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A Tu per Tu
Cloe Janvier
DI NUOVO VIVA Fuga dalla depressione
Prima Edizione: 2012 ISBN 9788889845868 © 2012 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Luglio 2012 in Italia da Square srl - San Benedetto del Tronto (AP) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) In copertina: Foto di Monica “Monimix” Antonelli
Indice
I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV XXVI XXVII
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XXVIII XXIX XXX XXXI XXXII XXXIII XXXIV XXXV XXXVI XXXVII XXXVIII XXXIX XL
Tutto quanto scritto di qui in avanti racconta fatti realmente accaduti. 6
A mio fratello
I
In principio era il Verbo. - Gv 1:1 “Allora, qual è il problema?” Dietro il camice bianco e la testa lucida sapevo ciò che si stava domandando. Cosa avrei potuto rispondergli? Ho visto l’orrore di questo momento prima che accadesse? Mi avrebbe rinchiusa buttando via la chiave. “…” “Signorina, se fa così non mi aiuta, vuole dirmi che cosa è successo?” Tacere, pessima soluzione. “…non capisce? Lei non mi può aiutare, ormai là fuori non c’è più niente per me…” Balzò dalla sedia spingendosi all’indietro, lo sguardo a terra per un attimo, due passi verso la finestra e: “Mi spiace, ma mi mette in condizione di doverla internare… Dove andrà a finire non è proprio un bell’ambiente. Chiamo i suoi genitori.” “…” Fottuta. Entrò mio padre: “Claudia, che cosa è successo?” “…Ti ricordi quando parlavo di Gesù?” “Cosa c’entra la fede Cla, qui ti vogliono internare! Non pensi al dispiacere che darai a tua madre?” Il pugno prossimo alla bocca e le ultime parole soffocate imploravano che riprendessi coscienza, ma io non potevo far niente, il mio destino era segnato. Una voce femminile attirò la mia attenzione. 9
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Mi voltai ed era un’infermiera che agitava una siringa facendo una strana smorfia con gli angoli della bocca. Occhi a palla, infossati di nero, capelli bruni unti a corde sulle spalle. Demoni, questi sono demoni. “Allora, la facciamo quest’iniezione?” “…” Scappa. “Su signorina, non mi faccia perdere la pazienza!” In quell’istante fece ingresso mia madre. Vacillava dicendo cose senza senso, guardandomi come fossi tornata la sua piccola bambola rotta che si rifiutava di farsi aggiustare: “Dai Claudia, la faccio anch’io con te!” È la fine, ho trasformato anche te. Mi presero con la forza. Il buio. La siringa, i pantaloni, la paura. Dopo ero in bagno con mia madre, mestruazioni, primo giorno. Sangue nero pece, a pezzi e grumi. Finito di pulirmi mi lasciò a mio padre che mi prese per braccio fino al nono piano insieme allo psichiatra. Allora non sapevo di essere così in alto. Un tunnel profondo di cui non scorgevo la fine, il buio rotto da luci fioche al neon, il rumore sordo dei nostri passi nel silenzio. Sorpresa. Non eravamo soli. Uno zombie verso di noi si trascinava con le spalle cadenti lamentando qualcosa: benvenuta all’inferno.
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II
La vita aveva smesso di sorridermi cinque anni prima, subito dopo la maturità. Sapevo che arrivato il giorno del trasferimento non sarebbe stato facile. Percorrendo in auto quella strada di campagna stavo lasciando casa, amici, vent’anni di vita nella mia Milano. I miei sognavano quella villa da quando si erano sposati. Io la detestavo ancor prima di mettervi piede. Ero nata e cresciuta in un due locali di periferia, abituata ad affacciarmi per parlare coi miei amici dalla finestra, a condividere la stanza con mio fratello Pietro, a farmi cullare di notte dal vocio delle compagnie che tiravano tardi sotto i portici del cortile. In quinta liceo la mia vita era colma di risa, di gente ovunque mi voltassi, di danza, di improvvisazioni canore davanti allo specchio, di mille cose da fare, dallo studio ai progetti di vita. Per me tutto questo era ‘casa’. Il silenzio assordante della campagna era un martello alle tempie, di notte i rumori a cui ero assuefatta non c’erano più, solo l’ululato di cani rinchiusi in giardini di cinquanta metri quadri che non mi lasciavano in pace. Tre stanze da letto, mansarda, taverna, sala, cucina. Non ero abituata a sentirmi così sola nello spazio. Se volevo parlare con mio fratello dovevo andare in camera sua, mia madre dovevo chiamarla e capire in quale stanza potesse essere. Persa, tra le mura e fuori. Non avevo ancora conseguito la patente e il paese non era servito da mezzi pubblici. L’appartamento a Milano era vuoto e disabitato. Io ne possedevo 11
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le chiavi, me ne ero fatta fare una copia prima di andar via. Al mattino partivo in auto con mio padre facendomi lasciare alla più vicina fermata della metropolitana. Acquistavo ogni sorta di giornale per trovare lavoro e lo consultavo con Carla, la mia migliore amica, anche lei disperata per il mio trasferimento, anche lei persa. Trascorrevamo la giornata vagabondando per Milano insieme, ritrovandoci il pomeriggio con gli altri e dividendoci solo per pranzo. Lei mangiava coi suoi mentre io prendevo una pizza d’asporto e la consumavo nel silenzio delle mie lacrime sul pavimento della mia vera casa. Quel pavimento mi aveva vista muovere i primi passi, aveva presenziato alle liti, alle feste di compleanno, alle malattie. Settemilatrecento colazioni. Quattordicimilaseicento abluzioni nel mio amato bagno. Tremilacinquecento levate per andare a scuola. E ora eccomi lì, in una stanza vuota che come una madre morente mi stava dicendo di stare tranquilla, che il dolore prima o poi sarebbe svanito. Dopo poco tempo mio padre mi trovò un lavoro part-time in un albergo come cameriera ai piani, mentre la sera e nel fine settimana lavoravo in un pub, unico luogo di ritrovo per la gioventù del paese. Fu lì che conobbi Oscar. Al nostro primo incontro ci presentò il titolare del pub. Oscar era il barman, io la nuova cameriera. La mia prima impressione su lui fu di nulla assoluto e di completa indifferenza. Lavorare in quel pub mi divertiva e speravo potesse essere un modo per conoscere nuovi amici. Io rappresentavo la novità del momento, scomoda per le ragazze, piacevolmente inaspettata per i ragazzi. Oscar era un grande showman, un intrattenitore, tuttavia schivo. Snello, non molto alto, occhi di smeraldo e un neo sulla guancia che lui amava definire ‘il neo della simpatia’. Una sera, mentre pulivo il bancone, lui fece ingresso salutando tutti a voce alta con la sua solita spavalderia: “Buonasssera!” Sentii il cuore fermarsi per un istante e: “No, merda, non lui!” 12
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Pensai. Non si contavano le volte che lo avevo visto entrare e pavoneggiarsi di un’altra bellissima al suo fianco. Non avrei mai voluto sentirmi una di loro. Era il compleanno di una ragazza che sedeva al tavolo con una decina di amici. Per lei erano arrivati regali e un mazzo di gerbere rosse. Terminato il mio turno andai nello spogliatoio dietro la cucina a prendere il giubbotto. Sull’uscio della porta Oscar mi fermò, penetrandomi con i suoi occhi ubriachi: “Non hai dimenticato niente?” “Non mi sembra…” “Hai guardato bene nell’armadietto?” Tornai in camerino e aprii l’armadietto. Una bimba alla caccia al tesoro. Come avevo fatto a non vederla? Una gerbera rossa. Per me. Mi voltai e lui era lì. Mi prese per mano e mi portò a sé posando sul mio viso le sue labbra carnose. Entrò il capo che ci sorprese imbarazzati. Con lo sguardo basso e fuggente mi congedai. “Vado a casa. Grazie Oscar.” “Ci vediamo domani.” Ero innamorata. La sua irriverenza, la sua capacità di circondarsi di persone e di donne che lo consideravano attraente, la convinzione che nascondesse un animo differente da quello palesato. Credo che riuscire a conquistare il suo interesse fosse una sfida e che il mio innamoramento fosse completamente irrazionale. Sapevo poco di lui, ma mi piaceva il suo modo di corteggiarmi: fiori, doni che andavano crescendo di valore e volume ogni volta, cibo preparato da lui per me. Ai primi appuntamenti mi portava via da tutti, comprensibile, anche se quel che di lui mi aveva attratta era il suo essere di compagnia. Venivo dal desiderio di amicizia e non ero ancora diretta verso una storia d’amore fatta di me e di te, di te e di me. Ma al momento ero offuscata dal nostro essere capaci di parlare per dieci ore di fila, vent’anni di vita trascorsi l’uno lontano dall’altra 13
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e altri venti da trascorrere chissà come, chissà dove. Lui mi adorava, ero la metà carica di progetti che aveva sempre desiderato, diversa dalle scatole vuote di cui era solito circondarsi. Incarnato bianco latte, capelli cortissimi e bruni impossibilitati a farmi passare per maschio, curve sottili, portamento impertinente. Mi ascoltava ipnotizzato dalla mia voce dolce di bambina che aspirava a diventare donna. Ammirava quei sogni ancora poco definiti, quell’ambizione che mi poneva fuori dalla realtà. Il mio lavoro ideale mi avrebbe condotta ad incontrare personalità stimolanti, a muovermi in mondi fatti di idee, ad abbracciare desideri per il momento ancora privi di forma e colore. Oscar era cresciuto nei bar, niente scuola dopo le medie. Il suo sogno era sbarcare a Milano con un locale di sua proprietà. La sua era una formazione di strada, le mille voci che entravano in lui giorno per giorno la sua cultura. Conosceva la vita attraverso le esperienze degli altri. Poteva sostenere ogni tipo di conversazione, purché non si entrasse troppo nel merito. Il suo gusto nel parlare con me tuttavia iniziava a fargli perdere interesse per amici e conoscenti. Era come se in me avesse trovato tutto ciò che desiderava. Per me non era lo stesso. Se da un lato mi compiacevo di essere la regina di un uomo, dall’altro tastavo la solitudine crescere ad ogni appuntamento. Ricordavo le risa della mia compagnia di Milano, le sentivo risuonare nella mia testa come fantasmi che mi stavano dicendo addio. Non mi sarebbe mai bastata una sola persona. Mai. E questo sarebbe stato il più grande dei nostri problemi. La sua gelosia cominciò a farsi sentire con Carla, al contempo anche lei gelosa. Da quando Oscar era entrato nella mia vita Carla accusava di vedermi lontana, assente. Non capiva che era tristezza per un mondo che si stava sgretolando senza che io potessi rimetterne insieme i cocci. La compagnia, per quanto ancora fosse lì, stava prendendo una 14
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forma che non mi apparteneva più. Le gite e i giochi di un tempo erano morti con l’ingresso di droga, alcool, discoteche. E mentre io avrei voluto sperimentare pensieri nuovi, per Carla sembrava non esistessero alternative al restare inchiodate in un contesto che sapevo ci avrebbe defraudate dei nostri anni più preziosi. Secondo Wilde l’egoismo è essere una rosa rossa e pretendere che tutti i fiori del giardino siano rossi, e rose. Ma ormai non eravamo nemmeno entrambe fiori. Eppure l’amavo, l’avevo sempre amata. Eravamo adolescenti quando, dopo una furiosa lite, giurammo sulla testa e sulla vita che non ci saremmo mai tradite, che saremmo state amiche per sempre e che la verità, di lì in avanti, l’avrebbe tra noi fatta da padrona. Non era stato sufficiente continuare a vivere in simbiosi anche dopo il mio trasferimento e nonostante Oscar. Per me lo stare sempre insieme non costituiva l’elemento fondante, che ritrovavo invece nel sentimento, nell’ascolto, nel sapere che non ha importanza dove e con chi tu sia ma che tu stia bene e sia felice, nel non avere dubbi che se mai dovessi alzare la cornetta tu ci sarai, nel consiglio, nel ritrovarmi ovunque io sia finita Per Carla non era così. La mia felicità doveva comprendere lei e il nostro tempo insieme. Se non fosse stato per quella dannatissima lite avrei continuato ad amarla. Il motivo cui si aggrappava era inconsistente, in verità qualcos’altro oltre lei stava assumendo importanza nella mia vita. Che si chiamasse Oscar, che fosse lo studio, il lavoro o altri amici non aveva rilevanza. Nel suo urlarmi ‘puttana’ crollò il nostro mondo di bambine, la fine di un’era, la morte dei giochi e delle risate del cuore, morì l’idea stessa di amicizia, il nostro credo. Di notte la luce di quei giorni mi destava abbagliandomi in bagni di sudore, urlando silenziosa la consapevolezza che quei dolci sogni non mi avrebbero sorriso mai più.
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III
“Con questa vostra figlia dormirà sonni profondi per almeno dodici ore.” Dopo neanche due ore mi ritrovai in un letto d’ospedale. La bomba chimica prodotta dalla mia testa se ne fregava delle opinioni dei medici. Mi guardai intorno. Di fianco a me c’era una signora cicciona che russava. Mi voltai e nell’oblò di sorveglianza posto sulla porta distinsi il volto di un uomo che mi fissava facendo ciao con la mano: il terrore prese a trapanarmi il cervello. In lontananza dei passi striscianti ed un lamento di voce strozzata diventavano sempre più vicini: “aaacquaaa… aaacquaa…”. La porta della mia stanza si aprì e lei entrò. Una vecchia strega pelle e ossa, vestita di stracci, capelli grigi, secchi e unti insieme. Con gli occhi semichiusi si accostò al lavandino nella camera e bevve. Mi guardò. Restai immobile evitandone lo sguardo pietrificata. Si voltò e uscì continuando il suo giro notturno. Questo è l’inferno. Ho visto la luce di Dio perché possa impazzire alla vista di ciò che mi attende qui. Sapevo che mi avrebbero rinchiusa. Non devo pensare. Mi violenteranno, abuseranno di me. Lo so. Devo scappare. Oppure morire. Mi alzai in piedi a fatica. Barcollando mi avvicinai alla finestra. Sbarrata. Sono al nono piano, un volo e finirebbe ogni cosa. Poi di là… E se questa fosse l’anticamera… e quella… la fine… la tortura e l’incubo… per l’eternità… Ero spacciata. Tornai a letto. Sentivo il mio odore mai stato prima così acre. Mestruazioni. Primo giorno. I reni dolenti e l’urgenza di una vescica 17
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gonfia e pulsante. Dovevo alzarmi di nuovo e la paura fottuta era di attraversare il corridoio ed incontrare uno di quei mostri. Il bisogno si fece impellente così presi coraggio. Mi alzai senza respirare e mi diressi verso la porta semichiusa. Sbirciai. Il bagno era al di là di un fiume largo da guadare. Non c’è nessuno in giro, vai, ora. Le gambe pesanti come massi. Più veloce. Entrai nel bagno e l’istinto mi guidò alla ricerca della chiave. Non c’era serratura. E la porta era troppo distante dalla tazza per tenerla chiusa con la mano. Sbrigati, prima che arrivi qualcuno. Goccia dopo goccia sentivo le gambe tremare su quel cesso lurido, dovevo reggermi con le braccia a fatica per non toccarne il bordo con le cosce. Una volta finito uscii dal bagno e lo incontrai. Era lì, sull’uscio della porta. Grosso. Carnagione scura. Spalle a penzoloni e occhi che sembravano uscirgli dalle orbite. Mi fissava. Le mie forze non ressero e svenni. Le sue mani mi raccolsero da terra, invasive. Sono nulla, voglio essere nulla, sono nelle mani della pazzia senza vita, questa è la fine che non finisce, è l’impotenza, e la sola cosa che posso fare è: “Lasciami stare! Via! Vai via!” “Non volevo farti niente, scusa…” “Viaaa!” Se ne andò brontolando. Riuscii a trascinarmi fino al letto portando il lenzuolo appena sotto le narici. Il tempo era fisso come i miei occhi nel buio della stanza. La mia compagna di stanza si svegliò sonnolenta e: “Ciao, sei arrivata stanotte?” “Sì.” “Come ti chiami?” “Claudia e tu?” 18
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“Giovanna.” “Hai mica un cellulare Giovanna?” Dopo un attimo di esitazione si voltò verso il comodino e: “…Sì, tieni!” Lo presi tra le mani, la mia porta, casa. Ma il tatto non rispondeva. Non avvertivo i pulsanti. Troppo piccoli, troppo vicini. Sconfitta, ma non arresa, glielo porsi. Frugai nella mia borsa e trovai della moneta. Mi diressi verso il telefono pubblico, quell’iniezione mi aveva trasformata in una di loro, ciondolante di follia. Composi il numero. Portatemi via. “Tuuu…tuuu…click…pronto?” “Ciao mamma sono io!” “Claudia…ma che ore sono?” “Sono le sei, mamma venite a prendermi. Qui sono tutti matti io non sono matta!” “Claudia smettila, l’hai voluto tu, che cosa mi avevi detto? Mamma, vedrai che mi rinchiuderanno, sei tu che ci sei voluta finire o mi sbaglio?” Mamma… sono tua figlia… quella è casa e io sono tua… figlia… “Ma io…” “Dai, ci vediamo più tardi, ciao.” Chiuse la comunicazione. Casa. Il nulla mi ripiombò addosso come un manto soffocante. Non sei sola. Chi è solo è in buona compagnia.
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IV
Trascorse un anno, un anno fatto di lavori che non mi avrebbero portata a nulla, fatto di scuola guida, di amicizie che andavano spegnendosi, di Oscar, di me che iniziavo a focalizzare su ciò che davvero volevo dalla vita. Sin da piccola avevo manifestato un’innata passione per la comunicazione, le relazioni, il commercio. A otto anni erano pochi i bambini che anziché guardare i cartoni animati cercavano in tv gli spot pubblicitari, che giocavano impersonando la ‘capa’ di una catena di negozi o il direttore femmina di un grande albergo, che alla domanda del maestro di disegnare la nostra idea di felicità sceglieva come soggetto un cocktail, denaro e tanti piccoli cuori. Non potevo sapere che erano state le ore spese a guardare telefilm americani a plagiare i miei sogni, le mie aspettative ormai stereotipate, qualcosa che in realtà non ero stata davvero libera di scegliere. In quinta liceo i percorsi di orientamento erano tuttavia concordi e la scelta fu quasi d’obbligo: facoltà di Scienze della Comunicazione, corso di laurea in Relazioni Pubbliche e Pubblicità, in un’università privata e costosa, soprattutto considerando che i miei attraversavano un periodo burrascoso dal punto di vista economico. Mi si prospettava la possibilità di diventare ciò che avevo sempre sognato, ma la scelta era: “Se decidi noi affronteremo tutte le spese degli studi, niente di più. Devi imparare a sacrificarti se vuoi raggiungere degli obiettivi.” Lavorare e studiare era impensabile, volevo terminare nei quattro anni previsti e ottenere voti alti. Il quarantatre della maturità non rientrava nei parametri di ammissione e l’alternativa per poter accedere al corso era dare quattro esami comuni. L’idea di poter seguire 21
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la mia vocazione mi inebriava spaventandomi. Leggendo il piano di studi sentivo il mio ego gonfiarsi della fame di conoscenza. Al contempo sapevo che sarebbe stato un lavoro monumentale per una che non aveva mai saputo cosa significasse studiare. Mi perdevo in quei palazzi color mattone a otto piani, aule su aule, segreterie, bacheche, burocrazia. C’era un rigore nell’aria che non mi apparteneva pur incutendomi fascino e desiderio di render familiare ciò che familiare non era. La vista dei primi libri acquistati mi procurò un violento senso di vertigini: ottocento, quattrocento, seicento pagine da leggere, adorare, comprendere, memorizzare, detestare. Quando non avevo lezioni mi svegliavo alle otto di mattina. Spesso senza neanche vestirmi, fare colazione e aprire le finestre accendevo la lampada della scrivania nella mia camera e passavo la giornata immersa, assente. Di tanto in tanto andavo fuori a prendere aria. All’orizzonte della mia mente c’era chi correva, lavorava, viveva. Avvertivo una vaga sensazione di perdita e conquista. Quel mondo fatto di virtualità e di idee non era reale, ma mi avrebbe permesso di vivere la realtà futura con maggior soddisfazione e pienezza. Non v’era occasione mancata dai professori per ripeterci quanto fosse creativo e ben remunerato il lavoro del comunicatore, ed ogni ora spesa ad ascoltarli rendeva il mio bel castello sempre più definito e vicino. Se avessi fallito, se non fossi riuscita ad entrare, sarebbe stata una porta chiusa per sempre, e la colite, gli spasmi, il vomito prima di ogni esame furono gli inevitabili sintomi della mia mania. L’ultimo dei quattro esami fu un orale. Passato a pieni voti. Guidavo verso casa cantando, con lo stomaco a pezzi, felice. I lenti passi lungo il viale di villette, il sole sul viso. Mi fermai. Alzai le braccia e chiusi gli occhi al cielo, sfinita, consapevole. È solo l’inizio. Voglio essere. Voglio diventare.
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V
Quattro anni. Non uno di più. Non volevo pesare sui miei più di quanto non fosse strettamente necessario. Ma il tempo stringeva e ottenere voti alti sarebbe stato il mio lasciapassare in società, la carta capace di darmi un lavoro che davvero mi piacesse. Non concepivo la possibilità di passare otto ore al giorno per gran parte della mia vita facendo qualcosa che non mi permettesse di sentirmi viva. Le prime volte credevo sarebbe stata una questione d’abitudine, che una volta fatto il callo non sarei più arrivata due ore prima per la paura di non arrivare in tempo per l’appello, che non avrei più atteso il mio turno pregando perché si fermasse lo sbando incontrollabile di aule e corridoi, che non avrei più lottato con il mio intestino e i suoi crampi così acuti da non riuscire ad emettere nemmeno una richiesta d’aiuto. Un mese chiusa in casa, la testa pressata di nozioni. Non deve andar male. Se va male è tutto daccapo. Se va male la prossima volta ti sentirai peggio. Eppure, miracolosamente, andava bene ogni volta. Ed ogni volta tornavo a casa sorridente, vittoriosa, distrutta. Se solo avessi avuto una via di fuga. Se fossi stata persuasa che la vita non era poi tutta lì. Ma quella non era vita, era sopravvivenza. Ed il pensiero della fine, il traguardo, il dopo era il solo miraggio che mi permetteva di resistere. Tra decine di libri da consumare agonizzavo piccole pause che mi era possibile trascorrere solo con Oscar. Noia, paranoia, solitudine. Oscar era il suo nascondersi in decine di frasi come: ‘Sei libera di fare ciò che vuoi’. Eppure per me non era possibile nemmeno immaginare un’iniziativa che non prevedesse la sua presenza. Le sue ossessioni, a bri23
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glie sciolte, avrebbero generato interminabili, estenuanti discussioni completamente prive di senso. Le conversazioni con Oscar si erano trasformate negli anni in completi monologhi. Io mi ponevo mille domande sul perché delle cose, mentre lui dedicava tutti i suoi sforzi nel perfezionamento di cappuccini e piadine pur lodando la mia profondità d’animo. Avevo intuito che l’amore tra noi non era mai stato. Sapevo che un leone non poteva convivere con una gazzella. Eppure ero immobile, perseverante nella mia cieca ostinazione. Desideravo amare più di ogni altra cosa ed il mio cuore tumefatto me lo ricordava allargandosi dolente ad ogni film d’amore. Prevaricazione, oppressione, gelosia immotivata frutto di insicurezza o di piacere del dominio. Cresceva in me la convinzione che i più ne fossero schiavi, malati il cui desiderio ossessivo era solo poter possedere, controllare. Lo desideravo come un martire che cerca Dio, poter pronunciare quei due suoni intrisi di eternità, l’atto che unisce liberando, che donando riempie, l’altra metà. Ma non era lui, l’amore non poteva avere le sembianze di un aguzzino. La verità era l’arma e la mia vendetta: non ti amo, siamo solo amici, non ti sposerò mai. Oscar sapeva che con lui non ero felice, ciò nonostante si accontentava di una serenità fasulla mentre la mia poteva essere fatta di briciole che venissero solo da lui e alle sue condizioni. Spesso ci si ritrovava davanti a casa mia, per ore tentavo di fargli capire, per ore cercava di farmi vedere. Solo buio, il nulla davanti agli occhi, la pazzia sbattendo la porta dell’auto mentre le sue urla mi rammentavano quanto fossi egoista e stronza nell’andarmene via così. Una notte, cieca di rabbia, arrivai a macellare decine di persone. Completamente coperta di sangue andai giù con l’ascia fino a destarmi in un letto completamente bagnato. Le nostre menti, insieme, producevano labirinti senza uscita privi di luce. Il nostro rapporto, negli anni, si era trasformato in dipendenza, paura dell’abbandono e della completa solitudine. Dopo ore di studio la foga di poter parlare con qualcuno mi ritrovava con lui 24
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al bar, a organizzare una cena a casa sua che terminava sempre con la sensazione di avere ancora fame. Avevo rotto con Carla, che era l’anello di congiunzione con la compagnia di Milano, gli amici del liceo li sentivo di rado e l’ambiente universitario non mi apparteneva in quanto frequentato da figli di papà con problemi molto differenti dai miei e con i quali avrei avuto ben poco da spartire. Dopo Carla avevo perso la capacità di sorridere alle nuove amicizie. La voragine che aveva creato nel mio cuore, il desiderio di riempirla ma l’incapacità di crederci. Lasciare Oscar poteva essere una soluzione, ma senza sostanze per i divertimenti sarebbe stato anche peggio. Colmava le sue lacune finanziando i miei desideri. Mi comprava. Ed io mi lasciavo comprare pur avvertendo ad ogni sì il degrado della mia anima e la compassione crescente per me stessa. L’avevo imparato sulla mia pelle: nero chiama nero. Quando tutto va storto è bene aspettarsi il peggio e non farsi cogliere impreparati. La notizia la raccolsi io. Per ben due volte. Era un sabato mattina quando squillò il telefono: “Pronto?” “Sì… Pronto, scusate, c’è stato un incidente. Pietro Consonni, lo hanno portato via in ambulanza, con chi parlo?” “Sono sua sorella!” È un incubo. Questo è solo un incubo. Respira. Domanda. Forse non è così grave. “Ma cosa è successo? Sta bene? ” “Non si è capito bene, mi scusi, lo hanno portato via, non so, all’Ospedale di Pioltello.” “Ma era cosciente? Mi dica qualcosa!” “Non lo so, davvero, mi scusi…!” Riagganciò. Nel ripeterci come ossessi di mantenere la calma, preparammo i vestiti, la biancheria, gli oggetti da bagno. Arrivati in ospedale, chiedi, cerca la stanza, non è lui, ecco. È qui. 25
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“Pietro…” “Sono spaccato…” Scappai fuori dalla stanza, le lacrime forzavano, ma no non devi piangere, non deve vederti così. Stai calma. Non è niente. Cercai un medico, mi disse che non era in pericolo di vita. Aveva avuto un incidente in motorino, lo avevano tirato sotto in macchina. Fratture ovunque. In tre mesi di sedia a rotelle si sarebbe rimesso. Tre mesi: poteva andar peggio. Eppure la solitudine è capace di dilatare il tempo. La respiravo nella sua stanza, nel silenzio delle sue cuffie assordanti, negli sguardi che non volevano parlare, negli amici che siamo lontani e che è un casino venire fin lì. La seconda volta fu solo un anno dopo. Il telefono. Mio padre. I miei tornavano da Ancona dove si erano recati a trovare dei parenti. L’auto era sbandata per la forte pioggia contro il guardrail, andavano a centoventi chilometri orari. Senza la cintura non se la sarebbero cavata. Mia madre trascorse nel letto di casa un mese d’inferno. Senza potersi girare, senza potersi alzare, senza poter far nulla da sola, sguardo fisso contro il soffitto ed un solo imperativo: resisti. Io spettatrice. Io dilaniata. Questa è la vita. Basta un attimo e tutto ciò che hai costruito col sudore va in frantumi. Che il sacrificio che sto facendo dia i suoi frutti perché sto rinunciando alla vita. Ma, quando scende, l’ombra non può svanire d’incanto. Nero chiama nero.
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