Il cercatore di stelle. I sentieri della rinascita

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A Tu per Tu



Daniela Curreli

Il cercatore di stelle I sentieri della rinascita


Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037032 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Febbraio 2013 in Italia da Atena.net srl di Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl)


Indice

Capitolo I Florence

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Capitolo II La Quiche

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Capitolo III Il parco dello zoo

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Capitolo IV Tavole dell’amore

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Capitolo V La notte dell’uva

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Capitolo VI Viaggio in Italia

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Capitolo VII Il guardiano del cielo

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Capitolo VIII Giovanna

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Capitolo IX L’angelo di Helene

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Capitolo X La Morte

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Capitolo XI Il giustacuore

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Capitolo XII Charlotte

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Capitolo XIII Desiderio di sogno lucido

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Capitolo XIV Metamorfosi e armonia

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Dicono che la vita abbia un senso, per me ne ha due. A Davide e Enrico



Prefazione

Mariano è uno di noi, figlio di emigrati sardi in terra di Marsiglia negli anni del dopoguerra, fuggito alla povertà che impediva di trovare lavoro, di fare progetti di vita e conservare la dignità umana. Il caso, le scelte, gli incontri che vive sono il suo percorso esplorativo magico. Si mette alla prova per sopravvivere, capire se stesso e vivere anche una sua vita, in un terra straniera e amica, che nel tempo diventa luogo di sogni, ricordi, profumi, suoni, magie, che appaiono dando vita alla sua vita, offrendogli la disponibilità alla conoscenza e all’incontro. Esiste la possibilità per tutti noi di incontrare “l’altro” in momenti che in fondo sono un po’ magici, che ci permettono di immergerci nel mondo con occhi sempre nuovi, quasi innocenti, perché il godimento è attimo fuggente. Panta rei, tutto scorre, noi ci siamo. I nostri sensi ci fanno conoscere il mondo, e la felicità è forse solo questo, riuscire a rimanere se stessi nel cambiamento, in un equilibrio dinamico che non uccide i sentimenti, ma che guida a scoprire, cercare, esporsi, manifestarsi, ma anche stare soli con se stessi ad ascoltarsi, profondamente, in silenzio. Qui non si trema, non si ha paura neanche delle delusioni, non si vuole possedere nulla, si gode l’attimo per sentire la propria pulsione d’amore che abbraccia il mondo, scegliendo colei che ci rende felici. Così è possibile che le nostre anime volino alto, ci permettano di passare in questa terra più leggeri, sereni, “come angeli che non sono nel cielo, ma si accompagnano alle vite delle persone che li vogliono accanto”. Federico Cerulla, psicoterapeuta 9



Capitolo I Florence

Chi ha la fortuna di sapere che la vita sentimentale dipende dalle stelle, sa che deve rispettare un patto con gli angeli: deve salire in cielo, sfogliare i petali del suo fiore celeste e nutrirsene con l’unica persona che tiene stretta al cuore. Narra la leggenda che, nell’attimo in cui si incontra l’amore vero, due stelle si uniscono in un’unica grande stella che, come un fiore, si schiude e lascia cadere i suoi petali sugli innamorati. La loro vita sentimentale sarà costellata di fortune se la grande stella resterà intatta nel tempo. C’è un angelo sopra ogni stella che vigila sui sentimenti: se un amore vero viene interrotto in armonia, divide la stella a metà e ognuno potrà riprendere la sua parte. Da lassù l’angelo osserva gli errori e i pentimenti degli innamorati, e quando l’amore finisce per paura, egoismo, capriccio o tradimento, gli si dovrà consegnare il peso dell’ultimo amore finito. Dolore in cambio di petali di stella. Ma cosa fa l’angelo vigile con il dolore che reclama? Lo purifica e lo ricicla? Sarebbe meraviglioso e invece no, per niente! L’angelo crea nuovi petali di stella tempestati di macchie di sofferenza arrugginita dalle lacrime dell’amore dimenticato che ostacolano la nascita di un altro amore . Chi si oppone alla decisione del guardiano del cielo di dividere una grande stella, vive solo della fantasia dei ricordi d’amore. Non è possibile ricevere petali da più di una grande stella per volta, perché non possono brillare due grandi stelle per la stessa persona. Chi conosce questa leggenda usa i petali con prudenza, ma chi la capisce quando ormai è troppo tardi, passa la vita corren11


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do su e giù dalle stelle, cercando di rimediare agli errori. Il patto con gli angeli è incomprensibile a chi vive amori muti, che dormono nell’apatia di un viaggio tiepido. Non ho mai smesso di amare, perché ogni attimo di piacere è unico. L’aria che mi circonda è sempre gradevolmente condita con la dolcezza dei coriandoli che sbattono come pugni e carezze sul mio cuore, che borbotta ancora una volta, adesso, come una pentola d’acqua bollente, mentre scoperchio lo scrigno dei ricordi di lei, sirena avida di amore, Audette. Adoro crogiolarmi lentamente nel ricordo di ogni sua parola, talmente poche per me, che non posso dimenticarne neppure una. Fin dai primi giorni dopo averla conosciuta mi sentivo nell’anticamera di un mondo fatato ma la sua presenza, un po’ insistente, già mi agitava. Per non viverla troppo in fretta, tentavo di non farla avvicinare al mio cuore. In attesa di riconciliarmi con il mio equilibrio interiore preparavo, nella cucina del mio ristorante a Panier, la crema alla liquirizia che, una volta fredda e soda, farcivo con la polvere di menta allungata nell’acqua ghiacciata. Speriamo non sia stucchevole! Piace a tutti i miei clienti, la preparo una volta alla settimana e la serviamo il martedi a cena. Aprivo la vecchia credenza di ciliegio pregiato che Monsieur Tonet aveva recuperato da un antiquario di Cannes. Aveva due lunghe ante adornate con spighe di grano intagliate nel legno e la grande chiave, come sempre, stentava a girare nella toppa nel verso giusto. Custodivo sugli otto ripiani tovaglie in pizzo, piatti, stoviglie e altri oggetti da cucina che destinavo solo a pochi clienti perché erano frutto della mia collezione personale. Frugavo, nel ripiano più in basso, fra le posate d’argento punzonato, comprate in un mercatino di Londra e la raccolta di cucchiaini, souvenirs di ogni città che ho visitato e cercavo di acchiappare, in mezzo all’altissima pila di stampini per dolci acquistati in giro per l’Europa, quelli che mi ispiravano di più. 12


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Avevo scelto quelli in rame sbalzato, con tre fiori di pesco in cima e le foglioline in girotondo nella base. Li avevo comprati in una calda giornata di primavera da un giovane ambulante a Siviglia. Far sentire i miei clienti dei privilegiati, col passare degli anni, era diventata sempre più una routine dal buon sapore di famiglia. Sentivo, in quei giorni, la presenza di un mostro gigante che abitava il mio debole stomaco vietandomi di mangiare le mie pietanze speziate, e del suo fratello gemello che faceva da sentinella al mio cervello, impedendomi di aprire la finestra del cuore a nuove conoscenze. La liquirizia piaceva tanto a Florence, era una delle tante passioni che avevamo in comune oltre alle belle cene, agli alberghi di lusso e alle notti che tenevano svegli i nostri sensi. La nostra era una relazione affettiva effimera come una stretta di mano distratta, che negli anni afferravamo e tagliavamo per poi unire ancora. Portarla a vedere la danza dei riflessi della luna sul mare, la nostra prima notte insieme, mi era sembrato un ottimo inizio. Avevamo fatto l’amore dentro un vecchio peschereccio abbandonato, l’odore di nafta ci intasava le narici insieme a quello acre delle carcasse dei pesci consumati dal sole. “Non spogliarmi tutta, ci possono vedere.” “Baciami, Florence, vieni con me, nascondiamoci dietro queste reti, qui non ci vedono.” “Il dondolio della barca sul mare non l’avevo mai sentito tanto intensamente. Mi sembra di galleggiare sul pelo dell’acqua!” “Stai solo con me, Florence. Ti farò dimenticare il passato. Non voglio vederti parlare con altri uomini. Lo vedo, sai, come ti guardano.” “Mi sono già dimenticata di tutti da quando sono salita su questa barca. Ora sono solo tua.” Ma dopo quella sera, si sono alternati solo sguardi e promesse 13


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mute. Nel tentativo di nutrirla dei petali celesti, le offrivo vacanze in paesi esotici incontaminati dove speravo che la natura immacolata le trasmettesse un impulso diverso da quello che ci spingeva solo a sdraiarci uno affianco all’altra. Mi piaceva l’idea che avesse desiderato stare proprio con me, perché era corteggiata da tanti uomini. In effetti era molto bella e anche seducente, ma i suoi due matrimoni passati avevano un perché. Quando veniva a Marsiglia le preparavo i suoi piatti preferiti a La Quiche. Sceglievo con premura solo per lei, per tutto il tempo che ci frequentavamo, le migliori porcellane inglesi conservate dentro la credenza di Monsieur Tonet. Lavorava nel Museo Picasso di Antibes e, a causa della lunga distanza fra le nostre città, non era possibile vederci spesso. Ci tenevo a incontrarla di tanto in tanto, per stabilire quale fosse la punteggiatura giusta per la nostra relazione. L’ultima volta non avevo più dubbi, bisognava mettere un punto. Era sparita per un mese nel nulla ed era riapparsa una notte in ristorante, con due valigie in mano. Ero impegnato con la chiusura di cassa insieme a Paul, quando l’avevo vista entrare. Aveva un tailleur elegante, nero, lucido. La giacca attillata, chiusa da tre bottoni dorati che le segnavano la vita stretta, metteva in evidenza il suo morbido seno. Una lunga fascetta in raso dello stesso colore del completo che teneva in ordine i suoi capelli ribelli rosso fuoco le si poggiava sulle spalle piegate in avanti per il peso dei bagagli. Florence sapeva bene che mentre pianificavo il lavoro con il mio socio per l’indomani, non era consentita nessuna distrazione. Senza chiedere scusa, e aspettare seduta in un tavolo della sala che finissi di lavorare con Paul, restava imperterrita in piedi davanti a noi, accusandomi di non averle mai offerto la serenità che cercava. 14


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“Non trattarmi come una bambina, Mariano. In questi tre anni che siamo stati insieme hai pensato solo a viaggiare con me, ma neppure per una volta hai pensato di costruire qualcosa di serio.” “Non adesso, Florence. Dopo ne parliamo.” “Secondo te ho fatto un viaggio di quattro ore in treno per sentirmi dire: dopo ne parliamo?” “Siediti per favore, dai.” Paul mi aveva fatto un cenno con la mano per chiedermi se volessi restare da solo con Florence ed io gli avevo risposto con lo sguardo di non osare muoversi di lì. “Non mi hai presentato tua madre, non mi hai chiesto di sposarti, non vuoi figli. Insomma si può sapere che intenzioni hai?” Non mi abbagliava più la cornice dorata dei suoi racconti che un tempo sembravano pacati, né la sua pelle vellutata come i petali di una rosa profumata dagli odori teneri e materni. L’imprevedibilità di un rapporto singhiozzante, che farebbe eccitare molti uomini, aveva fermato il mio incontenibile desiderio di scoprire il suo corpo in ogni angolo di strada, come invece succedeva all’inizio. Florence aveva appena comprato casa a Aix-en-Provence e forse anche la sua imminente vicinanza e stabilità mi facevano scappare via da lei. È come se, a furia di singhiozzare, un rigurgito si fosse animato e avesse cancellato tutte le mie incertezze in un colpo solo. Via via che imparavo a conoscerla, cambiava il mio punto di osservazione di quei suoi sbalzi d’umore che all’inizio rendevano intrigante la nostra relazione e capivo, nel tempo, che non erano capricci di donna ma radici di un suo antico malessere inespresso che non voleva discutere con me. Non riuscire a raggiungere il suo spirito rendeva quasi comica la nostra frequentazione e purtroppo, quando passavamo del tempo insieme, vedevo i colori della vita che mi sorridevano, fermi e impettiti, aspettando di essere usati, per timore di finire mischiati in un unico disegno monocromatico. 15


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Pensavo a quante tele si sarebbero potute dipingere di blu cobalto o rosso carminio o porpora con le sfumature dei nostri pensieri, se solo avesse visto i petali della stella che tenevo stretti nella mano che le porgevo. Mentre scorreva il tempo giravamo insieme, nello stesso istante, come lancette di un orologio svizzero, sopra un letto che non hai mai conservato un verde smeraldo, un pervinca, un indaco o un giallo pastello tra le lenzuola. Anche da una bolla di sapone sboccia l’arcobaleno, ma forse da noi due, quando siamo insieme, manca la luce. Credevo di non essere all’altezza delle aspettative delle mie donne e con ognuna ripartivo dall’apprendistato, con la sottomissione e la freschezza di chi cerca il primo impiego per emergere nella società, e Florence era sembrata un’ occasione da non perdere. Seguivo dei percorsi colorati con la mente dove trovare il suo consenso e idealizzavo i nostri viaggi insieme, ma trionfava soltanto la nostalgia per le domeniche passate con la mia famiglia, in campagna, tanti anni prima. Facevo appello alle sensazioni olfattive, perché mi aiutassero a ricordare il clima felice delle scampagnate con i parenti per poi proiettarlo nello schermo immaginario delle giornate con Florence. Ci portiamo appresso le nostre specialità, quando percorriamo una nuova strada promettente di ricche esperienze, e avere la possibilità di sbirciare la corsia parallela dei ricordi, regala la sensazione di essere ottimi guidatori dei nostri stati d’animo. Continuavo a tirare su con il naso in cerca di odori, mentre andavamo ad Avignone per passare la notte. Florence, stagione dopo stagione, non perdeva il suo stile e continuava a vestire abiti scuri e succinti. Secondo me avrebbe potuto usare qualcosa di colorato come ostentavano le ragazze 16


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hippy in quegli anni per evitare che, chi la conosceva da anni, potesse notare in modo più evidente che, a dispetto dei vestiti perennemente identici, il tempo stava lasciando i segni sul suo viso, che ormai non riusciva più a nascondere i suoi quarant’anni. Si sentiva al sicuro con me ma i petali del suo fiore celeste erano soffocati da quelli creati con il peso degli amori finiti e, per quanto mi potessi sgolare a spiegarle come costruire un rapporto edificante, non sarebbe riuscita a sentirmi. Durante il nostro ultimo incontro avevamo incrociato in un albergo di Avignone un gruppo di bambini in gita scolastica. Avevano si e no dieci anni. L’incontenibile vivacità dei loro giochi conquistava ogni spazio libero e le loro risate spensierate mettevano allegria ai clienti dell’Hotel che, come noi, erano obbligati a fare lo slalom fra biglie colorate, soldatini in plastica e macchinine di latta. I bambini aspettavano di poter salire nelle loro stanze, dopo che l’insegnante avesse sbrigato le formalità alla reception. Qualcuno restava seduto per terra a giocare ma la maggior parte passava il tempo ad entrare e uscire velocemente dall’albergo per poter ruotare nella porta girevole dell’ingresso. Mentre schivavamo, coprendoci il viso con le mani, gli aerei di carta appuntiti che insieme ai colpi delle cerbottane volteggiavano all’altezza delle nostre teste, Florence li guardava divertita e per ognuno trovava una parola dolce con cui descriveva un particolare che l’aveva intenerita. Era molto legata ai suoi nipoti, mi raccontava tutto, proprio tutto quello che facevano e nel corso degli anni avevo imparato a memoria anche i nomi dei loro amichetti. Se ne occupava con la devozione di una madre e tirava il freno alle angosce che la turbavano, quando giocava con loro. Le proposi di fare un esercizio per riconciliarsi con il resto della famiglia, che capivo fosse il suo nodo essenziale. “Florence, oggi quando vai al mercato, compra due arance belle sode.” Florence non era stupita dalla mia richiesta: “Va bene, Mariano. Solo due?” Di sicuro pensava che le arance servissero per 17


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condire il salmone al finocchietto selvatico, piatto ereditato da una succulenta ricetta di famiglia. Continuavo fiducioso la spiegazione. “Appena arrivi a casa, prima di metterle in bella vista sulla tua credenza di cucina, devi scrivere sulla buccia rugosa di ciascuna il nome dei tuoi genitori, e lasciarle lì per due giorni. Guardale spesso e abituati alla loro presenza nella tua casa.” “Ti piace questo brano, Mariano?” Florence stava ascoltando Mozart e non aveva prestato attenzione alle mie parole, ma io avrei voluto continuare e dirle: “Al terzo giorno devi scegliere una prima arancia e sfregarla lentamente fra le tue mani, fino a che il sudore non cancellerà il nome che hai scritto sopra. Ancora più lentamente, devi sbucciarla e mangiarla. Devi iniziare e finire, concentrandoti sui ricordi condivisi con il familiare scelto. Così farai un gesto d’amore simbolico, che ti avvicinerà ai tuoi cari.” Chi non conosceva il patto con gli angeli, come Florence, non poteva, ancor meno degli altri, fare economia sugli affetti dei parenti e perdere così una sorgente d’energia positiva. Mi sentivo quasi evanescente e inutile quando ero con lei, dentro un corpo che ospitava solo la mia carne, ma che non mi possedeva più. Non vedo, non sento, non parlo, non rido, non piango, non urlo, ma penso, mentre mescolo i sapori della vita dentro la pentola d’acqua bollente, che da domani voglio assaggiare ancora.

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Capitolo II La Quiche

Attraverso gli sguardi di chi mi si avvicinava al cuore, vedevo i miei occhi col colore della notte e le mie spalle larghe che promettevano un rifugio tranquillo. Essere un uomo forte non era facile e lo era ancor meno per chi, come me, si sentiva annodato alle radici affondate in un’altra patria. Le privazioni che i miei genitori temevano di patire, se fossimo rimasti in Italia, condizionavano i miei pensieri al punto che avevo costruito una vita agiata, non tanto per concretizzare una mia ambizione ma per regalarla a loro. Lavorare senza sosta, sudando fin da ragazzino per portare i soldi a casa, era un dovere inconfutabile, il mio credo. I nostri parenti più stretti erano sempre rimasti legati a noi, ma durante i primi dieci anni dalla nostra partenza, non ci eravamo sentiti abbastanza pronti per presentarci al giudizio del vicinato della nostra vecchia casa del Bel Paese. Non c’era volta che non ci chiedessero di tornare in Italia, ospiti loro, almeno per una breve vacanza, ma avevamo declinato gli inviti per tutto quel tempo. Mia madre giustificava la nostra assenza con amenità, che inventava sul momento. In realtà i miei genitori si sentivano inadeguati perché non riuscivano a sopportare il confronto con il loro passato e, anche se a Marsiglia riuscivamo a malapena a sbarcare il lunario, lasciavamo credere a molti dei nostri parenti che vivessimo una vita comoda e fossimo orgogliosi della decisione di lasciare la Sardegna. Intuivo dai racconti di mia cugina Silvia che parlavano di noi, nelle cene di Natale, come se avessimo trovato una fortu19


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na e fossimo diventati dei francesi sofisticati. Invece lavoravamo tutti, tutto il giorno, e come formichine rincorrevamo il sapore del nostro fiero sogno che presto avrebbe dimostrato ai nostri familiari in patria, più che a noi stessi, che avevamo fatto la scelta giusta. Sei mesi dopo il nostro trasferimento avevo trovato, nascoste fra la biancheria profumata di lavanda conservata nel primo cassetto del comò della camera da letto dei miei genitori, le lettere mai spedite che mia madre scriveva a mia zia. Le raccontava di avere difficoltà a comprarsi addirittura un paio di scarpe nuove, a cui rinunciava pur di conservare i soldi per la nostra scuola. Mi si gonfiavano gli occhi di lacrime, ricordando invece di averla sentita mentre diceva a una sua cliente che preferiva aspettare il prossimo viaggio in Italia pur di non usare scarpe francesi, che erano di qualità inferiore. La esortava alla fine di ogni lettera, prima dei saluti, ad andare a pregare nella chiesa della nostra città natale e le raccomandava di rivolgere una supplica in particolare a Santa Rita perché potessimo realizzarci in fretta e riprendere la nostra vecchia vita insieme a loro. La nostalgia io e miei fratelli non l’avevamo provata, avevamo trovato da subito un impiego ed eravamo allineati ai ragazzi delle altre famiglie venute qui dall’Italia. Gli studenti che abitavano nel nostro quartiere, come noi, frequentavano la scuola di mattina e lavoravano la sera. Con grande solidarietà ci scambiavamo favori e condividevamo gioie e dolori quotidiani della nostra nuova comunità. Mi sentivo uno dei tanti, mai uno diverso, mai uno straniero, ma l’impatto emotivo vissuto dagli adulti era ben diverso da quello dei ragazzi che normalmente stanno dove gli si dice di stare, senza fare troppe storie. A fine primavera, ogni anno, mia zia Laura veniva a trovarci con le figlie. Negli anni si rinnovava la tradizionale gita nelle campagne provenzali e durante i lunghissimi percorsi fatti con la macchina presa a noleggio per l’occasione, restavamo estasiati 20


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dagli spettacolari scenari offerti dalle distese di lavanda. Scattavamo tante fotografie, simili alle cartoline vendute nei negozietti lì intorno, con noi in primo piano, immortalati sorridenti e abbracciati, mentre una nuvola color indaco ci avvolgeva le spalle. Il clima, fra noi cugini, era sempre disteso e il nostro affiatamento assicurava lo scambio di tante confidenze e confessioni. Cinzia, mia cugina, una sera prima di andare a dormire, mi aveva obbligato a darle il bacio alla francese di cui aveva sentito sempre parlare. “Te lo do io, il bacio” le avevo detto, buttandola nel letto e facendole il solletico. Le mie cugine e i miei fratelli, divertiti dalla scena e dalle nostre risate, contribuivano al gran baccano e al ritmo di una marcia militare, salivano sui materassi e scendevano di colpo, cadenzando il passo. Dal primo giorno in cui le mie cugine erano arrivate avevamo sperimentato il rito del lancio dei cuscini e l’avevamo ripetuto fino alla notte prima della loro partenza. La sera del bacio alla francese avevamo avvicinato tutti e cinque i letti per fare una prova di abilità: dovevamo correre insieme, partendo dal primo materasso fino ad arrivare all’ultimo, senza cadere. Umberto, il mio fratello più piccolo, inciampava sempre e finiva con le gambe incastrate negli spazi fra un letto e l’altro, e frignava: “È colpa vostra. Io sono più veloce di voi…” e ridevamo “Ma state spostando i letti apposta per farmi cadere?” Non aveva ancora finito di parlare che i cuscini avevano risposto al posto nostro, nella guerra “tutti contro tutti” che era durata finché non avevamo disfatto completamente ogni letto a furia di saltarci e caderci sopra. La presenza delle mie cugine in casa, durante la nostra adolescenza, rendeva l’aria sempre elettrizzata e mio padre vigilava premuroso sulle nipoti per difenderle dagli scherzi che io e i miei fratelli facevamo di continuo. Io ero il più bello della famiglia, con i capelli ricci, gli occhi color carbone e il sorriso scanzonato. Facevo girare Giulia, Silvia e Cinzia intorno a me, senza malizia per tutta la vacanza. Di sera le portavamo a guardare il tramonto a Les Calanques dove fumavamo di nascosto con i nostri amici. Giulia, la più 21


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grande delle cugine, un pomeriggio, dopo la sua prima sigaretta, aveva vomitato fino a che non eravamo rientrati a casa. A turno sfidavamo il destino dei passeggeri del treno che passava non lontano da casa, mettendo cumuli di pietre dentro i binari, certi di farlo deragliare e le mie cugine, man mano che sentivano il fischio del treno sempre più forte, iniziavano a urlare come oche impaurite fino a spaccarci i timpani. Tutti insieme a casa, stavamo stretti. Anche se dovevamo dividere la stanza da letto con le due cugine più grandi, io e i miei fratelli eravamo contenti di restare svegli fino a notte fonda a giocare a fiori, frutta, cantanti, mestieri e città o a battaglia navale. Dopo un mese di sbucciature e lividi, anche loro avevano imparato a giocare a pallone come dei maschi. Ci salutavamo distrattamente, quando dovevano ripartire, come se non dessimo importanza al bel legame che ci univa, preferendo lasciare i saluti malinconici ai nostri genitori, ché ce n’era abbastanza per tutti. Durante il resto dell’anno, era mia madre che teneva i contatti con loro, per noi fratelli erano cose da femmine e non ricambiavamo i saluti, neppure quando mia madre, tirandoci per un braccio mentre teneva il telefono con l’altra mano, tentava di incollarci la cornetta all’orecchio. Sono diventato uomo in fretta, quando Monsieur Tonet, proprietario del ristorante, stanco di lavorare da ormai troppi anni, mi aveva ceduto l’attività. Mi aveva insegnato un gran mestiere, che avevo barattato con la mia bella giovinezza. Monsieur Tonet non era sposato e non aveva figli, il lavoro era l’unica sua occupazione e preoccupazione. Il lunedi, giorno di riposo, passava il tempo a lucidare l’insegna in ottone del locale che non ho mai cambiato, neppure quando è diventato mio, La Quiche è il suo nome. Continuava a stare arrampicato tutto il lunedi mattina sulla scala in ferro e ritoccava i colori delle sagome dei fiori, che aveva dipinto di giallo, verde e rosso con le sue mani d’oro, sopra la vernice azzurra del legno della vetrina. 22


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Aveva iniziato l’attività con una boulangerie, dove le varietà di pane esposto nella vetrina colorata erano così invitanti che riceveva sempre le ordinazioni dalla maggior parte dei clienti. Baguette, pane bianco, casereccio, integrale e di segale infornati da Monsieur Tonet, erano sempre presenti sulle tavole apparecchiate nelle case del quartiere, tanto che, vedendo che gli affari andavano bene, aveva riempito due grossi frigoriferi smaltati di bianco, di una esorbitante provvista di burro. Aveva iniziato preparando i croissant con le marmellate prodotte artigianalmente, il pain au chocolat e gli squisiti macarons dalle tinte tenui rosa, verdino, malva e azzurro. Poi aveva continuato sfornando deliziose tart tatin di mele, crepes al cioccolato, bignè alla fragola, profiterol alla panna e mousse di yogurt bianco con marmellata di petali di rosa e coulis di lamponi che esponeva con maestria ed eleganza nella vetrina. I passanti attirati dal tripudio di colori, esaltati dalle tinte accese dei fiori dipinti sul legno della vetrina, facevano la fila per entrare. Mi ripeteva sempre “Qui non si trema” perché, a detta sua, non c’era difficoltà che non si potesse affrontare. Quando ero ragazzino pensavo che la vita per lui fosse davvero facile ma ora da adulto, ho capito il peso del suo sacrificio. Mi ha lasciato in eredità il suo ottimismo e la capacità di saper pianificare il lavoro con positività. In dieci anni aveva trasformato la boulangerie del quartiere in un ristorante. Nel retrobottega, all’inizio con pochi tavoli e sedie di fortuna, serviva formaggi e salumi locali da gustare con il pane prodotto nel suo forno, ma la svolta che gli aveva permesso di inaugurare la sua nuova attività di ristoratore erano state proprio le prime quiches che aveva offerto ai suoi clienti. Via via sempre più celermente si era trovato a dirigere una squadra completa di cuochi e di camerieri che andavano e venivano fra la cucina e la sala ristorante dalle pareti giallo limone. Era riuscito a rendere caldo e accogliente tutto il locale, curando ogni particolare: sopra i cinque tavoli lunghi in legno e gli otto tavolini in ferro smaltato c’erano le tovaglie a quadretti color avorio e bordeaux, e poggiata sopra una brocca 23


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in terracotta per il vino e un portacandela in vetro colorato dove alternava candele dalle tinte pastello, e tutte le sedie erano imbottite e rivestite di stoffa con fantasie floreali abbinate alle tovaglie. Monsieur Philippe Tonet aveva cinquantacinque anni quando l’avevo conosciuto. Il suo fisico asciutto e molto muscoloso era ben proporzionato alla sua bassa statura. Portava i capelli alla mascagna, pettinati all’indietro, lunghi e senza scriminatura, e li ricopriva di brillantina. Era un pomeriggio di maggio, quando mi aveva dato la notizia. Appena era entrato nel ristorante mi aveva scarmigliato i capelli, come aveva fatto la prima volta che ero entrato nel locale, accompagnato da mio padre, per cercare una qualsiasi occupazione: “Mariano, fra quindici minuti al bar di Celestine.” Stavo finendo di preparare la maionese per condire il lesso di manzo che avrei servito per la cena, quando mi si era avvicinato. Dopo un quarto d’ora esatto ero nel bar e lui era già lì che aspettava seduto ad un tavolo. Gli avevo chiesto: “Dove sono gli altri? Cosa si festeggia?” Lui che aveva la battuta sempre pronta, e in questo caso anche tutto il discorso, mi aveva detto: “Si festeggia la nostra vita, che da oggi cambierà.” Aveva dato un pizzico alle sue bretelle che subito gli erano rimbalzate sul petto. “Sono soddisfatto di aver trovato, ora che sono troppo vecchio per lavorare, un ragazzo pronto a prendere il mio posto qui a La Quiche. Non ti sei mai allontanato dalle mie tradizioni, come se fossero anche le tue, sei rimasto sempre fedele ai ritmi che ho imposto nel mio lavoro. Non mi sento debole o un uomo finito, mi sento vittorioso, per aver fatto la scelta migliore, dandoti la mia fiducia. Non dimenticare mai, in nessun giorno della tua vita, qualsiasi cosa possa accadere, che “Qui non si trema”! Hai ventotto anni, è l’età giusta per iniziare a vivere sul serio. Quindi, ora entra in ristorante e dai la bella notizia ai tuoi dipendenti.” Mi tremavano anche le vene, altroché! I miei capelli si erano 24


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appiattiti sulla testa per tutte le volte che ci avevo passato nervosamente la mano sopra, chiedendomi da dove avrei dovuto incominciare. Mi ero rimboccato le maniche della camicia e saltando dalla gioia come un delfino ero entrato nel mio ristorante. Monsieur Tonet era il mio padre putativo e come tale gli avevo portato rispetto per tutta la vita. Aveva continuato a venire spesso a La Quiche e ogni lunedì mi chiedeva di portargli la vecchia scala in ferro davanti alla vetrina azzurra. Mentre tirava a lucido l’insegna, sbirciava dentro il locale se arrivavano dei fornitori e approvava con lo sguardo pieno di orgoglio le conclusioni dei miei affari ormai senza esitazioni. “Qui non si trema” volevo diventasse anche il motto della mia vita ma, se nel lavoro ero più solido delle pareti del mio ristorante, non lo ero altrettanto nella vita sentimentale, che affrontavo con il timore di far soffrire per amore e perdere le mie stelle.

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Capitolo III Il parco dello zoo

Audette era la mia sirena. Adesso, mentre ripenso a lei, cerco di rievocare le sensazioni del passato per riuscire a immaginare quanto potesse essere bella già dai suoi primi anni di vita. Lei era nata sulle punte ed era in punta di piedi che vedeva la vita. Come una bambina che si affaccia a una finestra troppo alta per riuscire a capire tutto quello che la circonda, Audette, quando intravedeva qualcosa giù per strada che attirava la sua curiosità, era già troppo affannata per potersi sporgere ferma sulle punte. Poteva vedere solo le mezze tinte del mondo e immaginarne l’altra metà. Guardava il cielo, l’orizzonte sul mare, intravedeva le cime dei tetti, ma non sentiva rumori. Era tutto immobile da lassù. Audette era sempre stralunata. Dentro la sua cameretta, piccola piccola, era avvolta dalla luce della musica. Restava per un po’ ferma, con i piedi sul pavimento freddo, e di scatto girava in tondo nella sua stanza, veloce, velocissima, finché tutto girava con lei, così tanto da farla fantasticare sull’esistenza di un mondo confuso ma rassicurante. Le si stampava un bel sorriso sulle labbra carnose, con una piccola fessura al centro della bocca, dove la sua linguetta faceva capolino molto spesso. Aveva bellissimi capelli biondi e lo sguardo basso che custodiva il cielo nei suoi occhi. Ogni sera, nella solitudine dei pensieri di bambina, ripeteva i passi di danza per rafforzare la sua preparazione e avverare il miraggio di poter ballare nei teatri sfarzosi di Parigi. Per lei era ancora una fantasia, ma era un sogno per la mamma, da cui non sentiva mai fiabe, ma solo tante parole. La sua stanza che si affacciava sul mare aveva un panorama da togliere il fiato, quanto lei aveva saputo toglierlo a me, quando 27


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si era fatta donna. Aveva le mani più belle che mi avessero sfiorato, le usava con la delicatezza di una farfalla che si poggia su un fiore e che fa venir voglia di essere toccato così per sempre, ogni giorno, per tutto il tempo che la vita può regalare. Mi toccava con la dolce premura di una madre che veste il suo bambino per la notte, a cui augura i sogni più belli attraverso gesti appena accennati, per risparmiargli il benché minimo turbamento durante il sonno. Curava con lo sguardo ogni lembo della mia pelle, dipingendoci sopra la sua miniatura celeste, e solo quando ero coperto del suo stesso colore, mi osservava negli occhi, come per chiedersi se potesse ancora fare qualcosa per me. Dopo aver generato il suo specchio, lo teneva stretto al cuore, confondendosi nel nostro unico corpo. Per niente al mondo sarei riuscito a dire no a questo emblema materno, che ricamava la mia vita di ogni sfumatura dell’amore. Che gioia il nostro primo bagno al mare. Marsiglia non era mai stata tanto luccicante, prima che entrasse Audette nella mia vita. La notte era piena di turisti che affollavano i locali sulla Canebière, in cerca di un po’ di fresco e di musica. La invitavo a uscire tutte le sere e lei si defilava dalle prove di ballo, per raggiungermi nelle caffetterie più chic al Course Julien, dove i nostri occhi si scambiavano promesse sotto lo sguardo ignaro dei passanti e quello favorevole della luna riflessa sul mare. Era riuscita a farmi impazzire in un batter di ciglia, come aveva promesso e sognato. Le sue mani erano il tappeto delle mie angosce, raccoglievano la mia essenza e la spalmavano nel nostro giardino animato. Non smettevo di guardarla, per scrutare il nostro futuro fatato dai suoi occhi. Sembravamo due bambini, astemi d’amore, dall’attimo in cui abbiamo incrociato il nostro primo sguardo, appena entrata nel mio ristorante. Le compagne della scuola di danza leggevano il suo sentimento e ridevano sulla scommessa improbabile. La conoscevano da sempre e la credevano un po’ matta, una sognatrice, per quell’aria sventata, 28


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profonda e raggiante. Di lei apprezzavano l’arte, ma non conoscevano il suo cuore, quello che a me aveva servito con la tenerezza di chi cerca ristoro. C’eravamo arrampicati per più di centocinquanta metri per raggiungere la cima di Notre Dame de la Garde e da lassù avevamo assistito ad uno spettacolo meraviglioso. Il cielo era pieno di scintille che delineavano sentieri di quiete e di amore, mentre un dolce e leggero formicolio attraversava i nostri corpi uniti dalle nostre mani. Insieme avevamo battezzato la nostra stella che sembrava avesse mille punte, l’avevamo cercata fra tante, mentre interrogavamo il cielo con il cannocchiale. “Audette, che nome scegliamo per la nostra grande stella?” “Delizia, come tutte le sensazioni deliziose che provo con te.” “Illuminaci, Delizia.” Dicevamo insieme guardando il cielo. I petali iniziavano a cadere e a coprire i nostri corpi, e per ringraziare il guardiano della via lattea di questo miracolo, avevamo acceso un cero nella cappella a due passi dalla Basilica e avevamo pregato appena appena, per non togliere tempo al nostro tempo. Camminavamo per le stradine strette del Vieux Port, in mezzo alla folla di marinai che arrivavano da realtà lontane. Ci stringevamo forte le mani e passeggiavamo abbracciati, scambiandoci toccatine qua e là e ridendo forte. La città ha dato ospitalità a pittori famosi e ne avevo apprezzato i dipinti fin da ragazzino. Mi piaceva l’idea di visitare insieme a Audette qualche bel museo, prima o poi. “Audette, uno di questi giorni ti porto a vedere i quadri di Picasso. Lo conosci?” “ Mai sentito e tu come lo conosci?” “Quando avevo la tua età ero fidanzato con una ragazza, Charlotte. Il padre era pittore e me ne parlava per serate intere. Poi, un’altra mia fidanzata, Florence, lavorava in una galleria d’arte e avevamo viaggiato insieme per anni e visitato tutti i musei dove esponevano opere d’arte famose.” “Ma quante donne hai avuto? Anzi, non dirmelo. Voglio cre29


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dere di essere io la prima e l’ultima. L’unica, insomma. Da domani devi venire tutti i giorni a guardarmi mentre faccio le prove di danza, altrimenti…” e si fermava, e poi “altrimenti io non ballo più, se non vedo che tu sei in prima fila ad applaudire.” Poi cambiava completamente discorso: “Sai che cosa vorrei fare da grande?” “Sentiamo, Audette, cosa vuoi fare di bello?” “Vorrei fare il medico, per guarire i poveri che non si possono permettere di pagare le cure.” A me non sembrava adatta alla vita terrena e volevo proteggerla standole per sempre vicino. Audette era gelosa, ma non lo diceva apertamente e soffriva in silenzio per fesserie. Come poteva pensare che desiderassi altre donne, dopo aver conosciuto lei? Mi diceva: “Io ti adoro, tesorino. Ti voglio bene, tanto bene, e tu me ne vuoi? Partiamo insieme? Vieni con me a Parigi?” Con lei ero già in Paradiso, dal primo momento che le avevo toccato le mani, dopo che mi aveva scelto e catturato con le sue labbra. Perché andare oltre la perfezione? Perché andare fino a Parigi? Avevamo inventato un mondo fatato pieno di animali. L’avevamo inaugurato il giorno della nostra prima volta, si chiamava “il parco dei piaceri dello zoo”, e nei momenti di tenerezza ci chiamavamo con i nomignoli con cui avevamo battezzato i nostri animali. Dopo qualche mese che stavamo insieme, un pomeriggio, il mio socio Paul mi aveva invitato per un caffè a casa sua. Il mio orecchio empatico mi aveva fatto cogliere nelle sue parole delle sfumature che ronzavano fastidiose nella mia mente. Stavamo andando a sederci fuori, nel suo giardino. “Ho lasciato decantare questa notizia per un paio d’ore, prima di parlartene: Audette avrà un ospite che viene dall’Irlanda per 30


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un paio di giorni, è un ragazzo. L’ho sentita mentre ne parlava a bassa voce, con un’amica a La Quiche, mentre tu controllavi le bolle di consegna della pescheria, dentro la cucina. Le ha anche detto che si sarebbe nascosta da te mentre lui sarebbe stato qui.” Mi ero sentito mancare. Paul si era accorto che la pressione mi era salita alle stelle, ma nonostante le sue rassicurazioni ero uscito da casa sua, due ore dopo, con la testa per aria. Ero morboso con Audette e l’idea che un altro potesse farla sua mi stimolava i pensieri più allucinanti. Aveva voluto vedermi per parlarmene di persona. Il bar della scogliera che regalò l’ispirazione a Cezanne, l’Estaque, era stato testimone della sua confessione. Mi parlava e mi guardava sorridente, incalzante, per paura che potessi scegliere di non vederla mai più. Rafael era un giovane violinista e capivo, da come mi parlava di lui, che non aveva ancora toccato il suo cuore. Ero certo che con me fosse davvero coinvolta, adorava la mia gran voglia di vivere e mi trovava affascinante. “Tesorino, non voglio che Rafael sappia di noi due, riferirebbe di sicuro ai miei genitori della nostra relazione. Sai come reagirebbero se sapessero che frequento un uomo molto più grande di me? Non voglio pensarci. Ti ucciderebbero! Non prendertela dai, come puoi pensare che mi possa interessare un altro uomo? Da quando ho assaggiato la tua bouillabaisse, la prima volta, ho intuito che chi la sa cucinare tanto bene, non può che fare l’amore altrettanto bene. E mi sono fatta avanti. Non mi sono sbagliata. Io voglio solo la tua zuppa, lo vuoi capire?” Dal bar eravamo volati a casa sua, nella cameretta da bambina. Che tesoro era Audette, l’avevo immaginata piccina mentre si muoveva veloce in tondo. La sua piccola stanza era piena come un uovo, mi chiedevo come avesse fatto a trovare l’ispirazione per la danza, in uno spazio così stretto. Talmente ridotto che eravamo finiti sul letto con molta naturalezza. 31


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Mi aveva trascinato nella sua testa e io avevo spinto la sua nella mia. Eravamo mascherati da bambini, da animali, da amanti. C’eravamo nutriti del nostro spirito, l’avevo presa con gli occhi aperti per godere in ogni istante di quel nettare divino. Eravamo l’uno dell’altra, non c’era uomo che nei giorni successivi sarebbe stato in grado di rapire ancor di più la sua mente, ne eravamo certi tutti e due. Dopo c’eravamo rivestiti fra le risate, in tutta fretta; ero scappato via con un dolore al petto, misto tra un infarto imminente per l’intenso sforzo e il tormento di un presagio latente. La notte era arrivata allegra a braccetto con la magia di quell’amore, che aveva illuminato il cammino di chiunque incontrassi per strada. Ero la luce, la luce di Audette e la mia. Lei sapeva quanto fosse stato bello conoscerla, quanto mi piacesse ridere con lei e che incanto fosse il nostro zoo. Ma non era ancora arrivato il nostro tempo o era già passato in un’altra vita, perché vivevo dentro un’illusione, anche se quella sera eravamo davvero nel regno dei cieli. Il suo ricordo è qui con me. Ho il suo splendido odore sul viso e, mentre chiudo gli occhi, mi perdo nello scampolo del mio cuore, custodito ancora dentro la corolla della nostra stella Delizia. Avrei voluto mangiarla, riempirla di me nelle vertigini delle nostre vibrazioni di cui toccavo la forza, l’energia. Non sapevo cosa sarebbe capitato l’indomani, non riuscivo a pensarci. Ero dentro un vortice di gelosia perché lui era più giovane e forse più bello di me. Di sicuro era molto interessato a Audette, dato che si era messo in viaggio da Dublino, per fermarsi nel punto di incontro del mondo, solo per pochi giorni. L’attaccamento troppo inquietante per il mio stato d’animo, mi aveva suggerito di trasferirla in un’altra dimensione, per tutto il tempo che avrebbe passato con lui, anziché presentarmi davanti al suo amico irlandese e rassicurare i genitori di Audette sulle mie buone intenzioni.

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Era seduta su una sedia, con le mani legate e con gli occhi chiusi. Il suo cervello era paralizzato, per impedirle di condividere con lui le emozioni. Aveva il permesso di ballare con lui, ma non per lui. Non poteva riuscire a nutrirlo del suo amore. La vedevo nei miei pensieri come una bambola di pezza, mentre riapriva gli occhi per leggere le mie emozioni, ma non le vedeva. Volesse il cielo che abbia sentito la mia energia arrivare fino al suo intelletto, al punto di farle perdere il controllo e restare paralizzata come volevo. Riuscirà la virilità dei miei pensieri a infiammare fino all’inverosimile? Io credo di si, sono cosciente della mia energia vitale, ma non lo dico in giro o penseranno male di me anche i clienti del restaurant e sarei troppo ingenuo e patetico, nel difendermi dall’accusa di stregoneria. Audette non aveva visto la nostra grande stella per colpa del mio intervento spirituale, e aveva offerto a Rafael, che l’aveva incantata con la sua musica, il suo giovane corpo che ballava, con la devozione religiosa di una martire. Il timore di abitare realmente in un mondo immaginario, che vedeva a metà da quando era bambina, la rendeva vulnerabile, ma era la sua passionalità, purtroppo per me, che la rendeva magnetica. Sei riuscita a farlo resistere tutta la notte quel lurido amore? Quanto l’hai baciato, quanto gli hai regalato di quello che spettava a me? Sei una poco di buono, Audette, col viso da bambina. Libero i nostri animali e dò fuoco alle loro gabbie. La mia angoscia era puntuale, già dalle prime ore del mattino successivo quando mi ero reso conto che aveva cercato di mettersi in contatto con me, mentre dormivo. Era rimasto una settimana ma mi era sembrato un tempo infinito, quello che Rafael aveva passato insieme a lei a Marsiglia, la nostra città, dove avevamo battezzato la nostra grande stella. 33


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Mi aveva detto che le ero mancato tanto, mentre erano insieme. “ Hai sentito che bel vento? È maestrale. Insieme a Rafael si sta portando via anche i tuoi patemi nebulosi. Io voglio solo te, non dimenticartene.” Audette aveva collezionato già troppe esperienze per essere una donna ancora acerba e riusciva a ingarbugliare tutte le mie certezze anche quando non eravamo insieme. Quando non riuscivo a prendere sonno, pensando a lei, visualizzavo i nostri incontri spirituali. Ora la porto nella mia casetta e la ricopro della luce dei miei colori, le dò la luce rossa che la tenga in salute e che presto le faccia fare l’amore con me per una notte intera, nell’acqua calda del mare. Non ci saranno guardiani del cielo che, spuntando dal buio, ci dicano: no ragazzi, qui non si può. Solo io e lei. E invece no, non posso fare l’amore, pensavo appena mi risvegliavo. Dobbiamo rispettare il patto con gli angeli. Ora sei di un altro, ti perdono ma non ti posso più cercare.

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