Il Tarlo e la Quercia. Strategie di cura del pedofilo

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Ricerche e Contributi in Psicologia

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F. Cataldi - T. Tringali

Il Tarlo e la Quercia Strategie di cura del pedofilo

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Prima Edizione: 2015 ISBN 9788898037834 © 2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Febbraio 2015 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)

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Ai miei genitori, ad Antonio, Bruna e Lorenzo (F. Cataldi) A mia Madre che mi è accanto A mio padre, Francesco ed Edo (T. Tringali)

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INDICE

Prefazione (Don Fortunato Di Noto) Introduzione Il trattamento possibile Il viaggio ha inizio: la negazione L’aggancio Le distorsioni cognitive Ancora sulle distorsioni Affrontiamo il passato Modelli di attaccamento Un luogo al sicuro La ricerca delle emozioni Le fantasie L’empatia Conclusioni Contributi Nessun uomo è impastato solo del male che commette (On. Avv. Sofia Amoddio) Riflessioni su un’analisi dolorosa (Avv. Salvatore Bianca) Una testimonianza che il cambiamento è possibile (Prof. Maurizio Guarneri) Un piccolo gioiello di testimonianza (Dott.ssa Paola Iacono) Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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Appendice Riferimenti bibliografici Ringraziamenti

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PREFAZIONE

Contrasto la pedofilia e gli abusi sui minori, da sempre: segnalo e denuncio chi commette reati “abominevoli” contro l’infanzia ed il triste mercato che viene a costruirsi, un business non facilmente quantificabile. Alle denunce seguono indagini e arresti, e ha poca rilevanza la conoscenza delle diverse categorie sociali cui appartengono gli autori dei reati sessuali contro i minori, perché tutti, anche quando sono stati scoperti, rivendicano la “naturalezza” dei loro gesti e la “normalità” delle loro condotte per il benessere delle loro prede. Non è la prima volta che scrivo delle riflessioni per un libro sul tema dell’abuso, ma cosa alquanto inusuale, in questo caso il testo descrive il “trattamento” per il recupero dei soggetti definiti child sex offenders che scontano una pena per i reati commessi, per aver direttamente “schiavizzato” i bambini. Non possiamo esimerci dall’accogliere chi chiede aiuto, affinché, attraverso un serio cammino terapeutico, di coscientizzazione, di riconciliazione e di contemporanea espiazione della pena, ritrovi il volto umano di sé. Stiamo parlano di “pedofili”, e non utilizzeremo la terminologia giornalistica di “lupo cattivo” o “orco”, di persone la cui distorta percezione della sessualità sfocia in un vero e proprio crimine, abietto e difficilmente accettabile. Ed è difficile anche per me – lo devo confessare – pensare che per i pedofili possa Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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esserci un’accettazione sociale: è un lungo e faticoso cammino. Non invochiamo una “chiave di cioccolato” che chiude la cella e poi si mangia, nè invocheremo mai la pena di morte , ma una pena certa, riparativa e fortemente rieducativa, affinché l’abuso non si ripeta più. Lo dobbiamo alle vittime che hanno bisogno di accudimento, accompagnamento, guarigione e giustizia. Il trattamento rappresenta una grande sfida, un immane impegno e speriamo siano sempre più presenti luoghi, dove, se c’è la disponibilità a mettersi in discussione ed entrare in terapia, si possano raggiungere importanti risultati per non commettere disumanità. Il rifiuto sociale legato ai comportamenti d’abuso è tale che la società civile difficilmente riesce a comprendere che i pedofili possano reinserirsi nella società, dopo aver pagato il debito con la giustizia, e non far più del male ai bambini. Siamo molto lontani, ma i primi passi, in alcuni casi sono stati fatti e realizzati, come dimostra il libro. I drammi causati alle vittime sono disumani, così devastanti che il trauma non si limita all’ambito psicologico, ma genera patologie fisiche spesso permanenti. I pedofili, con mente lucida e non affatto interrotta, con determinazione e costante “affezione distorta”, studiano la preda anche per anni e la attaccano, colpendola nella sua innocente solitudine affettiva. Una vera e propria trappola emotiva, devastante. Persone non ai margini della società. E’ statisticamente accertato che rivestono anche ruoli di prestigio nella vita sociale. Inoltre, sono padri, madri, nonni, cugini, amici di famiglia, quasi tutti nell’ambito familiare e parentale. Conosciuti e con relazioni stabili e durature. Di fiducia. Si aggiungono anche quelli che hanno un ruolo educativo, quelli che vivono nelle comunità dove ci sono bambini. Che studiano e conoscono le fragilità e la solitudine dei piccoli, magari provenienti da famiglie instabili, fragili e con problematiche. Lì si insinuano e tramano la rete di un amore malato e devastante. Il pedofi10

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lo va dove può trovare i bambini. I bambini non percepiscono nell’immediatezza qualcosa di sbagliato. Parvenza d’amore che nasconde disumanità. Internet rappresenta oggi lo strumento comunicativo che ha permesso di creare una maggiore rete di solidarietà e di scambi (foto, video, adescamenti, appuntamenti e relazioni virtuali affettive che riempiono la solitudine dei minori) tra soggetti pedofili e pedopornografi , che se prima erano “soli”, ora possono contare su una vasta rete organizzata e strutturata di “simili”, con le stesse preferenze e perversioni. Non è possibile in questa sede poter descrivere la vasta rete criminale di pedofili nel mondo. Non ci stancheremo di dire che sono persone che tendono a reiterare il comportamento d’abuso . Non dimentichiamo che la pedofilia è un crimine e non c’è giustificazione che la possa rendere “umana”. Il testo offre uno studio strutturato su soggetti detenuti autori di reati sessuali contro minori , che su loro richiesta ho incontrato. Essi sono la conferma di come da questa tragica e pesante situazione si possa uscire, mettendosi in discussione. Non chiedono nessuna riduzione di pena anzi, consapevoli del grave dramma che hanno generato, con “vergogna” sono giunti al pentimento. Angosciati, perché divenuti consapevoli dell’enorme dolore generato alle vittime e alle persone vicine, percepiscono i devastanti effetti della loro “disumana avventura” e il danno “permanente” provocato. Da altre “case di detenzione”, e sono la stragrande maggioranza, dove non si effettua alcun percorso trattamentale, mi scrivono e chiedono se c’è la possibilità di “guarire”. In una delle diverse lettere a me pervenute, un pedofilo – così si è sempre definito con consapevolezza e lucidità – mi cita il Salmo 2; particolarmente un versetto, lo riporto per intero: “Guidami nella tua verità. Fammi fuggire l’errore. E ammaestrami. Infatti da me ho conosciuto solo la menzogna. Perché tu sei il Dio mio Salvatore, e in te ho sperato tutto il giorno. Perché,

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scacciato da te dal paradiso ed esiliato in una lontanissima regione da me non posso tornare, se tu non vieni incontro al mio errare; il mio ritorno infatti ha sperato nella tua misericordia per tutto il tempo della vita terrena.” Non mi era nuovo. Anche il commento accanto, infatti, era tratto dall’Esposizione di Sant’Agostino. Chissà, forse è la sintesi di chi ha conosciuto la menzogna e si sente scacciato dal paradiso ed esiliato. Lo è stato anche Alessandro Serenelli, l’uccisore della piccola Maria Goretti, Santa martire. Uccisa dal suo aggressore, da colui che voleva violentarla. I child molesters forse dovrebbero – gradualmente – conoscere questo esempio di perdono e di orrore perdonato. Maria Goretti, pur non desiderando altro che il suo aggressore rimanesse nell’inferno della vita, lo voleva in paradiso. Nella pace riconciliante. Serenelli scontò circa 26 anni di detenzione, di cui 12 nel carcere di Noto. Nella sua cella ora c’è una cappella, e in quella cappella ci fu la visita del corpo di S. Maria Goretti. Sentimentalismo, romanticismo o forza dello Spirito Santo che con empatia supporta i cuori delle persone, anche le più disumane? Intuiamo tutti – soprattutto gli addetti ai lavori – che non è facile intraprendere un percorso di cambiamento, ma possibile. E bisogna impegnarsi in questo per amore delle vittime, per dare la possibilità di redimersi ai responsabili di tali reati e “peccati” gravissimi. Una società è chiamata a non rassegnarsi al male. Un lavoro che possiamo definire un fiore nel deserto e che richiede l’accoglienza di chi è preposto a non lasciar cadere nel vuoto i risultati positivi. Don Fortunato Di Noto Parroco e Presidente di Meter onlus a tutela dell’infanzia (www.associazionemeter.org)

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INTRODUZIONE

Tener la bocca chiusa. L’autore deve chiuder la bocca, quando la apre la sua opera. Umano, troppo umano – Nietzsche

Questo libro è il frutto di un lavoro conoscitivo e terapeutico con gruppi di detenuti autori di reati sessuali contro minori, in corso ormai da cinque anni, presso la Casa Circondariale di Siracusa. Esso vuole divulgare la grande quantità di dati raccolti, che mettono in luce significative costanti collegabili al fenomeno della pedofilia, testimoniare la reale possibilità di una trasformazione dei meccanismi mentali, tipici dello stile di pensiero del pedofilo e, quindi, incoraggiare la riflessione sulla necessità di un trattamento che, pur senza la pretesa di rappresentare una soluzione unica al problema, può certamente incidere su questa forma di devianza sessuale, attenuando l’alto rischio di recidiva ad essa connesso. Inoltre, la descrizione dettagliata del processo nel suo divenire può fornire al lettore una chiave per la comprensione, sul piano psicologico, di una devianza tanto diffusa e stratificata nelle varie classi sociali, quanto sommersa ed oscura. Nel corso degli anni, sulla scorta dell’esperienza maturata, è stato perfezionato un protocollo di massima, strutturato in grandi aree di intervento terapeutico, che orientano ed eviEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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denziano le tappe di un lento, difficoltoso e doloroso processo di cambiamento. Esso verrà in gran parte restituito attraverso la copiosa produzione di gruppo (richiamata in corsivo), raccolta nel tempo, opportunamente modificata ed epurata degli elementi che potrebbero far risalire all’identità dei soggetti. I richiami teorici, volutamente collocati sullo sfondo del narrato, sono esposti in modo chiaro ed accessibile, allo scopo di rendere il testo fruibile anche ai non “addetti ai lavori”. L’impianto narrativo, imperniato sul fluire tangibile di pensieri, sensazioni, riflessioni ed il loro progressivo trasformarsi, fino a svelare quella parte di sè invisibile, nascosta a se stessi ed agli altri, potrebbe anche favorire, in alcuni lettori, l’identificazione con ciò che accade in tale esperienza. Come uno specchio, essa potrebbe facilitare l’autosservazione ed il riconoscimento del disturbo sessuale di cui ci occupiamo. Può accadere che in una qualunque fase della vita, dall’adolescenza in poi, si presentino pensieri intrusivi, involontari, aventi ad oggetto fantasie sessuali su minori. Secondo i criteri diagnostici del DSM IV (manuale dei disturbi mentali), ripresi senza sostanziali variazioni dal DSM V, la pedofilia, inquadrata tra le parafilie, ossia tra i disturbi del desiderio sessuale, viene così definita: “durante un periodo di almeno 6 mesi fantasie, impulsi sessuali o comportamenti ricorrenti ed intensamente eccitanti sessualmente, che comportano attività sessuale con uno o più bambini prepuberi (generalmente di 13 anni o più piccoli). Le fantasie, gli impulsi sessuali o comportamenti causano disagio clinicamente significativo o compromissione dell’area sociale, lavorativa, o di altre importanti aree del funzionamento”. Sono stati stabiliti vari livelli di gravità del disturbo, da lieve a moderato a grave, a seconda che la condotta non venga agita, venga agita solo occasionalmente, o ripetutamente. Dunque, il pedofilo non è soltanto chi mette in atto il comportamento di abuso, ma si definisce tale anche colui che prova fantasie e desideri sessuali nei confronti di minori, senza mai 14

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compiere l’azione. Come emerso dalla nostra esperienza, tali fantasie e desideri, se inizialmente sono percepiti come insoliti, bizzarri, successivamente diventano “familiari” e si autoalimentano in modo circolare. Il loro soddisfacimento, anche solo attraverso l’attività fantasmatica, rappresenta, infatti, lo stimolo per la costruzione di nuove immagini e fantasie. Con il tempo, esse diventano egosintoniche, cioè non vengono vissute in maniera disturbante, ed anche la percezione di se stessi rimane assolutamente adeguata (persona buona, generosa, altruista, ben inserita nel contesto sociale, buon padre di famiglia ecc...). Nel pedofilo la fantasia dell’atto sessuale con un bambino diventa ossessiva, rappresenta un’idea fissa. Sia che compia o meno l’azione, egli “agisce” sempre nello spazio mentale, in quanto, sia nell’un caso che nell’altro, a livello interiore operano gli stessi stili di pensiero e di fantasia, per cui vengono considerate “normali” idee sessuali devianti. Per tale ragione, nel presente lavoro, con il termine pedofilo facciamo riferimento sia a chi compie l’abuso, sia a chi l’abuso lo “immagina”. Il rischio che i pensieri si traducano in comportamenti è elevato. Solo se la rappresentazione fantastica viene interrotta, intervenendo sui fattori alla base della devianza, si potrà incidere sul comportamento che non è mai un agito di impulso, ma l’esito di un piano strategicamente programmato. Per tale ragione, il pedofilo necessita di un aiuto specialistico. Tuttavia, non vivendo la devianza sessuale come problematica, l’unico motivo per cui egli può rivolgersi ad una terapia è legato, nella stragrande maggioranza dei casi, al suo ingresso nel circuito penale. Ad oggi, il trattamento ha riguardato 68 detenuti. Di questi, 18 hanno completato il percorso e si trovano in libertà, 26 sono stati scarcerati per fine pena nel corso dell’esperienza, 9 hanno abbandonato per scelta personale. Attualmente sono in terapia 15 soggetti.

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IL TRATTAMENTO POSSIBILE

Saper sorprendere se stessi. – chi vuol vedersi così com’è, deve saper sorprendere se stesso, con la fiaccola in mano. Infatti per le cose dello spirito succede come per quelle del corpo: chi è abituato a guardarsi allo specchio dimentica sempre la propria bruttezza: solo per mezzo del pittore egli ne ha di nuovo l’idea. Ma si abitua anche al ritratto, e dimentica ancora una volta la propria bruttezza. Ciò in base alla legge generale per cui l’uomo non sopporta ciò che è immutabilmente brutto, tranne che per un istante; e lo dimentica o lo nega in ogni caso. Umano troppo umano

Un luogo privilegiato di trattamento La pedofilia rappresenta un fenomeno ad alto impatto emotivo, che ingenera notevole allarme sociale. Essa suscita diverse e contrastanti emozioni che vanno dall’incredulità all’indignazione, alla paura, al ribrezzo verso gli autori di tale forma di perversione e di violenza sessuale, e, attraverso lo stigma, determina la rimozione dalla coscienza collettiva di una problematica così angosciante, complessa ed articolata. Tuttavia, in un approccio globale di prevenzione e protezione delle vittime, oltre alla cura ed al trattamento del minore, occorre intervenire, parallelamente, sull’abusante e sulla relazione deviante che lo lega alla “vittima”, caratterizzata e sostenuta da un flusso inarrestabile di impulsi, fantasie e pensieri, orientati

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ad avere contatti sessuali con bambini. Solo ed esclusivamente attraverso un trattamento specifico, che bersagli gli schemi di pensiero disfunzionali, i meccanismi che preservano l’abusante dalla percezione della distruttività dei propri impulsi perversi, è possibile diminuire il rischio di reiterazione dei comportamenti di abuso. I dati di cui si dispone, attualmente, sulla pedofilia, emergono prevalentemente da studi e ricerche su soggetti detenuti. Infatti, per il carattere ego sintonico del disturbo, non provando alcun disagio significativo e costante dal punto di vista clinico, il pedofilo, fuori dal carcere, non è motivato a richiedere spontaneamente un aiuto a valenza terapeutica. Il carcere, allora, può e deve rappresentare lo strumento di aggancio ed il luogo privilegiato per avviare esperienze di recupero; qui, infatti, è previsto per legge che il pedofilo debba sottoporsi ad un’osservazione collegiale, con l’apporto dell’esperto psicologo per almeno un anno e partecipare ad un trattamento di tipo psicologico, quale condizione per l’accesso alle misure alternative. Come vedremo, qualora tale opportunità venga effettivamente garantita, l’adesione al percorso, inizialmente dettata quasi esclusivamente da motivazioni estrinseche, come la prospettiva di benefici di legge, o anche la curiosità, o il desiderio di uscire dalla cella, nella maggior parte dei casi si trasforma in partecipazione autentica, sostenuta da un bisogno interiore di cambiamento.

Sono finito in carcere come pedofilo Il pedofilo in carcere viene allocato in sezioni cd “protette”, poiché lo stesso processo di stigma, che esiste nel contesto sociale, qui vige ancor più pesantemente. La finalità è quella di salvaguardare l’incolumità dell’autore di reato sessuale che, tra tutti i crimini, è considerato il più abietto. Tale isolamento non è solo spaziale, ma investe, in generale, la relazione del pedofi18

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lo con gli altri detenuti, il cui comportamento nei suoi confronti è di evitamento e di forte carica aggressiva. Il processo di etichettamento viene a rafforzare, ulteriormente, il comportamento ed i vissuti di isolamento e di distacco dalle relazioni che, come scopriremo, caratterizzano la struttura di personalità del pedofilo. La scarsa visibilità, che questi ha all’esterno, continua ad essere sostenuta in carcere. Considerato, inoltre, che tale categoria di ristretti rappresenta una percentuale bassa, rispetto al totale della popolazione detenuta e che le esigenze di tutela e di sicurezza pongono, spesso, difficoltà organizzative, relative, ad esempio, agli spostamenti ed agli spazi all’interno della struttura, che non possono essere condivisi con gli altri detenuti, il pedofilo, di fatto, fruisce limitatamente delle attività trattamentali canoniche, come l’istruzione, la formazione, il lavoro e le attività ricreative, organizzate negli istituti penitenziari. Anche gli interventi di tipo psicologico risultano, spesso, di difficile attuazione, sia per la carenza di risorse umane, sia per la complessità e la problematicità di approccio al soggetto pedofilo ed al particolare tipo di devianza, di cui è portatore. Per tali ragioni, la detenzione rischia di identificarsi per questi soggetti con la mera privazione della libertà, senza un efficace intervento di tipo rieducativo. Come viene restituito, quindi, alla società il pedofilo, vissuto, per diversi anni, in una situazione che possiamo definire di “congelamento penitenziario”? Egli, di sicuro, avrà conservato intatte tutte le strategie, volte a mantenere immodificata l’immagine di se stesso agli occhi degli altri (colui che non ha commesso il reato) ed a pianificare futuri comportamenti di abuso. Anzi, proprio in carcere, allo scopo di difendersi dallo stigma e di preservare gli affetti familiari, è portato ad erigere una costruzione mentale, che gli consenta di mantenersi nell’inganno, custodendo il suo “segreto”. L’esito è che, dopo avere espiato la pena, egli ritorni, con elevata probabilità, a commettere lo stesso reato.

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In particolare per il pedofilo, affinchè la pena svolga un’effettiva funzione risocializzante, le normali attività intramurarie non possono rappresentare, da sole, un trattamento elettivo, ma vanno associate ad un intervento psicologico specifico, che miri alla destrutturazione del suo mondo interiore, fatto di fantasie e desideri che mantengono e giustificano la perversione.

Mi viene proposto di far parte di un gruppo Nella nostra esperienza, la modalità di intervento privilegiata di trattamento si è rivelata quella del piccolo gruppo. Il colloquio individuale da solo, infatti, ha evidenziato molti limiti. Ancor più nel contesto carcerario, il pedofilo vede nell’operatore la persona che giudica, di conseguenza si “ritira”, tendendo a sfuggire la relazione, o, al contrario, è portato a controllarla ed a manipolarla, mettendo in atto una serie di strategie difensive che, come sarà chiaro più avanti, sono in parte inconsapevoli ed in parte lucidamente costruite, allo scopo di orientare l’interlocutore nella direzione voluta, ossia la dimostrazione, ad ogni costo, della propria innocenza. Osserviamo, ad esempio, una frequente stereotipia narrativa, consistente in una ricostruzione della vicenda che viene frammentata, fino a dissolversi, attraverso il richiamo ad aspetti di sé socialmente desiderabili (“ho dedicato tutta la mia vita alla famiglia ed al lavoro”; ”sono una persona buona, sensibile e disponibile, sono sempre stato a contatto con bambini e non è mai successo niente”; “ho sempre dato troppa fiducia agli altri e sono stato tradito”), o a dettagli relativi alle circostanze dell’abuso (“era sempre il bambino a frequentare la mia casa, io ero tutto il giorno fuori per lavoro, tornavo la sera ed erano sempre presenti i miei familiari, dunque non avrei mai potuto fare quello di cui mi accusano”) che potrebbero confondere ed indurre in errore l’operatore. Questi, comunque, anche alla luce di una valutazione attenta e complessiva della storia, avrà difficoltà 20

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ad agire interventi attivi ed efficaci, nella direzione del cambiamento; trattandosi, infatti, di strategie che gli garantiscono la “sopravvivenza”, l’abusante sarà, inevitabilmente, spinto a controllare la relazione, attraverso atteggiamenti di irrigidimento o di sottomissione e vittimizzazione. Ci si trova, in ogni caso, di fronte ad uno sbilanciamento, che, in una relazione di tipo esclusivamente diadico, è destinato a mantenersi nel tempo, a cristallizzarsi. Il colloquio individuale diventa, invece, come vedremo, un prezioso strumento di facilitazione, chiarificazione e contenimento, allorquando venga ad integrare un percorso di gruppo, durante le sue diverse “fasi di vita”. Il setting di gruppo, oltre a rappresentare uno luogo fisico rassicurante, costituisce anche uno spazio mentale, dove la condivisione di problematiche comuni, abbassando le resistenze individuali, facilita l’esternazione di pensieri ed emozioni e favorisce, rispetto all’approccio individuale, la riflessione, la rielaborazione e la modificazione di atteggiamenti e comportamenti disfunzionali. “È come un sassolino lanciato in uno stagno”. I nostri gruppi sono rivolti esclusivamente ad autori di reati sessuali contro minori e non in generale ai sex offenders, perché come abbiamo sperimentato, l’età della vittima – adulto o minore - rappresenta una discriminante che può determinare fratture all’interno del gruppo, intralciando il percorso di riconoscimento della colpevolezza. Nella mente dell’abusante, infatti, più la vittima è giovane d’età, più il reato è ritenuto socialmente riprovevole. Tale percezione è presente, addirittura, nel range della minore età; viene stabilita una scala di disvalore del comportamento, per cui coloro che hanno commesso il reato nei confronti di un minore di 12 anni tendono a minimizzare la propria devianza, considerando più grave quello su bambini in più tenera età. Tenteremo di descrivere, nel modo più autentico e dettagliato possibile, ciò che accade nel mondo interiore del pedofilo,

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nel corso del trattamento, mettendo in luce i pensieri e gli stati emotivi del gruppo e la riflessione sul significato che esso, via via, attribuisce alla funzione dei meccanismi che sottendono la pedofilia. Meccanismi che operano nella mente del pedofilo e di cui, prima del trattamento, non è possibile essere consapevoli. Per facilità di esposizione, la narrazione verrà suddivisa in grandi fasi, che vanno dalla negazione del fatto all’immedesimazione con la vittima. Nell’esperienza reale, tale processo non ha un andamento lineare, ma subisce fasi di stallo, di arretramento e di avanzamento, seguendo il flusso dinamico caratteristico del lavoro di gruppo. “Siamo come le lumache, di giorno saliamo e di notte scivoliamo”

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IL VIAGGIO HA INIZIO: LA NEGAZIONE

La più perversa maniera di nuocere a una causa è difenderla con argomenti errati La gaia scienza

Cosa vorranno da me? I gruppi sono costituiti da un numero massimo di 12 membri, appartenenti a classi sociali differenti. L’età media è di 45 anni. L’abuso, che va dalle molestie all’atto sessuale completo, è sia di tipo intrafamiliare che extrafamiliare. I soggetti selezionati non presentano patologie psichiatriche gravi e non hanno agito condotte sadiche. Le persone si conoscono in maniera superficiale. La motivazione iniziale è palesemente legata a semplice curiosità o ai vantaggi che dalla partecipazione potrebbero derivare, in termini di possibilità di accesso a benefici di legge. L’adesione all’attività rientra tra i comportamenti desiderabili ed aderenti alle aspettative di operatori penitenziari e magistratura. Per superare le resistenze o eventuali rifiuti, facciamo riferimento alla previsione normativa sull’osservazione collegiale e comunichiamo che l’esperienza è, pertanto, diretta a coloro che hanno riportato una condanna per abuso sessuale su minore, a prescindere dal riconoscimento della responsabilità in ordine

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ai fatti. Nessuno, infatti, tranne qualche raro caso, ammette di aver commesso il reato. Ai primi incontri, notiamo inespressività, lo sguardo è vuoto e comunica passività. I soggetti hanno difficoltà a stabilire il contatto oculare tra loro e con gli operatori, non soltanto mentre ascoltano, ma anche quando parlano. Si presentano in una sorta di isolamento, chiusi nei loro pensieri, inaccessibili. Tendono a rafforzare il distacco dagli altri, richiamando l’attenzione su se stessi e sulla propria vicenda giudiziaria, al fine di tentare una discolpa. Ciascuno è diffidente, vede i compagni come potenziali nemici che potrebbero cogliere la propria debolezza o far pressione perché confessi l’abuso, rendendolo oggetto di disprezzo, riprovevolezza e disgusto. Inizialmente, infatti, è frequente il ricorso al moralismo che viene utilizzato per allontanare da sé anche il semplice sospetto che il fatto-reato possa essere accaduto. Tendono anche al vittimismo, ossia presentano se stessi in qualità di vittime di complotto, di vendetta. L’essere vittima, oltre che dare un’immagine di sè positiva, li allontana dalla posizione di abusante. In una parola: negano.

Mi hanno incastrato, sono una povera vittima La negazione è il primo scoglio in cui ci si imbatte, trattando con il pedofilo. Essa riguarda la realtà dell’abuso, che viene disconosciuto di fronte all’operatore e agli altri, perché rimangano preservate l’immagine di sé e la rete dei legami familiari e sociali. Non avendo commesso il fatto, non si può essere considerati “pedofili”. E ciò neanche di fronte a prove certe ed inconfutabili, perché, in tal caso, l’atto deviante viene presentato come un fatto episodico, limitato a quell’unica volta e, quindi, espressione di un raptus, di un momento di fragilità. In tale ipotesi, viene utilizzata la negazione della frequenza che, comunque, tutela dall’etichettamento di “pedofilo” e di “malato”.

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Non si può essere considerati pedofili, se la condotta è limitata ad un’unica volta. In realtà, difficilmente, chi arriva in carcere è al primo atto di abuso. È noto, infatti, che la frequenza è una caratteristica di tale devianza, essendo questa, per l’appunto, sostenuta dalla negazione e da altri meccanismi difensivi, di cui parleremo più avanti. Negando, non ci si sente in colpa e, quindi, è facile che il comportamento venga ripetuto. Addirittura “...nego per continuare a farlo”. La negazione rientra tra i meccanismi di difesa, introdotti da Sigmund Freud (1926) e Anna Freud (1936), aventi funzione protettiva; si tratta di modalità di operare, in parte automatiche, che entrano in gioco per eliminare o ridurre sentimenti, impulsi, azioni ritenuti negativi e, quindi, inaccettabili; preservano l’autostima della persona. Nel caso del pedofilo, alla negazione si accompagna spesso la proiezione, ossia gli aspetti ritenuti negativi vengono attribuiti ad altri. Allo scopo di conservare l’immagine di sè e l’autostima, la condotta deviante viene attribuita ad altri. “Non l’ho fatto io, è stato qualcun altro”; “Non ho fatto nulla, la colpa della mia condizione detentiva è del genitore del bambino che si è vendicato”. In ambedue i casi, come si può notare, viene mantenuta la posizione di totale estraneità ai fatti e rafforzata l’assenza di responsabilità. L’adesione al trattamento, come già anticipato, inizialmente non rappresenta una scelta, essendo assente una motivazione intrinseca, legata ad un reale desiderio di cambiamento. Se adesso si contrastasse la negazione, che rappresenta un potente scudo protettivo, non ci sarebbe nessuna opportunità di approccio. Il trattamento non avrebbe inizio. Sebbene sia difficile da attuare, in questa fase è necessario assumere il ruolo di spettatore, lasciando scorrere la negazione, abbandonare qualsiasi valutazione morale, sospendere il giudizio, per predisporre all’abbassamento delle resistenze. Solo quando avranno riconosciuto ed elaborato tutti i pro-

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RICERCHE E CONTRIBUTI IN PSICOLOGIA

cessi alla base della loro devianza, diverranno consapevoli della gravità delle condotte agite e saranno essi stessi in grado di esprimere una valutazione sulle proprie responsabilità morali. E, quindi, il danno alla vittima ed i pesanti effetti del loro comportamento. A trattamento avanzato, riflettendo retrospettivamente sulla loro condizione all’inizio dell’esperienza, i soggetti vedono se stessi come erano allora, quando affrontavano le conseguenze della devianza in carcere. Si descrivono come mentalmente impegnati a costruire la trama di un imbroglio, arricchendola di una serie di aspetti che rendessero verosimile la bugia. Solo così avrebbero potuto “difendersi” nell’ambiente, mantenere le relazioni familiari e conservare un’immagine adeguata di se stessi. È questa una forma di negazione consapevole, abilmente confezionata per ridurre i danni in carcere. Andando oltre, diventano capaci di riflettere anche sugli aspetti della negazione utilizzati all’esterno, quelli che accompagnavano il comportamento di abuso, consentendo e sostenendo l’azione deviante ed il suo reiterarsi. “dicevo a me stesso: in fondo non ho fatto niente di male”; “non ho ammazzato nessuno”; “l’ho subito anch’io da piccolo e sono cresciuto lo stesso”; “adesso capisco che attraverso la negazione trasformavo la realtà: dicevo non l’ho fatto per continuare a farlo”. Che significato dare a tali verbalizzazioni? Non solo il gruppo arriva, con il tempo, a riconoscere la funzione della negazione, in termini di strategia difensiva, razionale e post factum, ma, indirettamente, anche gli effetti della risoluzione del conflitto interiore tra un’attrazione socialmente riprovevole e l’espressione di impulsi sessuali devianti. Conflitto che si definisce a favore della condotta deviante, della messa in atto, annullando il danno alla vittima. In entrambi i casi, la negazione svolge una funzione autoprotettiva.

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IL TARLO E

LA

QUERCIA

In breve… Il fatto che il pedofilo utilizzi la negazione è indice della sua consapevolezza, in ordine al disvalore del comportamento agito. Tuttavia, come sarà spiegato più avanti, tale consapevolezza deriva da un’adesione passiva alla norma, secondo la quale “i bambini non si toccano”. Trattandosi, quindi, di un modello di comportamento che non è stato interiorizzato, egli non prova vergogna, né senso di colpa per l’abuso. L’unica preoccupazione è non essere scoperti. Come abbiamo verificato nel corso dell’esperienza, potenti meccanismi di pensiero, tra cui la negazione, prendono il sopravvento, consentendo la messa in atto del comportamento ed il suo reiterarsi, escludendo qualsiasi considerazione del danno alla vittima. “Non ho fatto niente di male”. La realtà viene trasformata e negata. Tale operazione mentale permette al pedofilo di condurre un’esistenza normale e di mantenere un’immagine congrua di se stesso. In carcere, come si è detto, la negazione si rafforza, perché egli deve anche tutelarsi dal giudizio dell’ambiente.

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