Attimi paralleli. Una storia a due voci

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A Tu per Tu

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Antonio Di Giovanni - Carmela Ferrara

Attimi paralleli Una storia a due voci

“Non dire che vuoi amare: Ama. Se anche durasse un solo istante.”

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Prima Edizione: 2013 Prima ristampa: Agosto 2013 ISBN 9788898037209 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Marzo 2013 in Italia da Atena.net Srl - Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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Indice

I Parte 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 8. 9. 10. 11. 12. 13. 14.

7

L’incontro (Alex) L’incontro (Loreley) L’ospedale L’ospedale L’appuntamento mancato L’appuntamento mancato Il ricordo Il ricordo La Domanda La Domanda L’attesa L’attesa L’appuntamento L’appuntamento

II Parte

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15. L’amore (capitolo singolo) 16. Il risveglio 17. Il risveglio 18. La telefonata 19. La telefonata 20. La cena 21. La cena 22. Le paure

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23. Le paure 24. L’imprevisto 25. L’imprevisto 26. L’assenza 27. L’assenza 28. La sentenza 29. La sentenza 30. Attimi 31. Attimi 32. La speranza 33. La speranza

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III Parte

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34. L’epilogo 35. L’epilogo 36. Alex e Loreley (capitolo singolo)

201 205 209

Questo romanzo è opera di fantasia. Ogni riferimento a persone, luoghi e fatti realmente accaduti è puramente casuale.

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I PARTE

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Capitolo 1 L’incontro

“Il prossimo treno partirà alle ore 21,00” L’altoparlante della stazione, inesorabile, sancì la condanna, provocandomi una fitta di sconforto. Serrate le porte e lanciato un fischio il treno sferragliò davanti ai miei occhi. Ero arrivato di corsa alla stazione della ferrovia Roma-Lido nella speranza di riuscire a prendere il convoglio delle 20.30. Lavorare al centro di Roma non mi dava altra alternativa che viaggiare con il trasporto pubblico. Per evitare il traffico, avevo fatto di quei vagoni i compagni della mia vita. Mi spostavo ormai secondo uno schema ben preciso, nel quale riuscivo a coniugare spericolati tragitti alternativi a una discreta velocità di movimenti. In lontananza vidi il profilo distante di quello che doveva essere il mio treno e seguii rassegnato con lo sguardo, per alcuni istanti, la linea dei vagoni azzurri che, come una scia di spuma marina, sfumò, lasciandomi con un’espressione di rammarico. La solita banchina dai colori ormai sbiaditi e lavati dal tempo, riaccesi a tratti soltanto dal passaggio dei writers, accoglieva i miei passi. Mi rassegnai ad aspettare il treno delle 21.00. Il lavoro in tribunale quel giorno era stato faticoso: tre processi, tutti particolarmente complicati, mi avevano sopraffatto. Lo sfinimento ormai faceva presa su di me. Quando finalmente salii sul treno, non mi accorsi nemmeno di chi avessi intorno. Allentai il nodo della cravatta per prendere un po’ di respiro e sedetti, sfinito. Stavo chiudendo gli occhi per la stanchezza, quando la folata di un profumo intrigante ridestò i miei 9 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU

sensi. Alzai la testa e ciò che vidi imprigionò il mio sguardo. Una donna di un’insolita bellezza sedeva davanti a me ed a quell’ora, su quelle vetture frequentate da pendolari sonnecchianti e senzatetto per lo più ubriachi e maleodoranti, il suo viso mi apparve come uno strappo nel cielo azzurro di carta. Distolsi lo sguardo rapidamente, affinché non mi scambiasse per il solito maschio in cerca di avventure. Cercai invano un altro orizzonte, ma mi accorsi ben presto di non resistere, nemmeno per pochi attimi, a poggiare la mia vista su quegli occhi dallo sguardo profondo, custodi di un fascino irresistibile. Una donna con dei tratti così armoniosi era consapevole di non passare inosservata. La sua delicata bellezza e il suo fisico sottile mi avevano catturato. Cominciai ad immaginare un approccio, ma stranamente quella sera, sia per la stanchezza, che per la tenerezza del suo volto, l’idea si disciolse come sale nell’acqua. I miei pensieri invece, imitando il librarsi dei gabbiani, iniziarono a fantasticare, pregustando l’intimità di una cena insieme a lei e di un dopo-cena ancora più interessante. La sola idea di possedere una donna cosi incantevole mi eccitò. Fingevo, maldestramente, un’indifferenza che l’ingenuità di un bambino avrebbe potuto smascherare. Mentre pensavo di assumere un atteggiamento dignitoso, un’improvvisa accelerazione del treno fece sì che il mio ginocchio, seppur impercettibilmente, urtasse la sua gamba tenuta accavallata con discreta eleganza a pochi millimetri da me. Mi affrettai a scusarmi e mi resi conto che fu più che altro per ascoltare nella risposta il suono delle sue parole, che suadentemente non tardarono ad arrivare. Quasi involontariamente intrattenemmo una piacevole conversazione. Rapito dall’emozione, cercavo attraverso i finestrini completamente opachi e fatiscenti, di capire fin dove il treno fosse arrivato, per non rischiare che lei scendesse o che io arrivassi alla mia fermata, senza averle lasciato una traccia che potesse creare le condizioni di un futuro incontro. Ormai ero abituato a muovermi in una succes10 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ATTIMI PARALLELI

sione di istanti così stretti nel conquistare una donna, che mi facevo beffe della tirannia del tempo. Mi venne in mente Carla, alla quale qualche anno prima avevo scritto velocemente il numero di cellulare sul braccio mentre da lontano il fidanzato sopraggiungeva al loro appuntamento. Lei aveva sorriso e, mentre si accingeva a salire nell’auto dell’ignaro compagno, non potendo parlare, si era limitata ad un malizioso occhietto. Mi aveva chiamato qualche giorno dopo: la nostra era stata una storia breve, ma di profonda emozione. Ci eravamo frequentati per qualche mese, poi lei si era sposata e non l’avevo vista più. Mancavano solo due fermate alla mia e la donna che avevo di fronte, che continuava a parlare, non faceva il benché minimo riferimento a quale fosse la sua. Immersi nei sedili uno di fronte all’altro continuavamo a conversare del più e del meno, il che non agevolava la possibilità per me di lasciarle un recapito telefonico. Poi all’improvviso si scusò, affermando di dover scendere alla stazione successiva, la stessa dove sarei dovuto scendere anch’io. Sorrisi e respirai profondamente, per trattenere la soddisfazione ed evitare che la stessa si traducesse sul mio volto in una espressione di trionfo, palesandosi ai suoi occhi. Scendemmo insieme, evitando entrambi di incrociare gli sguardi, consci del fatto che ci facesse piacere essere stati legati da quell’insolito colpo di fortuna. Nel congedarci ci stringemmo le mani che però tardarono a separarsi, quasi a testimoniare un sottile piacere nel rimanere ancora in contatto, avvolte da un impercettibile calore. Ancora un’ incertezza, un ulteriore secondo... poi il distacco, accompagnato dalla voce di lei che in maniera sommessa disse: - Allora spero di rivederla, visto che abitiamo entrambi ad Ostia. Fui totalmente assorbito dal suono della sua voce che a stento riuscii a comprendere il significato di ciò che mi aveva appena detto, come lo spettatore di un film muto che vede muovere solo le labbra. - Certo - risposi, ma non volendo rischiare di essere in balìa di un destino che poteva divertirsi alle mie spalle e non farmela incontrare nuovamente, le dissi che l’indomani sarei stato lì, alle cinque del 11 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU

pomeriggio, e che mi avrebbe fatto piacere prendere un caffè con lei, che accettò l’invito. Mentre si apprestava ad andar via, i suoi occhi si screziarono magicamente d’oro. La salutai, ricambiandole il sorriso. Camminando lentamente verso casa, pensavo a quante volte avevo tenuto lo stesso comportamento. Ormai era il classico rituale, un modus operandi. Mi chiedevo spesso cosa fossi diventato, quali erano i risultati di quel percorso fatto per anni attraverso le tante donne che avevo conosciuto. Lo riconoscevo, è vero, la mia vanità era aumentata giorno dopo giorno. La cura che avevo di me era maniacale. Curavo ogni minimo particolare: un atteggiamento che, protratto nel tempo, era diventato uno stile di vita, con movimenti e abitudini che erano divenuti gesti automatici. Tutte le mattine, in quello che io consideravo il tempio inviolabile della mia vanità, che per molti era semplicemente il bagno, compivo un vero e proprio cerimoniale, che per alcuni aspetti assumeva anche una certa sacralità. Dalla doccia alla sistemazione dei capelli, dal profumo alla scelta del vestito che, in perfetta sintonia, terminava con la perfezione millimetrica del nodo alla cravatta, calata nell’abbigliamento e miscelata dolcemente alle tinte, come i sapori del piatto più prelibato di uno chef. Immerso nelle mie minuziose elaborazioni continuai a camminare nella direzione della mia autovettura cercando, con un certo nervosismo, le chiavi dentro la valigetta, che dopo qualche istante di affannosa ricerca spuntarono miracolosamente nelle mie mani. Presi il telefonino e, prima di raggiungere l’auto, telefonai alla mia ex moglie per rassicurarla sull’insolito ritardo, visto che dovevo prendere mia figlia Giada e portarla con me per una breve sosta dai nonni. Eravamo separati ormai da alcuni anni, ma fondamentalmente rimasti sempre vicini. Il nostro era un rapporto fatto di rispetto e di collaborazione. Pensavo a quella donna del treno, ancora prepotentemente impressa nella mia mente e continuavo a camminare sul ciglio della strada, fantasticando sul giorno successivo e sul quel caffè che mi 12 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ATTIMI PARALLELI

avrebbe dato l’opportunità di rivederla. Ma il destino in quell’istante si prese gioco di me. Immerso nei pensieri attraversai la strada senza la minima attenzione. Non mi resi conto di nulla: un bagliore, lo stridio di gomme sull’asfalto, un dolore acuto. Poi il silenzio.

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Capitolo 2 L’incontro

Viale dell’Aventino era stranamente gremito di gente, la musica ad alto volume si diffondeva da alcuni pub e le auto rimanevano imbottigliate lì dove i lavori per il rifacimento dell’arteria cittadina creavano un imbuto. Un dettaglio, foto-tessera di un delirio urbano, immagini sfocate, pezzi di vita altrui che non mi incuriosivano più. Speravo di non far tardi anche quella sera e finire col perdere il treno delle 20.30 che mi avrebbe riportata ad Ostia. Ero così stanca che l’idea di aspettare il successivo mi infastidiva. Frugai nella borsa alla ricerca del pacchetto di sigarette. Non feci in tempo a prendere l’accendino che un tizio mi si parò davanti con un sorriso e una fiammella accesa. Ci ero abituata e pur ricambiando il sorriso per il gesto galante, lasciai che mi accendesse la sigaretta e proseguii per la mia strada senza raccogliere l’avance. Gli uomini sono sempre gentili quando ti vogliono conquistare. Indossano maschere dorate ed elmi di carta e pronunciano le esatte parole che vorresti sentire. Anche Federico aveva fatto così, qualche anno prima. La sua maschera, però, ben presto era caduta ed era rimasto il volto vero che, delusa, non avevo voluto più guardare. Mi ero chiesta tante volte se fossi stata io a sbagliare in quella storia oscillante, che mi aveva donato attimi di intensa felicità e giorni di vuoti incolmabili. Troppe volte gliene avevo parlato chiedendo pari dignità e ricevendo in cambio la glaciale indifferenza di un uomo che spariva per giorni e giorni, lasciandomi sola senza un perché. L’amore non è un appuntamento di due ore tra un impegno e l’altro, seguito da silenzi che inaridiscono l’anima. L’amore è condi15 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU

visione, rispetto, stima, attenzioni, fiducia. È accettare l’altro nella sua totalità amandone anche i difetti perché fanno parte della sua natura, è la rinuncia che non pesa e che diventa gioia, quando sai che produce gioia. Non è solo un articolo spostato, c’è una grande differenza tra “il volere bene” e “volere il bene” di chi ti sta accanto. Federico non voleva il bene di chi gli stava accanto. Lui voleva una donna telecomandata, pronta ad accettare qualsiasi cosa, una bambola da mostrare a se stesso con orgoglio, una femmina con la quale trascorrere momenti piacevoli quando ne aveva desiderio. La storia era andata avanti così per mesi, senza che io avessi il coraggio di impormi, e ogni qualvolta un timido tentativo riusciva a superare quel terrore che avevo di perderlo, lui reagiva pesantemente. Il nostro rapporto si era concluso in un freddo pomeriggio di dicembre, grigio come le nuvole che sovrastavano la città. Eravamo in un bar di piazza del Popolo, quello che era successo era ancora nitido nei miei ricordi: l’arrivo, il caffé, la sua espressione seccata, il solito rimprovero per averlo distolto dagli impegni importanti che aveva. Quella volta però non ci avevo badato e le parole mi erano uscite tutte d’un fiato come spinte da una forza irrefrenabile. Con lo sguardo fisso e le nocche serrate gli avevo detto che per lui sarei stata disposta a qualsiasi cosa, tranne che a rinunciare alla mia dignità e, sebbene lo amassi, non mi sarei più accontentata di un uomo a metà, così attorcigliato intorno a se stesso da non riuscire a vedere gli altri. Ciò che Federico aveva risposto mi aveva colpita come una frusta: “Sei una donna stupida che vive nel mondo dei sogni. Credi che sia disposto a cambiare la mia vita per te? Se non ti sta bene vai pure a cercarti il principe azzurro”. Lo avevo guardato, mi ero alzata ed ero andata via, senza una parola e senza voltarmi indietro. Ai brutti ricordi del passato si aggiunse la delusione del presente: arrivata alla stazione di Piramide vidi il maledetto treno delle 20.30 che si allontanava. Non mi rimaneva che prendere quello delle 21.00. Avevo un po’ di timore. Quella stazione, di sera, era un mix di ubriachi e barboni, ma ormai ero lì e presi posto su di un sedile del 16 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ATTIMI PARALLELI

treno che sostava in attesa della partenza, nella speranza che accanto a me si sedesse qualcuno, almeno apparentemente, affidabile. Ciò che mi colpì, considerato il tipo di pendolari presenti a quell’ora, fu vedere entrare nel vagone un uomo vestito elegantemente, che si dirigeva in maniera distratta verso di me. Dai suoi movimenti traspariva un filo di stanchezza, lo notai dal modo in cui allentò il nodo della cravatta. Quel gesto, che gli diede un’aria ancora più attraente, mi fece notare, al suo polso, un bellissimo orologio dalla forma insolita: il quadrante era a forma di V, dai cui lati partivano delle alette di acciaio che si collegavano al cinturino. Ero seduta in fondo al vagone, in uno di quei posti dove i sedili sono solo quattro, messi due di fronte all’altro e quell’uomo occupò proprio il sedile opposto al mio, a pochi centimetri da me. Il suo sguardo ogni tanto mi sfiorava, faceva di tutto per fingere che la cosa fosse casuale ma era evidente che stesse cercando una scusa per rivolgermi la parola. “Il solito maschio in cerca di avventure” pensai. Ero abituata agli sguardi fugaci e maliziosi, spesso fin troppo spudorati, che ricevevo da gran parte del genere maschile ed ero arrivata al punto di tollerarli con un senso di totale indifferenza, eppure quella sera facevo fatica a schivare i suoi occhi azzurri, che mi attraevano come magneti. Un’accelerazione improvvisa del convoglio gli fece urtare la gamba contro la mia, fu pronto a scusarsi ed io, senza riuscire a spiegarmi il perché, fui contenta di sentire la sua voce. Iniziammo così una conversazione per lo più banale, ma tutto sommato piacevole dopo una giornata di lavoro. Il suo modo di parlare, guardandomi dritta negli occhi, mi colpì creandomi un certo senso di disagio. Era come se volesse leggere dentro di me per scoprire riflessioni recondite e questo m’infastidiva, facendomi sentire esposta. Ero sempre stata gelosa dei miei pensieri, poco incline ad aprirmi agli altri e a raccontarmi. Cercavo in tutti i modi di evitare quello sguardo indagatore, ma allo stesso tempo provavo un nuovo piacere ogni qualvolta lo sentivo 17 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU

posarsi su di me. Era senza dubbio un bell’uomo, ma di solito non era la bellezza che mi attraeva. Cercavo in un uomo soprattutto l’arricchimento intellettuale, la possibilità di condividere qualcosa che andasse oltre la fisicità. Non avevo mai avuto avventure “mordi e fuggi”, non perché avessi un pregiudizio di ordine morale, anzi invidiavo terribilmente le donne che erano capaci di portarsi a letto un uomo per una notte e poi salutarlo per non vederlo mai più. Non mi era capitato perché mai sarei stata capace di provare attrazione fisica se questa non fosse stata accompagnata anche da un’intesa cerebrale, seppure ai minimi livelli. L’uomo che avevo davanti mi aveva incuriosita da subito per il suo aspetto, mentre lo ascoltavo mi attraevano anche le sue parole e il modo in cui le pronunciava. Ebbi l’incomprensibile percezione che non fosse uno di quei banali damerini vuoti e inconsistenti, allo stesso tempo il suo abbigliamento e i suoi gesti mi misero sulla difensiva. Tutto in lui faceva trasparire l’idea di un Don Giovanni spavaldo e troppo sicuro di sé. In prossimità della stazione Lido-Centro interruppi di colpo la piacevole chiacchierata e mi scusai dicendo di dover scendere. Anche lui si alzò, il velato sorriso di compiacimento, che cercava di nascondere, mi fece capire che scendevamo alla stessa fermata. Quella strana coincidenza mi provocò un inaspettato piacere. Percorremmo insieme i pochi metri che ci separavano dall’uscita e prima di salutarci mi strinse la mano, trattenendola più del dovuto nella sua e producendo un leggero fremito che mi attraversò la schiena come uno zefiro leggero. Parlai quasi automaticamente: - Allora spero di incontrarla di nuovo, visto che abitiamo entrambi ad Ostia. Un secondo dopo mi ero già pentita di aver pronunciato quella frase. - Certo - rispose lui e non compresi se il volto gli si illuminò solo perché stavamo passando sotto un lampione. Concordammo che ci saremmo rivisti il giorno successivo, alle 18 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ATTIMI PARALLELI

17.00, a quella stessa fermata del treno per prendere un caffé insieme. Confusa ed irritata, mi incamminai verso casa sforzandomi di pensare ad altro. Ripassai mentalmente gli orari e i turni che avrei dovuto fare in ospedale nei giorni successivi, fiduciosa che la passione per il mio lavoro di medico mi avrebbe aiutato a rimuovere fantasie imprudenti. Sebbene mi sentissi soddisfatta a livello di coscienza per essere riuscita nell’intento, non avevo fatto i conti con la parte di me più profonda e meccanicamente portai al viso la mano che, pochi minuti prima, era stata a contatto con quella dell’uomo che avevo appena salutato. La leggera fragranza del suo profumo, rimasta sulla mia pelle, mi arrivò alle narici provocando un senso di piacere e facendomi sentire ancora più sciocca di quanto lo fossi stata pochi istanti prima, quando avevo accettato di rivederlo.

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Capitolo 3 L’ospedale

Le palpebre stentavano ad aprirsi. Tentai più di una volta, le sentivo secche per il sangue che vi si era raggrumato. Ci riuscii e scorsi, in maniera piuttosto sfocata, due figure che ai miei occhi apparivano come ombre. Sentivo la loro voce in lontananza e pensai di avere i timpani rotti, poi mi accorsi ben presto che non erano così vicine. Il tono della voce delle infermiere era rispettosamente basso. Quando si accorsero che avevo cominciato a muovermi, seppur impercettibilmente, una delle due si avvicinò dolcemente a me, dicendomi in tono rassicurante: - Va tutto bene, stia tranquillo, cerchi di non muoversi troppo. Compresi subito quanto fosse superflua quella raccomandazione: il minimo spostamento produceva in me dolori lancinanti. Mi guardai intorno, le pareti erano di un tenue grigio, intervallato da piccoli inserti di colore bianco. “Sono in ospedale… ma che ci faccio qui, cosa mi è successo?” pensai. Il dolore diffuso rallentava i pensieri, facevo fatica a ricordare, a rimettere insieme gli ultimi istanti che avevano preceduto quel malessere insopportabile. Mi parve di gridare, poi non sentii più nulla. L’inserimento di un ago nel braccio mi riportò alla coscienza, probabilmente ero svenuto. Inclinai leggermente la testa, tanto da poter scorgere una figura paffuta con i capelli neri raccolti sulla testa come una star di altri tempi, vestita di azzurro e con un sorriso di cortesia che mal celava la stanchezza dei suoi occhi. Mi stava iniettando qualcosa. La calma e la tranquillità ritrovata mi fecero capire di essere sotto l’effetto combinato di sedativi e antidolorifici. 21 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


A TU PER TU

Sprofondai in un sonno che durò parecchie ore. Quando aprii gli occhi provai l’insopportabile sensazione di chi non sa cosa potrebbe accadere nei minuti successivi. L’immagine che avevo di fronte, sbiadita probabilmente per l’effetto dei sedativi, era quella di Daniela. Il suo viso appariva tirato e mostrava evidenti segni della preoccupazione. Daniela era la mia ex-moglie, ma non gradivo chiamarla ex, quel termine mi infastidiva. Nonostante tutto e nonostante il suo dispiacere nel vedermi in quelle condizioni, la sua bellezza era rimasta inalterata, come a dimostrare di essere impermeabile ai tratti che le afflizioni e le sofferenze scavano sul nostro volto. Era una bellezza mediterranea, dai capelli mori, con gli occhi profondi della gente del sud, neri, come quel mare che spesso non restituisce i pescatori alle loro famiglie. La carnagione bronzea ricopriva una figura esile e perfetta, in contrasto con la forza di quelle donne matronali della sua terra. Vederla mi riempì di gioia, ma non scorgere mia figlia destò in me una seria inquietudine. Lei sembrò leggermi negli occhi e le sue prime parole furono utilizzate per rassicurarmi: - Giada è fuori dalla stanza, non può entrare perché sei in terapia intensiva. Quella frase arrivò su di me come uno schiaffo. “Terapia intensiva! Sono proprio messo male!” pensai. Volevo saperne di più e, consapevole delle mie condizioni fisiche, temevo di dovermi preparare al peggio. Improvvisamente anche i dolori sembrarono riaffacciarsi. Appresi da quello che mi disse Daniela, che in mattinata mi avrebbero portato in sala operatoria. Sentii la sua mano stringere la mia e riflettei su quante volte ero sfuggito a quella stretta, preso dai problemi quotidiani e, soprattutto, a quante volte mi ero sottratto ai suoi abbracci per avere tempo in più. In quel momento il calore di quel contatto sembrava la cosa più preziosa che avessi, tanto che stentai a separarmene, come fa un bimbo quando ha paura. Lei si voltò in direzione del primario, che 22 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


ATTIMI PARALLELI

proprio in quell’istante muoveva nella nostra direzione. Era un uomo dalla figura ben delineata, con un viso che, seppur reduce da un evidente abbronzatura tropicale, manteneva inalterato il piglio accademico. Benché ogni minimo movimento del corpo provocasse un dolore insopportabile, cercai, con una leggera inclinazione della testa, di riuscire a carpire qualche parola tra quelle che dovevano essere il verdetto sulle mie condizioni. Potevo comprendere qualcosa dalle figure di entrambi, l’una di fronte all’altro, solamente dai movimenti e dalle espressioni. L’ultima su tutte, racchiuse la risposta alla mie domande. Vidi mia moglie chiudersi nelle spalle, che sembrarono inghiottire il suo profilo preoccupato, mentre il dottore, con un atteggiamento professionale, si toglieva dalla testa la cuffia di colore verde, tipica della sala operatoria, abbassando lo sguardo in segno di rispetto per l’altrui sofferenza. Capii in quell’istante la gravità delle mie condizioni e, mentre il primario, aprendo le porte del reparto, allontanava Daniela da me, scorsi in lontananza sul corridoio Giada, che con un sorriso, mimò il gesto di lanciarmi un bacio. Mia moglie, ferma sulla soglia, si accorse di nostra figlia: notò i nostri sguardi incrociarsi come in un frammento di pellicola, dove l’istante svanisce e l’immagine rimane impressa nella mente. Giada corse verso di me, sfuggendo alle mani di mio padre, per un carezza prima dell’intervento. Si accostò al mio viso e nell’asciugare con le dita l’unica lacrima rimasta imbrigliata nelle mie ciglia, posò un delicato bacio sulla guancia. Non parlai, nessun verbo, solo un atroce e profondo dolore accompagnò il mio lento lacrimare. Pensavo a Daniela, alla mia bambina, alla mia vita. Loro erano me ed io ero loro, nonostante la nostra situazione. L’anestesista si avvicinò, ponendomi le domande per le procedure di rito. Sembrava una ragazzina e la sua faccetta lentigginosa ne accentuava l’aspetto. Indossava sulla testa, al posto del solito copricapo verde, una cuffietta con piccole raffigurazioni floreali, sicuramente non convenzionale. Dietro ad essa, in maniera goffa, cercava 23 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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di nascondersi l’infermiera paffutella conosciuta in precedenza. La vidi ferma con un’altra siringa pronta nella mano. Chiusi gli occhi. Il cigolare delle ruote del lettino con il quale il portantino mi stava trasportando in sala operatoria, mi ridestò. In un simpatico dialetto romanesco disse: - A dottò nun te preoccupà, tra un po’ è tutto finito e te vengo a riprenne. Era un uomo sulla cinquantina, con il camice abbondantemente sbottonato sul torace, dal quale pendeva una catenina d’oro con un crocefisso così grande da potersi vedere anche a diversi metri di distanza. Le luci scorrevano sulla mia testa velocemente, come le auto che sfrecciano sull’autostrada, tutte uguali, tutte sullo stesso rettilineo. Non facevo caso a ciò che l’energumeno diceva e, in quei pochi istanti che mi dividevano dalla sala operatoria, alcuni momenti della mia vita riaffiorarono, a testimoniare un’esistenza spesa all’insegna di una continua improvvisazione. Il tempo per le considerazioni era breve ma il mio cervello, in maniera automatica, sfornava situazioni della vita passata che in un modo o nell’altro avevano contribuito a farmi crescere. I miei genitori non mi avevano fatto mancare nulla, ma ciò che ricordavo meglio, oltre al loro bene incondizionato, erano i continui sermoni di mia madre e i rimproveri di mio padre per non aver mai voluto mettere la testa a posto. Non avevano in nessun modo voluto perdonarmi la separazione da Daniela. Nonostante fossi diventato uno stimato avvocato e titolare di uno studio ben avviato, la loro più grande preoccupazione rimaneva il mio stile di vita perennemente disordinato e spregiudicato. Avevo avuto molte donne, ognuna diversa e ognuna portatrice di conoscenze e di esperienze. Il fatto di averle considerate una fonte inesauribile di apprendimento aveva finito col proiettarmi costantemente alla ricerca di nuovi stimoli. Aver potuto saggiare le potenzialità della mente femminile mi aveva fatto capire quanto il sesso diventi secondario rispetto ad un appagamento cerebrale e quanto 24 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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possa essere sublime unire le anime in una perfetta sintonia di sensi.

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Capitolo 4 L’ospedale

Quella mattina il vento era così forte che le raffiche sembravano volermi sollevare da terra. Camminavo velocemente, proteggendomi il viso con il foulard, per non arrivare tardi al Policlinico Umberto I, dove da sei anni svolgevo l’attività di oncologa. Mi ero svegliata pensando alla sfrontatezza di quell’individuo che avevo conosciuto la sera precedente, chiedendomi perché avesse provocato in me quel turbamento, nonostante fosse chiaro che rappresentasse tutto ciò che rifuggivo in un uomo. Quella spavalderia ostentata con baldanza, i gesti studiati per fare colpo e la minuziosa cura di ogni più piccolo particolare del suo abbigliamento, rivelavano il lampante narcisismo di una personalità palesemente egocentrica. Allora perché, invece di un formale saluto, dalla mia bocca era uscita spontaneamente quella frase che lui aveva colto con la velocità di un ghepardo, affrettandosi a rilanciare per fissare un appuntamento? Ripensai al suo sorriso impertinente, a quegli occhi che avevano lo stesso azzurro che si vede solo nel cielo di Roma e che mi avevano guardata come se avessero voluto cogliere le più recondite sfumature nascoste nelle pieghe della mia anima. Ricordai il suo viso quell’espressione che mi aveva preoccupata quando vi avevo letto qualcosa che ancora non riuscivo a decifrare, ma che avevo percepito come profondamente pericolosa. Quel rincorrersi di pensieri nella testa mi confondeva. “Basta – dissi a me stessa – è stato un incontro casuale che non si ripeterà più, perché tu non andrai all’appuntamento”. Non avrei soddisfatto la vanità di quell’individuo, dandogli la soddisfazione di avermi 27 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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conquistata al pari di chissà quante altre donne. Appagata per essere riuscita a mettere da parte i pensieri su quell’uomo e a prendere la decisione più giusta, guardai l’orologio. Mancavano solo quindici minuti all’inizio del mio turno e non avrei fatto in tempo a recarmi nella caffetteria più vicina, per fare colazione. Mi rassegnai a raggiungere il bar del Policlinico per bere quella sbobba annacquata che si ostinavano a chiamare caffè. Mentre ero in fila alla cassa una voce familiare catturò la mia attenzione. - Mia cara dottoressa, puoi essere mia ospite? Era Attilio Viganò, il primario del reparto di Chirurgia 1 e soprattutto un caro amico. - Niente affatto - risposi - stavolta tocca a me. Sapevo che era inutile, da quando l’avevo conosciuto non c’era stata una volta che Attilio non avesse preteso di pagare il conto. - Vuoi privarmi del piacere di offrirti qualcosa? - disse, fingendo di essere deluso. - Con te non riesco mai a spendere un centesimo, come potrò mai sdebitarmi? - Un sorriso basterà - rispose con la galanteria che era solito usare. Attilio non dimostrava i suoi sessant’anni, i lineamenti distinti risaltavano sul volto, perennemente abbronzato, donandogli un’espressione rigorosa. Era un’autorità nel suo campo: nessuno era mai stato capace di mettere in discussione una sua diagnosi o una terapia e lui, d’altra parte, aveva sempre dato prova di infallibilità. Fin dal primo momento in cui ero giunta nella struttura, mi era stato vicino con consigli e suggerimenti che avevano contribuito alla mia crescita professionale. Con il passare del tempo, tra noi si era consolidato un rapporto di stima e di affetto. Mentre sorseggiavamo l’intruglio disgustoso illudendoci che fosse caffè, Attilio mi poggiò la mano sulla spalla come d’abitudine. Era il suo modo di incoraggiarmi e anche ora, che non ero più la giovane laureata alle prime armi, quel gesto mi trasmetteva vigore. - Allora – chiese – che giornata ti aspetta? 28 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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- Solito giro in corsia e poi due interventi programmati. Tu invece cos’hai da fare? - Devo correre in sala operatoria per un intervento complicato. Ieri sera hanno portato un uomo sulla quarantina che è stato investito da un’auto. Le sue condizioni non sono buone, ha gli organi interni compromessi. Sono molto preoccupato, speriamo bene. - Sono sicura che tutto andrà per il meglio – gli dissi con un sorriso – quell’uomo è in buone mani. Terminammo insieme il caffè e dopo averlo salutato mi accinsi a cominciare la mia giornata lavorativa. Tutto si svolse così come era stato pianificato. Erano le tre del pomeriggio quando tolsi cuffia e mascherina e diedi un’ultima occhiata alla paziente che ancora giaceva sul lettino della sala operatoria. Aveva appena trent’anni, le avevo estirpato un carcinoma al seno e per farlo avevo dovuto asportare anche una mammella. A breve l’avrebbero riportata in reparto, sapevo cosa l’aspettava: il risveglio, lo stordimento, il dolore e, fra qualche giorno, l’orrore di vedersi con un corpo mutilato, le debilitanti sedute di chemioterapia e la paura che quel maledetto cancro potesse riformarsi. Ma era viva e, se lo sforzo di lottare sarebbe rimasto attivo in lei, nel giro di qualche mese avrebbe avuto un seno nuovo e nuovi giorni da scoprire. Diedi le ultime istruzioni al personale della sala operatoria e decisi di mettere qualcosa nello stomaco. Nel bar del Policlinico a quell’ora non c’era tanta gente e fu facile individuare Attilio seduto ad un tavolo con il vassoio ancora pieno davanti. - Sono talmente stanco che non riesco neanche mangiare – disse quando mi avvicinai. - Com’è andata con il tuo paziente investito? - Credo bene, ma è ancora troppo presto per fare ipotesi. Era ridotto malissimo, siamo dovuti intervenire in più punti, anche vitali. Se si riprenderà, e lo spero, non sarà bello per lui ritrovarsi pieno di cicatrici. Ripensai alla ragazza che avevo appena operato. 29 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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- Quell’uomo è vivo – dissi – questo è quello che conta. - Già – rispose Attilio – speriamo che lo rimanga. Lo salutai e guardai l’ora, erano le 15.30 e alle 17.00 avevo l’appuntamento con lo sconosciuto del treno. Dal momento in cui avevo messo piede in ospedale non avevo più pensato all’incontro della sera precedente, durante i miei turni non ero una donna, ero un chirurgo e basta. È impossibile pensare a se stessi quando si ha tra le mani la responsabilità di vite altrui. Ma ora che avevo lasciato il camice, mentre si avvicinava l’ora dell’appuntamento, i colpi all’addome sembravano fare eco alle lancette dell’orologio. Presi l’autobus per raggiungere la stazione di Piramide con uno strano senso di ansietà. L’incontro con quell’uomo sul treno mi aveva scossa più di quanto avessi voluto e l’agitazione creava ulteriore nervosismo. Sebbene avessi trentotto anni, la mia esperienza in fatto di uomini si limitava a tre storie importanti e ad una relazione con un uomo sposato che mi aveva lacerata. La fine di un amore sul quale, stupidamente, avevo puntato tutto mi aveva ridotto in mille pezzi e c’erano voluti mesi per raccoglierli tutti e rimetterli insieme. Alla fine ero di nuovo tutta intera, ma emotivamente ancora troppo fragile. Il ricordo di quest’ultima storia, terminata un anno e mezzo prima, alimentava la mia diffidenza verso il genere maschile ed ero fermamente intenzionata a non permettere più a nessuno di farmi del male. In quel periodo evitavo ogni genere di contatto con l’altro sesso, anzi fuggivo ogni qualvolta mi sfiorava la sensazione che qualcuno stesse per superare quel recinto che, con estremo rigore, avevo innalzato intorno al mio cuore. Quel giorno invece, sentivo che qualcosa di diverso si era mosso dentro di me. Era una sensazione che ancora non riuscivo ad identificare, sapevo solo che provavo fastidio per il fatto che mi piacesse. Cominciai a contare le automobili che sfrecciavano lungo la strada, nello stupido tentativo di scacciare il pensiero di un uomo 30 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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con cui avevo parlato solo pochi minuti, continuando a darmi della stupida per il mio comportamento che somigliava tanto a quello di un’adolescente alle prese con il suo primo appuntamento. In ognuno di noi rimane dentro una parte bambina, la mia, a lungo repressa, stava scalpitando per emergere prepotentemente. Dovevo assolutamente fare qualcosa per non pensare all’emozione che mi aveva assalita quando lui aveva trattenuto un po’ più a lungo la mia mano nella sua. Dovevo dirottare i pensieri lontano dal ricordo di quella voce suadente, calda, con una tonalità che mi aveva accarezzato l’anima, dovevo non pensare a quello sguardo così profondo e luminoso che per pochi minuti mi aveva incantato. Mi chiedevo perché avessi accettato di rivederlo quando sarebbe stato più saggio opporre un secco rifiuto. Non volevo ammetterlo neanche a me stessa, ma la risposta era lì, evidente: quei due pezzi di cielo che aveva al posto degli occhi mi avevano catturato.

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Capitolo 5 L’appuntamento mancato

Era buio e sentivo molto freddo: un freddo intenso, profondo. Non percepivo nulla, non tremavo, non provavo alcun dolore. L’ultima immagine che ricordavo era quella dei paramedici intorno a me e il suono della voce rassicurante dell’anestesista che mi tranquillizzava. Temevo il buio, mi vedevo solo, nudo e infreddolito alla ricerca di qualcosa che non riuscivo a distinguere o a percepire. Volevo la mia famiglia vicina, la volevo con me a tenermi la mano, mentre le mani del chirurgo operavano nel mio corpo. Volevo accarezzare Daniela e Giada, dare loro un bacio, ma era buio e non ci riuscivo, quindi piangevo. All’improvviso, un leggero torpore mi pervase, il freddo si affievolì, una luce impercettibile attraversò i miei occhi e lentamente mi svegliai. Una lacrima fredda, rimasta ancora sul viso, mi bagnava le palpebre. Piansi. Mi riportarono nella stanza, dove una diffusa penombra accolse il mio ingresso. Ero ancora confuso, alternavo momenti di veglia a lunghi periodi di sonno profondo. Andò avanti così per tre giorni. Di lì a poco la mia vita sarebbe cambiata per sempre. L’ingresso del primario e della sua equipe provocò in me un senso di inquietudine, quel momento fu terribile. L’assistente del professor Viganò mi disse che, essendo la terza giornata post operatoria, era arrivato il momento di togliere le fasciature. Appena rimossero le bende ebbi modo di protendere la testa, lanciai uno sguardo sul mio corpo e immediatamente tornai nella posizione precedente, con un tonfo sul cuscino, assalito da una sensazione di rifiuto per ciò che avevo appena visto. Due ampie e 33 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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vistose cicatrici attraversavano il mio corpo: una sul fianco sinistro, a metà del torace, per un’estensione di circa trenta centimetri, che finiva il suo percorso più o meno all’inizio della coscia sinistra; l’altra aveva il suo apice all’altezza dello sterno e, come il letto di un fiume prosciugato, terminava a ridosso del pube. Non riuscivo a guardarmi e ad accettarmi, rifiutavo di pensare che quello sarebbe stato l’aspetto del mio corpo per il resto della vita. Fino ad alcuni giorni prima ero stato fiero della mia fisicità, che curavo nei minimi dettagli, ed ora ero lì, a contemplare in assoluto silenzio la visione di quelle profonde cicatrici che la deturpavano. Quante volte mi ero spogliato davanti ad una donna con quella sensazione di onnipotenza, orgoglioso di me, come un guerriero che mostra il suo corpo teso, con i muscoli che sembravano disegnare le gesta ad ogni loro intersecarsi in quel torace delineato, alcova di molti abbracci. Nonostante tutto, mi avevano salvato la vita e, in fondo, quella situazione non era niente in confronto alle sofferenze, alle malattie e alle disgrazie che quotidianamente abbiamo sotto gli occhi. Ma quale sarebbe stata ora la vita che mi aspettava, come sarebbe cambiata e come sarei cambiato io? La stanza dell’ospedale dove mi trovavo era molto accogliente, piena di confort, ultramoderna ma, nonostante trasferisse serenità, la mia agitazione sembrava non aver tregua. Mentre elaboravo tutti questi pensieri mi tornò alla mente l’affascinante donna che avevo incontrato nel treno. “Chissà cosa avrà pensato nel non vedermi all’appuntamento - dissi a me stesso - ma sì, in fondo meglio così, non ci incontreremo più e, se per caso dovesse accadere, penserà che sono un uomo inaffidabile, non dovrò spiegarle nulla, né dirle di questa mia nuova condizione fisica”. Pensavo a quando avrei lasciato l’ospedale, al mio ritorno al lavoro, a come sarebbe cambiato il rapporto con la mia famiglia, alla mia vita e al fatto di portare sul mio corpo quelle orrende cicatrici. Quel pensiero, più di tutti, mi turbava. Sentivo la disciplina estetica, che esercitavo quotidianamente nei minimi particolari, come 34 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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violata nella sua più profonda intimità. Sapevo che da allora in poi il conflitto con me stesso sarebbe diventato ossessivo e che mi avrebbe portato sicuramente ad una forma di cambiamento… ma quale? Oramai ero consapevole di essere arrivato ad una dimensione diversa rispetto ad altri uomini. L’aspetto fisico per me era un concetto che assumeva un valore minore nei rapporti interpersonali, ma era pur vero che la mia vanità e il mio sentirmi sempre a posto in qualunque situazione, da allora in poi avrebbero avuto una dinamica differente e questo mi metteva paura. Sentii dei passi provenire dal corridoio del reparto di chirurgia d’urgenza e un leggero parlottare in sottofondo. Riconobbi subito le voci di mia moglie e di mia figlia e provai dentro di me una sensazione di benessere. Sentii Giada accarezzarmi la guancia con la sua piccola mano e poi protendere il viso verso di me per darmi un tenero bacio. I suoi occhi grandi lasciavano trasparire la gioia di vedermi. Mia moglie invece, poco distante da noi due, mi guardava con una punta di preoccupazione, sapeva che avrei reagito male a quei segni deturpanti, ed era certa che da quel momento sarei stato un uomo diverso. Capii immediatamente che stavo per uscire dall’ospedale, quando il professor Viganò venne a propinarmi una serie infinita di medicine e raccomandazioni post operatorie. In parte, ciò mi mise di buon umore. Tornai, come ospite, nella casa che avevo condiviso con Daniela. Sembrava che la mia assenza fosse durata decenni, tutto appariva come nuovo, il quartiere, il palazzo, perfino i mobili. Ogni cosa assumeva una differente sfumatura rispetto a prima e probabilmente quelle diverse tonalità che apparivano ai miei occhi facevano parte del cambiamento che, dentro di me, sembrava essersi messo in moto ormai in maniera inarrestabile. Passai il resto della giornata nel letto e dopo aver ricevuto la visita di qualche amico, mia moglie e mia figlia preferirono lasciarmi solo a riposare. Il compagno di Daniela era una bravissima persona ed 35 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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acconsentì che stessi per qualche giorno a casa con loro. Apprezzai molto quel gesto. Dell’incidente, dell’impatto e di tutto il resto non ricordavo quasi nulla, seppure mi sforzassi di richiamare alla mente almeno gli istanti che l’avevano preceduto. Ricordavo invece perfettamente quella meravigliosa creatura seduta di fronte a me sul sedile del treno. Non riuscivo a dimenticarla e allo stesso tempo avevo paura di incontrarla di nuovo. Il desiderio di rivederla si mescolava al’imbarazzo di doverle spiegare la mia assenza all’appuntamento. Se mai mi avesse perdonato ed avesse accettato di uscire con me, come mi sarei comportato ora che mi sentivo così vulnerabile? Disteso sul letto di quella improvvisata camera degli ospiti, nel tentativo di riposarmi, non riuscivo proprio a smettere di pensare a lei, sapevo che quel nervosismo era dovuto alla mia condizione, ma ero anche consapevole che prima o poi il tempo avrebbe risistemato le cose. Riuscivo ad intravedere fuori dalla finestra un tenue raggio di sole che, filtrando da essa, percorreva con una sottile linea il pavimento, fino a raggiungermi proprio sul cuscino adagiato dietro la testa. Era una piccola retta luminosa in grado di diffondere un gradevole calore. Non so perché, ma ad un certo punto cominciai, forse per ingannare il lento scorrere del tempo, a pensare alla mia adolescenza. Riaffiorò tra i ricordi la mia prima esperienza amorosa, vissuta con una timidezza che all’epoca mi creò non pochi problemi. Quel primo grande amore mai vissuto influì su tutte le mie successive esperienze sentimentali.

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Capitolo 6 L’appuntamento mancato

Arrivai alla stazione di Ostia Lido-Centro decisa e risoluta: quell’uomo era pericoloso, non avrei dovuto più rivederlo. Il fatto di non conoscere il suo nome e di non avere un numero di telefono mi diede un leggero sollievo, eliminava la tentazione di chiamarlo. Ero soddisfatta per essere riuscita ad impormi a quell’adolescente stupida che mi portavo dentro. Nessuno, mai più, mi avrebbe resa vulnerabile. Guardai l’orologio, le 17.00 erano passate da pochi minuti e, con un senso di puerile appagamento, lo immaginai ad aspettarmi invano. Poi, di colpo, realizzai che, in tutto quel tumulto che si era dimenato nella mia testa non avevo riflettuto sul fatto che il posto concordato per rivederci fosse proprio quello in cui mi trovavo. “Che mascalzone! - pensai – ha scelto come luogo dell’appuntamento la fermata alla quale scendiamo entrambi, per non correre il rischio di non rivedermi. Ecco un motivo in più per non rincontrarci. Se è bastata una breve conversazione per confondermi in questo modo è proprio il caso di lasciar perdere”. Non volevo, non dovevo, non potevo permettere che un altro uomo minasse quell’equilibrio che avevo raggiunto con tanta fatica. Il ricordo del dolore cagionato dalle precedenti esperienze era come sale su ferite ancora troppo aperte e il buio che mi aveva avvolta per lunghi mesi, aveva lasciato ombre che annerivano ogni barlume. Mi girai di scatto incamminandomi verso casa. Lui non mi avrebbe trovata lì ad aspettarlo. Una improvvisa folata di vento mi scompigliò i capelli, mandandoli indietro, la giacca si aprì ed a fatica riuscii a riabbottonarla con 37 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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una sola mano, poiché con l’altra ero impegnata a tenermi la gonna per non restare a gambe nude. La tramontana a Roma sa essere molto fastidiosa, soprattutto quando tira in senso contrario al tuo. Quel giorno anche il vento era contro di me e sembrava opporsi alla mia direzione, alla mia fuga vigliacca. Continuai a camminare, determinata a non lasciarmi fermare da una corrente d’aria, quando l’immagine di quel volto si materializzò nella mia testa facendomi sentire ciò che in quel momento ero: una foglia controvento, in un autunno di speranze che appassiva lento. Forse dovevo darmi un’altra possibilità, forse dovevo darla anche a lui. Tornai indietro cercando di allontanare i fantasmi del passato che mi danzavano intorno beffardi. Ebbene si, quella canaglia aveva vinto ogni mia resistenza. Alla stazione mi guardai intorno, cercando un volto conosciuto tra la folla. La gente mi passava vicina presa dalla propria vita, qualcuno mi urtava, altri mi lanciavano sguardi di ammirazione. Cercavo con gli occhi la sua figura elegante dal passo deciso, quel sorriso da furfante sul viso dall’espressione spavalda, eppure così teneramente sincera. Ogni istante che passava mi sembrava più lungo del precedente, i minuti erano ore in quel lento incedere del tempo. Era passata mezz’ora e nessun volto conosciuto era apparso tra i pendolari affannati di una città frettolosa. Non era venuto all’appuntamento e una rabbia furiosa mi scoppiò dentro come un mare in tempesta. Per quasi ventiquattro ore non avevo fatto altro che oscillare in un’altalena di sensazioni che mi avevano portato lontana da lui e, un attimo dopo, più vicina che mai. Quasi 86.400 secondi sprecati a decidere se rivederlo e lui non era venuto all’appuntamento. Ero arrabbiata con lui, ma ancor più con me stessa per essermi lasciata coinvolgere a tal punto. Avrei voluto che fosse lì per prenderlo a ceffoni, avrei voluto prendere a schiaffi quella parte di me che, ingenuamente, si era illusa nel ricordo di una stretta di mano che 38 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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si era trasformata in brivido. “Che cosa potevi aspettarti da uno che dà appuntamenti dopo cinque minuti di conversazione su un treno? - continuavo a ripetermi - non sarai stata la prima né l’ultima per quel playboy da strapazzo che appena vede una bella donna mette in atto tutte le sue tecniche seduttive. E tu ci sei cascata pensando di aver suscitato in lui un interesse. Povera illusa! In questo momento starà utilizzando il suo fascino su qualche altra femmina per portarsela a letto”. L’immagine di lui, a letto con un’altra, mi destabilizzò, rendendomi ancora più furiosa per il potere che quell’uomo, nel giro di pochi minuti, era riuscito ad esercitare su di me. Mi avviai verso casa sforzandomi di pensare che, in fondo, si trattava solo di un piccolo, insignificante episodio che avrei presto dimenticato, mentre una vocina malefica continuava a sussurrarmi dentro: “Non sottovalutare le tue sensazioni, i suoi occhi erano sinceri. I suoi gesti, il suo sorriso, il suo sguardo ti hanno detto molto di più delle parole”. La vocina mi invitava ad essere più riflessiva, a tenere a bada l’istintività. Però non era venuto. Il disordine di pensieri che avevo in testa aumentò fino a diventare caos: non volevo più provare nessun sentimento verso un uomo… quel sentimento così dolce che ci fa sentire vivi. Non volevo più nessuna storia… una storia da vivere con il cuore annodato in gola. Nessun abbraccio mi avrebbe più resa fragile… un abbraccio che scalda e avvolge di tenerezza. Non volevo più rivederlo… o forse si. A quel punto, non avevo più nessuna certezza, sapevo solo che dentro di me odiavo tutti gli uomini del mondo. Il giorno dopo, quasi a voler capacitare me stessa che quel rancore fosse ben riposto, meditai su tutte le volte che mi ero sentita uno straccio a causa di un uomo. La ferma determinazione e la grande sicurezza che avevo nella professione che svolgevo si perdevano quando entravano in campo i sentimenti. Era come se un’altra me, debole e vulnerabile, affiorasse in superficie rendendomi indifesa. L’adolescente che ero stata ritornava prepotentemente e con lei tutta la richiesta d’amore che era rimasta disattesa. Ripensai ai miei quindici anni, quando l’età mi aveva portato verso nuove scoperte, 39 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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prima fra tutte la meraviglia di me stessa. Ero sbocciata senza accorgermene ritrovandomi all’improvviso donna e impreparata. All’epoca mi capitava spesso di guardarmi allo specchio e chiedermi se appartenesse a me quella figura longilinea riflessa, quel corpo sottile sormontato da lunghi capelli neri che mi arrivavano alla schiena, quel viso dai tratti delicati che tutti non dimenticavano di rimarcare quanto fosse simile a quelli delle statuine di porcellana. Pensavano di farmi un complimento, non lo era per me che di porcellana mi sentivo per davvero, quando invece avrei voluto essere una roccia. I ragazzi mi giravano intorno come api attratte dal miele, ma nessuno di loro mi desiderava per quello che ero. Tutti volevano solo un trofeo da conquistare. Fu per questo che dopo il liceo mi dedicai solo ed esclusivamente allo studio. Era il cervello che volevo mostrare, non il corpo. Erano trascorsi tanti anni da allora, non era passato quel vuoto che mi portavo dentro. Nei giorni che seguirono mi sforzai di non pensarci, la mia attenzione fu tutta rivolta al mio lavoro. Lì ero la donna decisa e lucida, il medico impeccabile, la professionista attenta e scrupolosa, rispettata e stimata. Lì niente e nessuno mi avrebbe fatto soffrire, lì non c’era nessun vuoto da colmare.

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Capitolo 7 Il ricordo

La camera degli ospiti che Daniela aveva preparato era molto accogliente. In realtà era la stanza di Giada che con i suoi colori tenui alle pareti agevolava il mio riposo. Pensare alla mia adolescenza in parte mi fece tornare di buon umore. Erano passati molti anni e il ricordo di Eleonora era ancora ben impresso nella mia memoria, anzi, era proprio la sua importanza che dettava l’esigenza di non doverla mai dimenticare. Eleonora aveva un fisico esile, con i lineamenti del viso molto delicati, la carnagione chiara e gli occhi di un azzurro intenso, che sembravano volersi imporre ad ogni minimo movimento del volto. Il nostro incontro non fu dei migliori, anzi, fu davvero inconsueto. Io ero poco più che diciannovenne e lei aveva un anno meno di me quando quel giorno arrivò al parcheggio del supermercato nel quale stavo per entrare. Era il periodo estivo ed ero vestito con un paio di pantaloni bianchi. Lei, non riuscendo a frenare il suo motorino, finì rovinosamente su una delle mie gambe, fortunatamente senza danni fisici, ma provocando sui miei jeans una vistosa impronta di pneumatico. In quegli anni vivevo da solo e detestavo sia stirare che lavare, tant’è che la mia reazione non lasciò dubbi all’interpretazione e proprio per questo lei, con un disarmante sorriso e con una vocina tenera, mi disse: - Scusami, non pensavo di scivolare su questo terreno, mi dispiace per i tuoi pantaloni, mi dispiace per tutto, mi dispiace… A quel punto fermai tutti i suoi “mi dispiace” e le dissi: - Ti dispiace ok… ma preferirei che mi lavassi e stirassi i pantaloni sporchi, piuttosto che farmi le tue scuse. 41 Edizioni Psiconline © 2014 - Riproduzione vietata


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