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Da quando le donne hanno un’anima?

di Franco Zadra Speciale Pianeta Donna

Da quando le donne hanno un’anima?

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La vicenda storica, ormai bimillenaria, della Chiesa cattolica, è particolarmente complessa e articolata, tanto che i cattolici, anche i più consapevoli, la conoscono in maniera insufficiente. Un autore tra i molti che di continuo contribuiscono allo studio di quella storia, Jean-Pierre Moisset, nella sua “Storia del Cattolicesimo”, edizioni Lindau, del 2008, cerca di rispondere con uno stile quasi giornalistico, a molte domande di fondo che vorrebbero recuperare quelle lacune che lasciano i cattolici di oggi in balia di revisionismi e fole storiche ormai assimilate in un bagaglio “culturale” difficile da riformare, per comprensibile mancanza di tempo, che insinuano dubbi e insicurezze altrimenti dipanati e del tutto risolti in ambiti specialistici. Un esempio tra questi è la credenza diffusa e molto radicata nell’opinione pubblica che la Chiesa avesse negato l’esistenza dell’anima delle donne, riabilitate solo di recente a persone corredate di ciò che si stenta a negare persino agli animali. Fu un polemista calvinista, Pierre Bayle, che spacciò come dato storico inconfutabile il fatto che dei vescovi avevano negato alla donna l’anima, inventandosi un inesistente decreto del II concilio di Macôn, del 585 d.C.. «I circa cinquanta vescovi presenti – scrive Moisset a proposito di quel concilio – non hanno minimamente discusso l’argomento, ma Gregorio di Tours, nella sua Historia Francorum, scritta poco prima della sua morte, nel 594 (quindi dopo neppure 10 anni da quell’evento e con una tempestività da cronista considerando il fatto che non esistevano telecamere o registratori, Ndr.), riporta le dichiarazioni di un vescovo: “dicebat mulierem hominem non posse vocari”, ovvero “diceva che non si può applicare alla donna il termine homo”. Il problema sollevato è di ordine linguistico: era il caso di applicare alla donna il termine generico homo, che designa l’essere umano, o bisognava chiamarla femina o mulier? Dal momento che l’evoluzione del latino parlato tendeva ad assimilare homo (essere umano) a vir (essere umano di sesso maschile), l’oratore chiedeva che si prendesse atto del nuovo uso, riservando homo all’essere umano di sesso maschile (un problema attualissimo se si pensa che è diventata quasi una offesa in inglese usare “Chairman” per indicare la carica di “presidente”, ed è divenuto obbligatorio usare invece “Chairperson”. Persona in latino vuol dire “maschera di un attore”, senza indicazioni di genere, Ndr.). Gli altri vescovi non erano di quell’avviso e hanno risposto che bisognava cercare di esprimersi, oralmente e soprattutto per iscritto, in buon latino; di conseguenza, era giusto continuare a chiamare homo la donna. Per circa un millennio nessuno ha più fatto riferimento a questo piccolo aneddoto. Esso fa nuovamente capolino durante il Rinascimento, ma è soltanto alla fine del XVII secolo che un calvinista, Pierre Bayle, formula nel suo Dictionnaire historique et critique l’idea secondo la quale alcuni vescovi si sarebbero domandati se la donna avesse un’anima. Naturalmente, Bayle usava l’argomento per attaccare la Chiesa cattolica. Il tema è stato avidamente ripreso nel XVIII e XIX secolo. Questo mito, del tutto privo di senso da un punto di vista cattolico, è ancora assai diffuso ai giorni nostri, nonostante le smentite degli storici». Una fake news del ‘700 confutata, dunque, che però non ci deve distogliere dall’approfondire la questione del perché la donna si sia quasi sempre (ma ci sono molte eccezioni proprio in ambito ecclesiale e addirittura nel Medioevo con la diffusione in Europa di priorati misti retti da Badesse con la stessa dignità e potere dei vescovi) trovata in una condizione subalterna rispetto all'uomo.

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