La città bianca

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A Tu per Tu

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Francesca Romana Orlando

La cittĂ bianca

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Prima Edizione: 2014

ISBN 9788898037605 © 2014 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Novembre 2014 in Italia da Universal Book srl - Rende (CS) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata


Agli scienziati della Commissione Internazionale per la Sicurezza dei Campi Elettromagnetici (ICEMS) per il loro profondo impegno scientifico, morale e civile che ha ispirato questo libro.

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Questo libro è opera di fantasia. I personaggi, le multinazionali, le organizzazioni e le istituzioni citate, come la E-ART o il Global Forum for Mobile World, sono il prodotto dell’immaginazione dell’autrice. Nel caso di istituzioni reali, come l’Istituto Superiore di Sanità e l’OMS, o di eventi reali, la citazione serve ad offrire una cornice alla finzione e non ha alcun intento di descrivere la condotta di alcuno degli appartenenti a queste istituzioni. Anche le vicende relative al conflitto di interessi nella commissione IARC, che sono state svelate da un’inchiesta giornalistica, sono citate in questo libro esclusivamente come pretesto per costruire intorno ad esse gli intrecci della finzione. Quando si fa riferimento a studi scientifici reali, questi sono citati dettagliatamente in nota.

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INDICE 9 11

Antefatto Prologo Prima Parte - Gennaio I II III IV V VI VII VIII IX X XI XII XIII

25 43 57 93 119 145 153 175 185 205 227 239 253

Seconda Parte - Maggio XIV XV XVI XVII XVIII XIX XX XXI XXII XXIII XXIV XXV

279 297 309 325 337 347 363 395 403 419 457 503

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2 settembre 2011 Financial Times Le azioni della Ars Fonic Enterprises, quotata in Borsa lo scorso 1 giugno, salgono di oltre il 20% grazie al lancio avvenuto ieri della nuova rete fotonica nel Regno Unito, Francia, Germania e Italia. Il direttore marketing della compagnia, Philip Allis, ha dichiarato che sono in corso trattative per l’avvio di reti fotoniche integrate cavo e satellite anche in America del Nord e in Africa. Si prevedono ricavi pari a 8,9 miliardi di sterline entro la fine dell’anno per la sola vendita dei dispositivi mobili, mentre i ricavi per la vendita delle schede di trasmissione, quelle che vengono ormai comunemente denominate “gli specchi”, arriveranno presumibilmente intorno ai 7,2 miliardi. Gli analisti giudicano che l’immissione di nuovo capitale nell’azienda potrebbe portarla a livelli di crescita del 35% entro il 2012, ma i venture capitalist, che detengono tutt’ora il 51% delle azioni mantengono il massimo riserbo riguardo l’immissione di una nuova offerta pubblica di sottoscrizione. L’offerta dello scorso primo giugno aveva portato all’azienda una liquidità di 500 milioni di euro, un record per un’azienda che in quel momento non aveva ancora immesso sul mercato alcun prodotto. Sembra che anche i vertici militari degli Stati Uniti siano interessati ad acquistare il propulsore fotonico brevettato dalla Ars Fonic Enterprises, ma l’avvocato che segue i diritti d’uso, James Keys nega che siano già

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avvenuti incontri per la definizione di progetti di sviluppo di tecnologie militari. Lo stesso Keys ha lasciato intendere che entro la fine dell’anno Londra potrebbe diventare la prima Città Bianca.

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PROLOGO

New York, Oriental Tower Giovedì, 30 Dicembre 2010, 19:03 Le illuminazioni natalizie avevano trasformato da giorni le strade di New York in un immenso luna park. Sulla Rockefeller Plaza sagome di angeli di paglia illuminati da perle bianche sfilavano al centro della piazza suonando trombe di latta ai piedi del GE Building. Lanciandosi in alto oltre duecentocinquanta metri, il grattacielo troneggiava su un lato della piazza accarezzato da una pennellata di luce bluette che si espandeva sulle facciate degli edifici circostanti. Tad Taylor ammirava quel bagliore dal trentasettesimo piano dell’Oriental Tower, dove si era appena trasferito con la moglie Susan. Gli sembrava di sentire ancora le voci di un quartetto dell’Esercito della Salvezza sovrapposte ai clacson delle auto incolonnate e ai ritmi pop che echeggiavano dalle vetrine della Quinta Strada. Era frastornato. Aveva girato tutto il pomeriggio per negozi con Susan muovendosi a fatica tra la folla e immaginando il sollievo che avrebbe provato al ritorno nel silenzio ovattato di quell’appartamento. Una volta rientrato, invece, non vedeva l’ora di uscire di nuovo e di unirsi alla moltitudine di passi frenetici che percorreva i viali di Mid-Town, saliva su per i grattacieli e si avviluppava come un toboga nelle profondità oscure dei cunicoli della metropolitana per risalire in superficie e convergere nel fiume umano che correva tra le vetrine e il flusso rallentato dei taxi gialli al centro della carreggiata. Voleva festeggiare. Con il naso schiacciato alla finestra a tutta altezza del sogEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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A TU PER TU

giorno, seguiva il profilo dello skyline e ripensava a quella mattina, al momento preciso in cui aveva firmato il contratto. Aveva scritto per esteso il suo nome nell’ultima pagina e siglato con le iniziali il bordo destro di tutte le altre. Alla fine gli tremavano le mani. Chissà se qualcuno se n’era accorto?, si chiese. In fondo non avrebbe fatto alcuna differenza. Quei dirigenti erano interessati alle sue analisi statistiche, non alle sue mani. Non riusciva ancora a crederci. Dopo anni di duro lavoro, i suoi sforzi erano stati ripagati. Una grande azienda credeva in lui, voleva la sua consulenza ed era disposta a pagare profumatamente per averla. Il suo sogno americano si stava realizzando. Ed era solo l’inizio. Se avesse giocato bene le sue carte avrebbe potuto persino … “Usciamo alle nove?” La voce di Susan lo riportò con i piedi per terra. Tad si voltò. Susan non era in soggiorno. Sentì i suoi passi in camera da letto. “Così tardi?”, le gridò. “Hai fretta?”, si risentì lei. “Beh, sì. Ho fame”, rispose Tad allontanandosi dalla finestra. Non vedeva l’ora di cenare al ristorante vietnamita che gli avevano consigliato i nuovi colleghi della Health United. “Mi infilo nella doccia e sono da te”, disse lei. Tad la raggiunse. “Ti ci vuole molto, Sue?” La sorprese nuda, in piedi accanto al letto, a rimirare il bracciale di diamanti che le ciondolava dal polso. Glielo aveva regalato lui per festeggiare l’arrivo nella Grande Mela. Non aveva mai speso con tanta disinvoltura venti mila dollari tutti in una volta, ma adesso poteva permetterselo. “Non mettermi fretta”, si imbronciò lei. Poi slacciò il bracciale e lo adagiò sul comodino. “Oggi siamo in vacanza, no?!” Gli sfiorò la guancia con le labbra e sparì in bagno. Rassegnatosi ad aspettare almeno mezz’ora, Tad estrasse dal frigobar una Heineken e si lasciò cadere sul divano. L’imbottitura tesa lo accolse con un rimbalzo prima di assestarsi intorno al 12

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suo corpo come un abbraccio. Dopo aver acceso la televisione, Tad si sistemò un cuscino di seta dietro la schiena. Gli faceva uno strano effetto toccare quel tessuto prezioso. Quasi lo sentiva sfuggire dalle mani. Il raso color glicine del divano, poi, sembrava dovesse macchiarsi da un momento all’altro. La prima volta che ci si era seduto, il giorno prima, era rimasto immobile con le mani conserte temendo di lasciarci sopra le impronte. Gli ci volle un po’ per abituarsi e mettersi più comodo, ma concluse che non gli sarebbe mai riuscito di sgranocchiare patatine fritte su un divano del genere. Realizzò che la Health United non solo aveva affittato per lui una suite in uno dei condomini più lussuosi di Mid-Town, ma aveva avuto persino l’accortezza di fargli trovare nel frigo una selezione di snack, formaggi e birre d’importazione. Quella mattina, poi, l’azienda gli aveva recapitato anche una cassetta di champagne. Era davvero impressionato. Perché tante attenzioni? Probabilmente alla Health United avevano capito il valore delle sue indicizzazioni del rischio, ipotizzò Tad, e temevano che potesse valutare l’offerta di un’azienda concorrente. Se è così, forse c’era un margine di rilancio sulla loro offerta per la sua consulenza, mentre lui aveva accettato la prima proposta. Avrebbe dovuto chiedere di più? Forse, ma il compenso concordato era stato più che generoso, concluse Tad, non poteva certo lamentarsene. Aveva fatto bene ad accettare. Prese il telecomando e saltò da un canale all’altro della tv via cavo. Restò qualche secondo sui risultati delle partite di baseball della sua università perché, davanti agli scorci familiari del campus, immaginò che a Madison stessero già parlando tutti di lui e dei fondi che avrebbe portato all’ateneo. Ne era fiero. Si chiese come avrebbero reagito i suoi studenti alla notizia che non sarebbe tornato in aula per almeno due mesi dopo le feste. Mi mancherà fare lezione, pensò. Quando udì finalmente il fragore dell’acqua invadere la cabiEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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A TU PER TU

na doccia, guardò l’orologio. Aveva fame, ma non aveva voglia di alzarsi a prendere qualcosa. Stappò la birra e ne bevve un sorso direttamente dalla bottiglia. La ripose al centro di un sottobicchiere di sughero sul tavolino di teck, a fianco ad una copia di Newsweek, aperta a pagina 26. Fece scivolare lo sguardo sulla foto che lo ritraeva nel suo studio all’Università del Wisconsin. Soddisfatto, notò che dimostrava dieci anni in meno di quelli che aveva. Lesse ancora una volta le prime righe dell’articolo: “Rivoluzione nelle assicurazioni. La Health United adotterà nuovi indici del rischio assicurativo. A definirli sarà Taddeus Taylor dell’Università del Wisconsin, Madison, che presiederà un programma triennale di analisi attuariale da dieci milioni di dollari. Wall Street ha accolto la notizia con un rialzo delle azioni…” Immaginò le prospettive che quell’articolo avrebbe aperto alla sua carriera mentre tamburellava con le dita sul bracciolo del divano. Potrebbero nominarmi Direttore del Dipartimento, ipotizzò, spingendo a caso i tasti del telecomando. Si fermò quando riconobbe la piazza del Rockefeller Center che aveva osservato dall’alto appena pochi istanti prima. “Le più belle illuminazioni di Natale”, titolava il servizio della CNN. Una piramide di blocchi di cristallo argento e oro brillava con i suoi trenta metri di altezza nel distretto finanziario di Hong Kong, mentre a Washington, ghirlande multicolore avvolgevano un abete alto venti metri proveniente da una riserva nazionale del Wyoming. O potrei persino diventare rettore. La Via Reale di Varsavia appariva cosparsa da milioni di gocce bianco ghiaccio condensate in linee che componevano un’insolita architettura di luce: un tetto a volte, sorretto ai lati da colonne snelle, aveva trasformato il viale in una sontuosa sala per cerimonie. 14

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E se facessi politica? A Tbilisi luci simili costruivano un enorme albero stilizzato intorno al monumento di St. George, che svettava come un puntale, e altre luci sottolineavano il profilo degli edifici intorno a Piazza della Libertà. Sindaco? Perché no?! Un gioco di forme di ombrelli e pacchi infiocchettati illuminava Oxford Street a Londra per ricordare ai passanti che, in fondo, Natale significava fare acquisti. O persino governatore… In quel momento qualcuno bussò alla porta. “Hai ordinato qualcosa Sue?”, gridò Tad prima di realizzare che la moglie non poteva sentirlo sotto la doccia. Non aveva voglia di alzarsi. Si fece coraggio. Abbandonò il calore del divano e si avvicinò alla porta. “Chi è?” “Pacco per Tad Taylor”, rispose la voce di un ragazzo. Dedusse che doveva trattarsi di un altro regalo di benvenuto della Health United. Ed aprì. Si aspettava di trovare un fattorino con qualcosa tra le mani ma, prima di riuscire a vederlo, sentì un getto gelido sul viso. Chiuse istintivamente le palpebre e si portò una mano sul viso. Era bagnato. Subito dopo sentì la gola bruciargli e poi anche gli occhi. Tossì. Si slacciò il primo bottone della camicia per respirare meglio e arrancò indietro. Tossì ancora una volta, poi più forte. In un attimo tornò indietro nel tempo. Si era già sentito così. Infuocato. “Si sente bene?”, chiese l’uomo con un chiaro accento italiano. Tad provò a rispondere, voleva chiedere aiuto, ma aveva le corde vocali paralizzate. “Non sembra che lei stia bene”, insistette l’uomo. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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A TU PER TU

Tad riusciva a mala pena a sentirlo. Gli fischiavano le orecchie. Diede il comando alle gambe di muoversi, ma quelle rimasero immobili come due monoliti. Finì in ginocchio. Allora si ricordò che qualcosa di simile era avvenuto al ristorante. Aveva assaggiato della salsa ai gamberetti e un minuto dopo gli si era gonfiata la gola fino a non riuscire più a respirare… “Beh, qui ho finito. La saluto”, disse infine l’uomo. Tad riuscì a sollevare di un millimetro le palpebre giusto il tempo di intravedere un paio di sneakers arancioni sotto ad un paio di jeans che si allontanavano senza troppa fretta prima che la porta si richiudesse. Sapeva quello che doveva fare, non era difficile. Aveva portato con sé l’adrenalina?, si chiese. Sì, certo, l’aveva messa in valigia. La pensò così intensamente che gli sembrò quasi di poterla toccare. Doveva rimettersi in piedi. Agitò le mani nell’aria per afferrare qualcosa a cui appoggiarsi e sfiorò con le dita una superficie liscia. Riconobbe il tavolino tondo di vetro che reggeva un abat-jour stile liberty accanto al divano. Si sporse in avanti per avvicinarlo a sé, ma lo rovesciò con tutta la lampada. La moquette attutì il rumore. Susan era ancora sotto l’acqua. Probabilmente non aveva sentito nulla. Tad riprovò a gridare, ma dalla sua bocca non uscì nemmeno un soffio d’aria. Era chiaro, stava soffocando. Quasi sul punto di disperarsi Tad si accorse di stringere in mano il telecomando. Con le ultime forze, alzò il volume della tv al massimo. La voce di Brandon Miller che recitava le previsioni del tempo invase la stanza. Aveva un tono rassicurante. Tad si disse che non tutto era perduto. Doveva solo respirare. Forzò il diaframma verso il basso. Allargò la bocca e le narici come per divorare l’aria, ma di aria non entrò e non ne uscì dai suoi polmoni. In compenso, però, così facendo percepì un intenso profumo di muschio e realizzò di averlo sentito appena aveva 16

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aperto la porta. Nella confusione del momento, riuscì a capire cos’era successo, ma non fu una grande consolazione. Diede ancora due colpi di tosse. Fiacchi. Poggiò le mani a terra, poi perse i sensi. Quando Susan sentì il frastuono in soggiorno, chiuse l’acqua e, con il sapone ancora negli occhi, si lanciò verso il marito pronta per una sfuriata. “Sei impazzito? Non…” Poi lo vide a terra e lanciò un urlo: “Tad!” Si inginocchiò accanto a lui e notò che annaspava. Le passarono davanti agli occhi le innumerevoli volte che si era esercitata a fare iniezioni sulle arance per prepararsi a praticare l’adrenalina a Tad in caso di bisogno. Era arrivato il momento. Scattò come un elastico verso la camera da letto. Frugò nella valigia e trovò la scatola di EpiPen 2-Pak. Estrasse rapidamente la siringa mentre tornava in soggiorno. Trattenne il fiato e iniettò il farmaco nell’avambraccio di suo marito con un colpo secco. Appena lo fece, inspirò sollevata. Guardò Tad in attesa di un segno, ma lui non si mosse. Fu assalita da un dubbio, poi da un altro, e un altro ancora. E se Tad non avesse avuto uno shock allergico? Magari aveva avuto un calo di pressione. Stava lavorando troppo. Lei gli ripeteva sempre che doveva riposarsi di più, stare con la famiglia. E invece lui… Oh, no… E se fosse un infarto? L’adrenalina andava bene in caso di infarto? Non ne aveva idea. Si precipitò a comporre il 911 e sentì all’altro capo del telefono un’operatrice che, con voce calma, chiedeva di spiegarle il problema. “Ho trovato mio marito a terra privo di sensi”, rispose frettolosamente Susan. La donna volle sapere il suo indirizzo per inviare subito sul posto un’ambulanza. Poi la invitò a sistemare il marito a pancia in su e a sbottonargli la camicia. Susan lo fece. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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A TU PER TU

“Controlli se respira. Vede il petto sollevarsi?” “No, non mi sembra…”, balbettò Susan. “Suo marito stava mangiando quando si è sentito male?” “Non credo”, disse Susan guardandosi attorno. C’era una bottiglia di birra sul tavolino, ma niente noccioline, né salatini. “Controlli che la bocca sia libera”, proseguì la donna con tono distaccato e professionale. Susan mise delicatamente un dito sul labbro inferiore di Tad e gli abbassò la mascella, riluttante, quasi temesse di fargli male. Poi guardò giù, verso l’esofago. “La bocca è libera”, rispose sollevata. “Ora sollevi il mento di suo marito e accosti l’orecchio alla bocca. Sente il respiro?” Susan si chinò e posò l’orecchio sulle labbra di Tad, sfiorandole, come se la stesse baciando, ma non percepì alcun soffio, alcun respiro. “Non res-pi-ra!”, urlò presa dal panico. E iniziò a piagnucolare. “Come si chiama signora?”, chiese l’operatrice impassibile. “Susan, mi chiamo Susan, ma….” “Susan, ora dovrà aiutarmi lei in attesa che arrivino i medici”, le ordinò con tono fermo. “Sì”, singhiozzò Susan. “Si calmi, deve aiutarmi”, la rimproverò l’operatrice alzando la voce. “Metta due dita sul collo, a due centimetri dal pomo di Adamo”, continuò la donna riprendendo il suo tono professionale. “Sente le pulsazioni?” Susan tirò su con il naso e si asciugò le lacrime con il dorso della mano. Poi disse ad alta voce quelle parole per farsi coraggio: “Due dita sul collo. A due centimetri dal pomo di Adamo e….. sento una vibrazione….No, no. Mi sbaglio, non sento niente. Io non lo so…” “Non si preoccupi, Susan. Ora aiuterà lei suo marito a respirare”, la rassicurò l’operatrice. Poi le diede altre istruzioni. Tenendo il cordless premuto sull’orecchio con la spalla, Susan le seguì limitandosi a dire “si” ogni volta che portava a termine 18

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un comando. Mise la sua bocca su quella di Tad. Gli strinse le narici e gli soffiò dentro l’aria. “Tra pochi minuti i medici saranno da lei,” la incoraggiò l’operatrice. “Non si fermi.” “Uno, due, tre, quattro, cinque”, ripeté Susan mentre premeva sul petto di Tad con tutte le sue forze. Al “cinque” staccò le mani e premette ancora una volta la sua bocca contro quella di Tad. Sentì uno strano profumo sulle sue labbra. Rimase sospesa a pochi centimetri dal viso di suo marito. Quel profumo sembrava dopobarba. Ma Tad non lo usava. Preferiva una crema emolliente alla jojoba. Gliel’aveva comprata lei stessa al biomarket dietro… “Che succede?”, chiese l’operatrice, sentendo che Susan si era fermata. Susan tornò in sé e ricominciò da capo. “Uno, due, tre, quattro, cinque”, ripeté meccanicamente. Era stanca. Si chiedeva quanto ci mettesse l’ambulanza ad arrivare. Espirò un’altra volta aria nei polmoni di Tad. Ricominciò a contare, poi soffiò ancora. Non sapeva più da quanti minuti lo stesse facendo. Sembravano un’eternità. Ormai ripeteva quei gesti automaticamente, con la sua mente altrove: precisamente era al ristorante del Plaza, dove lei e Tad erano attesi il giorno dopo alla cena di Capodanno della Health United dove Tad sarebbe stato presentato ufficialmente a tutti i dirigenti della compagnia. Susan continuava a ripetersi che sarebbe andato tutto bene: lei e Tad avrebbero indossato gli abiti che avevano acquistato quel pomeriggio da Bloomingdale e avrebbero fatto il loro ingresso trionfale nella sala. Lei avrebbe tenuto Tad sottobraccio, avrebbe distribuito sorrisi e avrebbe stretto rapporti con le mogli dei nuovi colleghi di Tad. Presto sarebbero seguiti inviti a cena, a partite di baseball e forse quella stessa estate lei e Tad avrebbero ricevuto un invito da qualcuno di loro a passare le vacanze insieme, magari in una villa degli Hamptons. Niente li avrebbe fermati. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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A TU PER TU

Quando arrivarono, i due paramedici trovarono una donna visibilmente esausta, china su un uomo privo di sensi sul pavimento. La donna indossava l’accappatoio dell’hotel con la cinta di cotone annodata una volta sola. I suoi capelli gocciolavano sul pavimento. Spiegò loro di aver praticato una iniezione di adrenalina e i due si complimentarono con lei per la sua prontezza e le dissero che adesso doveva lasciare fare a loro. “Evidenti segni di ipossia”, disse uno dei paramedici mentre infilava una cannula nella bocca di Tad. Poi iniziò a premere ritmicamente il palloncino autogonfiabile. L’altro auscultò il battito e prese subito il defibrillatore. Posizionò gli elettrodi sul cuore e iniziò a contare: “Tre, due, uno, libera!” Partì la prima scarica. Il petto di Tad sobbalzò. “C’è un battito sinusale”, osservò il paramedico sul monitor quando sollevò le piastre. “Carica trecento”, suggerì l’altro. L’azione si ripeté: il paramedico ricominciò a contare: “tre, due, uno, libera!” Susan seguiva la scena in piedi, paralizzata. Questa volta il corpo di Tad disegnò un’onda orizzontale e il sibilo fisso del monitor si trasformò in un segnale ritmico lento. I due paramedici fissarono il monitor soddisfatti. Susan era dietro di loro. Non capiva. Vedeva solo Tad che non si muoveva. Il monitor riprese a fischiare fisso. I due paramedici esitarono. “Prova ancora”, disse quello impegnato con la respirazione. L’altro passò rapidamente altro gel sulle piastre, le fece scivolare l’una sull’altra e le applicò sul petto di Tad. Dopo che partì una nuova scarica, nella stanza scese un silenzio surreale. Sembrava che nessuno lì dentro stesse respirando. Gli sguardi erano rivolti tutti verso il monitor del defibrillatore. Non c’era battito. Quando vide il paramedico lasciare la presa intorno al palloncino, Susan capì cos’era successo e scoppiò a piangere. L’uomo si tolse i guanti, prese una cartella e ci scarabocchiò 20

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sopra qualcosa. Guardò l’orologio e disse: “Ora del decesso 19,48”. Poi le mise una mano sulla spalla. Susan si ritrasse, rischiando di cadere a terra. Finì seduta sul bracciolo del divano con le mani sul volto. Mugugnava alternando lamenti flebili ad un guaito rabbioso. Il paramedico la convinse a distendersi sul letto. L’accompagnò in camera e le somministrò un ansiolitico. Dopo pochi minuti arrivarono gli agenti di polizia che parlarono con tutti e presero pochi appunti. Per loro era un semplice caso di infarto. Dopo mezz’ora tutte le pratiche erano state espletate. I paramedici adagiarono il cadavere su una barella e lo coprirono con un lenzuolo bianco. La trascinarono sul marmo verde del corridoio, diretti all’ascensore. Le rotelle emettevano un sottile stridore che echeggiava sui soffitti alti. Al loro passaggio, si aprivano le porte degli appartamenti. Si ritrovarono così a sfilare sotto gli occhi atterriti di decine di condomini. Fu un sollievo per tutti udire il silenzio quando il corpo sparì nell’ascensore. In strada due fotografi, richiamati dalla presenza dell’ambulanza, tenevano gli otturatori aperti pronti ad immortalare la scena. Non sapevano ancora chi si fosse sentito male, ma un incidente in un condominio del genere ha sempre il profumo di una notizia buona da vendere. Iniziarono a scattare le foto mentre chiedevano agli uomini in divisa il nome della vittima. Quando si sentirono rispondere “Taddeus Taylor”, si fermarono e sollevarono le spalle delusi. Non ne avevano mai sentito parlare.

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Prima Parte Gennaio

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Roma, Via Ludovico Muratori Venerdì, 31 Dicembre 2010, 18:49 A piazza Venezia un display elettronico mostrava lo scorrere rapido del conto alla rovescia all’inizio del nuovo anno. 5:1030 5:1029 5:1028 Il traffico sembrava impazzito. Non era la solita congestione dei giorni feriali. Le auto scorrevano fluide intorno alla piazza, ma si arrestavano davanti all’accesso a via dei Fori Imperiali che era chiuso per l’imminente spettacolo di mezzanotte. In quel punto le auto si muovevano in ordine sparso alla ricerca di strade alternative: svoltavano a destra, verso via IV Novembre, a sinistra verso Via del Plebiscito o percorrevano l’intero cerchio intorno alla piazza per tornare indietro verso via del Teatro Marcello. Bastava ruotare lo sguardo di centottanta gradi per ritrovare un flusso composto di veicoli, come in una giornata normale. Sembrava che l’imprevisto blocco della strada principale fosse un trauma passeggero, un cambiamento che il complesso sistema del traffico cittadino fosse perfettamente in grado di assimilare. Non era lo stesso per il paesaggio cittadino che sembrava, invece, irriconoscibile. Nel buio della notte, infatti, i Fori Imperiali brillavano illuminati a giorno da enormi fari. Erano stati trasformati, loro malgrado, in un immenso set cinematografico pronto ad incorniciare un’azione in procinto di accadere piuttosto che a dare segno di una storia passata. Le pietre grigie del Colosseo li sovrastavano. Sembravano Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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spinte a risvegliarsi dal loro sonno millenario dalle luci alogene che attraversavano il loro profilo. Ignare del fatto che presto avrebbero vibrato sotto le note amplificate del concerto di mezzanotte, continuavano a mostrare la loro grandezza, l’impassibilità con cui avevano sfidato il tempo, a dispetto della futile frenesia che le circondava. A un centinaio di metri di distanza, al quinto piano di un edificio dei primi del ‘900, il tempo si era fermato. Cassandra Conte, seduta da ore sul divano del soggiorno, era immersa in un’altra dimensione. Sotto la luce fioca di una vecchia lampada fissava un tabulato di numeri. Era una lunga sequenza di dati a cui doveva dare un significato. 3,50 volt/metro alle ore 4:00 3,80 volt/metro alle ore 6:00 4,80 volt/metro alle ore 8:00 5,00 volt/metro alle ore 10:00 5,80 volt/metro alle ore 12:00 5,70 volt/metro alle ore 14:00 5,20 volt/metro alle ore 16:00 4,50 volt/metro alle ore 18:00 3,90 volt/metro alle ore 20:00 3,60 volt/metro alle ore 22:00 3,50 volt/metro alle ore 23:00 Batteva la matita sul foglio al ritmo della musica, cercando di restare lucida, ma per quanto si sforzasse iniziava ad essere stanca. Chiuse un attimo gli occhi. Su questi tabulati sembra tutto normale, pensò. D’improvviso nella stanza scese il silenzio. Aprì gli occhi e nella penombra intercettò una spia luminosa rossa di fronte a sé. Era il giradischi. Ogni volta che il loop finiva la puntina impiegava alcuni secondi prima di tornare a strisciare sul vinile. Subito dopo partirono le note di Get Off of My Cloud. Cassandra si rese 26

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conto che quel disco suonava da ore. Tornò con gli occhi su quei numeri ed ebbe un moto di stizza. Ma io so che l’intera situazione non è affatto normale. Si alzò di scatto e posò i fogli accanto al computer. Lesse l’ora sullo schermo del Vajo “19:25”. È tardi, pensò. Devo prepararmi. E con un click lanciò Windows Mail. Voglio vedere se mi ha risposto. Controllò rapidamente l’elenco di email che si scaricavano a grappolo sul pc, ma non c’era quella che aspettava. Spense il computer e ripose i fascicoli che aveva consultato negli scatoloni. Fece sparire tutto nella camera degli ospiti. In pochi minuti il soggiorno riprese l’aspetto ordinato di sempre: i cuscini di lino grezzo sonnecchiavano sul divano di pelle color latte. Il tavolo rotondo laccato bianco, ora libero dai fogli e dal computer, campeggiava su un lato del soggiorno frapponendosi alle sedie disposte intorno ad esso come un giudice severo che teneva equidistanza da tutte. In tutto l’appartamento era difficile trovare qualcosa che si discostasse da quelle sfumature del bianco, eccetto che per i libri disposti con maniacale precisione dietro le ante di vetro della libreria in melammina, anch’essa laccata di bianco. I libri erano separati in sezioni tematiche: scienze, filosofia, cinema, storia, archeologia, narrativa, saggistica, cataloghi d’arte, guide turistiche. In quella biblioteca lo scibile umano appariva come un insieme di elementi diversi perfettamente catalogabili, senza sfumature. Cassandra si guardò intorno soddisfatta. Finalmente era tornato l’ordine. Non ne poteva più di convivere con quei fascicoli in giro per casa. Non vedeva l’ora che tutto tornasse come prima. Devo chiudere il caso prima di impazzire, si disse andando in camera da letto. Si sfilò la tuta fucsia di Krizia che indossava e si sedette sul bordo del letto per infilarsi un paio di calze nere fumé. Scivolò Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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in un Dolce & Gabbana nero di chiffon e vi abbinò un paio di décolleté con plateau e inserti in metallo. Abiti, una scelta facile. Si raccolse i lunghi capelli castani in uno chignon davanti allo specchio sul comò e, con un gesto rapido, lo chiuse con un fermaglio di Swarovsky. Tutto in ordine. Un colpo di fard sugli zigomi e nessuno avrebbe detto che aveva passato le vacanze natalizie sotto la luce di una lampada a lavorare. Quando passò davanti allo specchio lungo nel guardaroba si accorse che il vestito le segnava il profilo asciutto. Indugiò qualche secondo a guardarsi. Non male. Poi prese dal comò la confezione che aveva ricevuto tramite corriere quella mattina. Era una collana di diamanti. Anche se non c’era un biglietto era sicura che fosse il regalo di Natale di suo padre. Gli spediva sempre qualcosa quando era in vacanza all’estero. Non se ne dimenticava mai. Si fece scivolare la collana intorno al collo e si specchiò. Era finalmente pronta per uscire.

Exeter, Devonshire, UK Venerdì, 31 dicembre 2010, 19:25 Non era stato facile per Theodore Cunningham trovare una riunione degli Alcolisti Anonimi in programma la sera di Capodanno. In realtà, non lo era stato nemmeno ammettere che quella sera avrebbe avuto bisogno più che mai di aiuto. Era stato lo psicanalista che pagava trecento sterline l’ora due volte a settimana a suggerirgli di andarci. Controvoglia, Cunningham aveva selezionato su Internet le sedi della AA abbastanza lontane da Londra da supporre che il rischio di incontrare qualcuno che conoscesse fosse minimo. Ave28

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va confezionato una lista dei numeri di telefono e degli indirizzi su un file excel e lo aveva lasciato sul desktop del suo computer per due settimane. Poi ne contattò alcuni. Quelle telefonate furono snervanti. Sentire la propria voce chiedere di una riunione come fosse un qualsiasi alcolista lo fece stare male. Fu più volte sul punto di lasciar perdere. Si disse che poteva fare a meno delle riunioni, ma poi ripensò alle parole dello psicanalista, al fatto che bisogna saper chiedere aiuto quando si ha un problema e che gli alcolisti anonimi avevano un metodo efficace per disintossicarsi. Cunningham era un uomo pratico e credeva profondamente nei metodi. Era convinto che per ogni problema ci fosse sempre la soluzione scientifica per risolverlo e concluse, così, che avrebbe affrontato quel suo problema con l’alcol allo stesso modo. Sarebbe andato ad una riunione. Mettersi al telefono, però, era un’altra cosa. Pensò di affidare la ricerca di una riunione la sera di Capodanno ad uno dei duecento sondaggisti che lavoravano per lui. Avrebbe inventato una scusa, una qualche indagine di mercato, per motivare la sua richiesta. Fu sul punto di inviare loro un’email con le istruzioni e la lista di numeri da chiamare, ma si rese conto che quei ragazzi erano in gamba, avevano tutti un quoziente intellettivo superiore alla media e c’era il rischio che sospettassero qualcosa. Alla fine si rassegnò e condusse lui stesso la ricerca. Passò più di due ore al telefono prima di trovare quell’appuntamento: una riunione alle 19:30 del 31 dicembre presso la chiesa metodista di Sidwell Street ad Exeter, nel Devonshire. Cunningham arrivò puntuale. Parcheggiò l’auto ad un paio di isolati da Sidwell Street, inserì l’allarme satellitare e si avvicinò alla chiesa a piedi. Si arrestò davanti all’ingresso. Sul portone campeggiava un cartello bianco con la scritta AA Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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in rosso con sotto un appunto scritto a pennarello che avvisava “Riunione privata. La chiesa riapre per i fedeli domattina”. Si guardò attorno. Non c’era nessuno tranne un gruppo di ragazzi ad una decina di metri da lui. Ridacchiavano tenendo una lattina o una sigaretta in mano e si canzonavano a vicenda ad alta voce. Forse aspettavano di entrare nel cinema. Di sicuro lo ignoravano. Sarebbe stato un buon momento quindi per entrare, ma Cunningham restò immobile davanti al portone. Teneva le mani in tasca e toccava nervosamente con la mano destra il suo Motorola, sperando che squillasse. Immaginò di ricevere una telefonata urgente che lo avrebbe costretto a cambiare i suoi piani, ma si rese conto di non essere un chirurgo, né un vigile del fuoco o qualcuno che viene regolarmente chiamato per sentirsi dire quanto sia indispensabile e urgente la sua presenza il pomeriggio del 31 dicembre. Lui era un consulente, veniva pagato migliaia di dollari al giorno per quello che faceva, ma ora il suo Motorola taceva. Cunnigham continuò a farlo roteare nel pugno, ricordandosi la prima volta che aveva indossato quella giacca, una Schiatti & C di nappa nera: aveva messo le mani in tasca e subito si era sentito incredibilmente sicuro di sé. Non si capacitava come quella stessa giacca ora lo lasciasse indifferente e incapace di compiere i due passi che lo separavano dall’ingresso nella chiesa. Sfilò le mani dalle tasche e le mise giunte davanti a sé, poi le sfregò per scaldarsi. Sudava, ma aveva freddo. Era agitato. Eppure quella non era la prima riunione a cui partecipava, ma ogni volta gli sembrava come la prima. Doveva concentrarsi per fare un passo davanti all’altro piuttosto che tornare indietro. Secondo lo psicanalista quelle reazioni indicavano che non aveva ancora accettato del tutto di essere un alcolista e doveva frequentare le riunioni della AA. Lo psicanalista gli ripeteva che non importava il numero di zeri del suo conto in banca. In fatto di alcol, Cunningham doveva 30

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pensare a se stesso come ad un uomo vulnerabile. Questo gli era difficile. Era abituato a considerarsi un vincente, un seduttore capace di piegare la volontà di milioni di consumatori e ora invece era lì, davanti all’ingresso di una chiesa, che tremava. Cunningham si fece coraggio, scrollò le spalle ed entrò. Quando fu dentro si rese conto che erano in molti a temere quella serata particolare quando tutti brindano, si divertono e un alcolista può solo stare a guardare. C’erano una trentina persone sedute ai banchi della navata centrale. Cunningham salutò con un cenno del capo chi si era girato a guardarlo. Gli bastò un colpo d’occhio per inquadrare i presenti. Mentre passava sul lato destro della navata, infatti, associò a ciascuno di quei volti una professione o almeno una classe sociale di appartenenza, prevedendo per ciascuno un budget mensile di spesa derivato dal salario detratte le spese ordinarie. Neanche in quelle occasioni riusciva a trattenere il suo spirito di osservazione. Gli avevano insegnato ad usarlo ai corsi di programmazione neurolinguistica per mettere in atto delle strategie personalizzate di persuasione e procedeva alla classificazione, involontariamente, ogni volta che incontrava persone nuove. “Conosci l’interlocutore” era la prima regola di un venditore, ma ora non era importante sapere cosa facessero nella vita gli uomini e le donne seduti in quella chiesa. Erano tutti lì dentro perché condividevano lo stesso inconfessabile segreto, una realtà che le persone normali non potevano capire: la voglia di bere. Cunningham guardò verso l’altare per distogliere la propria attenzione da quelle persone e si mise a sedere in prima fila. Si sentì sollevato: in quella posizione dava a tutti le spalle. Nessuno lo poteva guardare in faccia, ma neppure lui poteva vedere gli altri. Smise di fare proiezioni di spesa ed iniziò a rilassarsi. Tirò fuori dalla tasca il cellulare per spegnerlo quando arrivò il coordinatore del gruppo e si presentò. Era un uomo paffuto, con le sembianze femminee. “Mi chiamo John, sono un alcolista e non bevo da undici anni”, disse. “Grazie per essere venuti.” Poi chiese ai presenti chi volesse parlare. Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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La ragazza di fianco a Cunningham si alzò in piedi e si presentò come Sam. Indossava un cappotto blu sopra ad una divisa del Burger King. Dopo un attimo di esitazione, confessò che quel pomeriggio aveva bevuto una pinta di birra al pub con gli amici. “Come ti senti ora, Sam?”, gli chiese John. “Confusa”, rispose lei giocherellando con una ciocca di capelli. Erano biondi come platino con una vistosa ricrescita nera. “Mi è piaciuto bere. Lì per lì stavo bene, ma poi ho capito di aver sbagliato perché una pinta non mi bastava e ne avrei voluta un’altra”, aggiunse. “Ora dovrò ricominciare a contare da capo. Ero sobria da due mesi. Beh, anche se avevo fumato qualche spinello.” Scostò la ciocca dietro la spalla mentre tornò a sedere. “Qualcuno vuole dire qualcosa a Sam?”, chiese John. Si alzò in piedi un uomo sulla cinquantina. Cunningham si voltò indietro un istante per guardarlo. Indossava un paio di jeans sotto ad una camicia a scacchi blu e gialli e aveva le mani macchiate di scuro come quelle di un meccanico, osservò Cunningham. L’uomo aspettò da John un cenno di assenso a parlare ed esordì: “Ti capisco, Sam. Ho sempre voglia di bere anch’io. Sono sobrio da ventidue anni, ma ogni giorno è una lotta. Quando ci sono le feste, i compleanni, diventa tutto più difficile. Ho una moglie che adoro e due bambini che sono la mia vita. Eppure, mi chiedete cos’è per me la cosa più importante? Una parte di me vi risponde che sono loro, ma un’altra parte…. Beh, un’altra parte vorrebbe uscire da qui e…”. Si frenò. Prese un fazzoletto di cotone bianco dalla tasca dei jeans e se lo passò sulla fronte. “Ehm, scusate…” Ripose il fazzoletto in tasca e si fece il segno della croce. “Il Signore mi perdoni se dico che vorrei uscire fuori da qui e scolarmi un barile di birra e addormentarmi felice.” Fece un altro segno della Croce e si accasciò sulla panca. John gli si avvicinò e, posandogli una mano sulla spalla. “Grazie P.J. per averci detto quello che provi. Vuoi ricordare a tutti perché non bevi da ventidue anni?” 32

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P.J. scosse la testa. “Coraggio P.J.. Cosa accadrebbe se tu ricominciassi a bere? Lo sai, no?”, lo incoraggiò John. “Forza P.J., torna in piedi e dillo a voce alta così che Sam e tutti noi possiamo sentirti.” P.J. si alzò di nuovo e si fregò le mani sulle tempie. “Perderei il lavoro, tradirei la fiducia di tutti quelli che mi conoscono, perderei mia moglie, i miei figli, resterei solo. Solo con la mia Guinness Black Lager e la mia cirrosi epatica.” Aveva la fronte imperlata di sudore. “E tu, John, perché non bevi?”, gli chiese guardandolo negli occhi. “Non bevo perché amo essere sobrio, voglio godere di ogni istante della mia vita e con i dodici passi ci sono riuscito. E voi? Chi vuole dirci perché vuole essere sobrio?” Cunningham si alzò in piedi. John gli rivolse la mano con il palmo sollevato per indicare che poteva parlare. “Vuoi raccontarci i tuoi motivi per essere sobrio? Come ti chiami?” Theodore Cunningham si lisciò il collo della camicia e disse: “Mi chiamo Mike e quando ero alcolista avevo perso il controllo della mia vita”. Tentennò. Mise entrambe le mani in tasca. Vi trovò il cellulare e si ricordò che era spento. Ebbe un moto di stizza e le tirò fuori di nuovo. Le tenne ai lati delle gambe. Prese un lungo respiro e continuò: “Mia moglie ha chiesto il divorzio un anno fa e ora vive in un’altra città. Con un altro uomo.” Si sollevò la zip della giacca fino al collo e deglutì forte. Fissò un punto indistinto davanti a sé e si confidò: “Per colpa dell’alcol stavo per mandare in fumo tutto ciò per cui avevo sempre lottato: la mia carriera, la mia famiglia, la mia reputazione. Mi sono voltato indietro e ho visto la mia vita scomparire improvvisamente insieme a tutti i miei progetti. Nulla aveva più significato: le notti insonni all’università, gli anni di praticantato, le mille scartoffie a cui avevo trovato una soluzione. Stavo distruggendo tutto.” Sospirò. “Non avevo più una direzione, facevo continuamente errori. Ancora ne faccio, a dire il vero, ma ora voglio capire gli errori che faccio. Voglio migliorare.” Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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“Bravo Mike”, disse John porgendogli la mano in verticale stavolta. Cunningham rimase perplesso poi capì che doveva stringergliela. John allungò anche l’altra mano per tenergli il braccio. “Non è facile”, aggiunse Cunningham rivolgendosi direttamente a John. “A volte vorrei anestetizzarmi e non sentire più niente”, sospirò. Si sollevò un brusio. Cunningham si voltò indietro. Molti, tra quelli seduti intorno a lui, annuivano in segno di comprensione. Quando li vide, Cunningham si rianimò. “Scusatemi, non dovrei parlare così. So che qui abbiamo una seconda possibilità. Ci sono i dodici passi”, aggiunse. “I dodici passi sono la nostra Speranza. Mi passerà mai la voglia di bere? Non lo so, ma per ora cerco solo di essere un uomo migliore. Se potessi brindare a qualcosa, brinderei all’uomo migliore che ancora non sono diventato: qualcuno che non ha paura di guardarsi allo specchio, che non deve mentire e non deve convincere gli altri per farsi rispettare, qualcuno che dice sempre quello che pensa e che non nega mai la verità.” Si interruppe. Si voltò ancora una volta indietro. Le persone sedute alle sue spalle lo fissavano in uno stato di completa compenetrazione. “Mi chiamo Mike”, disse Cunningham trattenendo le lacrime, “e sto per diventare l’uomo che voglio essere.” “Bravo Mike!” “Tutti noi vogliamo un futuro migliore.” “Ce la possiamo fare!” “Con i dodici passi ci riusciremo.” “Mike ha ragione. Noi possiamo cambiare.” Inaspettatamente si sollevò un applauso. John batteva le mani più forte degli altri. Cunningham mancò per un istante il suo abbraccio perché si sedette un secondo prima che John allargasse le braccia. Rimase seduto con lo sguardo basso e le mani di nuovo in tasca mentre ascoltava, incredulo, l’applauso che echeggiava nella chiesa. 34

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Era stato lui a dire quelle cose?, si chiese sorpreso. Improvvisamente aveva la bocca secca. Si guardò attorno come per cercare qualcosa da bere, ma vide solo persone con gli occhi lucidi che battevano ancora le mani e gli sorridevano. Sam, la donna che sedeva accanto a lui si alzò in piedi per stringergli la mano. Quel gesto lo fece sentire un predicatore. La cosa lo divertì. Allora capì di aver cercato tanto quella riunione per riuscire a dire quella frase a voce alta, davanti a qualcuno, piuttosto che continuare solo a pensarla. Voglio essere un uomo migliore. Qualcuno che non ha paura di guardarsi allo specchio, che non deve mentire, non deve convincere nessuno per farsi rispettare, qualcuno che dice sempre quello che pensa e che non nega mai la verità. Nel momento stesso in cui l’aveva pronunciata, infatti, curiosamente ci aveva creduto. Ascoltò le confidenze degli altri ancora per un’ora. Avevano tutti delle storie molto diverse dalla sua, ma iniziava a sentirsi vicino a quelle persone. Alla fine della riunione strinse la mano a tutti ed uscì per primo. Doveva tornare velocemente a Londra. Sidwell Street era deserta. Doveva fare presto. Percorse a passi rapidi due isolati ripensando a quella strana serata. Era davvero lui Mike oppure lui era un’altra persona? Ne avrebbe parlato con il suo psicologo il mercoledì successivo. Per ora doveva solo sbrigarsi e concentrarsi per non bere per le successive ventiquattr’ore. Salì sulla sua McLaren F1 grigio metallizzata e guidò veloce verso la capitale. In un paio d’ore avrebbe raggiunto la festa dove lo aspettavano i suoi clienti migliori e i suoi più intimi collaboratori. Avrebbe bevuto solo Isabella Ice, lo spumante analcolico che aveva fatto venire apposta dall’Italia. Nessuno avrebbe notato alcuna differenza tra le sue bollicine e quelle degli altri. Era sereno. Poteva vendere veleno e spargere speranze senza soluzione di continuità, persino a se stesso, pensò. Era davvero un ottimo persuasore.

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Roma, Vicolo della Luce Venerdì, 31 dicembre 2010, ore 23:15 La cena al ristorante era stata incredibilmente veloce. Un corteo di camerieri aveva fatto lo slalom tra i tavoli per assicurarsi che i calici fossero riempiti e le posate prontamente sostituite. Le portate si erano susseguite l’una dopo l’altra, in un ritmo incessante che doveva dimostrare efficienza. I commensali avevano appena terminato lo sformato di gamberetti che veniva subito servita la mousse di calamari. Alle fettuccine di lompo erano seguiti gli arrosti di pesce e i contorni. Cassandra aveva assaggiato di tutto, ma senza mangiare molto. Era stanca, ma finalmente rilassata. Prima di cena aveva bevuto un paio di Vodka Martini al lounge del ristorante e improvvisamente aveva sentito sciogliersi ogni tensione. Da quando era sprofondata sul divano di vinile fucsia dell’Aris Club, poi, aveva bevuto già un paio di Rum e Coca e stava iniziando a sentirsi felice. Annuiva distrattamente agli amici seduti intorno a lei. Era tutta una profusione di sorrisi, ma era distratta. Seguiva con il piede il ritmo che proveniva dalla sala centrale, mentre fissava la parete rivestita di ciottoli bianchi, compattati da reti metalliche, che si trovava di fianco ai divani. Su un lato della parete scorreva una fontana illuminata da un neon bluette. Sembrava il greto di un fiume, ma in verticale. Cassandra provava una strana ammirazione. Immaginò il momento in cui all’architetto era balenata quell’idea originale. Forse gli era sembrata azzardata all’inizio, forse l’aveva schizzata su un foglio che aveva cestinato, forse si era ispirato ad un’opera d’arte minimalista e non aveva mai avuto alcun ripensamento. In ogni caso quell’idea aveva funzionato perché ora l’arredamento in stile organico di quel locale era finito su tutti i giornali. Del resto Michela lo aveva scelto proprio perché era il locale più in vista della capitale. Quando udì i suoi amici scoppiare a ridere, Cassandra cercò di cogliere l’argomento di cui stavano parlando. Marco stava rac36

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contando della sua famosa avventura in carcere. Era una storia che conosceva bene. Gliel’aveva sentita declamare tre mesi prima, alla festa di amici comuni dove lo aveva conosciuto. Il fatto era appena successo. Le era piaciuto sentire come Marco si fosse battuto di fronte alle avversità con l’unico scopo di portare in prima pagina una notizia che il giorno dopo nessun altro giornale sarebbe riuscito a dare. Marco aveva pagato una guardia del carcere per farsi portare nella cella del consigliere regionale appena arrestato, lo aveva intervistato ed era tornato in redazione giusto in tempo per dettare il pezzo alla tipografia. Cassandra aveva trovato qualcosa di sensuale in tutta quella passione di Marco per la notizia e in qualche modo lui doveva esserne accorto perché alla fine del racconto l’aveva avvicinata e si era messo a parlare con lei. Alla fine della serata si erano scambiati il numero di telefono ed erano usciti pochi giorni dopo. Era stata proprio una fortuna incontrarlo, pensò. Senza di lui la tensione delle ultime settimane sarebbe stata insopportabile. Marco era gentile, capace di dolci premure, gesti di altri tempi, che all’inizio l’avevano disorientata, come lasciarle il passo davanti una porta o recapitarle mazzi di fiori senza una ragione particolare. La prima volta che si erano trovati insieme sulla Terios di Marco era rimasta scioccata. Appena fermati lui era scattato fuori dall’abitacolo, aveva fatto il giro dell’auto di corsa per precederla nell’aprire lo sportello. Lei si era sentita sfuggire la maniglia dalla mano prima ancora che decidesse di farla scattare. Con il tempo aveva capito che quel gesto, così come tutti gli altri, non era una galanteria, perché lui lo faceva con trasporto. Era il suo modo di interpretare al meglio il linguaggio dei ruoli e a lei stava bene che ci fossero tra loro confini precisi. Passavano il tempo piacevolmente insieme ormai da tre mesi. Andavano al cinema, alle partite di basket e sfidavano insieme le onde d’inverno con il kytesurf. Anche il sesso funzionava. Era un rapporto perfetto, senza complicazioni, pensò soddiEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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sfatta con lo sguardo incollato su Marco. Le piaceva come agitava le mani mentre parlava. Era appassionato, mai scomposto. In quel preciso momento, però, c’era qualcosa che le dava fastidio. Marco stava raccontando di quando aveva sventolato una mazzetta di banconote da cinquanta euro sotto il naso delle guardie carcerarie chiedendo loro di poter parlare con il consigliere regionale e quelle avevano accettato. Si rese conto che quel racconto non le stava facendo l’effetto della prima volta che lo aveva sentito. Quella scena la fece sentire a disagio. Eppure i suoi amici sorridevano. Sembravano divertiti. Marco era un vero affabulatore, pensò Cassandra. Nessuno gli resisteva. Capace di essere elegante nelle occasioni mondane, sportivo con gli amici della Lega Navale, Marco era sufficientemente intelligente da fingere di capire ciò di cui si parlava anche quando non ne aveva la minima idea e poi… Cassandra si sentì strattonare il braccio. Era la mano di Michela. “Dobbiamo parlare”, disse trafelata. Nell’altra mano Michela teneva una sigaretta spenta. La posò nervosamente tra le labbra. Poi aspirò, fingendo che fosse accesa e l’allontanò da sé. Erano mesi che cercava di smettere di fumare. Si alzò e fece un gesto con la testa per far intendere a Cassandra che doveva seguirla. Poi se ne andò, senza che gli altri la notassero. Erano concentrati su Marco che illustrava i dettagli di come fosse riuscito a farsi arrestare quella sera mettendo in scena un finta rissa a piazza di Santa Maria in Trastevere. Cassandra seguì Michela fuori il privè e la vide seduta al bancone del bar. Non c’era un altro posto libero. Restò in piedi accanto a lei. “Mi ha chiamato Claudio”, le sussurrò Michela avvicinandosi al suo orecchio per farsi sentire. La musica house faceva vibrare il pavimento. “Sabato devi coprirci.” “Ti ho pregato mille volte di non parlarmi di Claudio, Mi38

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chela!”, rispose irritata Cassandra. Fece per allontanarsi da lei, ma Michela le si parò davanti fissandola con i suoi occhi neri come ossidiana. “Aiutami o mi verrà un esaurimento nervoso!”, protestò. Aveva il tono di un’adolescente capricciosa. “Detesto che tu mi metta in questa posizione con Alessandro, va a finire che gli dico tutto.” “Lo so che non lo farai, mi vuoi troppo bene. Anzi, vuoi troppo bene ad entrambi per farlo.” “Michela, non voglio giudicarti, ma questa faccenda di un’avvocatessa che va a letto con il magistrato che accusa i suoi stessi clienti non mi va proprio giù. Non è solo un problema di tradimento.” Esitò, poi aggiunse: “Guarda, preferisco non saperne niente.” L’amica non sembrava per niente colpita da quelle parole. Sollevò un sopracciglio quasi si stesse sforzando di essere comprensiva. “Tu sei troppo pura, Cassandra. Hai fatto bene a non studiare legge con me, non avresti sopportato questo mestiere. Devi vedere le sfumature. Non è mai tutto bianco o tutto nero.” La sigaretta le sfiorò di nuovo le labbra per un istante. “Sei tu che scegli di che colori dipingere la tua vita”, replicò Cassandra spazientita. “Non capisci che, se questa storia venisse fuori, potrebbero toglierti l’abilitazione professionale?”. Alzò la voce. “Se dovessimo sempre pensare alle conseguenze delle nostre azioni vivremmo sempre nella paura, Cassandra. È questo che vuoi? Vuoi vivere nella paura? Vuoi domandarti quanti anni ti toglierà lo champagne ogni volta che ne berrai un bicchiere?”, chiese sollevando il suo flute. “Goditi la vita, Cassandra e non farti scappare Marco. Ho visto come lo guardavi prima. Siamo alle solite vero? Hai già trovato qualcosa da ridire su di lui? Hai già deciso di tronc…” “Non cambiare discorso”, la interruppe Cassandra. “Stavamo parlando di te, non di Marco!” Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata

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“Ti sei mai chiesta perché non hai mai detto nulla ad Alessandro?”, la sfidò Michela. “Eppure sai di Claudio ormai da mesi.” “Che intendi dire?” “Non lo fai per salvaguardare me o il mio matrimonio, ma per tutelare te stessa. Sei consapevole che chi dà la cattiva notizia poi ne paga le conseguenze anche se non ha alcuna responsabilità per ciò che ha detto. Non fare la puritana con me, Cassandra. Tu non parli con Alessandro solo perché hai paura che ti odierà per ciò che gli avrai fatto sapere. Dire la verità significa sempre accettarne le conseguenze. Tu hai solo paura.” Cassandra tacque. Michela aveva ragione. “La paura ti protegge”, continuò Michela con un tono più dolce, “ma non sempre ti è amica. La paura ti tiene lontano dalla verità e dalle grandi emozioni. Cosa scegli, Cassandra? Io ho fatto le mie scelte. Tu dovrai fare le tue.” “Di che scelte stai parlando?” “Di Marco, del tuo lavoro. Pensi che chiudersi sei mesi in casa ti basti a raggiungere quello che cerchi? Credi che non ti conosca?” Cassandra impallidì. “Questa perizia non è come le altre che hai fatto. C’è qualcosa che ti spaventa e che non vuoi affrontare. Non ho idea di cosa sia, ma riconosco la tua reazione. Quando hai paura ti chiudi in te stessa e ti allontani dal mondo, da chi ti vuole bene. E lo stai facendo da sei mesi. Affronta la paura, Cassandra, perché quando avrai imparato ad affrontarla una volta, poi l’affronterai sempre.” Cassandra non ebbe il tempo di rispondere perché Michela le diede improvvisamente le spalle e puntò all’uomo che le era a fianco. Si protese in avanti, preparandosi a dirgli qualcosa. Cassandra riconobbe che Michela si era appena calata in una delle sue performance. Michela si voltò un attimo verso di lei prima di sollevare la sigaretta e chiedere all’uomo di accenderla. Quando si sentì ricordare che nel locale non si poteva fumare, Michela civettò spiegando che aveva così voglia di una sigaretta da averlo, sbadatamente, dimenticato. 40

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Un secondo dopo era già al bancone con l’uomo che le offriva da bere e guardava Cassandra con la fierezza di chi ha appena impartito una lezione. A Cassandra non restò che tornare nel privè. Guardò con tenerezza Alessandro che, appollaiato sul divano, giocherellava con i gemelli dello smoking. Sembrava sereno. Di sicuro non sospettava niente di quello che succedeva quando Michela spariva il sabato mattina con la scusa di andare a giocare a tennis o a vedere una mostra con lei.

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