giovinezza trascorse a Perugia, Penna si trasferì definitivamente a Roma all’età di ventitré anni e vi rimase sostanzialmente per il resto della vita. Si ricordano inoltre delle visite in altre città italiane, delle vacanze estive in località di villeggiatura e una permanenza di maggior rilievo a Milano fra il 1937 e il 1939, un luogo che segnerà una tappa importante nella vita dello scrittore. Nei testi giovanili, mai editi dall’autore e raccolti postumi da Elio Pecora in Confuso sogno, la visione della città è ancora fortemente influenzata dal futurismo, in par1
Cesare Garboli, Penna Papers, Milano, Garzanti, 1984, p. 30.
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Gianpaolo Altamura Sandro Penna e la geografia del desiderio
Non c’è stato probabilmente poeta, nel Novecento italiano, che al pari di Sandro Penna abbia saputo annettere al teatro della città lo stesso carattere idilliaco o, anche – al limite – escapistico, che il poeta moderno suole attribuire per istinto e per nostalgia alla sfera perduta della natura. Penna si colloca di fatto al di fuori del canone letterario e poetico costituitosi nell’Italia novecentesca (lo stesso Cesare Garboli, suo acuto e «affezionato» interprete, lo classifica come un “postumo” della linea pascoliana1), ma proprio perché si pone anche al di fuori della sfera piccoloborghese, in virtù di una incrollabile diversità umana, oltre che culturale. A Roma, così come in buona parte nella nativa Perugia, Penna va ricavandosi una sorta di nicchia lirico-estetica e, ostentando un atteggiamento di inattaccabile serenità, va creandosi un microcosmo pullulante di figure, profili, ambientazioni dolci, gentili, morbidi, fragranti, ieratici, da compulsare a suo uso e consumo esclusivo, privatamente, avidamente, ininterrottamente. È questa attitudine, che invero può essere letta come una strategia lirica istintiva, pressoché innata, a confinarlo immediatamente ai margini, non solo dell’istituzione letteraria, ma pure – nel concreto – della sua stessa città di adozione, Roma, dei cui quartieri e sordidi bassifondi diviene ben presto instancabile habitué. Questa condizione di consapevole, ricercata “inattualità” non sarebbe affatto pensabile, immaginabile anzi, senza lo sfondo umano e urbano in cui il poeta “sceneggia”, e recita, i suoi versi. Penna non è un borghese, non sente mai la necessità o l’ansia di doversi adattare agli usi e alle convenzioni 1 Così Garboli nella sua Introduzione alla raccolta di Sandro Penna, Poesie, Garzanti, Milano, 2000, p. VIII: «Ci sono poeti di tale forza innovatrice da cambiare quasi di colpo i codici costituiti; e ci sono poeti inamovibili dall’antichità, così fedeli alla tradizione da scenderne giù come le pecore dai tratturi. [ … ] La poesia di Penna presuppone il grande serbatoio pascoliano [ … ]».
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Antonia Marchianò «Salerno, rima d’inverno»: la città sciroccale di Alfonso Gatto
In Dolore per la mia terra il poeta afferma: «Salerno sono io»; si comprende, quindi, l’osservazione di Carlo Bo: «senza l’immagine della sua città Gatto non avrebbe potuto vivere né scrivere»1. Indubbiamente, Salerno – con il suo mare, le sue colline, i suoi vicoli, i palazzi storici e il castello – e il forte legame con i familiari, anche dopo la partenza dalla città natale, affiorano in molte sue opere. Se insistenti sono i richiami alla sua terra – tanto che si può ipotizzare, per la produzione gattiana, una vera e propria geografia dell’ambiente, identificata spesso con la sua città2 –, non vanno però dimenticate le nostalgiche pagine dedicate ai suoi familiari (non disgiunti dal loro habitat naturale), in modo particolare alla madre e al ricordo del fratello Gerardo, morto in tenera età3. In Ritratti di mia madre, la donna è descritta attraverso la rappresentazione dei suoi stati d’animo, colti nell’osservare una foto che la ritrae da giovane: È ancora adolescente, mia madre, e nei suoi occhi è tradita l’ansia, che quel giorno doveva avere, di guardare fissa l’obiettivo e di pensare soltanto allo sposo che forse da un lato la mirava rigirandosi il cappello fra le mani. [ … ] È tonda, da un corpetto di pizzi il collo le si profila giovane e alla nuca si fascia dei morbidi 1 Carlo Bo, in Immagini di Alfonso Gatto, Atti del Convegno di Studi dedicato dal Comune di Salerno ad Alfonso Gatto, a cura di Epifanio Ajello, Salerno, Metafora Edizioni, 1900, p. 43. 2 «Il rapporto di Gatto con l’architettura si fa persino urbanistico, nel momento in cui egli rivendica al poeta la possibilità di identificarsi strutturalmente con la propria città»: A lfonso Gatto, Salerno nella polvere del mutamento, a cura di Francesco D’Episcopo, Napoli, Guida, 2000, p. 14. 3 Sul rapporto di Alfonso Gatto con la madre, cfr. Oreste M acrí, L’archetipo materno nella poesia di Alfonso Gatto, in Stratigrafia di un poeta: Alfonso Gatto, Atti del Convegno Nazionale di Studi su Alfonso Gatto, Salerno-Maiori-Amalfi, 8-9-10 aprile 1978, a cura di Pietro Borraro e Francesco D’Episcopo, Galatina, Congedo Editore, 1980, pp. 51-91.
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Stefano Ghidinelli Dal «villaggio di luna» alla «città spiovente» nelle Poesie (1929-1941) di Alfonso Gatto
È davvero peculiare l’atto di fiducia con cui Alfonso Gatto, nelle sue prime raccolte, assegna a certe opzioni tecnico-formali la valenza di vere e proprie coordinate rappresentative, facendone gli assi generatori di un ensemble verbale pensato come la trascrizione diretta o, meglio ancora, come l’equivalente mimetico di un universo psichico irriducibile ai modi dell’intelligenza razionale. Le vistose ricorrenze e legalità interne che innervano la sua poesia, un po’ a tutti i livelli dell’assetto strutturale, risultano funzionali a simulare l’oscura contro-grammatica di una gamma di modalità d’esperienza informi e regredite, che il lettore è chiamato a con-patire proprio nella loro grezza autenticità primigenia. Anche per questo la poesia di Gatto trae il massimo vantaggio dall’organizzazione in forma di libro: al di là della possibilità di cogliere – nell’edizione finale delle Poesie così come nei singoli capitoli che la costituiscono1 – una significativa linea di sviluppo o «progressione di senso», la cornice del macrotesto circoscrive proprio quell’orizzonte di lettura dilatato, protratto, ripetitivo su cui Gatto fa affidamento per indurre il lettore ad una tendenziale ridefinzione dei propri protocolli fruitivi abituali. I modi di rappresentazione dello spazio costituiscono, in quest’ottica, uno degli aspetti più rilevanti per rendere conto tanto del funzionamento generale della semantica delle Poesie quanto del suo relativo evolversi 1 Alfonso Gatto, Poesie (1929-1941), Milano, Mondadori, 1961. Le due sezioni della Parte prima, Isola e Morto ai paesi, corrispondono in effetti (con varianti e assestamenti) ai suoi primi due libri, pubblicati rispettivamente nel ’32 (Napoli, Libreria del ’900) e nel ’37 (Milano, Guanda). La memoria felice e Arie e ricordi, che compongono la Parte seconda, sono invece sezioni istituite proprio nel ’61 per riorganizzare (su base cronologica) la produzione successiva al ’37, già raccolta via via (ma con ripartizioni diverse) nelle precedenti edizioni delle Poesie (Milano, Panorama, 1939 e Firenze, Vallecchi, 1941).
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Andrea Gialloreto Effetto Notte. I nachtstücke di Giorgio Vigolo
E si spalanca la turchina notte… Giorgio Vigolo, Erebo Altissime sul mio capo vaneggiavano arcate, fuggivano le spire delle cupole, assorte in quelle trombe di fulgore che le nuvole vi avvolgevano attorno, come per risucchiarle nell’alto. Ma, col calar del sole, tutto quel moto di luci e di mura si gelava in blocchi di carbone che al freddo della sera diventavano quasi turchini. Un’altra e più segreta animazione delle cose cominciava per effetto dell’ombra. G. Vigolo, La piccola Apocalisse
Non si dà di frequente nel Novecento italiano il caso di un autore dagli interessi vastissimi (poesia, narrativa, musicologia e cronaca teatrale, filologia belliana, traduzione) che concentri le proprie riserve letterarie e gli sforzi per l’individuazione di una poetica dalle mire assolute nel “racconto” dello spazio fantastico di una città e dei suoi dintorni. Dalle sorgive e dagli antri spersi tra i nemora laziali si addensano visioni e risuonano vaticini: è questo il retroterra che si scopre di fronte all’ansia di conoscenza e alla febbre ritmica testimoniate da una scrittura accesa di metafore che torcono le immagini con guizzi serpentini e intarsi d’arabesco, oppure sfumata da vapori onirici che dissolvono l’incubo in onda melodica. Allo sguardo dello scrittore la città non si presenta come cinta fortificata a protezione della vita moderna, argine all’invasione di fantasmi, echi, riverberi di cui anzi la pagina vigoliana si dispone a registrare la pur minima insorgenza. Le
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Paola Baioni La personificazione della città: Firenze e Siena nei versi di Mario Luzi
Mario Luzi percepisce la città come civitas più che come urbs; ha un’idea di comunità che avverte a priori rispetto all’immagine paesistica: la intende come corpo «percorso da diverse pulsioni dell’agire umano e storico» e come «realtà illuminata dalla natura»1. A muovere il verso sono spesso gli accadimenti che hanno inferto gravi ferite e lesioni a Firenze: basti pensare alla distruzione derivata dai bombardamenti durante la guerra, all’alluvione del 1966, all’ordigno esploso in pieno centro storico nel 1993, per fare solo qualche esempio. Tuttavia, mentre i dati storici o di cronaca hanno significato al poeta «l’offensiva del male, nelle sue diverse forme»2, egli ha voluto raccogliere e dar voce ai deboli elementi vitali che restano della città, colpita – straziata, in qualche caso – ma non uccisa, disposta a ri-cominciare. Non soltanto la violenza, ma anche la corruzione e il decadimento della cultura costituiscono un pericolo di disgregazione, da combattere con ogni forza, perché «la città umana senza idea vitale si sfascia»3. Nell’opera poetica di Mario Luzi si trovano liriche dedicate anche ai ricordi felici e a certe ricorrenze che richiamano elementi cari, in particolare, ai fiorentini. Per quanto riguarda Siena, invece, a muovere il verso sono prevalentemente gli avvenimenti legati alle origini familiari, ai cari ricordi adolescenziali e giovanili, alle prime esperienze d’amore e di poesia. Nonostante Luzi abbia vissuto e abitato per lo più a Firenze, si ritiene un fiorentino solo «d’occasione». Nel discorso, quasi una Lectio magistralis, pronunciato in 1 Mario Luzi, La porta del cielo. Conversazioni sul cristianesimo, a cura di Stefano Verdino, Casale Monferrato, Piemme, 1997, p. 108. 2 Ibidem. 3 Ivi, p. 109.
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Laura Piazza Alessandria metafora del Tragico nel Libro di Ipazia di Mario Luzi
L’attività drammaturgica di Luzi si sviluppa a partire dal 1947, anno di composizione del dramma Pietra oscura1, e, distribuendosi sempre più armonicamente nel ventaglio della produzione poetica, giunge a contare tredici titoli. Il teatro luziano si è generato autonomamente da quell’essenza dialogica che in maniera sempre meno velata caratterizza le sue opere poetiche, soprattutto a partire da Nel magma: essenza dialettica e forma rituale sono gli elementi che da quest’opera in poi accomuneranno, con estrema coerenza, l’intero percorso creativo del poeta. Luzi inoltre, sin dagli anni ’70, è stata figura attiva nelle scene teatrali italiane, partecipando in prima persona agli allestimenti delle proprie opere (talvolta addirittura come attore2), lavorando da drammaturgo, traduttore, e collaborando con alcune delle personalità di maggior rilievo del teatro contemporaneo (come Orazio Costa, che diverrà amico, riferimento intellettuale e soprattutto ‘drammaturgico’, capace di sostenere un Luzi spesso insicuro sulle qualità strutturali dei suoi testi). Il teatro di Luzi si configura sin dagli esordi come espressione di quella ‘controversia’, animata dal rapporto lacerato e lacerante dell’individuo con la storia, in cui l’uomo ha apparentemente il ruolo di vittima, o, come accade ad alcuni personaggi, di spettatore impotente chiuso nella frequente solitudine monologante. Alla riflessione sulla storia è possibile associare la tematica della memoria, intesa quale facoltà metamorfica per eccellenza che, come la poesia, consente di cogliere nell’incostanza del 1 Mario Luzi, Pietra oscura. Controversia, Milano, Scheiwiller, 2004; poi in Id., Pietra oscura, introduzione di Stefano Verdino, Porretta Terme, I Quaderni del Battello Ebbro, 1994. 2 Nel 1983 Luzi ha recitato i versi dei due Intermezzi del suo Rosales, messo in scena da Orazio Costa, e nel 1990 ha preso parte all’allestimento teatrale del suo Il Purgatorio. La notte lava la mente per la regia di Federico Tiezzi.
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Luca Daino Ritrarre e uccidere Firenze: due episodi della poesia di Franco Fortini
1. Vittorio Sereni, accertando l’assidua presenza di Firenze nei versi di Franco Fortini, ha affermato che «si potrebbe comporre un intero capitolo attorno a questo nome ritagliandolo dall’opera intera»1. E la cosa non stupisce visto il travagliato rapporto di Fortini con il luogo in cui ha trascorso i primi ventiquattro anni della sua esistenza, fino al 1941, e a cui ben presto ha affibbiato l’appellativo di «città nemica»2. A testimonianza di questo legame rimangono oltre cinquanta poesie, distribuite – con almeno un paio di nuclei di addensamento – nel corso dell’intera carriera fortiniana. Ma non si tratta di una questione meramente quantitativa. Nella scrittura di Fortini, la presenza di Firenze e di Franco Lattes (era questo il suo nome all’anagrafe)3 è assai radicata e ramificata, ma a volte corre sottotraccia, col rischio di risultare inavvertita anche ai lettori più attenti. Sono due i luoghi principali, quelli più organici e coesi, in cui Fortini ha a eletto a spunto dei propri versi il tormentato rapporto con Firenze. Il primo risale al periodo a cavallo tra anni Quaranta e Cinquanta e ha dato 1 Vittorio Sereni, Un destino, in Carlo Fini (a cura di), Per Franco Fortini, Padova, Liviana, 1980, p. 166. 2 Cfr. Franco Fortini, Città nemica (1941), in Foglio di via e altri versi, Torino, Einaudi, 1946 (19672), poi in Una volta per sempre. Poesie 1938-1973, Torino, Einaudi, 1978, p. 9. Nella città nemica si intitola anche la plaquette, curata da Luca Lenzini ed Elisabetta Nencini, contenente, come recita il sottotitolo, Ventisei poesie fiorentine di Fortini. Si tratta di una pubblicazione fuori commercio a margine della mostra documentaria dal titolo Nella “città nemica”. Fortini a Firenze 1917-1941 (Firenze, Archivio Bonsanti, 18 novembre 2004 - 10 gennaio 2005). In Sestina a Firenze, testo datato 1948-1957, il capoluogo toscano è definito «città amara» (da Poesia ed errore, Milano, Feltrinelli, 1959; nuova ed. riveduta, col titolo Poesia e errore, Milano, Mondadori, 1969; poi in Una volta per sempre, cit., p. 109). 3 Lo scrittore ha firmato per la prima volta un suo articolo col nuovo cognome (quello della madre, Emma Fortini del Giglio) nel 1940, poco prima di lasciare definitivamente Firenze: La prosa di Romano Bilenchi, in «Ansedonia» II, 2-3, giugno-agosto, pp. 15-19.
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Luca Stefanelli Un «non-luogo a procedere»: la Venezia di Andrea Zanzotto
Prima di addentrarci nella lettura della prosa zanzottiana Venezia, forse, risalente al 1976, credo sia essenziale esaminarne preliminarmente il contesto della prima pubblicazione, nel libro fotografico di Fulvio Roiter Essere Venezia (Udine, Magnus, 1977)1. I commentatori, da Gian Mario Villalta 2 a Niva Lorenzini 3, si sono giustamente soffermati sulla maliziosa sostantivazione di quell’avverbio «forse», trasformato dall’autore in una traballante «passerella quanto mai veneziana». Prima ancora, tuttavia, occorrerebbe a mio avviso osservare il doppio ribaltamento di prospettiva che il titolo zanzottiano introduce rispetto a quello del volume fotografico: da Essere Venezia a Venezia, forse il passo è infatti tutt’altro che agevole. Nel titolo del volume, fungendo da predicato di un verbo coniugato all’infinito (“essere”), il toponimo “Venezia”, si svincola da qualsiasi riferimento a un soggetto e a un contesto spazio-temporale, e viene rinviato a un’indeterminata sospensione ontologica. Nel sintagma che dà il titolo allo scritto zanzottiano, Venezia, forse, il toponimo recupera invece la sua posizione e la sua funzione “propria” di sostantivo, ma solo per esserne proiettato fuori da quel costrutto nominale-appositivo, che fa della 1 Il testo verrà ristampato nel 1995 nell’edizione Neri Pozza Sull’Altopiano e prose varie; poi in Racconti e prose, Milano, Mondadori, 1990; infine nelle Poesie e prose scelte, a cura di Stefano Dal Bianco e Gian Mario Villalta, con due saggi di Stefano Agosti e Fernando Bandini, Milano, Mondadori (I Meridiani), 1999 (pp. 1021-84), cui d’ora in avanti si farà riferimento. 2 Nella Nota al testo per il Meridiano, cit. p. 1051. 3 Venezia, forse: sulle tracce dell’“indecidibile”, in Andrea Zanzotto. Tra Soligo e Laguna di Venezia, a cura di Gilberto Pizzamiglio. Atti delle Giornate di studio Pieve di Soligo-Venezia (Fondazione Cini, 13-14 ottobre 2006; Venezia, Fondazione Querini Stampalia, 7 novembre 2006), Firenze, Olschki, 2008, pp. 1-9.
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Jole Silvia Imbornone «Una città piena di portici»: la Bologna di Pier Paolo Pasolini
«La città, come rimossa, potrebbe essere [ … ] il luogo dei maestri, del padre, del fascismo, siccome Casarsa è il rifugio palese nel grembo materno»1: queste le conclusioni di alcune annotazioni di Renzo Renzi sul rapporto di Pasolini con Bologna, tra i ricordi diretti e l’osservazione dei luoghi della sua scrittura, letteraria e filmica. Renzi, che pure ipotizza un’interpretazione di Bologna da parte di Pasolini come “stracittà”, in contrapposizione ad una Casarsa «sicuramente letta nella dimensione di “strapaese”»2, evidenzia nell’autore delle Ceneri di Gramsci una «istintiva reticenza nei confronti delle sue giovanili vicende bolognesi»3, così come nota in lui una scarsa disponibilità a rievocare i suoi rapporti con il fascismo ai tempi della collaborazione con «Il Setaccio» e «Architrave», o a parlare del padre fascista. Egli ricorda ancora la presenza di Bologna nelle scene cinematografiche pasoliniane solo nell’Edipo re e Salò. Tuttavia, per giungere a conclusioni più articolate è necessaria un’analisi più capillare dei significati attribuiti dallo scrittore agli squarci urbani e alla dimensione diacronica vissuta dalla capitale felsinea, come appare nelle rare, ma interessanti trasfigurazioni letterarie dei suoi ricordi. «Sono uno / che è nato in una città piena di portici»4, scrive Pasolini in 1 Renzo Renzi, Quasi un compagno di scuola, in Pasolini e Bologna, a cura di Davide Ferrari e Gianni Scalia, atti del convegno tenutosi nel dicembre 1995 per iniziativa dell’Istituto Gramsci, dell’Associazione In forma di parole, dell’Associazione La Casa dei Pensieri e della Cineteca comunale di Bologna, Bologna, Pendragon, 1998, p. 148. 2 Ivi, p. 147. 3 Ibidem. 4 Pier Paolo Pasolini, Poeta delle Ceneri, «Nuovi Argomenti», luglio-dicembre, 1980, 67-68, ora in Tutte le poesie, a cura e con uno scritto di W. Siti, due tomi, Milano, Mondadori, 2003, tomo secondo, p. 1261.
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Renato Napoli Fine dell’amore. Il Grande Stile nella poesia degli anni ’60
Innanzitutto, ritengo opportuno soffermarmi sull’informazione più immediatamente letteraria contenuta dal titolo: la definizione di Grande Stile. Alla fine degli anni ’80 nacque, sulle pagine di due riviste, un dibattito che vide come alfieri di differenti posizioni Guido Mazzoni, da un lato, e Gian Luigi Beccaria, dall’altro1. Per quest’ultimo, il sintagma in questione faceva da contenitore di una categoria critica e storiografica, a dire il vero molto ampia, utile per ripartire e giudicare il Novecento letterario italiano. Dunque, un neo-idealismo necessario alla divisione di ‘buoni’ e ‘cattivi’, in un periodo in cui ogni ragionamento su ‘dove stesse andando la poesia’ appariva decisamente superato. Mazzoni, invece, rifiuta il carattere ecumenico dell’idea di Grande Stile e piuttosto fornisce una visione meno ideologizzata e più, diremo, circostanziale: la possibilità di una poesia in ‘do maggiore’, ovvero scevra da qualsiasi senso d’inferiorità nei confronti di altri generi o arti, in crisi con l’ormai logorata lezione ermetica, soprattutto di area milanese, trova un humus fecondo ne Le occasioni di Eugenio Montale. Nell’intenzione di chi scrive, col termine Grande Stile si vuol suggerire un’ideale continuazione di una forma canonica fissatasi nei ‘libri’ dei maggiori poeti degli anni ’30 che, pur rifiutando l’ermetismo come ortodossia, si fecero ‘classici’. Generazione questa (Bertolucci, Sereni, Caproni) che nelle successive pubblicazioni, cogliendo le novità del secondo libro montaliano, intese il Grande Stile come alternativo alla Lirica Pura e all’orfismo imperanti nei primi decenni del ventesimo secolo e, successivamente, come ‘resistenza’ della poesia alta sia alle soluzioni spiccatamente prosastiche del dopoguerra
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1 Cfr. Gian Luigi Beccaria, Le forme della lontananza, Milano, Garzanti 1989 e Guido Mazzo«Grande stile e poesie del Novecento», in «Sigma», XVI, 2-3, 1983, pp. 7-20.
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INDICE DEL VOLUME
TOMO III Prefazione Mario Barenghi, Giuseppe Langella, Gianni Turchetta 5
17 giugno Sessione A Chiara Marasco (Università di Calabria) Trieste e l’«inquietudine» della modernità
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Novella Di Nunzio (Università di Siena) La città labirinto: Trieste e la scomparsa di Angiolina
21
Barbara Sturmar (Università di Trieste) «Tra monte e mar [ ... ] un nùvolo par sora». La Trieste di Virgilio Giotti
29
Marina Paino (Università di Catania) La «Torino d’altri tempi» di Guido Gozzano
39
Matteo Veronesi (Università di Bologna) «Urbs Gemula». Imola come cronotopo letterario fra idillio rusticale e teatro di guerra
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la città e l’esperienza del moderno
Anna Guzzi (Università di Calabria) La città di ghiaccio come emblema dell’arte in un narratore contemporaneo
61
Silvia Morgani (Università Tre, Roma) La città tra attrazione e repulsione nella scrittura cardarelliana: dal percorso creativo alla dimensione privata
73
Anna Ferrari (Università L’Orientale, Napoli) La «città del lungo esilio» e il «bugigattolo del paese»: una dicotomia (quasi) irrisolta in Rocco Scotellaro
85
Marilena Squicciarini (Università di Bari) I colori della distanza: Luigi Fallacara da Bari a Firenze
97
Gioia Valdemarca (Università di Trieste e Düsseldorf) La città dappertutto. Scrivere del nordest
105
Filippo Pennacchio (IULM) La città immateriale. Nonluoghi e figure del transito in alcuni recenti romanzi
113
Sessione B Angela Francesca Gerace (Università di Calabria) Schizzi di cromatismo morale: Venezia nei racconti di Camillo Boito 125 Federica Lautizi (Università di Perugia) Un Piemontese a New York. Impressioni d’America di Giuseppe Giacosa
137
Federica Adriano (Università di Sassari) Le città di Federico De Roberto. Catania e Roma ne I Viceré e ne L’Imperio
149
Marja Härmänmaa (Università di Helsinki) La giungla, la prostituta e il tumore. L’anatomia della degenerazione della città moderna in D’Annunzio
159
Gabriella Brugnara (Università di Trento) Le fughe della trasformista Ninfa dannunziana tra città reali e luoghi dell’immaginario
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INDICE
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Emanuela Scicchitano (Università di Calabria) «Descensus Averno». Il viaggio dannunziano nelle città terribili
179
Enrico Elli (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Una scheda per Pirandello poeta: le «Elegie della città»
189
Pasquale Marzano (Università L’Orientale, Napoli) Città «di carta» e nomi di luoghi «senza vedute» nelle Novelle per un anno di Luigi Pirandello
201
Alberto Carli (Università del Molise) Città di carne. Luoghi e temi cittadini nella letteratura popolare e giovanile milanese di secondo Ottocento
213
Manuela Cottini (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Fra crimine e follia. Prigionia della mente e del corpo nelle città nascoste di secondo Ottocento
225
Massimiliano Mancini (Università La Sapienza, Roma) L’immagine della “città moderna” nei testi di Delio Tessa
237
Cinzia Gallo (Università di Siracusa) La città di Roma nei romanzi “bizantini” di Ugo Fleres
249
Sessione C Magdalena Maria Kubas (Università per Stranieri di Siena) Antonia Pozzi: paesaggi urbani, luoghi dell’umano ed esperienze della natura
265
Ilaria Accardo (Università L’Orientale, Napoli) Un singolare “Neapel reise”. Napoli nei racconti di Vittorio Imbriani
277
Mario Musella (Univerdità L’Orientale, Napoli) Partenope pseudo-futurista: la mancata realtà urbana di Napoli nell’immaginario futurista
287
Clara Borrelli (Università L’Orientale, Napoli) La Napoli di Mastriani
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la città e l’esperienza del moderno
Angela Carpentieri (Università L’Orientale, Napoli) Tra racconto, rappresentazione mitica e realtà, i volti della Napoli di fine Ottocento
313
Domenico Giorgio (Università Federico II, Napoli) La città / le città di Ermanno Rea tra scrittura e immagine fotografica
323
Laura Cannavacciuolo (Università L’Orientale, Napoli) La città figurata. I volti di Napoli nella Trilogia di Ermanno Rea
331
Annibale Rainone (Università di Salerno) Città e brani di città nell’impero di Gomorra 341 Mariangela Tartaglione (Federico II, Napoli) La città «molesta» di Elena Ferrante
347
Sessione D Agata Irene De Villi (Università di Bari) Nel «cerebroso turbine della metropoli». Massimo Bontempelli e Milano
359
Daniela Bernard (Università L’Orientale, Napoli) La Milano degli anni Quaranta di Carlo Bernari tra la redazione di «Tempo», l’Europa in guerra e i tavolini del Savini, del Craja e delle Tre Marie
369
Katia Trifirò (Università di Messina) Milano o la metropoli strana. Visioni urbane e trasfigurazioni fantastiche ne La doppia storia di Beniamino Joppolo
377
Rosa Pisano (Università L’Orientale, Napoli) L’esperienza del “Moderno” nella Milano di Un amore 387 Annalisa Carbone (Università Federico II, Napoli) La Milano di Buzzati
397
Antonia La Torre (Università L’Orientale, Napoli) Peregrinationes moderne e gironi metropolitani. Trasfigurazioni infernali della città in Buzzati, Pasolini e Zavattini
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Francesco Capaldo (Università L’Orientale, Napoli) Il tema della città in Sereni e Raboni
413
Adriana Mormina (Università di Catania) «Mi riafferri coll’aria dei giardini»: città e dintorni nella poesia di Vittorio Sereni
419
Nunzia Palmieri (Università di Bergamo) Fantasmi all’ombra dei bastioni: i confini delle città di carta
431
Silvia Zangrandi (IULM) Città reali oltre il reale: incursioni del fantastico a Milano, Venezia, Roma
443
Francesca Piccolo (Università di Messina) Venezia ad occhi chiusi: Hugo Pratt e Corto Maltese alla ricerca dell’Altrove
453
Sessione E Monica Lanzillotta (Università di Calabria) Città in campagna e campagna in città nella poesia di Cesare Pavese
461
Giovanni Di Malta (Università di Cagliari) La città periferica. Il carcere, Paesi tuoi, Il compagno e La casa in collina di Cesare Pavese
473
Claudio Panella (Università di Torino) La rappresentazione letteraria di Torino tra Otto e Novecento: effetti di realtà e contrapposizioni simboliche tra corpo urbano, fiume e collina
485
Loredana Castori (Università di Salerno) La città, il silenzio: il “varco” di Calvino e il telefono
495
Gianni Cimador (Università di Trieste) La città della rondine: Calvino e l’architettura zodiacale
509
Nadia Rosso (Università di Catania) «Consumatore» e «vittima»: la memoria di Calvino, «cittadino delle città e della storia»
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la città e l’esperienza del moderno
Rita Valentina Ronchei (Università di Bari) La città scritta: epigrafi e graffiti di Italo Calvino
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Pasqua Gasparro (Università di Bari) Le città invisibili: scelte iconografiche per le copertine delle edizioni einaudiane
551
Maria Elena Palmisano (Università di Bari) Tracce di modernità: la pubblicità nella città di Marcovaldo
559
Sessione F Ivan Pupo (Università di Calabria) Per le vie di Praga, in compagnia di Ripellino
569
Luigi Marfè (Università di Torino) Storie dalla città magica. Ripellino, Praga e i piaceri del collezionismo
577
Rosa Giulio (Università di Salerno) La Parigi di Baudelaire come archetipo di città moderna nella poesia italiana del primo Novecento
587
Antonello Perli (Università di Nizza) Etica della città ed estetica della poesia moderna: prosa lirica da Baudelaire ai “vociani”
601
Federica Pastorino (Università di Genova) A Buenos Aires, dove il domani è oggi, ieri sarà poi
611
Eva-Tabea Meineke (Università di Giessen) La «forêt enchantée»: Parigi nel Paysan di Louis Aragon
621
Rossana Esposito (Università Federico II, Napoli) Il topos della città d’origine nella scrittura di viaggio del Novecento
627
Elena Rondena (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) Il lager: l’organizzazione scientifica della città infernale
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INDICE
Maria Cassano (Università di Bari) La città dell’uomo e la città delle merci. L’utopia olivettiana e la narrativa italiana degli anni Sessanta
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Sessione G Luigi Ernesto Arrigoni (Università di Bergamo) Modernità e antimodernità della città di Sandro Penna
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Gianpaolo Altamura (Università di Bari) Sandro Penna e la geografia del desiderio
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Antonia Marchianò (Università di Salerno) «Salerno, rima d’inverno»: la città sciroccale di Alfonso Gatto
687
Stefano Ghidinelli (Università di Milano) Dal «villaggio di luna» alla «città spiovente» nelle poesie (1929-1941) di Alfonso Gatto 697 Andrea Gialloreto (Università di Chieti) Effetto notte: i nachtstücke di Giorgio Vigolo
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Paola Baioni (Università Cattolica del Sacro Cuore, Milano) La personificazione della città: Firenze e Siena nei versi di Mario Luzi 723 Laura Piazza (Università di Catania) Alessandria metafora del tragico nel Libro di Ipazia di Mario Luzi
737
Luca Daino (Università di Milano) Ritrarre e uccidere Firenze: due episodi della poesia di Franco Fortini 749 Luca Stefanelli (Università di Pavia) Un «non-luogo a procedere»: la Venezia di Andrea Zanzotto
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Jole Silvia Imbornone (Università di Bari) «Una città piena di portici»: la Bologna di Pier Paolo Pasolini
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Renato Napoli (Università Federico II, Napoli) Fine dell’amore. Il grande stile nella poesia degli anni ’60
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Edizioni ETS Piazza Carrara, 16-19, I-56126 Pisa info@edizioniets.com - www.edizioniets.com Finito di stampare nel mese di maggio 2012
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