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Racconti d’Arte: Incontro

Racconti d'arte di Daniela Zangrando*

INCONTRO

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Un tuffo nel 1877. Siamo a Napoli. Il ventiseienne Francesco Paolo Michetti porta, all’esposizione nazionale di belle arti di Napoli, due opere. Una è La processione del Corpus Domini a Chieti, l’altra l’Autoritratto che vedete nell’immagine riprodotta in queste pagine. Il pittore e scrittore d’arte Francesco Netti commenta La Processione del Corpus Domini a Chieti nelle pagine de “L’Illustrazione Italiana” dello stesso anno. Leggiamo insieme qualche riga, che ci tornerà utile anche per il nostro quadro di questo mese. «Debbo confessare […] che la prima volta che ho veduto il quadro, l’impressione è stata abbagliante […]. Se voi lo considerate come rappresentazione di un soggetto determinato, come logica di composizione; se vi cercate ciò che si chiama un quadro completo, non sarete pienamente soddisfatti, ve ne prevengo. Troverete delle cose messe a mal proposito, troverete degli errori – delle lacune nel disegno, – nelle proporzioni, – nell’insieme dell’intonazione, nel calcolo degli spazii, – nel distacco tra una figura e l’altra. Da lontano non si vede bene, e bisogna avvicinarsi molto per distinguer tutto. Non è una processione, ma una fantasmagoria di processione. Non è la festa del Corpus Domini, ma è la festa degli occhi». Con questa tela, e a dispetto di qualche critica sulla scelta della cornice, su errori di prospettiva e nel disegno dei corpi, Michetti vince uno dei due premi della pittura e si porta a casa 4000 lire. Il quadro viene anche comprato dall’imperatore di Germania Guglielmo II. Un buon risultato, non c’è che dire, amplificato dai complimenti a più voci e alle dichiarazioni sul destino della splendida carriera che lo attende da lì in avanti. Torniamo ora a noi. Guardiamo il ragazzo dell’autoritratto. Non riuscirei a usare una formula più calzante di quella di Netti: l’impressione che se ne ha è “abbagliante”. Anche qui le figure che gli stanno dietro non sono esenti da approssimazioni, ma riescono comunque a rendere a perfezione l’idea di una scena. Ci troviamo sicuramente ad una processione religiosa: vediamo un prelato vestito di scuro in basso, dietro la spalla destra del ragazzo. C’è movimento di gente, tutto attorno. In alto, sulla sinistra del quadro, si fa vedere una sorta di icona. Ma in fondo cosa ce ne importa della processione se al centro c’è un tale luccichio tutto umano e calamitico? Sappiamo che dal 1871 Michetti fa

uso sistematico della fotografia come base alle sue opere pittoriche. E conosciamo la sua frequentazione, a partire dal 1874, con il pittore Mariano Fortuny, che lo influenza, allontanandolo in parte dalla tendenza naturalista e verista imperante e avvicinandolo a temi più pittoreschi, più folclorici. Cambia anche il segno, e i colori si schiariscono. Con buona probabilità, per usare un’espressione legata al nostro contemporaneo, Michetti si fa un selfie durante la processione e da lì lavora al quadro. Le tinte che adopera si alleggeriscono e si fanno tenui fino quasi a disgregarsi. Sono poco meno che pallide, potremo dire gentili. È solo pittura, sono solo pastelli e tempere su carta, eppure rendono la dinamicità del collo e delle spalle spinte avanti in quella che immaginiamo essere la calca di una folla in processione. Sottolineano il movimento dorato dei capelli, dei peli di baffi e barba. Dilatano le narici per far respirare il ragazzo a pieni polmoni. Accarezzano il velluto degli occhi, che parte dalla linea color pesca degli zigomi, per arrivare su su fino alle sopracciglia. Appoggiano l’ombra del bavero della giacca, illuminano la camicia. È difficile che io mi soffermi così tanto a guardare un ritratto ottocentesco. Anzi dovrei usare un tempo verbale passato e dire che fino a qualche settimana fa sarebbe stato difficile. Prima di incontrare lui. Perché a Napoli, alle Gallerie d’Italia, questo ragazzo mi ha inchiodato, letteralmente. Il nostro incontro è stato così inaspettato da meravigliarmi e sconquassarmi. Il suo sguardo ha trapassato il mio. L’ho intercettato, pieno di desiderio, di vita, di sogni. Di una tenerezza dimenticata. Mi ricorda una frase di John Berger, che cito a braccio: «Il suo viso era fragile e invincibile». C’è qualcosa di perduto nel suo atteggiamento. Non nasconde niente, è tutto in luce, però la sua vita mi è invisibile, intangibile, inaccessibile. Quello che definisco come perduto, non sarà magari qualcosa che ho perso io? La domanda mi rende nostalgica. Allo stesso tempo, l’idea viva e bruciante della perdita tiene accesa l’attesa di rivedere questo ragazzo, e di incontrarlo ancora nello sguardo dei passanti, dei giovani, degli artisti, dei sognatori.

* Daniela Zangrando è Direttrice del Museo d'Arte Contemporanea Burel di Belluno

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