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Ricerche e Contributi in Psicologia
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Rosamaria Vitale Rosalba Terranova Cecchini
ACCOGLIERE IL MIGRANTE Tecniche di psicologia transculturale in situazioni di emergenza
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Prima Edizione: 2015
ISBN 9788898037520 © 2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Gennaio 2015 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
INDICE
Prefazione al lavoro clinico
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Prefazione al lavoro di supervisione
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Introduzione
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1. Accoglienza ai profughi provenienti dal Nord Africa, di B.M.Giarola Note della Protezione civile (aprile 2011) Il meccanismo di gestione dell’emergenza: ruoli e funzioni Informazioni tecniche su specifiche questioni 2. Emergenza migranti provenienti dalla Libia Il contesto, gli obiettivi, i metodi Accoglienza Post accoglienza e programmi Analisi del campione Stato di salute e cartella clinica Osservazioni sulla fase di accoglienza Aspetti medici e psicologici nei mesi successivi all’accoglienza La gestione del quotidiano
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3. Strumenti di guida al colloquio culturalmente sensibile Gli strumenti L’utilizzo degli strumenti: identikit culturale e test proiettivi
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4. I Gruppi
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5. Carta d’identità per l’integrazione: 10 casi
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6. Interventi per la patologia: 5 casi
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Conclusioni
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Bibliografia
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PREFAZIONE AL LAVORO CLINICO
Lampedusa, nel centro del Mediterraneo “Il 15 aprile 2011 un barcone di 230 migranti sub-sahariani, provenienti dalla Libia, è stato soccorso a quaranta miglia a Sud est di Lampedusa da tre motovedette ed un elicottero della Guardia Costiera e da una nave della Marina Militare. Le onde erano alte più di due metri, il vento soffiava con raffiche di oltre 30 nodi. L’unità, alla deriva, imbarcava acqua. I migranti, tra cui 28 donne e 12 bambini, sono stati trasbordati sulle unità della Guardia Costiera e tratti tutti in salvo”. Queste parole sono tratte da un video realizzato dall’Ufficio Relazioni Esterne del Comando Generale della Guardia Costiera, dal titolo: “Liberi, Il soccorso dei migranti spiegato dalla Guardia Costiera”. Il video termina con queste considerazioni: “Si può toccare in molti modi la vita degli altri. Succede ad esempio con i sentimenti, quanto di più ineffabile riesce ad unire i destini delle persone. Ma non è questa l’unica strada. Quando si accolgono vite allo stremo, in mezzo al mare in tempesta, si incontra lo sguardo di uomini, donne e bambini, a rischio di perdersi per sempre e si stringono le loro mani. Nella concitazione del soccorso tutto può accadere nel breve spazio di pochi secondi.
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Ma sulle onde, il grido e il vento, vince la certezza di assolvere il proprio compito con il massimo di professionalità e di decisione. Di tutto rimane un graffio che si fa dolce, una sofferenza che via via si placa, per la certezza, appunto, di aver toccato la vita degli altri”. Non avrei potuto trovare parole più adeguate ad introdurre il lavoro svolto da maggio 2011 a febbraio 2013, periodo di tempo in cui ho collaborato a quella che è stata definita dal Ministero dell’Interno “Emergenza Nord d’Africa”. I dati, le osservazioni, i colloqui, presentati nel libro, sono il resoconto di quanto è avvenuto in quei ventidue mesi trascorsi nei vari centri di accoglienza di Milano presso i quali ho lavorato. I migranti sono arrivati alla mia osservazione quasi tutti accompagnati dagli uomini della Protezione Civile che fin dai primi giorni ha gestito l’emergenza. Molti di loro arrivano direttamente da Lampedusa, disorientati e provati dal lungo viaggio. Altri ancora erano stati ospitati in un primo momento in alberghi di località turistiche; arrivavano quindi al Centro accompagnati dai Volontari della Protezione Civile del piccolo paese dove erano stati ospitati fino a quel momento. Altri ancora, infine, venivano spostati da un Centro all’altro perché creavano continui problemi. Ho usato un linguaggio scarno e realistico, senza giri di parole, perché la situazione lo richiedeva: che dire infatti più di quanto ci hanno detto gli asilanti? Delle rischiose e stressanti condizioni della loro partenza sotto le bombe e minaccia delle armi, del loro viaggio in “carrette del mare”, stracariche, in mezzo al Mediterraneo, del loro arrivo sulle coste italiane e del loro essere portati in rifugi male organizzati e stracolmi, e via dicendo, come è emerso dai colloqui effettuati con loro? I migranti giunti alla mia osservazione sono stati accolti in un 8
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ACCOGLIERE IL MIGRANTE
primo tempo presso il Centro di Accoglienza di Via Saponaro 40, della Fondazione Fratelli di San Francesco, a Milano. Nei mesi successivi molti di loro sono stati inviati in altri centri ed ho quindi continuato a monitorare il loro percorso presso le Comunità, i centri Sprar, l’ambulatorio di Medici senza Frontiere, fino alla fine del progetto. Ho lasciato “il dire” alle loro storie da me attentamente raccolte e sulle quali ho molto riflettuto, imparando alcune cose di geo-politica, assistenza dei Paesi ricchi ai Paesi poveri, dolore, forza psichica, desolazione. Si sono evidenziate le motivazioni profonde dell’immigrazione, che non sono solo fuga dalla povertà, intollerabilità di Stati sanguinosi e corrotti, ma anche desiderio di fruire di conoscenze più complesse riguardanti l’assetto di vita e di lavoro, di dignità, di benessere. Questo lavoro con immigrati richiedenti asilo mi è apparso un avvenimento abbastanza particolare: ovvero uno dei tanti avvenimenti straordinari che il Terzo Millennio ci propone. Ma è stato anche occasione di “mettere alla prova”, per così dire, l’apporto dottrinario delle nuove posizioni mentali che sono richieste a tutti noi nell’affrontare i processi transculturali ormai ineludibili sia per noi, abituati alla cultura occidentale in continua evoluzione, sia per gli abitanti di altre culture coinvolte in radicali cambiamenti. Questo lavoro, inoltre, mi ha portato il più vicino possibile a donne e uomini italiani e stranieri impegnati a salvare ed a salvarsi la vita. L’opera di salvataggio in mare e di primo soccorso prestata dai militari della Guardia Costiera e dagli uomini della Protezione Civile mi è apparsa in tutta la sua efficacia organizzativa, ma soprattutto improntata alla personale dedizione degli operatori, al di là della loro professionalità, ricca di valori umani. Partendo quindi dall’analisi di una situazione di emergenza che si è verificata in Italia nel corso 2011, in seguito alle ribellioni che hanno caratterizzato i paesi del Nord Africa portando un afflusso improvviso di circa 50.000 migranti, il libro intende Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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mostrare attraverso esempi concreti come l’utilizzo di una precisa metodologia di lavoro transculturale faciliti una buona “accoglienza”, anche in situazioni molto difficili, e ponga le basi per buoni percorsi di integrazione.
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PREFAZIONE AL LAVORO DI SUPERVISIONE
È la prima volta che do alle stampe uno scritto sulla “clinica dell’immigrazione” che in Italia indica un lavoro psichiatrico con persone di usi, costumi e colori della pelle diversi da quelli occidentali (anche se l’immigrazione dall’Est europeo sta cambiando le caratteristiche dei flussi migratori in Italia). Perché avendo incontrato queste persone nei loro Paesi d’origine, d’Africa, d’America Latina e d’Asia, prima dell’inizio del loro migrare in Italia, esse mi hanno mostrato il modo ampliato dell’assetto operativo dell’Io che comprende il dialogo tra la dotazione biologica pulsionale/istintuale/idiosincrasica e i vincoli dell’ambiente sociale e geografico, ovvero della cultura. Ritengo di dover molto dunque alla donne e agli uomini incontrati nell’altrove culturale, che spesso sono visti come una massa critica in cerca di fortuna, ed ho sviluppato verso di loro una sorta di rispetto e riconoscenza per il loro insegnamento: simile a ciò che l’allievo sviluppa verso il maestro. John Berry dal 1992 usa il termine “ecoculturale” per significare l’ambiente che ha le sue caratteristiche geografiche ed i suoi abitanti, che hanno elaborato i loro modi di antropizzazione del territorio e le loro regole di convivenza: in una parola la loro specifica cultura. Il termine indica una complessità, ecosistemica appunto, che non è veicolata nel termine “geoculturale”, “geoetnico” di uso comune quando si parla di culture considerate folkloristiche. Erika Bourguignon (1979) definendo la cultura “un sistema
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variabile di soluzioni a problemi costanti”, coglie perfettamente il perché delle molte differenze culturali alle quali la “clinica dell’immigrazione” ci pone a confronto: il problema costante dei gruppi umani è sopravvivere al meglio e le soluzioni variano a seconda delle opportunità o delle asprezze ambientali e dell’arredo tecnologico che le società producono (artefatti). Ma questa azione legata agli artefatti trova una approfondita e moderna trattazione nel pensiero di Paolo Inghilleri. Gli artefatti sono immateriali, ovvero sono valori, idee filosofiche, religiose etc. e tutto ciò che riguarda la così detta cultura immateriale. Un’altra classe di artefatti riguarda gli oggetti, le opere architettoniche, gli strumenti prettamente tecnologici etc. della così detta cultura materiale. Inghilleri sottolinea un’importante funzione degli artefatti materiali e cioè che essi “incorporano” cultura ed emettono regole culturali, regole d’uso e conservazione. Quando un artefatto non interessa più la comunità perché c’è un cambiamento culturale non c’è più “attenzione, flusso di coscienza, flow”: è in tal modo che l’artefatto si deteriora e scompare. Esempio sotto i nostri occhi sono le discariche le quali sono dotate oggi di tecnologie che distruggono, compattano, riciclano gli artefatti di qualsiasi tipo. Lavorare in culture differenti dalla mia mi ha permesso di praticare degli studi e delle cliniche che portano a migliorare teoria e professionalità nel campo della psichiatria: sia di quella classica delle psicosi (della cosiddetta follia), sia in quella moderna delle nevrosi (del cosiddetto stress, disturbo di personalità, di comportamento, dell’umore, eccetera): sto parlando di ciò che oggi conosciamo come psichiatria culturale (Tzeng) e psicologia culturale (Inghilleri), non più applicata solo a culture esotiche, ma anche alla nostra cultura occidentale che muta rapidamente a causa dell’impatto tecnologico generato dalla ricerca scientifica: nell’ambito della psichiatria e psicologia culturale, i processi transculturali della mente rappresentano uno dei capitoli più importanti per affrontare non tanto il freudiano “disagio della civil12
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tà”, ma il moderno disagio della “società liquida” illustrata nelle opere di Zigmunt Bauman. In un volume (1977) dello psichiatra senegalese Ibrahima Sow, che ha lavorato a Parigi nel laboratorio di psicopatologia della Sorbona, è descritto il modo nel quale il potenziale psichico africano si lega alla cultura delle regioni africane. Si tratta della psicodinamica della cultura e il concetto mi è parso applicabile a qualsiasi cultura dal momento che ogni gruppo umano, in Senegal, ma anche in Italia, in Russia, in Cina, in Perù e in ogni paese del mondo, ha una sua cultura particolare, performativa del funzionamento psichico dell’Io che ho proposto (1991) di specificare come “Io Culturale”. Il lavoro clinico su persone straniere non occidentali che presentiamo in questo testo al quale io ho partecipato con l’attività di supervisione alla casistica trattata dalla dottoressa Rosamaria Vitale, comprende soprattutto persone senza disturbi psichici, che dovevano essere sottoposte a controllo medico/psicologico ed ovviamente comprende anche la casistica psico-patologica che si è manifestata in alcuni membri del gruppo di rifugiati del quale dovevamo occuparci. L’occasione di poter incontrare soggetti normali di culture altre, di dover certificare la loro normalità psichica declinata nella loro particolare cultura, è stata davvero importante per verificare una volta di più il valore del concetto di Io culturale e dei suoi legami ontologici con l’assetto culturale del luogo di nascita o del luogo di nascita dei genitori, biolignaggio che funge da trasmettitore di cultura tradizionale alle nuove generazioni. Già Kraepelin nel suo viaggio a Giava, ma soprattutto Devereux, sottolineavano come l’invasione dell’Io da parte di valenze psicopatologiche, uniformi gli esseri umani anche se oggi, come ben sottolinea il Manuale Statistico Diagnostico delle Malattie Mentali, il linguaggio simbolico del sintomo va tenuto in conEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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to come linguaggio della cultura del paziente per formulare diagnosi psichiatriche corrette. “L’ambiente culturale e religioso del soggetto deve essere tenuto in considerazione nel valutare la possibile presenza di un Disturbo delirante. Certi ambienti culturali hanno convinzioni ampiamente condivise e culturalmente sancite che potrebbero essere considerate deliranti in altri contesti. Anche il contenuto dei deliri varia nelle differenti culture e sottoculture. Il Disturbo delirante di gelosia è probabilmente più comune negli uomini che nelle donne…” (DSM IV TR pag. 356). E ancora “È importante distinguere i sintomi del Disturbo psicotico breve da modalità di risposta culturalmente sancite. Per esempio, in certe cerimonie religiose, un soggetto può riferire di sentire delle voci, ma queste generalmente non persistono, e non sono considerate anormali dalla maggior parte dei membri della comunità di appartenenza” (DSM-IV-TR pag. 360); “La valutazione dell’affettività richiede una sensibilità alle differenti modalità dell’espressione emotiva, del contatto con lo sguardo e del linguaggio del corpo, che variano nelle diverse culture...” (DSM-IV-TR pag. 335). A questo proposito è da sottolineare il periodo di ricerca (fino agli anni ‘90) sulle cosiddette Sindromi culturalmente caratterizzate comunque riportate in appendice I nel DSM-IV-TR che le connota come “modalità ricorrenti, caratteristiche di certe regioni, di comportamento aberrante e di esperienza disturbante che possono essere o meno collegabili a qualche particolare categoria diagnostica del DSM”; e più avanti: “Inoltre, alcune condizioni e disturbi sono stati inquadrati come sindromi culturalmente caratterizzate tipiche della cultura industriale (per es. Anoressia nervosa, Disturbo Dissociativo dell’Identità), data la loro assenza o rarità apparente in altre culture. Si dovrebbe notare che tutte le società industrializzate comprendono sotto-culture distinte e gruppi di immigrati molto diversi tra loro, che possono presentare sindromi culturalmente caratterizzate…”. In Italia il tarantolismo lucano, studiato da Ernesto de Martino, ne è un esempio. Salvatore Inglese (1997) ha proposto la dizione 14
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di sindromi culturalmente ordinate proprio per sottolineare come questi comportamenti sono previsti dal costrutto culturale locale e regolati (ordinati) in modo preciso: come dice Ralph Linton, le culture prescrivono i comportamenti anche quelli del disordine psichico, dando cioè un ordine culturale che è comprensibile al gruppo di quella cultura. Le Culture Bound Syndrome (CBS) sono dunque inserite in un ordine comportamentale noto al gruppo che è così in grado di attuare provvedimenti adeguati. È difficile avere un buon setting con soggetti normali per svolgere studi di psicodinamica. Essere oggetto di studio del proprio psichismo non è ben accetto, induce preoccupazione, ansia alterando il dialogo con il ricercatore. Invece, nel caso dei rifugiati, il sottoporsi ad uno screening di controllo della loro salute psicofisica era una procedura legale connessa all’essere in territorio italiano come rifugiati. Il controllo fisico era ben accetto e il colloquio psicologico assumeva l’aspetto di accoglienza ed interesse per loro. Questa dunque è stata una condizione tanto peculiare quanto corretta del nostro lavoro: il setting regolava gli incontri sia con soggetti normali, che con quelli patologici. Con soggetti normali questo spesso è un problema, come ben sanno gli antropologi che hanno dovuto inventarsi il setting chiamato “osservazione partecipante” e utilizzare “l’informatore privilegiato” per approfondire la conoscenza delle regole e credenze culturali del gruppo che stavano studiando. Ciò ricorda un po’ l’utilizzo del “mediatore culturale” nel setting della “clinica dell’immigrazione”. Infine in tutto il lavoro, si fa evidente il peso del contro-transfert culturalmente sensibile. In effetti nella teoria culturale dei processi psichici il contro-transfert del terapeuta che Devereux ha posto in evidenza, si amplia a risonanze umanistiche e si colora, davvero possiamo dirlo, della propensione alla ricerca scientifica poiché il parametro culturale non è unico e dato ma è una continua sfida di conoscenza.
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INTRODUZIONE
Nel libro sono presentate tecniche e strumenti che permettono all’operatore di entrare in contatto con la persona straniera in modo veloce ma empatico, di fare una valutazione immediata sia dei problemi psicologici che sociali, di intravederne gli sviluppi possibili in ambedue i campi e di instaurare quindi una corretta presa in carico, nel caso si evidenziasse la necessità di un intervento terapeutico, ed un adeguato accompagnamento nell’inserimento sociale e lavorativo per tutti. Il lavoro pratico è esemplificato da quindici esempi, dieci dei quali sono storie di migranti senza alcuna patologia e cinque invece sono rappresentative di episodi psicopatologici rilevati durante la permanenza nei centri. I test e la scheda dell’identikit culturale hanno permesso di annotare le caratteristiche psico-culturali di ciascun migrante e di conoscere la sua visione del mondo. La descrizione del metodo è anche un occasione per manualizzare la tecnica di incontro transculturale. Parliamo di incontro perché capita spesso nelle strutture dedicate al “sostegno sociale” di dover comprendere in un tempo assai limitato la personalità del soggetto e le sue risorse esperienziali. Nelle situazioni da noi osservate i tempi per l’eventuale ottenimento del permesso d’asilo si presentavano abbastanza lunghi e queste persone non avrebbero potuto inserirsi nel tessuto sociolavorativo italiano fino al riconoscimento del loro status. È da sottolineare che fin dai primi giorni dell’Emergenza
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Nord Africa il Governo Italiano aveva anche proposto una procedura di “rimpatrio assistito”, ed aveva messo in atto una grande campagna divulgativa a questo scopo. Tale procedura prevedeva il rimpatrio del richiedente asilo al proprio paese di origine, dal quale si era allontanato, quasi sempre per motivi economici. Proprio per questa ragione nessuno dei migranti aveva accettato tale proposta. Molti di loro sarebbero invece volentieri tornati in Libia, dove comunque avevano trovato una strada per la sopravvivenza, ma tale opportunità non è mai stata presa in considerazione negli innumerevoli accordi politici che sono stati stipulati tra il Governo italiano e quello libico. Il libro si rivolge a tutti gli operatori di diversa professionalità che in ambito sia sociale che sanitario svolgono attività di accoglienza, presa in carico e cura di stranieri, siano essi migranti per motivi economici, richiedenti asilo, minori non accompagnati, rifugiati. Gli esempi pratici sono illustrati nelle 15 storie che abbiamo scelto tra quelle narrateci dai 144 richiedenti asilo arrivati al Centro di Via Saponaro da maggio a ottobre 2011. Il contesto da cui la ricerca ha preso l’avvio è quello di uno screening psico-culturale effettuato nell’ambito di una emergenza umanitaria, politica e sociale, che ha visto come protagoniste ondate anomale di richiedenti asilo che si muovevano nella quotidianità di piccoli paesi e grandi città di tutta Italia; dunque una “emergenza umanitaria” non come quelle che abitualmente conosciamo dai media, in continenti lontani, ma nel nostro territorio nazionale. Nei primi mesi del 2011 nei paesi del Nord Africa è incominciata una rivoluzione che ha portato cambiamenti notevoli, tuttora in corso, in quell’area geopolitica. Per l’Italia in particolare all’epoca è scattata l’emergenza profughi: migliaia di persone hanno abbandonato in tutta fretta gli 18
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Stati nord-africani ed hanno attraversato il Mediterraneo diretti verso l’Italia. A fine luglio 2011, secondo i dati del Ministero dell’Interno, essi erano 48.036 e 8000 di loro sono stati assegnati alla Regione Lombardia. Negli anni precedenti si era assistito ad un crollo degli arrivi sulle nostre coste dovuto soprattutto al controllo esercitato in Tunisia e in Libia, attraverso accordi tra l’Italia e la Comunità Europea con questi paesi, sui percorsi dei migranti. I viaggi sono ripresi da gennaio 2011 in modo massiccio, tutti diretti verso l’Italia, la sola terra disposta ad accoglierli al di là delle restrizioni, delle leggi, delle minacce. Nel 2011 si è parlato di “esodo apocalittico”. Si è trattato infatti di un tipo particolare di emergenza, a cui la stessa Protezione Civile non era abituata: quasi ogni giorno si è assistito agli sbarchi a Lampedusa di centinaia o addirittura migliaia di persone, che nel giro di 24 ore hanno dovuto essere identificate e trasferite in campi profughi appositamente allestiti nel Sud Italia ed in tempi altrettanto veloci nuovamente trasferite in tutte le regioni italiane. Anche noi, abituati al lavoro con gli stranieri nei servizi, sia pubblici che del terzo settore, ci siamo trovati di fronte ad una situazione straordinaria ed abbiamo dovuto applicare gli strumenti della psicologia transculturale in contesti del tutto nuovi. Abbiamo così instaurato una procedura ad hoc. I rifugiati arrivavano a gruppi: il primo incontro era condotto dal medico-psicologo ed avveniva con tutto il gruppo. Era un incontro di conoscenza reciproca, al quale sarebbero succeduti i colloqui individuali ed una visita medica. Questi primi incontri sono stati fondamentali. Essi sono rimasti nella memoria sia degli ospiti che dell’operatore che li ha effettuati; è stato in quel momento infatti che si è instaurata la “buona relazione” che ha permesso poi agli ospiti di rivolgersi al medico-psicologo, nei mesi successivi, sempre fiduciosamente. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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I migranti erano estremamente disorientati dalle vicissitudini delle quali erano stati vittime sacrificali, dalla guerra in Libia alle persecuzioni a cui erano stati sottoposti, fino all’imbarco forzato sotto la minaccia delle armi sui barconi e che li avrebbero, se tutto fosse andato bene, scaricati sulle coste italiane. Successivamente, nel colloquio singolo essi hanno ritrovato la loro dignità e identità, superando paure ed angosce ed evidenziando il loro obiettivo fondamentale di un inserimento lavorativo in Italia al fine di avere un buon livello di vita personale e di poter aiutare le famiglie rimaste nei loro paesi di origine. Gli arrivi dei migranti, venivano annunciati con un breve preavviso, quasi sempre nella giornata stessa e tutto doveva essere pronto per l’accoglienza. C’era la necessità di vederli subito, nei primi giorni dell’arrivo, per accertarne le condizioni psico-fisiche e compilare una scheda medica e sociale. L’applicazione dei nostri strumenti, che descriveremo in seguito, si è rivelata idonea. Abbiamo svolto il primo colloquio seguendo lo schema proposto dall’identikit culturale, che a nostro avviso era il miglior strumento capace di darci tutte le informazioni sulla persona in un tempo necessariamente breve, di costruire quindi un profilo clinico-culturale della persona, come del resto dal 2000 suggerisce il DSM IV-TR ed approfondisce il DSM V (Cultural Formulation Interview, pag. 750). La scheda ha avuto estese applicazioni dopo la sua pubblicazione nel 1992 nel testo di Terranova Cecchini e Tognetti-Bordogna. L’identikit veniva compilato utilizzando una lingua veicolare: inglese, francese, o arabo, a seconda della lingua parlata dall’ospite. Se egli parlava solo la sua lingua tradizionale del Mali, del Ghana, della Costa d’Avorio o del Bangladesh, etc. veniva richiesto ad un altro ospite dello stesso paese, che conosceva anche una delle tre lingue, di aiutarci nella comunicazione. 20
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Ma non era sufficiente. Dopo aver conosciuto le persone e dopo aver spiegato loro dove si trovavano, ed aver stabilito una relazione con tutti loro, era necessario ascoltare le loro esigenze: soldi, schede telefoniche, vestiti. Dovevamo discutere i programmi giornalieri riguardanti i rapporti con la Questura, i permessi di soggiorno, i corsi d’italiano e tanto altro. Questa prima fase doveva essere gestita in quindici giorni. Si è trattato di dialogare con persone provenienti da 23 paesi diversi, accumunate dallo stesso destino: ritrovarsi nello stesso momento in Libia con una guerra in corso ed essere obbligati ad attraversare il Mediterraneo e mettere piede in Italia, o meglio, come pensavano loro, in Europa. Solo quattro di loro conoscevano l’esistenza del trattato di Dublino, secondo il quale uno straniero richiedente asilo deve restare nel primo paese in cui ha depositato la sua impronta. Tutti gli altri hanno chiesto fin dal primo colloquio se era possibile andare in altri paesi europei. Vedremo nelle pagine che seguono come ciascuno di loro abbia avuto motivazioni, situazioni e percorsi diversi e come ben pochi si rendessero effettivamente conto di quanto sarebbe stato difficile vedere realizzati i loro obiettivi: lavoro, soldi, casa.
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1. ACCOGLIENZA AI PROFUGHI PROVENIENTI DAL NORD AFRICA Roberto B.M. Giarola1
Note della Protezione Civile (Aprile 2011) I cambiamenti politici e gli eventi bellici in corso nel nord Africa hanno provocato un eccezionale afflusso di migranti sulle coste italiane. Questo fenomeno ha avuto due fasi. La prima corrisponde agli arrivi dalla Tunisia, verificatisi in modo massiccio, in particolare nei mesi di febbraio e marzo. La seconda, quella attualmente in atto, vede invece l’arrivo di persone dalla Libia. La prima fase si è sostanzialmente conclusa il 5 aprile, quando il Governo Italiano e le nuove autorità tunisine hanno ripristinato gli accordi bilaterali in materia di immigrazione. Da quella data i tunisini che arrivano in Italia in modo irregolare vengono rimpatriati. Oggi siamo nella seconda fase, quella delle persone provenienti dalla Libia. Si tratta di cittadini di varie nazionalità, in prevalenza africane, che lavoravano in Libia e sono in fuga dalla guerra. Per questa ragione vengono accolti nel nostro Paese 1 Dirigente del Servizio Volontariato. Ufficio I-Volontariato, Formazione e Comunicazione. Dipartimento della Protezione Civile. Presidenza del Consiglio dei Ministri.
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per avviare la procedura per la richiesta di asilo. Si inseriscono, quindi, in un percorso regolare, già previsto dalle nostre leggi sull’immigrazione. Si tratta, quindi, per lo più di lavoratori e, in alcuni casi, delle loro famiglie che per poter aspirare alla positiva conclusione della loro richiesta di asilo devono assicurare costantemente un comportamento corretto e conforme alla legge. Circostanza di cui sono consapevoli e che viene loro precisata fin dalle prime fasi di accoglienza e identificazione. L’accordo del 6 aprile 2011 per l’accoglienza ai richiedenti asilo: il Piano Nazionale di Accoglienza ed i suoi fondamenti. Il 6 aprile è stato sottoscritto un accordo tra Comuni, Province, Regioni e Governo centrale per condividere e coordinare l’accoglienza sull’intero territorio nazionale dei profughi provenienti dalla Libia. L’accordo prevede che i profughi vengano accolti sull’intero territorio nazionale, suddividendoli nelle Regioni in modo equo e in proporzione alla popolazione residente. Non si intende creare alcun percorso ‘speciale’ per queste persone, ma si utilizzeranno le norme che già esistono e regolano l’immigrazione regolare: i profughi in arrivo in Lombardia sono immigrati regolari ‘richiedenti asilo’ e devono essere accolti secondo le regole che esistono per queste persone. La normale capacità di accoglienza per ‘richiedenti asilo’ in Italia è di circa 7.000 persone all’anno. Si tratta di soluzioni per piccoli numeri (la rete dello SPRAR, e le piccole comunità di accoglienza) oppure per numeri più rilevanti (i veri e propri C.A.R.A.: Centri di Accoglienza per Richiedenti Asilo, diffusi sull’intero territorio nazionale). Questa disponibilità di accoglienza, tuttavia, è costruita sulla base del fabbisogno di assistenza che, ordinariamente, viene rilevato in Italia ed è, pertanto, già più o meno completamente utilizzata. Il conflitto bellico, tuttavia ci pone di fronte ad un repentino 24
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incremento del fabbisogno di accoglienza. Sulla base degli scenari di evoluzione della guerra, il Governo ha prefigurato fino ad un massimo di 50.000 persone che si potrebbero riversare sulle nostre coste per richiedere asilo. Queste persone necessitano di un’accoglienza che la ‘rete’ ordinaria sopra descritta, e già satura, non è in grado di offrire. È stato necessario, pertanto, individuare un meccanismo di gestione dell’emergenza che permettesse di espandere in brevissimo tempo la capacità di accoglienza esistente, anche ricorrendo a soluzioni temporanee e straordinarie. Per gestire questo afflusso eccezionale è stato quindi predisposto un Piano nazionale di accoglienza suddiviso in scaglioni da 10.000, 20.000, 30.000, 40.000 e 50.000. Nell’accordo del 6 aprile, si è stabilito che le soluzioni andassero trovate sull’intero territorio nazionale grazie al coinvolgimento, a tutti i livelli di governo. Il ruolo della protezione civile è un ruolo temporaneo e transitorio in questa emergenza, concordando tutti sul fatto che la materia dell’accoglienza e dell’assistenza per i richiedenti asilo richiede il coinvolgimento in prima persone del mondo dell’associazionismo e della cooperazione sociale, oltre che delle strutture delle Regioni e degli enti locali responsabili dei servizi sociali e dei servizi alla persona in genere. Poiché in Lombardia risiede una percentuale tra il 17 ed il 18% dell’intera popolazione nazionale, questa stessa percentuale è quella che determina il numero di profughi da accogliere sul territorio regionale per ognuna delle 5 fasi del Piano. Traducendo in numeri, ciò significa che ogni 10.000 profughi che sbarcano a Lampedusa o sulle altre coste siciliane e che avviano la procedura di richiesta dell’asilo, tra 1.700 e 1.800 dovranno trovare accoglienza sul territorio lombardo. Nello scenario più pessimistico (quello dei 50.000 arrivi complessivi), in Lombardia dovranno trovare accoglienza circa 8.500 persone. Si tratta di numeri che, dal punto di vista tecnico-operativo, Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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possono essere affrontati e che non comporteranno uno squilibrio dei rapporti sociali sul territorio regionale. La Lombardia, infatti, conta 1.546 Comuni, suddivisi in 12 Province. L’obiettivo a cui tendere è quindi quello dell’attivazione di un’azione di accoglienza diffusa sull’intero territorio, con l’obiettivo di individuare soluzioni appropriate, anche per piccoli numeri, tali da non comportare un impatto eccessivo sui singoli territori. In Lombardia risiedono poco meno di 900.000 cittadini stranieri con regolare permesso di soggiorno. Il numero massimo di richiedenti asilo che potrebbe essere necessario accogliere per far fronte a questa emergenza nello scenario peggiore (8.500) è, infatti, inferiore all’1% del totale. L’accordo del 6 aprile dispone, pertanto, un piano di attività relativo ai richiedenti asilo in fuga dalla Libia, basato su questi 4 elementi: - utilizzo dell’esistente normativa sull’immigrazione, senza creare percorsi diversi o atipici, e quindi obiettivo di accogliere i profughi preferibilmente ampliando la capacità di accoglienza delle strutture esistenti, idonee e già sperimentate; - suddivisione dei profughi sul territorio nazionale in misura equa, proporzionale ai cittadini residenti in ciascuna Regione; - coinvolgimento del sistema nazionale di protezione civile a tutti i livelli (Comuni, Province, Regioni e Governo centrale) per assicurare la necessaria tempestività di intervento ed efficacia; - assunzione degli oneri economici a carico del Governo centrale, con procedure di spesa decentrate e veloci.
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Il meccanismo di gestione dell’emergenza: ruoli e funzioni La struttura di coordinamento nazionale, da Roma, provvede a ripartire i profughi giunti sulle coste siciliane, ad alloggiarli temporaneamente per qualche giorno nei centri di primo soccorso esistenti a Lampedusa, Manduria, e altre località, per poi indirizzarli verso tutte le Regioni, secondo i criteri proporzionali concordati tra i Comuni, le Province, le Regioni e il Governo centrale. Per gestire questa attività di accoglienza straordinaria in Lombardia, a partire dal 10 maggio, sono state individuate due figure operative: - un Soggetto Incaricato di individuare le strutture di accoglienza (o di allestirle, dove necessario) per l’intero territorio regionale (questa funzione è temporaneamente svolta da un dirigente del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile, nelle more della designazione di un soggetto a cura della Regione) - un Soggetto Attuatore competente per la Gestione delle strutture individuate, con il compito di trattare tutti gli aspetti relativi, ivi compresa la gestione della quota spettante a ciascuna regione del fondo straordinario e dei conseguenti pagamenti: questa funzione è svolta dal Viceprefetto Vicario presso la Prefettura. È necessario individuare in tempi rapidissimi strutture in grado di accogliere questi profughi e di assicurare loro i servizi di supporto che, in base alla legge, spettano a chi richiede l’asilo (mediazione culturale, insegnamento della lingua italiana, etc.). Considerando il fatto che la pressione dei migranti in arrivo non accenna a ridursi e che quindi i numeri delle persone da ac-
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cogliere crescono molto velocemente, si sta procedendo contemporaneamente verso tre direzioni per la ricerca di idonee strutture di accoglienza: - l’individuazione immediata di disponibilità nell’ambito di strutture in grado di accogliere e assistere queste persone nell’intero percorso di richiesta di asilo (rete SPRAR, cooperative sociali, comunità e centri di accoglienza, laici e religiosi); - l’alloggiamento temporaneo in alberghi che offrono la propria disponibilità, avendo però ben presente il fatto che la soluzione alberghiera non è una soluzione sostenibile nel tempo e che, anche per un’accoglienza di durata limitata, è necessario accostare alla gestione alberghiera un supporto a cura del volontariato (associazioni già operative nel campo socio-assistenziale, Croce Rossa Italiana, organizzazioni di volontariato di protezione civile); - l’individuazione di strutture da allestire (utilizzando caserme o altre strutture dismesse) nelle quali realizzare dei veri e propri nuovi C.A.R.A., attivando da subito i meccanismi di gestione ordinari già esistenti nel resto d’Italia che vedono in campo la Croce Rossa Italiana o, in alcuni casi, cooperative sociali a ciò specificamente dedicate. In questa fase è in atto la ricerca di soluzioni di tutte e 3 le tipologie. Una volta individuate le strutture, il Soggetto Attuatore per la Gestione, anche con il coinvolgimento delle Prefetture delle diverse Province, procede al loro convenzionamento e, nel caso si tratti di strutture alberghiere, si attiva immediatamente la predisposizione di un meccanismo di ‘supporto’ con il coinvolgimento dei servizi sociali dei Comuni interessati e del volontariato, per supportare i profughi nella prima fase di accoglienza e per aiutare gli albergatori assicurando loro un punto di riferimento ed un sostegno per tutto ciò che esula dalla prestazione alberghiera di 28
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vitto e alloggio. Le condizioni di assistenza necessarie sono quelle ordinariamente previste dalla legge per i richiedenti asilo, che non sono soggetti a nessun tipo di sorveglianza a carico della strutture ospitante, fatto salvo l’obbligo di pernottare nella struttura assegnata. In capo alla struttura ospitante non ci sono responsabilità di controllo, ma solo l’obbligo di comunicare, con una modulistica apposita, quotidianamente le effettive presenze. Chi si allontana senza giustificato motivo e senza comunicarlo preventivamente mette a rischio il processo di concessione dell’asilo e, collocandosi fuori dal percorso di regolarità, deve essere preso in carico dalle Autorità di Pubblica Sicurezza. L’ospitalità viene richiesta fino al riconoscimento dell’asilo, che, di norma, avviene dopo alcuni mesi. Al termine di questo percorso, infatti, in caso di esito positivo la persona può liberamente muoversi sul territorio nazionale e svolgere attività lavorative retribuite.
Informazioni tecniche su specifiche questioni 1. Fotosegnalazione e documento provvisorio
I profughi giungono da Lampedusa o dalle altre strutture di prima accoglienza realizzate nel meridione già con una preliminare identificazione effettuata dalle autorità di Pubblica Sicurezza. In termine tecnico, si tratta di ‘fotosegnalamento’. Giunti a destinazione, questa procedura deve essere completata a cura delle Questure locali, che procedono anche all’avvio del procedimento di richiesta di asilo. In tal modo viene rilasciato un documento provvisorio utile per poter circolare e accedere ai servizi sanitari. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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Anche durante il percorso della richiesta di asilo, la competenza generale delle Autorità di Pubblica Sicurezza è assolutamente immutata, in particolare qualora insorgessero comportamenti non corretti, che, nel caso, è necessario segnalare immediatamente. 2. Assistenza Sanitaria
Dal punto di vista dell’assistenza sanitaria, ai profughi richiedenti asilo sono assicurate tutte le prestazioni sanitarie in esenzione dal ticket. Per eventuali interventi di emergenza si procede comunemente mediante la rete 118. Per attività di medicina generale (e relative prescrizioni) si procede a cura delle ASL competenti per territorio. La Direzione Generale Sanità della Regione Lombardia ha già diffuso a tutte le ASL lombarde le necessarie istruzioni. I richiedenti asilo verranno iscritti al servizio sanitario regionale, con il rilascio di una tessera temporanea che consentirà loro di identificare un medico di medicina generale nell’ambito di un elenco appositamente predisposto. Tramite prescrizione potranno quindi, se necessario, avvalersi dei servizi necessari (visite, acquisto di farmaci) in esenzione dal ticket, senza oneri economici. 3. Attività lavorative e attività socialmente utili
I richiedenti asilo non possono svolgere attività lavorative, fino all’esito positivo della loro domanda, oppure trascorsi 6 mesi dalla richiesta. In questo periodo, oltre alle attività previste (insegnamento dell’italiano, etc.) non possono essere adibiti a mansioni che esulino dalla normale ed essenziale gestione degli spazi nei quali sono ospitati. Su richiesta dell’ANCI è in fase di approfondimento una modalità di coinvolgimento di queste persone in attività socialmente utili che, se possibile, si potrà attivare in una seconda fase.
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4. Minori non accompagnati
I profughi che vengono suddivisi sul territorio e accolti in attuazione del Piano nazionale sono maggiorenni o famiglie. I minori non accompagnati vengono trattati secondo procedure speciali, giĂ esistenti, che fanno capo ad una struttura speciale del Ministero del Lavoro. Se qualcuno dei profughi ospitati si rivelasse, a seguito di approfondimenti, minorenne, deve essere immediatamente segnalato alla locale Questura, che provvederĂ a prenderlo in carico ed avviarlo presso strutture idonee.
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