Anime

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A Tu per Tu

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FRANCO FERRARI

ANIME

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Prima Edizione: 2013

ISBN 9788898037254 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Ottobre 2013 in Italia da Atena.net Srl - Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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J’invèr, j’istà ‘d cul tèimp, ra primavèira qualmèint ormai luntan ‘t smeiu pi vèira l’èrba coi gril svigiavu u sògn cor cant l’immensità è ‘n viagi, l’anma in vant. Gli inverni, le estati di quel tempo, la primavera sono talmente lontani che non sembrano più veri l’erba coi grilli risvegliava il sogno col canto l’immensità è un viaggio, l’anima un vanto Giovanni Rapetti

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Indice

I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII

9 13 17 25 35 39 49 53 61 65 71 73 79 83 85 89 95 97 103 109 115 119 125 131 135 139 145 7 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL XLI XLII XLIII

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I

Il corridoio è completamente bianco, attraversato da una luce lattiginosa che sfuma ogni contorno. I letti sono addossati a una lunga parete al centro della quale si apre, perpendicolarmente a questo, un altro corridoio. Chi fosse disteso su uno dei letti (ma io non credo di esserlo) vedrebbe di fronte a sé una vetrata investita da una luce alta e diffusa proveniente dall’esterno. Che ci sia un qualche ambiente esterno è però una semplice congettura: non si distingue niente, un po’ come nelle piscine termali di una volta, dove i vapori impregnati di zolfo soffocavano respiro e visibilità. Percepisco un senso di disagio attenuato, non drammatico, solo un lieve blocco allo stomaco, una respirazione lievemente accelerata. Riesco a muovermi a stento. Mi sembra di scivolare, di volteggiare lentamente come un astronauta, almeno come si vedono gli astronauti nei filmati di repertorio. Mi chiedo se ho fame o sete e non so se sono vestito e, nel caso, quali abiti indosso anche se non mi sento neppure nudo. Avverto il bisogno di registrare queste sensazioni, ma non ho strumenti per scrivere: non un foglio di carta e una biro, tanto meno un portatile. Scrivere sarebbe il solo modo, anche se del tutto insufficiente, per restare a galla, per illudermi di tenere la situazione sotto controllo. Se ci siano altre persone sui letti non so. Questi non mi danno comunque l’impressione di essere vuoti anche se il bianco impedisce di riconoscere sagome e movimenti. Mi dico che qualcosa succederà, nel bene o nel male, che questa condizione non può durare a lungo se è vero che anche nelle prigioni (ma ci sono mai stato?) qualcosa prima o poi succede: il rancio, la doccia, le visite, l’ora d’aria, il clangore delle serrature che si aprono o si chiudono, le voci, gli urli, i passi del secondino. 9 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU E in effetti sì, ecco, qualcosa si muove: una massa bianca e collosa si alza a fatica da uno dei letti e si solleva pesantemente lasciando colare sotto di sé filamenti che mi ricordano quelli della pasta lievitata al momento di preparare il pane. Si è acceso anche un pannello bianco attaccato alla parete: segna il numero 29, modellato anche questo in bianco, ma un bianco più forte e più nitido, e insieme con l’accendersi del numero è risuonato lo squillo, chiaro e breve, di un campanello elettronico. Però questo campanello deve essere risuonato già prima, un momento fa, senza che io me ne accorgessi se è vero che, come mi pare di capire, la massa collosa si è sollevata in risposta a un richiamo. Questa massa è indubbiamente una persona, ed è avvolta in una specie di gelatina che la copre interamente e che, prima che si sollevasse, ne oscurava non solo la sagoma ma la stessa presenza. Ma allora, mi chiedo, anche gli altri letti, o almeno alcuni di essi, sono occupati da presenze simili, come in una corsia ospedaliera di una volta? Forse io stesso sono uno di loro? Provo a toccarmi, a sentirmi. No, niente da fare, non ci riesco. Forse ho avuto un ictus, definitivo o temporaneo, e sono una coscienza, o un’incoscienza, incapace di comunicare con il suo corpo, di impartirgli ordini e impulsi. Le mie membra, del resto, neanche le sento. Non le vedo, non so cosa fanno. Sì, sento di esserci, adesso, da qualche parte dentro questo ambiente privo di colori, ma non ho l’impressione di essere schiacciato su un letto. L’ammasso si è quasi completamente staccato, prova a sostenersi su due gambe corte ma robuste sorreggendosi con una mano al bordo del suo letto. Prova a camminare: arranca un po’, sbanda al primo passo ma poi ce la fa, si rimette dritto e procede rasente il muro finché scompare nel vano del corridoio che si apre al centro della parete. Solo adesso mi accorgo che non ha fatto alcun rumore. Il silenzio, da quando è squillato il campanello, è assoluto. Sì, deve essere come in un ospedale, per una visita ambulatoriale (o intra moenia) o per un esame clinico. Ognuno ha il suo numero e con quello viene chiamato da un infermiere o da un altoparlante 10 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME oppure, appunto, da un campanello elettronico. Ma se è un ospedale, che tipo di ospedale è? Per la cura di quali malattie? Anch’io sto aspettando il mio turno per una visita o per un esame? E a quale numero devo rispondere se si accende il pannello luminoso? Che io sappia, io non ho un numero come non ho un letto. Mi pare che su un altro giaciglio si accenni un movimento, ma è una cosa diversa. C’è come un leggero mulinello, bianco naturalmente, con cerchi sempre più larghi. Un’altra massa che si stacca? No, la materia si affloscia, resta una specie di pozza vagamente liquida. Non è successo niente.

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II

Nel corridoio in cui mi trovo appare qualcuno o qualcosa. Quello che potrebbe essere un infermiere dapprima si guarda intorno, poi scruta nella direzione della pozza liquida, si avvicina al letto, toglie tutto quanto ricopre ciò che potrebbe essere un materasso e ci fa una grossa palla che stringe fra le braccia e trasferisce verso il corridoio da cui è venuto. Se prima non mi sentivo né vestito né nudo, ora percepisco più nitidamente di non avere niente addosso: non un capo di vestiario e neppure un orologio. Comincio a vedermi le braccia, o meglio solo il braccio sinistro, ma è scialbo, poco rilevato, come se fosse un disegno a matita eseguito con tratto leggero, non una massa, un volume. Mi prende una stanchezza improvvisa, la vista mi si offusca, ma come a rovescio: non diventa più scura ma più chiara, si confonde con il bianco dell’ambiente, penetra dentro gli occhi, affonda internamente, sotto la cavità oculare, dentro la testa. Riapro gli occhi e sono sdraiato, non più però nel corridoio. Evidentemente mi hanno trasferito in una stanza interna, forse una di quelle che, immagino, si aprono sui lati del corridoio di cui intravedevo l’inizio. Ora ci sono presenze intorno a me e si muovono, parlottano a bassa voce. Mi stanno preparando per un intervento chirurgico? Sì, devo averne fatto qualcuno, erano sempre in cinque o sei che si spostavano in sincrono, ognuno eseguiva qualche gesto: esaminava una macchina, controllava uno strumento, portava una sacca, leggeva una tabella. Qui però la situazione è un po’ diversa. Sono solo in tre e non sembra che preparino qualcosa, mi girano intorno come se cercassero la posizione giusta. Due si mettono a 13 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU sedere accanto a me su piccoli sgabelli, il terzo resta in piedi presso il fondo del letto (sì, ora so di essere steso sopra un letto). Il terzo è l’unico di cui intravedo gli occhi: molto scuri, puntiformi. Degli altri due non distinguo che il largo svolazzo di una veste che, tenendo un braccio un po’ alzato, portano davanti alla faccia. Nessun indizio se siano donne o uomini, mentre quello a capo del letto direi che è un uomo, ma è solo un’impressione fondata sul tipo di sguardo: acuto, fermo, sicuro. La situazione ricorda un po’ le incursioni mattutine di un primario con il suo codazzo di vice, assistenti, infermieri. Una sosta in ogni camera e davanti a ogni letto, cartelle cliniche, esami, ordini, raramente un approccio tattile al degente su faccia, torace, addome o altro. Qui però non so neanche se ci siano altri letti, quanto grande sia la stanza (se di una stanza si tratta). I tre compari non fanno assolutamente niente di operativo: uno continua a fissarmi, gli altri due sembrano perennemente impegnati a drappeggiarsi in questa specie di lenzuoli che li fasciano completamente come cavalieri berberi. Il capo, perché sembra che debba sempre esserci un capo, ha detto ai due ‘berberi’: “A questo fategli gli esami di routine … stanza 7” La battuta mi arriva come in ritardo, allo stesso modo dello squillo del campanello nel primo corridoio. È come in certi servizi televisivi in diretta dall’America o da altre terre lontane: la voce del corrispondente arriva con qualche secondo di ritardo. Questione di velocità del suono. Sì, ricordo, circa 330 metri al secondo nell’aria (nell’acqua la propagazione è più rapida). Già, ma qui siamo a due metri di distanza, perché mai questo effetto ritardato? Non ne ho idea, ma l’‘a questo fategli...’ non mi è piaciuto: è sempre un segno di disprezzo indicare qualcuno con ‘questo’ o ‘quello’, o almeno di superiorità o di fastidio, talvolta di potere. Comunque non ha detto ‘anche a questo’, dunque la mia sorte sembra essere diversa da altre, ad esempio da quella del numero 29. A lui niente esami di routine? Arruolato o scartato senza esami? Mi verrebbe voglia, di nuovo in ritardo, di fare qualche domanda, 14 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME ma non so se sono in grado di parlare e di poter essere ascoltato. E comunque l’impulso resta vago, inerte, qualcosa che resta attaccato in fondo alla gola e che non riesce, anzi non fa nessuno sforzo per affiorare. I due ‘assistenti’ - dico così a me stesso per usare l’espressione più vaga che trovo anche se la parola è ormai fuori moda: ci sono aiuti, collaboratori, ricercatori, forse restano solo gli assistenti di volo - non reagiscono a quello che sembrava un ordine: mi volteggiano intorno come se non toccassero terra, avvicinano le braccia anch’esse avvolte nei loro tessuti leggeri da cui non spuntano mani ma, a intermittenza, scure protuberanze (finalmente qualcosa che non sia una gradazione di bianco), cilindri neri o marrone scuro con annessi alcuni chiodi metallici. Sono protesi per invalidi? Entrambi hanno perso le mani? Pur essendo sempre più vicini, non emanano alcun odore né emettono alcun suono. Girano e girano, non so per quanto continueranno. E poi… oh… piccoli lampi, più o meno prolungati, come scatti di flash, da un certo momento in poi molto fitti, a ripetizione, incalzanti come fuochi d’artificio. Mi ricordo, io che al momento non ricordo niente di me stesso, di quando si passava da Berlino ovest a Berlino est prima della caduta del muro. Dopo un breve e sgarbato interrogatorio sulla ragione per cui uno intendesse visitare la zona orientale, su che cosa contenesse la sua borsa (se l’interessato ne portava una) e che lavoro facesse, si posava su un bancone la borsa stessa e si attraversava uno stretto corridoio vuoto dal cui soffitto concavo scattava verso il basso una bordata di flash. Poi si giungeva dall’altra parte, ti veniva restituita la borsa, si usciva all’aperto in un ampio parcheggio gremito di Skoda. Ora capisco (mi sento lento pure nei pensieri). Anche se non mi hanno trasferito in un’altra stanza, sono questi gli esami di routine: una mappatura, uno scrutinio generale del soggetto. I cilindri scuri non sono protesi degli arti superiori, ma strumenti di rilevazione, mentre la brillantezza dei flash mi fa pensare al laser (ma ne so davvero qualcosa?). Dunque, se non hanno braccia particolarmente lunghe, non è affatto detto che i due siano privi di mani. Poi la coppia di berberi conclude 15 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU l’operazione e si dissolve in una frazione di secondo. Oh, anche il capo non c’è più. Sono solo e manca anche il letto su cui mi sembrava di stare disteso.

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III

“Pronto, mi sente?” Una voce bassa, grave, maschile, sciama nello spazio vuoto. Ora mi sento in piedi, o meglio in posizione eretta dal momento che non ho sentore né di gambe né di piedi. “Sì, la sento” Quasi fossimo al telefono! In effetti sì, percepisco questa voce che non sembra provenire da un unico punto, ma da diversi diffusori acustici: una voce stereofonica. Quella che non percepisco è la mia, di voce: come se avessi detto ‘sì, la sento’ solo con la mente, con l’intenzione. Vediamo se lui mi ha sentito. “Bene! Il contatto funziona” “Cosa volete da me?” La domanda, un po’ ansiosa, mi sfugge incontrollata. Non vorrei dar l’idea di un povero inetto, ma peggio di così, quanto a controllo della situazione, non potrei ritrovarmi. “Io sono io, non noi, e non voglio niente da lei. È piuttosto lei che dovrebbe aver bisogno di aiuto...” È la solita storia: chi ha una posizione di superiorità, chi sa le cose, chi controlla e dirige, detta norme, fa precisazioni. “… ma in tutta onestà devo dirle che anche noi abbiamo un problema a cui lei afferisce solo come un caso particolare, molto particolare…” “… e sarebbe?” “Sarebbe a dire, ma il quadro che posso prospettarle è per ora solo parziale, che è in atto un generale deterioramento degli esemplari. Le scorte stanno finendo, anzi sono già largamente finite o lo sarebbero se non fossimo ricorsi a molte copie, un cumulo di cloni che si stanno minacciosamente avvicinando al 50% del totale” 17 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU “Esemplari … copie … cloni ... di che cosa?” “Per favore, non mi interrompa, mi lasci proseguire e vedrà che il quadro, anche se frammentario, andrà in buona parte ricomponendosi davanti ai suoi occhi” “Occhi? Ho ancora occhi, orecchie, braccia, gambe?” “Non si perda in dettagli secondari. È un modo di dire, una traduzione, di cui faccio uso per comunicare con lei” “Lei traduce? Da quale linguaggio?” “Sì, io traduco, ma in senso concettuale. Lei però, mi scusi, come deve aver fatto nel corso di tutta la sua esistenza si smarrisce nei particolari, fa domande che ci allontanano dal nocciolo della questione, vuol raggiungere senza tappe intermedie un traguardo ancora lontano” “E come potrei pretendere di raggiungere un qualche traguardo in un luogo che non conosco, con sensazioni che non sento mie, ascoltando una voce di cui non so nemmeno se appartiene a qualcuno o a qualcosa?” “Ne prendo atto, ma non abbiamo molto tempo da perdere. Così le dirò in estrema sintesi qual è il suo problema e qual è il mio, o il nostro. Come vedrà, i due problemi sono strettamente collegati: due facce della stessa medaglia” C’è una pausa, si aprono dei fori a una parete di quella che forse è una stanza. Occhi elettronici? Strumenti rilevatori? Il colloquio viene registrato in qualche modo? “Il suo problema è che lei, a quanto ci risulta al momento, è uno dei molti enti o manifestazioni, insomma una di quelle che siete soliti chiamare ‘anime’, aggregati a un’anima di primo grado o iperanima, della quale abbiamo smarrito la scheda. Non mi diffonderò a raccontarle che cosa è successo. Molte schede, diciamo ‘digitali’ o ‘elettroniche’, si sono scompigliate o deteriorate: alcune si sono offuscate perdendo tutti o gran parte dei dati, di altre non sappiamo proprio che fine abbiano fatto” “Mi sembrate molto confusionari” “Lasci perdere l’ironia, sapesse che massa di materiale dobbiamo 18 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME tenere sotto controllo, e noi supervisori siamo pochissimi e, per stanchezza e logoramento, sempre meno attenti. Comunque sia, la scheda della sua anima di riferimento non c’è più, o almeno non si trova, e se si trovasse bisognerebbe verificare se i dati si sono salvati e qual è la condizione generale dell’esemplare. E senza scheda ignoriamo chi lei sia, e chi siano tutti i suoi colleghi di ventura e quali percorsi abbiate compiuto e quali vite abbiate vissuto nel corso dei secoli” “Ma come, siamo alla metempsicosi del vecchio Pitagora, alla trasmigrazione delle anime? Io sarei un’anima, o meglio uno dei molti o moltissimi afferenti di una super-anima non più identificabile che lei dovrebbe (voi dovreste) rintracciare e rimettere in sesto?” “Non esattamente, ma il richiamo al vecchio Pitagora – perché poi vecchio? È molto vicino a noi, considerando l’intera serie dei movimenti pregressi – è pertinente e può servire a capirci. Quello che è inaccettabile della vecchia teoria pitagorica è che un’anima possa passare da una condizione umana a una animale o vegetale, e viceversa: ci sono barriere invalicabili fra l’uno e l’altro regno naturale. Sfuggiva inoltre a Pitagora, e a quanti prima e dopo di lui hanno abbracciato la medesima teoria, che le anime di secondo grado, o ipo-anime, si attivano, in un modo che al momento lei non è ancora in grado di apprezzare, solo in relazione a una guida o referente che fa parte di una lista, lunga ma tutt’altro che infinita, di anime di primo grado, certificate ognuna da una propria scheda immodificabile (benché, purtroppo, smarribile), che orientano e quasi dettano il comportamento, le reazioni, gli impulsi delle anime che diciamo inferiori e che, nonostante questa dipendenza, sono statutariamente libere e autonome” “Statutariamente?” “Sì, secondo lo statuto delle ipo-anime, nel senso che sono assolutamente libere di realizzare nel modo e nelle forme che preferiscono quanto è già scritto nel piano, insomma il loro destino” “E qual è il problema che ora vi assilla?” “Come le dicevo, il problema è duplice. La sua anima di rife19 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU rimento si è smarrita, se ne sa poco o nulla a parte i dati basilari: numero di catalogo, emissioni luminose e sonore, ritmo di emanazione. Lei è un’anima di secondo grado, verrebbe da dire una animula, ma per breve tempo abbiamo captato le sue emissioni (di lei come anima inferiore) riscontrando che esse erano congruenti con quanto tuttora sappiamo dell’anima superiore che abbiamo smarrito. Per usare alla lettera un’espressione molto in uso in chiave metaforica, diciamo che lei e la sua iper-anima siete sulla stessa lunghezza d’onda. Ciò significa che lei afferisce sicuramente allo schema definito e definitivo dell’anima di grado superiore che stiamo cercando. Proprio per questo è stato ricoverato in questo reparto” “Definito e definitivo?” “Sì, definitivo, almeno in teoria. Le anime di primo grado sono immodificabili nella natura e nel numero. Erano esattamente trentamila al principio dei tempi, trentamila restano e trentamila continueranno a essere salvo smarrimenti e deterioramenti. Un po’ come i neuroni al momento della nascita di ciascun essere umano: sono sempre cento miliardi, neurone più neurone meno, salvo smarrirsi progressivamente per strada. Anche l’anima superiore può guastarsi e smettere di funzionare. In questo caso deve essere messa da parte per tentare di ripararla oppure per rottamarla, cioè sopprimerla radicalmente. Questo numero di trentamila è dunque una pura astrazione perché bisogna detrarre tutte le iper-anime che non sono più in uso o perché si trovano in fase di riparazione o perché sono state rottamate. Si calcola che circa la metà degli esemplari originari siano attualmente fuori uso, e le prospettive per il futuro non sono più rosee. Calcolando un po’ ottimisticamente che metà delle anime attualmente in riparazione possano essere rimesse in piena attività (anche se, occorre aggiungere, un’anima restaurata è un’anima a rischio), il ritmo con cui vanno accumulandosi nuovi guasti e nuove rottamazioni e anche, come nel caso della sua iperanima, nuovi smarrimenti di schede, è così frenetico che si prevede, per i prossimi secoli, un ulteriore e drastico calo del numero delle iper-anime” 20 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME “Sembrano statistiche da impresa industriale o mercantile” “E un po’ lo sono. Siamo di fronte a un grande apparato produttivo” “Produttivo di che cosa?” “Non mi interrompa. Veniamo al punto. Con circa quindicimila anime in funzione, dobbiamo far fronte, come lei certamente saprà, a più di sette miliardi di esseri umani che vivono sul pianeta terra” “Perché? Vigilate anche sui viventi di altri pianeti?” “Certamente! Ma restiamo con i piedi per terra” “È una battuta?” “Forse. Qualche volta vengono anche a noi, e ne faremmo più spesso se non ci sentissimo gravati da troppi impegni” “E io ...?” “Lei ha solo il suo specifico problema, che rappresenta la classica goccia in un oceano. Dicevamo dunque che le anime in funzione si sono gravemente ridotte. Provi a dividere sette miliardi per quindicimila e vedrà quante vite, per limitarci ai cosiddetti esseri umani…” “Sono in ballo anche animali e piante?” “E come no! Ma lasciamo stare animali e piante, di cui non mi occupo personalmente e che, come le dicevo, afferiscono a un altro ordine, con un polo diviso in due distretti. Dicevo dunque che ciascun esemplare, ciascuna iper-anima, deve prendersi cura di un numero cospicuo di viventi (viventi di tipo umano o umanoide)” “Mezzo milione circa” “E come lo sa?” “Beh, anche se ho la sensazione che i numeri non siano mai stati il mio forte, dividendo sette miliardi per quindicimila otteniamo appunto un po’ meno di mezzo milione, se non sbaglio” “No, non si sbaglia. Sono quasi mezzo milione di viventi, o meglio di ‘attivi’, e un altro mezzo milione di non più attivi. Sa, con la crescita esponenziale della popolazione sulla terra, i viventi e i non più viventi (morti o defunti, se preferisce) si sono grosso modo pareggiati numericamente intorno al 2011” “E ciascuna di queste masse enormi fa capo a una sola anima di 21 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU grado superiore?” “Calma! ‘Enormi’ è una parola grossa. Tutte le megalopoli che lei conosce, da Londra a Città del Messico a Calcutta, sono molto più affollate. Mezzo milione sarà la popolazione di Firenze” “E cosa vorreste o dovreste fare per tutto questo mezzo milione di affiliati dell’anima smarrita?” “Innanzi tutto ricostruire una mappa degli affiliati, con le loro identità e le loro caratteristiche comuni, e stabilire le loro relazioni reciproche, poi riprogrammare la scheda e riattivare l’esemplare” “Siete in grado di farlo?” “Si può fare se ci sono pazienza e impegno da parte di entrambi. Non è un lavoro semplice, ma con un po’ di sedute intensive possiamo almeno tentare di stabilire se l’impresa sia fattibile” “E se si dimostra irrealizzabile?” “Allora è un’altra battaglia persa. Saremo costretti a fabbricare un altro clone, naturalmente non un clone dell’iper-anima in questione (di cui abbiamo smarrito la scheda), ma il clone di un’altra anima superiore di cui conserviamo la scheda e conosciamo i connotati” “ E in questo caso?” “In questo caso tutto il milione di vite, fra viventi e non più viventi, di cui lei, o meglio la sua anima, fa parte dovrà essere resettato sulle coordinate del clone di un’altra iper-anima e le esistenze di tutta questa massa di viventi e non viventi verranno completamente scombussolate e rischieranno di andare alla deriva. Non solo le storie in corso ma anche quelle del passato dovranno essere riscritte in ogni particolare senza violare la struttura del piano” “Il piano?” “Il piano, il destino, il disegno, il fine, il progetto, lo chiami come vuole: non sa che il piano è unico?” “No, non lo sapevo. Ma se il piano, come lei dice, è già definito, che rilevanza può avere che il nostro milione, fra viventi e non più viventi, di individui resti interconnesso allo stesso terminale?” “Eccome se ha importanza! Se non si ripesca la vostra iper-anima di pertinenza, lei e i suoi colleghi svolgerete un ruolo di appendici 22 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME di un clone, confinati ai margini del piano, per far posto agli adepti di un’altra anima non clonata. Vi ritroverete relegati ai bordi del grande flusso della vita” “Ma io che posso farci? E cosa me ne viene? Io non ricordo niente, non so se ho un corpo, anche se ne dubito sempre più, potrei perfino essere una sua fantasia, visto che di me so soltanto ciò che mi sta dicendo lei…” “Non si disperi. Non vede che sostanzialmente non soffre più, non ha più ansie, galleggia nell’oblio risanatore: non ha fame, non ha sete, non ha desideri?” “ Dovrei rallegrarmene?” “Certo! Se solo ricordasse come si è sentito qualche volta in passato, si sentirebbe sollevato” “Ma, appunto, non ricordo” “E tuttavia pian piano potrà ricordare ogni aspetto e momento della sua esistenza perduta se noi a nostra volta riusciremo a tracciare nuovamente le antiche linee-guida, il vecchio tracciato identitario della scheda perduta della sua iper-anima” “E dovrei darmi da fare per aiutarvi a riacciuffare il tracciato di una scheda?” “Sì, perché lei è parte di quel tracciato, è come un vicolo nascosto in un dedalo di strade” “Mi sembra una vera follia, il sogno di un paranoico. E poi mi sento stanco, vorrei potermi sdraiare e lasciarmi andare, scomparire completamente e per sempre” “Su, coraggio, la prima seduta è finita, possiamo spegnere tutto” “Spegnere?” “Spegnere, certamente”

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IV

“Dunque, mi diceva di Caterina…” “Non Caterina: Catarina”. “Sì, d’accordo, Catarina. E perché ha scelto Catarina?” “Non so, quando lei mi ha domandato quale nome mi venisse in mente per primo, mi è venuto questo: Catarina” “D’accordo. E mi dica, cosa ricorda di questa Catarina?” “Non so, io ricordo poco o niente, quante volte glielo devo ripetere?” “Come le è venuto in mente il nome, così potrebbe sovvenirsi di qualcos’altro relativo a Catarina. Qualche fatto, qualche scenario. E poi lei ha perso la memoria di se stesso, non del mondo circostante che ha conosciuto, a meno che lei stesso non fosse parte di uno scenario altrui” “Ma non le viene il sospetto che Catarina potrebbe essere tutta un’invenzione: un personaggio escogitato di sana pianta qui, sul momento, da me o, come a lei piace dire, dalla mia piccola anima, magari per far piacere a lei, per poter sperare in qualche eventuale vantaggio?” “Ma perché si vuol dare la zappa sui piedi? Soffre di impulsi autolesionistici? Un’iper-anima in sintonia con una sua affiliata non inventa mai, né permette che la sua sottoposta inventi a piacere a nome suo. Magari, se ha subito qualche menomazione, può ricordare male, confondere nomi e situazioni, ma inventarsi tutto proprio no” “Ne è sicuro? Come lo sa?” “Lo so e basta” “E io dovrei crederle come si crede o si credeva a un oracolo?” 25 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU “Ma perché lei continua a chiedersi se può credermi o non credermi? Non si rende conto che siamo entrambi sulla stessa barca e che solo se lei mi accorda un po’ di fiducia, magari anche solo con beneficio d’inventario, possiamo fare qualche passo avanti?” “E va bene, se proprio ci tiene proverò a dire qualcosa di Catarina. Non è che dal nome mi zampillino nella memoria immagini e fatti: sono solo inquadrature sfilacciate, colori stinti, come nelle vecchie foto di famiglia scattate un secolo fa” “Ce li faremo bastare” “D’accordo. Catarina vive nella seconda metà del secolo XVIII, nelle campagne russe, non mi domandi precisamente dove. Fa parte di una famiglia di servi della gleba o qualcosa del genere: schiavi che possono essere venduti in gruppo o singolarmente al miglior offerente, e a questo fine essere portati in piazza, al mercato cittadino, alla stregua di buoi, carri, legna, sementi. Vive in una grande fattoria dove naturalmente è alloggiata in una casa della servitù, un po’ cadente, con i muri scrostati, ma non troppo piccola anche per una famiglia numerosa. Oltre ai genitori, ci sono quattro fratelli e due sorelle. Ognuno però ha il suo letto, diversamente da altri servi nella stessa fattoria, e non hanno mai veramente sofferto la fame anche perché dietro la casa, dalla parte della roggia lambita da un fiumiciattolo che gela d’inverno ma non è mai in secca nemmeno nei mesi più caldi, c’è un orto che la famiglia coltiva in proprio. Catarina si occupa spesso di patate, fagioli, mais, zucche, zucchine, pomodori, asparagi. E accanto all’orto c’è anche un pollaio dove albergano una decina di galline e un gallo, e poi c’è un ricovero per quattro oche e due anatre e c’è una gabbia con tre conigli. In passato hanno avuto anche un maiale, che però occupava troppo spazio e dava troppo da fare e perciò, una volta utilizzato in ogni sua minima parte, non è stato rimpiazzato. E in casa stazionano anche un gatto e un cane malandato. Catarina ha sedici anni, è bionda, un po’ grassottella ma agile nei gesti e gentile d’aspetto e di modi. Catarina è tranquilla, affettuosa con i familiari e diversamente 26 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME dalle sorelle, che sono entrambe più grandi di lei, non litiga mai con la mamma e fa tutto quello che lei le dice. Si occupa anche del fratellino più piccolo, Mirko, che ha sei anni e che lei porta spesso con sé nell’orto. Lui le fa molte domande su come si piantano i fagioli e come si fa a farli crescere verso l’alto attorno a una canna e su quanto tempo ci vuole prima di poterli mangiare. Qualche volta Mirko vuol giocare con una palla che una sera d’inverno Catarina ha fabbricato per lui con alcuni stracci, un po’ di colla e dello spago e che ora è diventata troppo pesante e ha perso la bella circonferenza che aveva in principio. Catarina non si sente diversa dagli altri, e specialmente dalle sorelle, ma non sopporta che anche per lei l’amore debba essere al centro dei suoi pensieri, almeno da qualche tempo. Non ha niente in contrario rispetto al destino che, a quanto può vedere, attende tutte le ragazze, ricche e povere, libere e schiave, intelligenti e stupide. Sposare un bravo giovane, onesto e gentile, trasferirsi nella sua casa presumibilmente altrettanto ricca o modesta della propria, mettere al mondo qualche figlio (magari un po’ meno di quanto ha fatto sua madre), aiutarli a crescere e a non essere troppo infelici (si sa, la felicità non è di questo mondo) sono cose buone dietro l’angolo, promesse non esaltanti ma che rassicurano. Quello che trova detestabile e che le infonde un’ansia sottile e acuta che certe volte sembra pungerla come uno spillo è che anche lei, come ha sentito raccontare qualche volta dalle sorelle, debba soffrire del male che con se stessa chiama del ‘principe azzurro’. In tutte le fiabe in cui compaia una devushka – una ragazza, anzi, una ‘fanciulla’ – c’è immancabilmente un principe giovane e bello (e anche libero e ricco) che si porta via la sua devushka regalandole una felicità che quella non era evidentemente in grado di trovare per proprio conto. Maryuska per esempio, sempre intenta a lavare scuderie e castelli e a potare piante di giardino per ritrovare l’amato falcone lucente sotto il quale si nasconde il bellissimo principe che le sorelle invidiose e cattive, piazzando coltelli affilati sul davanzale della finestra, le hanno mutilato. 27 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU Le sue, di sorelle, non sono né invidiose né cattive, e neanche brutte – ma belle non si possono certo dire, tanto che il loro padre ha già promesso Catarina a un figlio di un suo vecchio amico che vive in una fattoria vicina mentre non è ancora riuscito a trovare un partito per le altre figlie. Però lei, come Maryuska, non fa che pensare al suo falcone lucente, e questo principe falcone si chiama Andrei, che è un bellissimo giovane, alto e armonioso, con gli occhi più azzurri del principe azzurro e i capelli biondi come i suoi, con tanto di riccioli lucenti. Ciò che le sembra una maledizione è che, a differenza di quanto accade nelle fiabe, Andrei non viene da lontano (qualche volta, aveva notato, l’autore della fiaba non diceva neppure da dove arrivasse il bel principe), ma da vicinissimo: anzi, non viene proprio, ma è lì, e lo può vedere quasi ogni giorno. Andrei è infatti il secondo figlio dei suoi padroni e abita nella grande casa sul lato opposto della corte. Lo ha conosciuto da bambina e qualche volta gli è perfino stata molto vicina, come quando la governante di Andrei insegnava a leggere e scrivere e a far di conto a lui e al fratello maggiore, in estate, sotto una grande quercia che si levava subito fuori della fattoria. Lei si era avvicinata timorosa – le era vietato avere contatti con i padroni, adulti o bambini che fossero – ma la governante, intuendo che quella timida bambina bionda doveva avere la stessa età di Andrei, l’aveva invitata ad avvicinarsi. Lei non se lo era fatto ripetere e così, nel giro di quella stessa estate, aveva imparato a leggere e a scrivere, e la governante le aveva regalato come premio per il suo zelo un libro di fiabe fra le quali compariva anche quella di Maryuska, che già sua madre le aveva raccontato, con qualche differenza di dettaglio, qualche anno prima. O come durante la Maslenitza, la settimana grassa di carnevale a principio di marzo, due o tre anni dopo, quando Andrei, in compagnia di alcuni amichetti, aveva fatto il giro, sopra una slitta, non solo della corte ma anche di alcune fattorie vicine travestito da gatto con una buffa pelliccia striata e lunghi baffi gialli (chissà perché proprio gialli?) disegnati sulla faccia. I piccoli masnadieri, che si muovevano come uno sciame di api stringendo fra le labbra stridule armoniche, 28 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME si erano avvicinati anche alla sua casa e, quando lei si era affacciata sulla porta, lui aveva alzato il braccio fingendo di volerla graffiare con i suoi artigli felini e aveva gridato “Attenti, topini! La vostra fine è vicina”, e poi le aveva dato un pizzicotto sulla natica (la sinistra, lo ricordava bene). Lei aveva riso con le guance rosse per l’eccitazione e per il freddo dell’ultima neve prima del disgelo primaverile. Ora, quando esce o entra nella fattoria con il suo calesse, e qualche volta anche montando a cavallo insieme con il fratello (deve aver imparato da poco a cavalcare), Andrei guarda sempre in direzione della sua porta di casa anche se lei resta all’interno e lo intravede solo dietro gli scuri male accostati. Da qualche mese si sente turbata. Non ha mai provato nulla di simile anche se è già stata promessa (il futuro marito lo ha visto a mala pena una volta, in una festa sui campi l’estate prima: avevano anche ballato in gruppo e lei non lo aveva trovato né bello né brutto, né simpatico né antipatico). La preoccupa il fatto di aver pensato un giorno, di Andrei: “Come potrò vivere senza di lui?”. Lei, per la verità, ha le idee chiare e non deve fare alcuno sforzo per reprimere una speranza che non l’ha neppure sfiorata. Quando si sente comprimere il diaframma alla bocca dello stomaco si dice che la pena passerà, che basta aspettare. Un tempo, fino a tre o quattro anni prima, era molto religiosa, pregava di continuo, era scrupolosissima nel seguire tutte le regole dettate dal prete del villaggio nella chiesa dove la famiglia si recava e continua a recarsi ogni domenica per le funzioni religiose e nel recitare dentro di sé tutte le preghiere che conosceva, una per una, per i vivi e per i morti, prima di addormentarsi. Anche ora invocherebbe volentieri la madonna, la Madre di Dio, che immagina molto comprensiva verso le debolezze e le fragilità degli esseri umani, ma ormai ha perduto, o almeno smarrito, la convinzione che pregare possa esserle d’aiuto. Sì, le viene occasionalmente l’impulso a farsi il segno della croce o a recitare ad alta voce qualche frase del Padre nostro o dell’Ave Maria (Raduisya, Mariya Blagodatniya! scatta allora la sua voce argentina), ma la sua mente non segue più le parole. Si sente abbandonata da queste presenze (la madonna, Gesù, i santi) che non ha mai sen29 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU tito troppo vicine ma che indubbiamente devono esserci, lì intorno, attente alle paure e alle pene di tutti e specialmente di quanti le invocano ogni giorno. Né può confidarsi con le sorelle o con la madre, e tanto meno con i fratelli, senza rischiare di essere presa in giro o addirittura schernita come una stupida. Peggio ancora, le sembra che in questa estate che alla fine d’agosto ha cominciato a declinare Andrei si diverta a rinfocolare le sue sofferenze, come se si accanisse a metterla alla prova. Già due volte, quando lei si trovava nell’orto a badare agli animali o a curare le piante, ha lasciato incustodito il calesse sul sentiero d’accesso alla fattoria e dal ciglio del piccolo campo l’ha lodata per la sua perizia nel lavoro e per la grazia – così ha detto – con cui riusciva a muoversi in uno spazio tanto ristretto senza inciampare in una papera o in una zucca. Lei ha riso di cuore a questa idea di franare a terra per così poco e lui ha riso con lei senza dire altro. La seconda volta ha perfino portato un grosso orso di pezza per Mirko, che ha guardato perplesso prima l’orso e poi Andrei e infine ha esclamato: “Ma è proprio mio per sempre?” “Per sempre” ha confermato Andrei, e a lei questo ‘per sempre’ è sembrato un cattivo presagio, l’annuncio di una sorda sofferenza che non si sarebbe dissipata nemmeno con la fine dell’estate. Nei primi giorni di novembre la famiglia di Catarina è stata venduta in blocco al proprietario di una fattoria vicina, la stessa dove lavora il suo promesso (“Non tutto il male viene per nuocere” ha commentato sua madre). Catarina cerca di incitare il padre e i fratelli a protestare o almeno a chieder conto ai padroni di questa decisione inattesa, ma sembrano tutti prigionieri di un’indolente fatalità: protestare, dicono, non solo non servirebbe a niente ma rischierebbe di ritorcersi contro tutti loro. Catarina rivede Andrei solo il giorno prima della partenza. Lo scorge da lontano mentre percorre l’ultimo tratto del sentiero verso la fattoria e per la prima volta è lei a chiamarlo. “Perché, Andrei?” gli dice soltanto. Lui la guarda furtivamente senza scendere dal calesse e con la 30 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME faccia rossa, non si sa se per l’arrivo del freddo e della neve o per la vergogna, mormora a voce bassa: “Ho provato a intercedere per voi, a parlare con mio padre, ma non c’è stato niente da fare. Io non conto niente”. E ha proseguito dando un ingiusto colpo di frusta alla cavalla. Catarina si sente mancare, le si annebbia la vista, ma non vuole che la madre si accorga del suo turbamento: rientra subito in casa e si mette a giocare con Mirko. Il giorno dopo il gruppo è intento a caricare tutte le sue modeste masserizie - i letti, il tavolo, l’armadio, le stoviglie, la cassapanca, vesti, mantelli e panni vari - sopra un carro trainato da un cavallo malconcio dato in prestito, secondo l’usanza, dal vecchio padrone. Al momento di caricare sul carro il grosso armadio tutti i componenti della famiglia, tranne Mirko e la madre, sono intenti a eseguire l’operazione con cura, senza che i singoli pezzi si stacchino (la madre, per la verità, ha consigliato di smontare l’armadio, ma il babbo ha obiettato che poi chissà se sarebbero riusciti a rimontarlo: il legno si allarga o si restringe col tempo, per via del calore o del freddo, e i tarli fanno il resto), e proprio nel momento finale, quando si tratta di issare il grosso arnese il più in alto possibile, al di sopra della spalletta del carro, la seconda sorella, che sta subito davanti a lei e che è la meno sveglia delle tre, allenta per distrazione la presa sul legno. L’armadio scivola rapido in basso e lo spigolo inferiore colpisce la tempia sinistra di Catarina. Non si ode nessun rumore, neanche il tonfo dell’armadio precipitato a terra, perché uno dei fratelli lo afferra con un salto per impedire che il mobile si abbatta con tutto il suo peso sul corpo della sorella. Catarina non emette alcun suono: si piega sul ginocchio destro tenendo una mano sulla tempia colpita e si guarda attorno meravigliandosi che alcune gocce di sangue sprizzate dalla ferita già chiazzino di un bel rosso porpora la neve appena caduta. Poi sviene. La depongono su una coperta recuperata dal carro, cercano di rianimarla sfregandole sul viso la neve fresca, mandano il fratello maggiore a chiamare il medico del villaggio. Catarina non si risve31 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU glia. Due giorni dopo, al momento del rito funebre nel piccolo cimitero di campagna comune a tre o quattro fattorie della zona, molti piangono intorno alla rustica bara di Catarina. E quando questa viene calata nella fossa molti gettano fiori e pronunciano parole d’affetto. Il prete, che ne ricorda vagamente i capelli biondi e l’indole allegra, dice che non devono piangere perché Catarina sorriderà per sempre, ma la madre della ragazza scoppia in un pianto dirotto perché sa che è una bugia per consolare chi soffre. La sua dolce Catarina non sorriderà mai più. Il cielo è crudele quanto gli uomini. Anche Andrei è lì, osservato con un misto di ostilità e di stupore dai familiari di Catarina e dagli altri contadini presenti. Non pronuncia una sola parola ma getta nella fossa una candida rosa che teneva nascosta sotto il mantello. Ehi, ma qui nessuno mi sta più a sentire? Già prima non vedevo nessuno, ma ora non mi sento neppure ascoltato. Percepisco strani fruscii, forse borbottii, come se fosse in atto un dialogo da qualche parte, a una certa distanza. Non so bene perché, ma anche i rilevatori ottici e acustici di cui mi sembrava di aver colto la presenza sembrano girare a vuoto, come quando ci si addormenta di colpo e ci si risveglia con il televisore o la radio abbandonati a se stessi. Solo che ora, ad essere andato avanti per un pezzo in automatico, sono stato io. Prigioniero in una stanza vuota, solo e abbandonato, senza sapere chi sono e perché sono qui, dovrei provare un’angoscia insostenibile, come qualche volta mi pare di aver provato in passato, con una fitta acuta che parte dal diaframma e s’irradia per tutti gli arti fino alle caviglie e ai polsi, e invece niente, o quasi niente. Resta il vago disagio di quando ero ancora nel corridoio con la fila di letti ma, addirittura, ancora più attutito. Non sento angoscia, anzi non sento quasi niente di niente perché non ho più un corpo, e per gioire o patire ci vogliono nervi, muscoli, un cervello reattivo. Potrei essere un’anima, ma mi pare di ricordare di essermi ampiamente convinto, 32 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME nella mia vita pregressa, che non può esistere un’anima senza un cervello in attività e senza la partecipazione di tutto il corpo. Mi vogliono smentire? E qualunque cosa io sia in questo momento, quali margini d’azione mi restano al di là di questo rimuginare su me stesso e sul luogo in cui mi trovo? Ecco, una cosa la percepisco distintamente: sono nuovamente stanco di parole e di pensieri, ridotto in questa condizione è meglio scomparire definitivamente, svanire come dentro un gorgo di acqua tiepida lontano dalla spiaggia, scendere sul fondo del mare e anche sotto il fondo sino al fondo di ogni fondo, per sempre.

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V

“Allora, si sente ristorato, rinvigorito?” “Mi sento un po’ meglio, ma non troppo” La voce stereofonica è tornata nella stanza vuota, ma ora si accompagna a un volto, letteralmente a un volto dal momento che scorgo solo una faccia - un po’ più grande del normale, pacata, autorevole, appartenente a un cinquantenne o poco più, con sopraccigli molto folti e neri (se li tinge?) e occhi molto scuri – che sovrasta un corpo massiccio completamente avvolto in una lunga e larga veste: tanto per cambiare, bianca. Con che cosa sia stato fabbricato il faccione non so, che sia fatto di carne ed ossa mi sembra l’ipotesi meno probabile. Un ologramma? Me ne intendo poco, ma chissà. “Sì, sono un ologramma” “Mi legge nel pensiero?” “Naturalmente!” “Ma se è così vorrebbe essere così gentile da spiegarmi la ragione di queste conversazioni vocali?” “Una conversazione attraverso la sola via neuronale, telepatica insomma, fallirebbe ben presto. Il ritmo della voce, le inflessioni, le pause non sono riproducibili mentalmente in misura adeguata e viene meno l’impatto retrospettivo della voce umana, quel feed-back o effetto di ritorno che essa produce sui neuroni del parlante. Ma queste sono cose alquanto complicate e in via di continuo aggiornamento. Non so se lei ha il grado di competenze necessario per afferrare questo tipo di concetti neurolinguistici” “Non lo so neanch’io. Come ricorderà, io non ricordo” “Però ha ricordato per filo e per segno la storia di Catarina. Interessante! Non ne sapevamo niente” 35 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU “ E se aveste conosciuto la storia?” “Niente, non avremmo fatto niente, avremmo lasciato la ragazza al suo destino” “Perché, quello era il suo destino? E che razza di destino era mai?” “Il destino di un’infinita serie di creature anodine che attraversano un breve tratto di quella che non a caso è stata definita una valle di lacrime” “Anodine? Mi pare di ricordare che si tratta di uno di quei vocaboli rari a cui si ricorre per assumere un atteggiamento di superiorità. Ma so cosa significa ‘anodino’: non si tratta del suo valore etimologico, che rimanda al dolore, ma di un significato d’uso, e cioè ‘insignificante’, senza rilievo’” “Appunto” “E per voi un essere umano a cui non viene concesso neppure uno spiraglio di felicità, uno sprazzo di luce, è insignificante?” “Non ne siamo noi i responsabili: ci limitiamo a controllare, a supervisionare” “E la storia di Catarina vi è servita per i vostri controlli?” “Lo speriamo. Per ora abbiamo solo registrato, poi esamineremo l’ombra” “L’ombra?” “L’ombra, l’impronta, la traccia. Ogni storia è fatta di eventi tradotti in parole, o di parole che progettano eventi, ma lascia un’ombra che può e, nel nostro caso, deve essere comparata con altre ombre tratte da altre storie, ed è proprio la sovrapposizione fra queste ombre o disegni che rappresenta uno dei modi - non l’unico, ma a nostro giudizio uno dei più efficaci - per ricostruire la mappa della scheda smarrita” “Partendo dalle mie storie?” “Le sue o di altri non fa differenza, ma tenga conto che, come le dicevo, su di lei abbiamo, per via delle emissioni di cui le parlavo ieri, una serie di dati estremamente preziosi di cui non disponiamo per altre anime. Nonostante l’affiliazione di circa trentamila anime 36 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ANIME a uno stesso ceppo o famiglia è solo in casi assolutamente sporadici che ci è capitato di captare con i nostri rilevatori i segnali di una di queste anime nel momento in cui era sintonizzata con la sua iper-anima di riferimento. In diversi casi la registrazione è risultata tecnicamente imperfetta, in un’altra decina il soggetto non ha collaborato oppure ha collaborato a stento e lacunosamente” “Siete ridotti proprio male se dovete affidarvi a me” “Non proprio. Innanzi tutto, altre emissioni potrebbero essere captate in futuro, e poi lei non è il peggior soggetto che ci poteva capitare. Oddio, neppure fra i migliori se non altro per la sua evidentemente inguaribile tendenza a interrompere, divagare, puntualizzare affaticando oltre misura il suo interlocutore, che poi sarei io. Ma il nostro reparto di controllori, insomma i tre con cui ha avuto a che fare prima che con me, l’hanno giudicata, dopo gli esami di rito, un soggetto promettente. E dunque...” “E dunque eccomi qua anche perché non mi pare di avere alternative” “Bravo! Oltre alla sovrapposizione fra le ombre delle storie e oltre alla loro mappatura è essenziale la successione, la serie. Bisogna che, come l’ho persuasa a fare nel caso di Catarina, lei continui a concentrarsi creando un totale silenzio nella sua mente e subito dopo pronunci il primo nome che le affiora alla coscienza senza retropensieri e senza reticenze. Lo so, sembra infantile, un gioco di libere associazioni (che appunto perché spontanee sono quanto di meno libero si possa immaginare), ma l’importante è che questo gioco funzioni davvero. Dunque, Catarina. E poi?” “Elpenore” “Elpenore? Un greco? Ma non è un personaggio dell’Odissea di Omero?” “È una controindicazione che si tratti di un personaggio letterario?” “No, non credo, e comunque l’ordine che affiora liberamente è irreversibile e irrinunciabile, e se vi si contravviene tutto il procedimento va a scatafascio. Il fatto che le sia venuto a mente questo 37 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU nome può significare soltanto che questo personaggio, pur facendo parte della letteratura, era in origine un personaggio reale di una storia reale a cui la letteratura, che nel caso specifico è rappresentata dal sommo Omero, si è in qualche misura ispirata ...” “Ah, la storia del ritorno di Odisseo dalla guerra di Troia è dunque una storia reale? Credevo di trattasse di una fantasia, di una libera invenzione?” “Non interamente, e che lei abbia tirato fuori d’impulso proprio questo nome è una prova, o almeno un serio indizio, che si tratta di una storia vera” “Se lo dice lei. E magari avete risolto anche la vecchia questione omerica, quella che, mi pare, si studia ancora sui manuali delle scuole?” “E come no? La risposta è molto semplice: Iliade e Odissea sono state prodotte da una ventina di rapsodi, che però lavoravano di concerto ed erano affiliati in blocco alla stessa iper-anima: una coincidenza che ha del miracoloso se lei considera che la distribuzione delle anime è, in termini geografici, assolutamente casuale, e dunque la concentrazione entro una stessa area di affiliati alla stessa casa madre è una circostanza assolutamente infrequente. Ma, per tornare alla sua domanda, ora sappiamo che hanno tutti ragione: quelli che nei manuali vengono chiamati ‘analitici’ e quelli che sono detti ‘unitari’” “Un punto di vista davvero innovativo. Complimenti!”

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VI

A Elpenore piaceva il mare, piacevano le navi, grandi e piccole, ma soprattutto piaceva remare. E gli piaceva anche perché a remare era il più bravo di tutti: per la forza delle braccia, per la sicurezza nell’afferrare il remo, per la perfetta sincronia dei movimenti sullo scalmo. Anche se remare era molto faticoso, Elpenore l’aveva sempre trovato esaltante: udire il colpo del remo sull’acqua, seguire cantando con i compagni il segnale del capovoga, puntare verso un’isola o un promontorio o una costa piatta e lunga, manovrare per fermare la nave all’ancora o per legarla con le cime a un molo. Invece non gli piaceva la guerra. Non aveva neppure mai giocato con i coetanei alle armi, né da bambino aveva mai chiesto in dono una spada o una lancia o un piccolo scudo. Certo, andò a Troia, alla famosa guerra di Troia, e vide il fumo degli incendi appiccati alle case e ai templi dai suoi compagni balzati fuori dal grande cavallo di legno. Ma di quei lunghi anni gli restava ben poco nella mente. Era partito con un sotterfugio, raggirando un po’ tutti. Quando, nel porto di Itaca, aveva udito da un amico della spedizione imminente, era andato a supplicare gli aiutanti del grande capo, il paziente Odisseo, perché lo convincessero ad arruolarlo, e aveva provato a smuovere anche suo padre Leonte, che era uno dei più bravi pescatori dell’isola, perché lo aiutasse a realizzare il suo sogno. Della guerra contro la grande città oltremare non gli importava, ma aveva sentito parlare di un lungo viaggio fin sulle coste dell’Asia, in terre rigogliose di vegetazione e ricche di ogni genere di prodotti e di merci, e i suoi sogni erano popolati da visioni di grotte marine, vele quadrate da issare o ammainare, sbarchi e ripartenze per rifornirsi di cibo. Ma l’immancabile risposta – del padre e degli aiutanti del re 39 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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