Affetti speciali. Uno psicologo (si) racconta

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A Tu per Tu



Alberto Vito

AFFETTI SPECIALI Uno Psicologo (si) racconta


Prima Edizione: 2012 ISBN 9788889845677 © 2012 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Aprile 2012 in Italia da Atena.net srl di Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)


INDICE

Prima settimana Lunedì. Sensi di colpa Martedì. Una donna troppo cattiva Mercoledì. Morire dalla vergogna Giovedì. Il perdono Venerdì. L’uomo che conta sempre

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Seconda settimana Lunedì. Un amore infinito e disperato Martedì. Tempi che cambiano Mercoledì. La classifichina degli affetti Giovedì. Metafore Venerdì. La paura di firmare Domenica. Incerti del mestiere

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Epilogo Appendice Ringraziamenti Suggerimenti di lettura

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A mia madre, a mia figlia, a chi, in modi diversi, mi ha aiutato a migliorarmi.



Qualunque cosa si dica, quale che sia l’argomento di cui si tratta, con i complimenti o con le offese, si rivela innanzitutto se stessi, la nostra relazione con gli altri ed il mondo.



Prima settimana


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LUNEDÌ

SENSI DI COLPA

Marcel Proust andava a letto presto. Col passare degli anni, per me, invece, è sempre più difficile svegliarsi in orario per andare a lavorare. Soprattutto il lunedì è dura. Il primo conflitto interiore della settimana lo sperimento già a letto, ancor prima di essere del tutto sveglio. Una parte di me continuerebbe tranquillamente a poltrire, un’altra mi ricorda che già alle nove ho degli appuntamenti e tocca alzarmi. Vince sempre questa seconda parte, legata al senso del dovere, dono di un ingombrante Super-Io. Invecchiando, però, il match si fa sempre più incerto. Ad inizio settimana, poi, concedendo una piccola gratificazione al mio lato più attento ai piaceri della vita, ho inserito prima del lavoro una sosta al bar per un caffè, utile anche ad essere un po’ più lucido. Gli avventori in genere parlano di calcio, con apparente competenza. Io li ascolto, non li contraddico, resto in silenzio. Non è solo timidezza: tifo per un’altra squadra. Questa mattina, appena arrivato in Ospedale, verso le otto e mezzo, trovo subito una strana confusione davanti alla porta della mia stanza. Ci sono un infermiere dell’accettazione ed un giovane, mai visto prima, in stato di forte agitazione. L’infermiere mi spiega che il tizio era arrivato in ospedale alle cinque del mattino, dicendo che voleva ammazzarsi. Il medico di guardia aveva provato a sedarlo e lo aveva convinto ad aspettare che arrivasse uno psicologo. “Dottò, secondo me, ave bisogno ’e vuie” dice con fare astuto l’infermiere il quale approfitta del mio arrivo per andarsene velocemente, lieto di avermi “scaricato il pacco”. Lo ringrazio per la cortesia, con un’ironia che naturalmente lui non coglie. 13


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Nell’ospedale in cui lavoro, trattandosi di una struttura specialistica, non c’è un Pronto Soccorso e quindi questa modalità di primo contatto con me è piuttosto rara. In genere, incontro i pazienti secondo appuntamenti prefissati e concordati ma, di tanto in tanto, capita di lavorare sulle emergenze, quando mi viene richiesto di intervenire con persone in preda a crisi acute. Apro la porta della mia stanza, faccio entrare Gennaro - così si chiama il nostro eroe - metto nell’acquario il cibo per i pesci, poso la borsa, mi accomodo dietro la scrivania, come sempre piena di carte sparse alla rinfusa, accendo il computer ed invito il paziente a sedersi di fronte a me. La mia è una lentezza calcolata. Vorrei trasferire al paziente un senso di calma, di tranquillità ma quasi mai basta fare le cose con comodo per riuscirci. Lui, un uomo sui trent’anni grande e grosso, rimane in piedi, continuando a muoversi nella stanza, senza fermarsi mai ed inizia a raccontarmi la sua storia. È felicemente sposato da circa tre anni, ama sua moglie, non hanno figli ma “ci stanno provando” da un po’ di tempo. Afferma di essere contento del suo lavoro: “non gli manca niente”. Il suo problema è che ha l’Aids, lo ha scoperto da poco, è troppo spaventato e per questo vuole morire. In realtà, piano piano riesco a capire: lui è convinto di aver contratto l’infezione, si è sottoposto al test più volte, di frequente presso il nostro Ospedale e, sebbene il risultato fosse sempre negativo, ciò non riesce più a rassicurarlo sul proprio stato di salute. Inoltre, sta perdendo peso e nella giornata appena trascorsa è comparsa un’allergia sulla pelle. Sempre più intimorito, si è convinto che la dermatite rappresenti la conferma definitiva di quanto le sue paure siano fondate ed i test medici sbagliati. Disperato, era uscito di casa la sera precedente, si era messo in auto con l’idea di ammazzarsi ma non ne aveva avuto il coraggio. Ha guidato tutta la notte e, all’alba, è venuto in Ospedale. Ora capisco cosa faccia qui: si è recato nel luogo dove, effettuando il test, aveva ricevuto maggiori rassicurazioni e dove sperava di trovare aiuto per il suo caso. In effetti, in virtù del contesto specifico ove lavoro, ho acquisito una certa competenza con questo genere di pazienti, definiti dai colleghi americani worried well (preoccupati sani). Si tratta di persone 14


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ipocondriache convinte di aver contratto l’infezione da Hiv, le quali si sottopongono di continuo al test, ricevendo un conforto solo momentaneo quando ne apprendono l’esito negativo, ma dopo un po’ l’ansia riprende a galoppare e si autoconvincono di nuovo di essere ammalati. Tale credenza è rafforzata da pensieri razionali (la medicina può sbagliare, possono essere state scambiate le provette, esiste un periodo finestra in cui gli esami risultano negativi ma il virus è presente in quantità non rilevabile, ecc.), ma in questo specifico tipo di paziente, in realtà, l’ipocondria, ovvero la paura esagerata delle malattie, è alimentata da una problematica che attiene sempre, nei piani profondi, alla sfera sessuale. Con pazienti affetti da tale sintomatologia, nel corso del tempo, ho sviluppato un mio personale approccio, che ho verificato possedere una certa efficacia. Tuttavia, non essendo tale patologia molto diffusa, la mia fama mondiale è ancora scarsa e sinora non sono stato ancora candidato a quel noto Premio per la Medicina che si consegna a Stoccolma. Chiedo a Gennaro, con fare fintamente ingenuo, se per caso lui fosse un medico o un biologo e se avesse conoscenze approfondite di anatomia umana. Egli, un po’ sorpreso, dice di avere la terza media e di fare l’elettrauto come professione. “Ah – faccio io – quindi lei di medicina non capisce niente, proprio come io sono completamente ignorante di motori. Se la mia auto fa un rumore strano (questo è uno dei miei esempi più frequenti), mi spavento e poiché non ne capisco proprio niente posso pensare che il motore sia rotto e la macchina sia da buttare. Magari si è solo spostato il tergicristallo, ma la mia incompetenza della materia specifica mi fa produrre teorie assolutamente inesatte e, talvolta, catastrofiche. Sa, in realtà, io cosa dovrei fare?”, chiedo al paziente, sempre più stupito da questo genere di conversazione. “Non lo so”, mi risponde un po’ confuso ed io proseguo: “È semplice, devo trovare un bravo meccanico di cui fidarmi. Deve essere onesto perché altrimenti, approfittando della mia poca dimestichezza con le auto, può farmi credere che ci sia un danno gravissimo e chiedermi un sacco di soldi per sbrigare un lavoro semplicissimo che invece richiede solo pochi minuti di attività. Io sono costretto a 15


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fidarmi, ma non sono in una situazione completamente passiva: ho il potere di stabilire con attenzione il mio criterio per scegliere un bravo meccanico”. Sto dicendo al paziente quanto, sebbene convinto di avere l’Hiv, sia molto probabile che la sua diagnosi sia sbagliata, in quanto frutto di incompetenza. Egli avverte una sofferenza reale, ma non per questo è abilitato a porre diagnosi, neanche a se stesso. È vera la sua sintomatologia, ma è molto probabile che sia falsa la sua diagnosi. È vera la sua sofferenza, anche fisica, ma ciò non significa che deve attribuire veridicità alle teorie pessimistiche prodotte dalla sua mente, in preda al panico, riguardo alle cause ed alle conseguenze dei suoi sintomi. Questo è l’errore tipico dell’ansioso: confondere una percezione somatica (vera) con una teoria esplicativa al suo riguardo (falsa)! Gli sto parlando anche della necessità di fidarsi di qualcuno. Deve riconoscere il suo bisogno di farsi aiutare da un esperto, proprio come me che, se provassi a riparare da solo la mia auto, sicuramente farei solo danni più gravi. In risposta al mio approccio, Gennaro si siede, appare un po’ più tranquillo ed inizia a dare maggior credito alle mie parole. Io pure mi rilasso un po’ e continuo con il copione da me elaborato con i worried well. “Lei sicuramente pensa di essere l’unico in questa situazione – gli dico – ma in realtà sono frequenti le persone che si convincono da sole di avere l’Aids. Stanno male, si sottopongono al test di continuo e nonostante il risultato sia negativo, continuano a vivere nel terrore. Pensi che solo questo mese sono venute qui già tre persone come lei, una proprio l’altro giorno” - dico mentendo parzialmente sui numeri e poi gli chiedo: “Lei quante volte si è fatto il test?” “13 volte in un anno e mezzo!” mi ha risposto lui, quasi con un certo orgoglio. Con fare professionale ed un po’ saccente, vestito di autorità (nel senso che indosso la giacca fatta a mano dal mio sarto, tale Autorità Giovanni) snocciolo a Gennaro le mie statistiche, cercando nel contempo di usare parole semplici: “Qui in ospedale, io lavoro al 90% con persone davvero affette dal virus Hiv e che hanno bisogno di sostegno psicologico per convivere con la malattia, ma c’è un altro 10% di pazienti ugualmente sofferenti, pur non avendo contratto l’Aids ma terrorizzati per la paura di essere ammalati. Le persone di questo gruppo 16


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fanno parte inevitabilmente di una di queste tre categorie: hanno avuto una relazione extraconiugale e sono pentiti; hanno avuto un rapporto omosessuale e non accettano la propria identità sessuale oppure hanno avuto rapporti con prostitute e sono spaventati da tale inclinazione”. “Io ce l’ho tutte e tre!” mi rivela uno sbigottito Gennaro il quale, a questo punto, sentendosi scoperto, è certo di trovarsi di fronte ad uno specialista bravissimo e finalmente mi racconta la sua storia. Mi ha già detto di essere felicemente sposato e di amare molto sua moglie. Tuttavia, l’anno scorso, un sabato pomeriggio, accettò la proposta di alcuni amici di andare dai “travestiti”. Mi spiega di averli seguiti un po’ per curiosità, un po’ per il timore di essere preso in giro dai suoi compagni, veterani di questo genere di pratica, se avesse confessato la sua inesperienza. Scelta/o la/il partner, si recò in una camera di un triste albergo nei pressi della Stazione. Prosegue il racconto: “Dopo i primi preliminari e baci, Dottò, si spoglia completamente, mi fa toccare il suo membro e mi propone un rapporto orale. Io mi divincolo, gli meno uno schiaffo e grido: Schifoso! Per tutta risposta mi chiede dei soldi, io gli dò solo 10 euro, getto la banconota a terra, poi meno un altro pugno, gli faccio uscire del sangue dalla bocca e scappo via. Da allora sono proprio convinto di avere l’Aids, sono dimagrito ben 10 chili. Da un anno non faccio più l’amore con mia moglie perché ho troppa paura di contagiarla, questo proprio non me lo perdonerei. Ho letto che è molto pericoloso. La poverina mi chiede cosa c’è che non va, io mi sono inventato una storia, le ho raccontato di aver subito una rapina nell’officina e di essermi spaventato poiché i malviventi mi hanno puntato una pistola al collo. Ho avuto paura di morire e perciò sto male, a causa del turbamento. Ma lei è una donna troppo intelligente, ha capito che si tratta di una scusa ed è convinta che io abbia un’amante e per questo motivo non desidero più stare con lei. Io mi sento male anche per questo, mia moglie soffre solo perché mi ama, ma io non posso proprio dirle la verità. Non posso neanche usare il preservativo perché progettavamo di avere un figlio…” Dopo questa “confessione” gli chiedo se si sente meglio, gli ho chiarito le modalità di trasmissione del contagio, ricordandogli che l’infezione non può trasmettersi mediante un bacio e dunque, in realtà, 17


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lui non può aver contratto il virus perché in assoluto non vi è stato neanche un comportamento a rischio. In effetti, in modo irrazionale, Gennaro teme di essersi contagiato a causa del sangue uscito dalla bocca dell’occasionale partner, che gli ha macchiato le mani e la camicia. (Tra me e me, penso al malcapitato travestito, percosso nonostante avesse avuto un comportamento professionalmente impeccabile per quelle che sono le aspettative abituali dei suoi clienti, ed agli “incerti” del suo mestiere…). Concludo che può smettere di sottoporsi al test, non deve curare una malattia organica da cui non è affetto, mentre al contrario può beneficiare di qualche colloquio psicologico. Accenno solo brevemente alla mia teoria in proposito, mentre con pazienti di maggior livello culturale e in una fase più avanzata del rapporto terapeutico chiarisco più dettagliatamente il significato simbolico della fantasia di essere ammalati. Possiedo la convinzione secondo cui l’idea di aver contratto il virus svolge per il paziente una duplice funzione: 1) Protegge la persona dal reiterare un comportamento verso cui è attratta da un lato, ma che è rifiutato da un’altra parte di sé (se mi convinco che questa azione mi fa stare tanto male, certo non la ripeto più). 2) Soddisfa, facendo pagare un dazio, il suo bisogno autopunitivo di dover espiare una colpa, conseguente al conflitto interno (mi merito di star male perché ho sbagliato). Così, sentendosi male evita un comportamento che una parte di sé disapprova e nel contempo si punisce per gli errori pregressi. Varia in ciascun paziente la combinazione tra bisogno protettivo e bisogno punitivo, ma sono spesso rintracciabili entrambi, anche se in percentuali diverse. A questo punto della seduta, entra l’infermiera del mio Servizio per avvisarmi che ci sono altre persone in sala d’aspetto in attesa di incontrarmi. Con un gesto veloce della mano, conoscendo la mia tendenza anarchica a sconvolgere ogni regola, mi ricorda quanto sia opportuno rispettare gli orari degli appuntamenti prefissati. Con un sorriso d’intesa, le faccio intendere di aver recepito il messaggio. Gennaro dice di sentirsi meglio, perché per la prima volta ha trovato il coraggio di raccontare a qualcuno per intero la sua disavventura, è rassicurato, non pensa più di ammazzarsi. È tranquillizzato, avendo ascoltato da me una versione nuova ed assolutamente diversa del suo problema 18


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in grado tuttavia di dare un senso al suo disagio. Penso si sia sentito compreso, riconoscendosi abbastanza nelle mie parole. Per adesso, la mia autorevolezza appare credibile e può tirare un respiro di sollievo in quanto il suo incubo si sta sgonfiando. Decido di dargli fiducia e penso che può allontanarsi da solo, senza correre rischi. In ogni caso, gli comunico la mia disponibilità ad incontrarlo di nuovo a fine mattinata, per sapere come sta, se lo desidera. Mi ringrazia e mi garantisce di ritornare dopo qualche ora. Quando va via, avverto la stanchezza ma sono soddisfatto. Per me, per questa mattina potrebbe bastare (il colloquio è durato un paio d’ore) e mi dedicherei volentieri alla posta elettronica. Però, ci sono un paio di persone in attesa da un bel po’ di tempo e quindi mi rimetto al lavoro. Il paziente è ritornato verso le due, confermandomi di stare molto meglio. Mi ha portato un bel caffè caldo, per mostrarmi la sua gratitudine. Racconta di esser passato per casa a tranquillizzare la moglie, ha quasi ripreso a fare l’amore con lei, dopo la forzata astinenza. Di tanto in tanto nella mattinata si è ripresentata la paura dell’Aids, ma si è fatto forza ricordando le mie parole. Comincia a vedere con maggiore distanza ed obiettività i suoi comportamenti, inserendo elementi di autocritica: “Sono stato proprio un fesso, eh dottò…” Il colloquio prosegue raccontandomi un po’ anche della sua famiglia di origine e si commuove al ricordo della morte recente di una zia materna, vissuta con i suoi genitori ed amata da lui come una seconda madre. Avrebbe voluto esserle stato più vicino e si rammarica per la propria superficialità. In genere, nella storia recente dei pazienti ipocondriaci vi sono stati lutti o esperienze di malattie gravi ed invalidanti a cui essi hanno assistito. In questo caso, anche il padre, in passato alcolista e con cui Gennaro ha sempre avuto un rapporto conflittuale, ha seri problemi di salute in quanto affetto da tempo da “demenza senile” ed è ricoverato da diversi anni in una casa di cura. Egli, al contrario del fratello, non lo va a trovare quasi mai, avvertendo di incontrare “un muro con cui è impossibile parlare”, per lui emotivamente impossibile da reggere. Anche per questo, un po’ si sente in colpa. Prima di andare via, infine, mi ha regalato un’autentica perla di sag19


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gezza, che, sebbene sia frutto di un malinteso linguistico, rivela come egli abbia meditato su quanto ci siamo detti nei nostri due colloqui. - “Parlando con voi, Dottò, ho capito anche un’altra cosa. Siete stato proprio voi, non è vero, a fare scrivere quella parola, così grande, all’ingresso dell’ospedale? Avete fatto benissimo!” - “Mi scusi – dico io, stavolta davvero senza comprendere cosa voglia dirmi – a quale parola si riferisce?” - “Come no. Quando venivo qui a fare il test mi chiedevo sempre cosa significasse aver messo quella parola scritta così grossa all’ingresso. Non capivo cosa c’entrasse. Ma adesso, facendo i colloqui con lei, ho imparato qual è la cosa più importante ed è giusto averlo scritto così in grande. Ha proprio ragione, vale per tutti gli ammalati che vengono qui! Devo ricordarmene sempre anche io!” Gli dico di sì, che concordo con lui, lo saluto ma in realtà non ho voluto contraddirlo. In effetti, non ho capito per niente cosa volesse dire, poiché non riesco a ricordare la parola scritta all’ingresso dell’ospedale. Prima di congedarlo, fissiamo un appuntamento per la prossima settimana. Finita la giornata di lavoro, sono uscito con l’auto per tornare a casa e mi sono fermato davanti all’ospedale, curioso di vedere cosa ci fosse scritto all’ingresso. Non ci avevo mai fatto caso, lo confesso, sebbene ci passi davanti tutti i giorni da un bel po’ di tempo. Sapete cosa si legge, a caratteri cubitali sopra l’uscio della porta principale? ACCETTAZIONE.

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MARTEDÌ

UNA DONNA TROPPO CATTIVA

Roberta è una signora perbene di circa 45 anni. Vive in un paese dell’hinterland napoletano con il marito ed i due figli di 15 e 12 anni. Ha studiato, è laureata in Economia e Commercio, ha lavorato per alcuni anni nel prestigioso studio di uno zio notaio, poi ha smesso per stare più vicina al primo figlio ed al marito, ma ciò è avvenuto senza grossi rimpianti. Formano una coppia benestante. Lui è laureato in Giurisprudenza, dirigente di una azienda sanitaria ed appare molto premuroso nei suoi confronti. Lei è una bella donna, alta, curata, forse leggermente sovrappeso, probabilmente anche a causa dei farmaci che assume da anni. Entrambi sono cordiali, abituati ad uno stile di conversazione in cui è possibile spaziare da un argomento all’altro: politica, viaggi, conoscenze comuni e ricette di cucina. Al primo colloquio, la signora mi mostrò un dettagliato resoconto clinico redatto dallo psichiatra presso cui era in cura da qualche anno. Nella sua storia vi sono un paio di ricoveri in strutture specializzate, un tentativo di suicidio piuttosto serio e molte prescrizioni di diversi psicofarmaci: risulta affetta da una depressione grave. Mi colpì la gravità della sua situazione clinica in confronto ad una situazione sociale apparentemente agiata e di successo. Ho ritrovato, tra le tante carte conservate in cartelline colorate suddivise per anno (che in genere non ho mai tempo per rileggere), le osservazioni scritte al termine dei nostri colloqui. Vi sono trascritti alcuni brani delle sedute, a cominciare dalla prima. 21


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Sin dall’inizio, la paziente non ha nascosto l’entità dei suoi sintomi ed è entrata subito in argomento: - “Io mi taglio, con un coltello da cucina, mi faccio sempre dei tagli, tre o multipli di tre. Lo faccio fin quando ho spazio sulle braccia e sulle gambe, poi smetto per un po’ di tempo, fino a quando le ferite non sono più visibili, poi ricomincio.” - “Perché lo fa? Cosa prova?” - “Lo faccio perché io sono cattiva. Sono una bastarda.” - “Davvero è così cattiva? Che strano, non si direbbe. Cosa ha combinato? Ha commesso dei delitti? Ha ammazzato qualcuno?” - “No, assolutamente no.” - “Mi dica, si droga? Ha usato eroina, cocaina?”, insisto nell’interrogarla con un tono molto serio. - “No, mai usato niente. Queste cose mi fanno schifo. Sono contraria”. - “Usa bevande alcoliche, allora? Si ubriaca spesso? Per questo si sente cattiva?” - “No, mi spiace, non bevo nemmeno” – mi risponde, con un atteggiamento un po’ di sfida, ma mostrando un interesse crescente alle mie parole. Cerca di capire dove voglio andare a parare. - “Allora – continuo io, provocandola – forse è suo figlio a drogarsi? Si sente per questo una cattiva madre? Che sostanze usa il giovanotto?” - “No, per niente. Io probabilmente sono una cattiva madre, ma lui è un bravo ragazzo, un po’ introverso, ma è serio, studia, ha la fidanzatina. Anche della seconda non mi posso lamentare, nulla da dire. Con i figli sono stata fortunata. Anzi, proprio non me li merito dei tesori così!” - “Ed allora, forse tradisce suo marito?”, chiedo, assumendo l’aria di chi ne ha viste tante. Sono assolutamente certo di ottenere una risposta negativa. Tali domande hanno solo lo scopo di dimostrare alla signora quanto la sua immagine di sé sia falsa ed eccessivamente autosvalutante. Tento di metterla di fronte all’enormità delle sua affermazioni e dei suoi comportamenti. - “No, lui, poverino, non c’entra niente. Lo amo, è tutta la mia vita. 22


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Mi è molto vicino. Se non ci fosse lui, ad accompagnarmi in giro dai medici e a darmi una mano, starei ancora peggio. Ha una pazienza con me…” - “Ed allora?” - “Allora, io sto male. Malissimo. Ma lo sa cosa significa essere disperati? Lei, può capire cosa vuol dire oppure no? Se lei non l’ha mai vissuto, come può immaginare cosa provo io in certi momenti? Cosa ne sa lei della depressione? L’ha studiata per caso sui libri? Io ho un vuoto dentro, un buco nero enorme. Tutto mi sembra privo di senso.” – mi dice con tono di sfida, incerta se valutare già inutile questo ennesimo consulto da lei non richiesto con un nuovo specialista, ma comunque incuriosita dal mio approccio diretto. Io reputo che per iniziare può bastare e considero le sue affermazioni anche come un modo per valutare l’ampiezza delle mie spalle: la signora Roberta ha bisogno di verificare la mia consistenza emotiva, prima di potermi mettere a conoscenza della sua vita. Non debbo lasciarmi spaventare dalle sue ferite se desidero portare avanti questa conoscenza. Negli incontri iniziali di psicoterapia avviene molto spesso questa reciproca operazione di valutazione dell’altro e solo se il terapeuta supera l’esame del paziente ed, in modo diverso, il paziente rientra nelle categorie soggettive di “curabilità” del terapeuta, la relazione va avanti ed evolve, altrimenti il trattamento si interrompe subito. Proprio come fanno certi animali che, in presenza di un nuovo stimolo o di un nuovo territorio, hanno bisogno di annusarlo, per poi decidere se allontanarsi indifferenti o invece mostrare interesse e soffermarsi sul nuovo spazio, avviene esattamente la stessa cosa tra gli esseri umani, quando si incontrano per la prima volta. C’è bisogno di un rituale di avvicinamento, di “annusare” l’altro, per poi decidere se il nostro interlocutore costituisce solo un incontro occasionale, che dimenticheremo subito, o invece cattura il nostro interesse e potrà divenire qualcosa di significativo, sino ad essere una persona tanto importante per noi da cambiarci la vita. Ciò avviene in ogni incontro umano, ma in una seduta di psicoterapia, laddove si valuta se intraprendere un percorso fortemente voluto ed impegnativo, è particolarmente evidente. 23


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Tornando alla paziente, leggendo gli appunti, ricordo quanto il suo tono di sfida, oltre che pesare la mia consistenza, possa probabilmente essere considerato indicativo di quanto le mie parole stiano, sia pur lievemente, mettendo in discussione il castello delle sue certezze. Quella parte di lei convinta dell’inutilità di qualsiasi sforzo, certa che i suoi stati d’animo non potranno cambiare mai, viene messa in discussione da me, per adesso senza ottenere alcun risultato sostanziale. La mia strategia punta a supportare l’altro aspetto di Roberta, presente in ogni essere umano, legato alla voglia di vivere e di aprirsi al nuovo. C’è un conflitto interno. Si tratta di dare forza e sostegno alla voglia di vivere, rilanciando passioni, affetti ed interessi e depotenziare il senso di inutilità e la paura di non farcela. Debbo allearmi con una parte, da rendere sempre più forte, apprendendo di cosa si alimenta e, nello stesso tempo, comprendere di cosa si nutre la parte antagonista, che nei momenti di sconforto appare predominante, e toglierle la linfa che le consente di occupare tanto spazio nella mente della paziente. Lo so, a parole sembra facile… Il nostro rapporto va avanti così. Tra provocazioni reciproche ci avviciniamo l’uno all’altro, impariamo a conoscerci, cercando ognuno di capire quanto spazio l’altro offra al dialogo ed alla relazione. Di tanto in tanto emergono inevitabilmente anche delle incomprensioni o delle chiare divergenze di opinioni. I colloqui sono proseguiti con questo ritmo alternato per diverse sedute, ad alcune delle quali ha partecipato anche il marito. La signora Roberta mi raccontava la sua vita, i suoi sforzi per stare bene, impegnandosi nella vita di relazione, nelle cene con gli amici, nelle attività domestiche, nella cucina, nel giardinaggio. Mi parlava dei suoi affetti più cari, iniziando a coltivare qualche progetto più ampio. Poi, quasi senza motivo, ritornavano i momenti bui: lo scoraggiamento, il senso di inutilità, il peso di vivere. Con essi, gli episodi autolesionistici, maniacalmente precisi. In questi frangenti, ricompariva l’autocommiserazione ed il vittimismo. “Nessuno mi ama. I miei genitori non mi hanno mai amata. In famiglia, nessuno mi ha mai davvero voluta bene. Non sono mai stata presa 24


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in considerazione, si faceva solo quello che piaceva a mia sorella. Ed è giusto, perché io sono cattiva, molto cattiva. Sono una disgraziata.” Io, per molto tempo, ho tentato di convincerla che si sbagliava, che non era affatto cattiva, che era stata una figlia molto affettuosa, era una moglie attenta ed una madre sensibile. Tuttavia, i miei tentativi non avevano gran frutto. “Lei non capisce quanto io sia bastarda. Che razza di pensieri cattivi mi vengono in mente!”, continuava a ripetermi. Sino a quando avvenne il primo mutamento sostanziale nell’approccio terapeutico. Una volta, non so come né perché, decisi di cambiare strategia e, con una piccola ma geniale intuizione, adottai un approccio paradossale. Riporto ancora dai miei fogli, scritti frettolosamente dopo ciascuna seduta. Dopo aver ascoltato le sue solite lamentazioni ed aver visionato i tagli sulle braccia, le avevo detto: “Signora, io stavo sbagliando tutto con lei. Per tutte queste settimane ho cercato di convincerla che lei non è affatto cattiva, non è una delinquente. Stavo commettendo un grave errore. Meno male che lei non ha cambiato opinione ed ha continuato a pensare di essere cattiva. Solo adesso mi accorgo quanto sia meglio che lei non muti opinione su lei stessa.” - “Che vuole dire? Non capisco. Sono dunque cattiva?” - “Sì, in un certo senso, sì. Solo adesso ho compreso che se lei non fosse convinta di essere così perfida, e quindi poco amabile, allora, prima o poi, le sarebbe venuto in mente che sono gli altri ad essere cattivi per amarla così poco, molto meno di quanto lei merita. Se fosse vero quello che io le ho detto sinora, vale a dire che è stata una brava figlia, una sorella attenta, una moglie affettuosa e così via, sarebbe tragico accorgersi di essere tanto poco amata. Se, nonostante i suoi pregi ed i suoi sforzi, di cui tutti, a partire dai suoi genitori, si sono accorti molto poco, lei non fosse stata voluta bene quanto merita, allora i cattivi sarebbero gli altri. Ma questa è una realtà troppo dolorosa da accettare per lei. Perciò io ho sbagliato, finora. È meglio, molto meglio che lei continui a pensare di essere cattiva. Questa idea certo la fa star male. Solo ora mi rendo conto, però, quanto sicuramente questa convinzione sia molto meno dolorosa dell’altra: che siano spietate le 25


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persone amate da lei. La sua idea di essere cattiva è probabilmente il male minore. Tra pensare che sono cattivi gli altri - i suoi genitori, i suoi fratelli, il marito, i figli - e pensare di essere cattiva lei stessa e solo per questo non amata, lei ha fatto una scelta, che io ho l’obbligo di rispettare. Probabilmente è la scelta meno dolorosa. Io ho il dovere umano e professionale di rispettare il suo altruismo e quindi le prometto che smetterò di insistere per tentare di convincerla di non essere una persona malvagia. Stavo commettendo un errore e pure grosso. Meno male che me ne sono accorto. Per lei è molto meno doloroso pensare di essere l’unica responsabile di tutto quanto avviene che non le piace. In questo modo, addossandosi la colpa di tutto quanto non funziona, protegge, e tanto, tutti, dai suoi genitori sino a suo marito. Poi, più in là, forse verrà un tempo in cui potrà riconoscere di essere stata amata, anche se non nei modi e nei momenti che aveva desiderato.” - “È strano. Non ho mai pensato in questi termini. Le sue teorie, dottor Vito, sono sempre un po’ strambe. Quindi, secondo lei, io non sono cattiva ma credo di esserlo per non arrabbiarmi verso chi mi ha fatto del male?”, rispose incuriosita Roberta, la quale raddrizzandosi aveva alzato la testa e modificato la postura consueta con la schiena curva, la testa bassa e seduta solo in punta alla sedia. - “Esatto, delle due l’una. Se lei fosse cattiva, gli altri farebbero bene a non amarla. Ma, se lei fosse una buona persona, sempre attenta ai bisogni altrui, sarebbero stati ingiusti gli altri a non amarla per quanto merita”. Infine, conclusi, con aria seriosa, proponendole una prescrizione paradossale del suo stesso atteggiamento negativo: “Tuttavia, è meglio non fare affacciare alla sua mente questa teoria. Non parliamone più. Forse ho persino sbagliato a riferirle i miei pensieri. Lasci stare. Continui a credere di essere una disgraziata, per favore.” - Non lo so, ci debbo pensare, non ci capisco niente…” Ci salutammo con l’impegno reciproco di continuare a parlarne, comunque mi ero accorto che Roberta aveva compreso benissimo e stavolta avevo la sensazione netta (per me, lo confesso, piuttosto rara…) di aver colto proprio nel segno. Infatti, la volta successiva, mi disse di aver molto riflettuto sulle mie parole della precedente seduta, confidando di esserne rimasta tur26


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bata. Comunque, per diverse settimane, le cose iniziarono a procedere decisamente meglio, con un netto miglioramento nelle sue condizioni generali e nella vita con gli altri. Per vari mesi non vi furono più gli episodi di autoaggressività e, di tanto in tanto, mi ricordava la mia originale teoria, secondo cui era necessario che lei si considerasse malvagia pur di soffrire meno a causa di tutto ciò che non aveva ricevuto. Qualche volta entravamo ancora in opposizione, però ormai mi era più facile averla vinta sulle sue resistenze. - “Ma lo sa che lei è proprio presuntuoso, dottor Vito”, mi disse una volta. - “Questo è un altro dei suoi giochini mentali”, la interruppi io. - “Che vuole dire? Non li faccia lei i giochetti…” - “È certo che anche io ho dei difetti, ci mancherebbe. Forse la presunzione, sicuramente altri. E con questo? A cosa le serve essere così attenta alle mie inadeguatezze? È lei a dover smettere di pensare che solo una persona perfetta può aiutarla. E sa perché?” - “No, sentiamo.” - “Perché se non molla questo pensiero, non potrà farsi aiutare da nessuno. Poiché non esiste alcuna persona perfetta, nessuno potrà darle una mano. Questo è il giochino mentale. Ricercare i difetti altrui per evitare di farsi aiutare, per non impegnarsi nelle relazione con gli altri. Provi a chiedersi, piuttosto, cosa ciascuno può darle e cosa può imparare dagli altri, nonostante le loro imperfezioni.” - “Ma”, protestò la signora, “io desidero il meglio per me. Scelgo sempre con cura i miei specialisti. Debbo essere attenta. Cosa c’è di male in questo?” - “Infatti, il proverbio dice proprio che ‘il meglio è nemico del bene’. Faccia pure del suo meglio, ma provi anche a rilassarsi di tanto in tanto. Accetti le debolezze altrui ed anche le sue. Utilizzi la sua intelligenza per individuare i pregi, non i difetti!”, conclusi. - “A volte non la sopporto proprio, vuole sempre avere ragione! Però debbo riconoscere che, quando vado via, pure quando litighiamo, mi sento meglio, più leggera”, ammise rinfrancata la paziente. “Qualche volta mi fa persino divertire!” Tuttavia, pochi giorni fa, in coincidenza di un viaggio di lavoro del 27


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marito recatosi per l’azienda alcuni giorni in Nord Europa, vi è stato un improvviso peggioramento e la signora Roberta ha di nuovo minacciato il suicidio, con una certa determinazione. Ci siamo incontrati stamattina con urgenza e mi spiega cosa è avvenuto a condurla in questo stato di prostrazione. “A parte il viaggio di mio marito, a cui sono abituata, non si è verificato nessun evento particolare, eppure le ‘forze del male’ stanno di nuovo prendendo il sopravvento su di me.” Mi racconta di sentirsi disperata, tutto le sembra inutile. Mi spiega di non doversi mai avvicinare alle finestre, poiché hanno un potere attrattivo troppo forte e quando è sola, a casa, deve ingaggiare una battaglia con se stessa per non cedere. Tutto le appare vano e le pare di soccombere alla sua inquietudine. Le racconto allora la mia personale teoria sulla genesi del malessere psichico. - “Le ho mai parlato dei gradi di libertà?” - “No, non mi pare. Di cosa si tratta?” mi chiede senza mostrare un grande interessamento. - “Ho sviluppato una mia piccola teoria per spiegare la causa delle sofferenze psicologiche. Mi sono chiesto, al di là delle storie personali e familiari diverse, cosa avessero in comune le persone sofferenti per, diciamo, problemi psicologici. Mi sembra di aver individuato un elemento comune.” - “Quale?” - “Tutte le persone da me incontrate erano convinte di non avere molte possibilità di scelta… Chi sta male pensa sempre di non aver scelta o di avere pochissime alternative a disposizione. Invece, in qualsiasi situazione esistenziale, abbiamo sempre qualche opzione in più di quelle prese in considerazione fino a quel momento”. - “Però, ad essere sincera, io non conosco nessuno veramente libero…” - “Certo, nessuno può fare sempre esattamente quello che vuole, è ovvio, così come i risultati ottenuti non dipendono esclusivamente dai nostri sforzi, essendo influenzati da una gran numero di variabili sfuggenti al nostro controllo. Tuttavia, si ricordi che in tutte le situazioni ci sono sempre più di un’opzione possibile, più di una strada percorri28


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bile, ma, spesso, presi dalla nostra sofferenza, non ce ne accorgiamo. Le persone che stanno male sono sempre convinte di essere meno libere di quanto non siano in realtà. Invece, sono poche le situazioni in cui non c’è proprio nulla da fare. E, forse, pure in quelle si può fare qualcosa.” Mi fermo un attimo e penso dentro di me alle situazioni in cui ho assistito pazienti terminali ed in cui si affronta il tema molto delicato, per il paziente ed i suoi familiari, di “come” morire. Anche in questo, nel dover accettare un evento così doloroso, possiamo mettere in atto reazioni diverse, tra cui siamo “liberi” di scegliere. Poi torno a rivolgermi alla signora Roberta: “Ad esempio, lei ha mai provato a sperimentare l’esperienza del paracadutismo? Ed a scrivere haiku, le poesie giapponesi? Se la soluzione partisse da un corso di sommelier? Ed ha mai provato a recitare? Pensi, magari ha un talento nascosto in una di queste attività, a cui sinora non ha dedicato alcuna attenzione. Ne sono convinto: non c’è persona al mondo, anche la più incapace, che non sappia far bene almeno una cosa. Chi ha successo sono i fortunati che riescono a scoprire il proprio talento specifico, eppure tutti gli altri hanno sicuramente un talento, per quanto piccolo, nascosto da qualche parte.” - “Come si fa, mi sembra così difficile!”, mi risponde scettica la paziente, sebbene il tono si sia acquietato, e mostrandosi più disponibile nel seguire il filo del mio discorso”. - “Ascolti, ogni cosa ha un prezzo: un costo economico, affettivo, organizzativo o materiale. Non esistono cambiamenti a costo zero, questo è sicuro. Tuttavia, cambiare è possibile, per chiunque. Non tutto e non subito, certo. Comunque, anche lei ha molte più possibilità di quante non ne veda adesso”. - “Non lo so. Vorrei crederle, ma mi sembra troppo faticoso!” - “Mi scusi, è proprio il contrario. È vero che il cambiamento può essere impegnativo, però continuare a soffrire è ancora più faticoso! Non deve usare la sua energia per impedire di muoversi, ma per iniziare a spostarsi. La reputo dotata di una grande forza, eppure ne fa un uso distorto: per resistere invece che propositivo. Guardi come è difficile spostarla anche solo di un centimetro”, le dico alzandomi dalla mia poltrona ed afferrando le gambe della sua sedia fingendo di spin29


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gerla con forza verso di me. “Lei spende una gran mole di energia, se è riuscita a stare ferma per tanto tempo. Tuttavia, non deve utilizzarla in opposizione ma al servizio di un progetto.” - “Ma, come riuscirci? E poi, io non mi sento affatto libera.” - “È semplice, deve cambiare occhiali. Lei porta occhiali con un filtro sbagliato”, dico proponendo l’ennesima metafora. - “Cosa vuole dire?”, mi risponde la signora, ormai abituata ai miei improvvisi cambiamenti di argomento. In effetti, sto dicendo la stessa nozione usando esempi diversi ed utilizzo la ripetizione dei concetti per rafforzare l’efficacia delle mie argomentazioni. - “Sì, è come se lei portasse occhiali speciali che la costringono a vedere solo gli aspetti negativi. Occhiali con lenti nere. Io penso sia importante occuparsi dei problemi, sapere cosa non funziona è utile e serve a poter risolvere le questioni. È, quindi, necessario prestare attenzione a ciò che non va ed, in questo, lei ha un vero talento. Eppure, per stare bene, occorre guardare pure agli aspetti positivi, godere delle nostre risorse. Coltivare i suoi desideri. Capisce?” - “Un po’…” - “Il suo sguardo in questo momento è orientato esclusivamente su ciò che non funziona. Dovrebbe semplicemente girare il viso, rivolgere lo sguardo verso gli aspetti positivi presenti nella sua vita. Occuparsi dei suoi pregi, delle sue passioni, dei suoi affetti. Proprio come dice quella pubblicità dell’acqua minerale, che a me piace tanto e trovo geniale: “dedicato a chi pensa che la felicità sia in un bicchiere mezzo pieno. Capisce, non dedicato a chi ha il bicchiere pieno, perché altrimenti sarebbe troppo facile essere soddisfatti, ma dedicato a chi scopre il bello nel bicchiere riempito a metà! Così, la felicità è dedicata a tutti noi, esseri normali e mortali e non a pochi fortunati eletti.” - “Lei ha ragione, caro dottore, ma io non ce la faccio. A volte la disperazione è troppo forte, non ho voglia di alzarmi dal letto, di fare nulla. Non me ne importa niente di nessuno, non riesco a trovare alcun interesse. Però non sono io, mi creda. È più forte di me, nasce da dentro, non so da dove, è ‘sta maledetta depressione.” - “Guardi, le ho suggerito di provare qualsiasi cosa, persino il paracadutismo, di coltivare i suoi talenti. Una sola cosa non deve fare 30


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mai”. - “Quale?” - “Non faccia mai qualcosa di irrimediabile. Non compia niente che possa essere definitivo, immodificabile, le cui conseguenze non si possano più correggere. Guardi, nella vita di ognuno capita di commettere errori o solo di cambiare opinione. A volte è doloroso, a volte no. Non faccia scelte da cui non potrà tornare indietro”, le dico, facendo riferimento ai comportamenti suicidari. - “Allora, non debbo pensare che è meglio morire, che non c’è niente per cui vale la pena vivere? Io mi chiedo sempre: che vivo a fare?”, mi risponde, cogliendo subito dove volevo andare a parare. - “Signora, il problema non è nella domanda ma nella risposta. Non c’è nulla di male nel chiedersi: ‘Cosa ci vivo a fare?’ Secondo me, anzi, ha meno valore una vita in cui non ci si domanda mai quale senso abbia la propria esistenza. È legittimo, quasi doveroso, porsi il compito di trovare un significato autentico alla propria vita. L’interrogativo: ‘Perché vivo?’ è corretto. L’imbroglio consiste nel non voler accettare di aspettare il tempo necessario affinché arrivi una risposta soddisfacente. Comunque, se la domanda è sincera e profonda, se la ricerca è reale, le assicuro, non subito, ma una risposta arriva”. - “Ma, io ho paura! Paura del futuro!” - “Roberta, nessuno sa cosa ci aspetta domani. Io potrei senz’altro morire prima di arrivare a godere della pensione e sarò stato uno sciocco ad aver rinviato al domani quello che non potrò più fare. In realtà, il fatto di non sapere nulla del mio futuro, senza conoscere come e quanto tempo ancora vivrò, non è un dramma. È il sale della vita. Ci pensi, certamente non sarebbe un mondo migliore quello in cui noi sapremmo già cosa ci attende. Noi dobbiamo fare la nostra parte, agendo nel modo migliore possibile per raggiungere quelli che stabiliamo siano i nostri obiettivi, pur sapendo di non possedere alcuna garanzia di ottenere il risultato sperato. Pur comportandoci esattamente nel più opportuno dei modi, dobbiamo riconoscere di non avere alcuna certezza. Comunque, ci rifletta, va bene così. Non sarebbe un mondo migliore se, poniamo, io mi comportassi in maniera impeccabile con mia figlia: educandola correttamente, con rispetto, attenzione e ciò au31


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tomaticamente mi desse la garanzia che lei cresca come io desidero, studierà, sposerà una persona che a me piacerà, farà scelte da me condivise ed avrà successo. Non funziona così, per fortuna. Certo, se io mi comporto bene con mia figlia è più probabile che lei cresca sana e responsabile. Tuttavia è solo una probabilità. Non una certezza. La nostra vita dipende da tante variabili che è impossibile poterle controllare tutte. Ma, ripeto, va bene così. L’evidenza di non conoscere cosa mi accadrà domani, non è una sciagura. La presenza dell’ignoto non può essere motivo di sconforto. Esso ci consente di possedere lo spirito dell’avventura, la voglia di viaggiare, la curiosità di scoprire nuove persone e nuovi luoghi. Io non so cosa avverrà domani e certamente mi attendono sorprese dolorose: ci saranno lutti, dolori, malattie e sconfitte. Altrettanto certamente, tuttavia, ci saranno gioie impreviste, momenti di felicità e piacere, magari suscitati da persone che ancora non conosco, eppure esistenti. La vita mi riserva ciò che ancora non so. L’atteggiamento con cui affrontiamo il futuro costituisce il fattore essenziale per il nostro benessere. L’ansioso sta male perché non controlla tutto, vorrebbe sempre sapere prima come va a finire. Per sedare le sue paure dell’ignoto, vive con angoscia l’incertezza su tutto ciò che non può determinare e che gli sfugge. La persona emancipata, invece, è ottimista, affronta il futuro con prudenza ed ottimismo, con curiosità e voglia di nuove conoscenze. Io, ad esempio, non vedo l’ora di andare in Giappone ed in Israele, terre che mi attirano tanto anche se ancora non le conosco. Poi, c’è un nuovo ristorante aperto a Roma di cui si parla un gran bene. Costa molto, ma per una volta… Non vedo l’ora di tornare ad Asolo per partecipare a “Calici sotto le stelle”. In più, c’è la finale di Coppa in cui gioca l’Inter. E poi mi piace pure qualche altra cosa che desidero fare, capisce cosa voglio dire?” dichiaro sorridendo. Ed ecco come finisce il nostro incontro odierno. - “Dottore, ho avuto un’idea, sa quale?” - “No, mi dica.” - “Ho deciso di scrivere un libro. Un libro sulla depressione. Vorrei raccontare la mia storia per aiutare chi sta vivendo un’esperienza simile alla mia. Ho pensato che se tutto ciò potesse essere d’aiuto a qualcuno, forse acquisterebbe un senso diverso pure per me. Cosa ne pensa?” 32


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- “È una buona idea, ma stavolta, cara signora, è arrivata in ritardo…” - “Che significa? Cosa vuol dire?” - “Stia tranquilla, Roberta, lo scoprirà presto…” - “Ah, ho capito…”, dice, sorridendo. “Mi ha fregato un’altra volta… Ma, almeno, mi promette di raccontare pure quanto sono buone le verdure sott’olio preparate da me e che le regalo ogni anno a Natale in segno di affetto e stima?” - “Promesso!”. Appena la seduta termina, avverto la stanchezza. Ma mi sento pure contento. Mi viene voglia di parlare con mia figlia, di chiamarla per sapere come sta, di infonderle sicurezza e tranquillità. Di ricordarle il mio affetto o semplicemente di scambiare due chiacchiere con lei. Un piccolo aggiornamento esistenziale, come dico io. La chiamo subito. Ma il cellulare è spento. Forse è a lezione, all’Università. Peccato! Magari, mi chiamerà lei più tardi, quando sarò io ad avere il telefono spento! C’est la vie…

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