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Antonio Rinaldi
Leggere il silenzio Lavorare con i bambini autistici
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Prima Edizione Ebook (PDF): 2015 ISBN 9788898037797 Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037186 © 2013-2015 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Aprile 2013 in Italia da Atena.net Srl Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline ® Srl)
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INDICE
Introduzione
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CAPITOLO 1 - L’autismo 1. Definizione, tra storia e pensiero comune 2. La percezione 3. Convenzioni e regole sociali 4. Autismo ed iper-logica 5. Verbale o non verbale 6. Egocentrismo e consapevolezza di sé 7. Schemi fissi e ripetitivi 8. Oggetto transizionale versus oggetto autistico 9. Contatto fisico
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CAPITOLO 2 - Intorno al bambino 1. Esser genitore 2. La Motivazione 3. Livello cognitivo e ritardo 4. Educazione e interventi scolastici 5. Network, lavorare in rete
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CAPITOLO 3 - Approcci, strategie e considerazioni 1. L’intervento in acqua 2. “Disautizzare” la vita del bambino 3. Insegnare ad un bambino autistico 4. Riflessioni
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INTRODUZIONE
Vorrei sussurrare un grazie... a ogni piccolo grande saggio che ho incontrato sino adesso sulla mia strada... ... a tutti coloro che vedono oltre una parola, al di là di un abito, trovando forza per dar voce all’essenza... In acqua mi guardavo spesso attorno, scoprendo una visuale insolita di posti conosciuti, riuscivo a scorgere anfratti nascosti all’occhio delle strade, mi sentivo al di quà di una linea invisibile, che era la riva, confine di quel mondo cui non volevo appartenere, fatto di intese e circostanze, di sorrisi assassini di lacrime. Avevo scoperto un nascondiglio dove proteggermi e portare chiunque amassi, non mi sembrava vero, a pochi metri da dove mille passi al giorno passavano inconsapevoli, io urlavo la mia estasi al cielo e nessuno ci faceva caso.
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CAPITOLO 1 L’AUTISMO
1. Definizione, tra storia e pensiero comune L’autismo per definizione è una sindrome comportamentale, in quanto un quadro diagnostico per esser riconosciuto sotto tale etichetta deve rispettare quei criteri dettati dai manuali di riferimento che vedono come primo aspetto identificativo una particolarità comportamentale nella sua ripetitività ed ossessione apparentemente immotivata nei riguardi di circoscritti interessi e nella presenza di stereotipie e manierismi tipici. Da anni lavoro con bambini affetti dalla sindrome autistica ed ogni giorno che entro in contatto con chi vive questi piccoli, nei vari contesti, quali l’asilo o la scuola, il centro di riabilitazione o lo stesso nucleo familiare, sembro ritrovare nel suo esprimersi perfettamente tale definizione, ricalcando quei semplici ma altrettanto pericolosi luoghi comuni che entrano a far parte del “sapere comune”, attraverso i film, i libri, le espressioni popolari. La parola stessa “autismo” sembra portarci a leggere, in maniera associativa, ogni particolarità di un bambino con questo disagio, come qualcosa che abbia a che fare con l’automatizzato, “l’automatico”, ovvero dalla modalità computerizzata e programmato nel compiere qualcosa per noi spesso indecifrabile. Il termine “autismo” coniato nel 1911 da Eugene Bleuler, utilizzato come sintomo comportamentale nell’ambito della schizofrenia e ripreso decenni più tardi da Leo Kanner per indicare un disturbo a sè stante, voleva invece descrivere un aspetto di “auto-centrazione”, un amplificato egocentrismo che porta come conseguenza diretta un drastico evitamento dell’altro ed una forEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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te chiusura all’ambiente, ai contesti e alle situazioni di condivisione e relazione. I criteri identificativi di questo disturbo sono infatti, come i manuali diagnostici di riferimento “DSM-IV” e “ICD-10” insegnano, oltre alla sopra nominata forte presenza di interessi circoscritti ed attività stereotipate, una compromissione grave e generalizzata nell’interazione sociale reciproca e nella comunicazione. Pensando ad un simile quadro, è abbastanza semplice discriminare alcuni comportamenti tipici dello spettro autistico immediatamente per noi tutti riconducibile alla tendenza all’isolamento e alla chiusura, come il tapparsi le orecchie con le dita, l’evitamento del contatto oculare e l’estrema resistenza al contatto fisico. Altra peculiarità della sindrome autistica è l’estrema difficoltà ad affrontare cambiamenti inaspettati, relativi all’ambiente, alle persone di riferimento, alle quotidiane abitudini; una eventuale modifica in qualsiasi degli ambiti elencati, è direttamente implicata nel possibile rafforzamento di una chiusura, se non di una forte crisi caratterizzata da stereotipie e manierismi. Direttamente correlabile al quadro sintomatico-comportamentale è l’idea del bambino autistico come di un bambino indecifrabile, che “vive in un mondo tutto suo”, dalla volontà antisociale, tendente per sua natura alla ripetizione di manierismi e dalla povera se non nulla espressività emotivo-comunicativa. Parlando di autismo si parla spesso di anaffettività, ovvero del non riuscir a provare ed esprimere emozioni; provare un’emozione, saperla comunicare e riconoscere su un volto altrui son però cose ben differenti tra loro. Sarebbe alquanto presuntuoso dire che una persona che non manifesta nella mimica facciale o che non sa leggere l’espressione di chi ha di fronte, non provi o non conosca quell’emozione, è come se identificassimo chi ha gradito il pranzo solo in chi verbalmente fa degli espliciti apprezzamenti, così pensando andremmo sicuramente in un altro campo, quello del buon gusto e dell’educazione ma non certo della logica. Personalmente, ritengo invece che un bambino autistico abbia un “sentire” di gran lunga superiore alla media, grazie infatti al suo essere introspettivo, alle sue continue riflessioni interiori, diviene un grandissimo conoscitore dell’animo umano. Come ben sappiamo, poco tempo viene dedicato da parte di 10
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un bambino autistico al guardare in faccia gli altri, risultando nel crescere non molto bravo nel riconoscimento delle espressioni mimiche facciali; conoscere l’espressività comunicativa non verbale, presuppone infatti l’aver memorizzato sin da piccoli nelle varie circostanze “emotive” le espressioni e la mimica di chi ci circonda, in modo da ricordarsi, ad esempio, che il viso della rabbia è come quello che aveva mio padre quel dato giorno.
2. La percezione Percepire significa conoscere attraverso i sensi, ovvero attraverso i canali che sin dalla nascita ci connettono al mondo: l’udito, la vista, il gusto, il tatto, l’olfatto. Sin dalla nascita, conosciamo così, che cosa ci circonda, chi è il nostro “caregiver” (colui che fornisce cure e attenzioni), distinguendo i volti familiari da quelli estranei, la nostra cameretta, la voce di chi ci ama, il suo odore, il gusto della pappa, il suono della canzoncina nella culla, il calore e la morbidezza di un abbraccio; possiamo quindi considerare la percezione come la nostra porta sul mondo, per conoscere e per farci conoscere. Supponiamo anche solo per un attimo di aver questi canali sensoriali alterati, avremmo certamente una percezione altrettanto alterata della realtà, in tal caso ciò che probabilmente faremmo è comportarci diversamente dagli altri ma soprattutto dalle loro aspettative; una musica per tutti piacevolmente ritmata potrebbe esser assordante per le nostre orecchie, la semplice vista di una serie di libri colorati all’entrata di una stanza potrebbe esser per noi un’inondazione di stimoli visivi insopportabile e dolorosa da sostenere all’interno di una relazione con l’altro o di un’attività. La ricezione degli stimoli esterni attraverso i sensi viene analizzata a livello corticale attraverso una selezione ed elaborata in informazione; le persone affette da autismo hanno una percezione alterata di tutto ciò che le circonda, spesso son iper-stimolate a livello sensoriale e sembrano non riuscir a far selezione, così che le informazioni da dover elaborare divengano una quantità impensabile per qualsiasi calcolatore. Considerando questa inondazione di input, come valuteremo ad esempio il tapparsi le orecchie nell’entrare in una stanza con altre persone? Continueremo ancora a pensare che sia dovuto al non voler relazionarsi all’altro o possiamo riconoscere tale straEdizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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tegia comportamentale come una soluzione efficace ed immediata da parte della persona autistica, per preservare il proprio cervello da una estrema confusione e sofferenza? Immaginiamo di esser al telefono in una conversazione dalla linea disturbata, e che nel cercar di captare alcuni dati per noi essenziali, dedicando ogni nostra attenzione a quel messaggio, qualcuno cercasse di avvicinarci per dirci qualcosa di diverso argomento o di abbracciarci o scherzare con noi; ad un primo tentativo faremmo solo un minimo gesto per allontanare l’altro, per non perder alcun dato della telefonata, ad una ulteriore insistenza ci allontaneremmo cercando la solitudine e la tranquillità. È ormai cosa ben nota che le persone autistiche diano estrema dominanza al visivo rispetto all’acustico, si dice infatti che il pensiero delle persone autistiche vada per immagini, (“Thinking in pictures” Temple Grandin 2006), ovvero che l’elaborazione di un insieme di concetti avvenga per associazione di immagini. Ciò che potrebbe chiarire quest’ultimo concetto è il presupposto per cui ciò che domina la mente autistica sia una “iper-logica” estrema, la ricerca di un’ordine e di una coerenza cognitiva, percettiva e comportamentale a rimedio di una sovrastimolazione cerebrale e di un caos di segnali esterni ambientali. Una ricerca di coerenza ed ordine fa sì che un’immagine chiara di un concetto rimanga fissa, immutabile e inequivocabile; più il bisogno sarà di fissare un concetto, più il cervello allenato a dover discriminare all’interno di una quantità enorme di input diverrà un simil-scanner al fine di identificare e denominare nel più breve tempo possibile, attraverso il riconoscimento di alcune peculiarità, l’oggetto, la persona, l’ambiente che si pone dinanzi. Uta Frith parla di coerenza centrale per indicare la tendenza di ogni persona non autistica a prediligere una visione di insieme rispetto all’attenzione al particolare, tipica invece dei soggetti autistici; capita molto spesso, se avete dinanzi a voi un bambino autistico, che questi si fissi su un particolare che spicca nel vostro abbigliamento o nella vostra acconciatura dei capelli o in un orecchino, ma ciò che è incredibilmente palese è che nessun particolare passerà inosservato, sarà come se la visione globale non avvenisse come per noi normotipici attraverso una vista generale ma come la somma di infinitesimali particelle di singoli elementi, sino a raggiungere l’intero mosaico finale, il tutto in un tempo impensabilmente breve. Per questo motivo è estremamente necessario far conosce12
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re preventivamente attraverso immagini o accurate descrizioni l’ambiente che andremo per la prima volta a far vivere alla persona autistica e la necessità successivamente di far rimanere coerenti i contesti per come son stati conosciuti, mantenendo ad esempio una modalità nell’entrata o un solito rituale. La certezza di una conoscenza precedente infatti fa sì che si limiti di gran lunga il materiale informativo in entrata, ogni cosa sarà già scannerizzata o immaginata preventivamente al fine di limitare il livello di ansia nel dover gestire novità. Correlato ad una novità c’è il non saper che attenderci e per un bambino consapevole di non esser compreso nei suoi bisogni, il dover affrontare situazioni nuove comporterà sicuramente il dover preoccuparsi rispetto a ciò che sarà posto di fronte a lui, alle intenzioni i desideri e le volontà degli altri, A proposito di questo aspetto particolarmente identificativo e deficitario dello spettro autistico, Uta Frith parla di capacità di “mentalizzare” intendendo il riuscire a capire la mente altrui, rappresentare i propri e gli altrui stati mentali, ovvero l’intenzione, il pensiero, l’aspettativa; a tal proposito nel suo libro “Autism: Explaining the enigma”, l’autrice riporta il famoso test sulla “Falsa credenza” di Perner e Wimmer , conosciuto meglio come “Sallie-Anne Test” che consiste nel valutare attraverso la presentazione di un gioco di finzione ad alcuni bambini la loro capacità metarappresentazionale, lo sviluppo della teoria della mente (TOM: theory of mind). Per teoria della mente si intende la consapevolezza che i comportamenti altrui siano direttamente determinati da stati mentali interni e due son i processi che la costituiscono: 1. la decodifica degli stati mentali; 2. capacità di predire gli stati mentali altrui o saperli spiegare. I risultati del test sulla falsa credenza dimostrarono che solitamente dai 5 anni i bambini iniziano ad avere la capacità di rappresentarsi gli stati mentali altrui senza proiettare i propri, in una sorta di empatia cognitiva, riuscendo a prevedere ciò che può pensare una persona diversa da loro; i bambini autistici invece nel crescere continuano a dimostrare grossi deficit in tale capacità metarappresentazionale.
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3. Convenzioni e regole sociali Poco prima di entrare in una scuola elementare gremita di genitori per un incontro di formazione sul disturbo autistico, pensai un esempio chiarificatore per far riflettere ognuno dei presenti su ciò che definiamo “normalità” e quale sia il limite al di là del quale si possa parlare di “a-normalità” o “handicap”; mi venne di colpo questa immagine: una persona attende l’autobus alla fermata in piena solitudine , ad un tratto si mette un dito nel naso come per istinto seguendo un bisogno, ma al sopraggiungere di una persona lungo il marciapiede, si interrompe. Se noi fossimo la persona che sopraggiunge e vedessimo invece che il signore continua a tenersi le dita nel naso incurante del nostro arrivo, penseremmo dapprima che sia solamente una persona maleducata, poi vedendo una insistenza nel gesto, penseremmo probabilmente che non sia tanto in sé, che abbia dei problemi. Ciò che quindi risulta esser criterio per definire problematica una persona non è tanto il tipo di comportamento messo in atto, come il mettersi le dita nel naso, ma quanto l’influenza che la presenza di un’altra persona possa avere sul continuare a metterlo in atto. Questo aspetto in psicologia sociale in particolare con la figura di Lewin e la sua “Field theory”, è studiato per descrivere appunto quanto la presenza altrui possa determinare un cambiamento nel nostro modo di essere o di fare. Se riflettiamo su tale concetto, riusciremmo ad ammettere che diviene fondamentale conoscere le regole sociali del dover essere e dover fare in società, tutti quei “non si fa” che ognuno di noi si ricorda aver caratterizzato la propria crescita, per esser considerato “a norma”, convenzionato. Per convenzione si intende una presa di consapevolezza condivisa, raggiunta con un accordo tra più persone, al fine di stabilire uno schema al di là del quale possa esser considerato “fuori norma o legge” qualsiasi comportamento, atto, modo di essere. Rispettare una convenzione significa conformarsi per divenire parte di un tutto, di una società che ti riconosce come proprio membro nel momento in cui ti allinei, riconoscendo come giusti criteri, certi canoni comportamentali, estetici, comunicativi. La convenzione ci dice che una cosa non la si fa, senza dar un reale motivo a sostegno di tale istruzione, non la si deve fare e 14
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basta, perchè non sta bene; per esempio, togliersi le scarpe quando si è seduti in luogo pubblico come in una classe scolastica non è adeguato, però il togliersi le scarpe appena entrati a casa propria, non è da rimproverare, anzi spesso è consigliabile dal genitore stesso per insegnare al bambino che è importante mantenere un ambiente pulito, per cui magari meglio togliersi le scarpe appena si entra. Cosa risulta se non un illogico meccanismo alla base di una convenzione sociale? Ciò che distingue infatti il poter togliersi le scarpe a casa rispetto alla scuola, non è una reale differenza ambientale o di necessità che potrebbe render chiaro a qualsiasi persona il dover rispettare tale regola, ma solo il dire comune che a scuola non si tolgono le scarpe. Nel porsi in relazione sia con un adulto sia con un bambino è fondamentale, al fine di consigliare, educare o insegnare, prediligere sempre uno stile “autorevole” rispetto ad uno stile “autoritario”; la semplice differenza tra i due modi di rivolgersi è l’associazione di una logica motivazione all’istruzione. Esser autorevoli nel chiedere di fare, significa motivare logicamente il perchè sia meglio farla, dando modo a chi dovrà rispettare l’istruzione di comprendere che ciò che farà avrà un senso , uno stile autoritario invece eviterà di porre un “perchè” a seguito di una richiesta, che sarà di conseguenza letta come un mero comando da eseguire, solo per la volontà di chi lo ha stabilito a priori. Premessa per cui una frequente illogicità di base ad una convenzione sociale, diverrà consequenzialmente naturale la difficoltà per una persona dotata di una mente dal funzionamento iper-logico, riconoscerne l’utilità, apprenderla per farla propria e divenirne rispettoso utente e ambasciatore.
4. Autismo ed iper-logica Come dicevamo poc’anzi riguardo alla percezione, ciò che caratterizza l’esistenza di una persona autistica è un continuo schermarsi dalla moltitudine di input sensoriali al fine di non entrare in una angosciante confusione e in una eventuale crisi. Come rimedio a tale stato di cose, la mente autistica sembra prediligere situazioni dai meccanismi chiari o resi chiari perché Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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ripetuti allo sfinimento, al fine di divenire logici per familiarità. Un gioco descritto verbalmente da una maestra o da una educatrice non susciterà mai lo stesso interesse per un bambino autistico rispetto ad un gioco su uno schermo di una console, di un computer o di un telefono smart phone, questo evidentemente perché la coerenza e la chiarezza espositiva di una persona che cerca di spiegare verbalmente un’attività, sarà sempre più soggetta a dubbi e diverse interpretazioni cognitive rispetto ad un programma dettato da un software. Le variabili intervenienti all’interno di un gioco computerizzato, sono comunque previste e espresse in un menù iniziale per cui l’effetto sorpresa verte solo sull’abilità del giocatore; le variabili invece che intercorrono in un gioco concreto, dettato e creato dall’uomo, sono infinite, tra cui una differente visione degli strumenti, una differente percezione delle difficoltà per raggiungere lo scopo del gioco. Come già espresso precedentemente, la netta preferenza di un pensiero per immagini porterà a prediligere una presentazione di un gioco o di una attività su un display rispetto al dover ascoltare o veder solo oggetti con i quali condurre l’attività, porterà ad un’immediata scelta per la prima situazione rispetto alla seconda; quella atipica visione di insieme, che nei paragrafi precedenti avevamo menzionato, rende probabilmente il bambino autistico avvantaggiato nell’approccio al gioco computerizzato ove i comandi e le istruzioni da eseguire appaiono da subito evidenti tutte allo stesso modo e dove l’attenzione al particolare diverrà fondamentale e vincente al fine di una buona performance. Tutto ciò che appare in uno schermo, da un film di animazione ad un documentario educativo è circoscritto al perimetro dello stesso, senza esser contaminato da interferenze esterne di persone ed oggetti, riducendo la situazione descritta nel display ad una sorta di bidimensionalità, potenzialmente riascoltabile e revisionabile ogni qualvolta il bambino voglia. L’immagine riuscirà ad esser impressa nella mente all’interno di quel setting con la quale viene presentata, ovvero con una musica di sottofondo, un suono o la stessa voce dei protagonisti, rimanendo coerente a quel sistema di riferimento video che servirà al bambino per apprendere associando dapprima il visivo all’acustico, poi attraverso un processo di generalizzazione ad applicare anche fuori dal display in prima persona ciò che ha conosciuto attraverso il video, così prima per imitazione diretta 16
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poi indiretta, confrontando ciò che fa, con la memoria visiva per prove ed errori. Per confrontare ciò che riesce a fare in base alla sua memoria visiva e ciò che realmente il bambino ha visto nel video, il piccolo può ricercare morbosamente, in maniera ossessiva, la sua immagine riflessa nel rimettere in pratica il comportamento appreso o ripetere il messaggio ascoltato nel video, in uno specchio a casa, in una finestra a scuola, negli occhiali da sole di una persona che gli si avvicina, in un finestrino di una macchina parcheggiata lungo la strada. La ripetizione comportamentale portata all’eccesso di certi ristretti interessi è, come prima accennavamo una strategia cognitiva al fine di render familiare e quindi logica e coerente una procedura, una serie di azioni o una espressione verbale facendo sì che divenga competenza acquisita una volta entrata nel circuito del loop e del riproporsi spontaneamente. Un’attenzione fondamentale da parte del bambino autistico è rivolta alla coerenza tra verbale e non verbale, sia riguardo alla mimica facciale o al comportamento non verbale in genere e la parola, sia riguardo al rapporto tra il dire e la realtà delle cose che spesso non corrisponde letteralmente a ciò che diciamo. Tipico del linguaggio comune di ognuno di noi è l’uso modi di dire come “perder la testa per qualcuno”, espressioni dettate spesso da omissioni, da immagini che stanno a significare tutt’altro rispetto a ciò che letteralmente esprimerebbero, da scorciatoie di pensiero che generalizzano un concetto dando per scontato che si intuisca a senso e che vada applicato al contesto in cui al momento ci troviamo; usiamo ad esempio figure retoriche come la metonimia, nelle espressioni “bere un bicchiere”, “mangiare un piatto”, che se analizzate letteralmente non son per niente chiare né logiche. Il bambino autistico ha una comprensione logico-letterale del linguaggio che non tiene conto assolutamente di queste convenzioni linguistiche e del loro valore metaforico, ovvero dire “ho saltato la lezione”, se per lui saltare è chiaramente il balzare, diviene un’espressione incomprensibile in quanto le immagini che saranno sommate saranno un verbo motorio ed una attività che magari niente ha a che fare con un salto, oppure “facciamo un giro”, non sarà per lui una passeggiata ma più un girotondo. La ricerca di concretezza è a livello cognitivo la prima selezione che la mente autistica mette in atto, per cui l’attenzione di Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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chi si vuol rivolgere con una richiesta ad un bambino autistico dovrà evitare concetti troppo astratti, come nel riferirsi al tempo, dicendo “dopo” o “alla fine” senza specificare il “di cosa”, cioè “dopo che cosa?”, “alla fine di che cosa?”. È necessario sempre utilizzare qualcosa di concreto come riferimento al quale confrontarsi, come ad esempio, la fine della canzone che stiamo ascoltando o dopo che il nostro amico Brian si è tuffato.
5. Verbale o non verbale È scontato dire quanto tutti noi diamo un’enorme dominanza al verbale su qualsiasi altra forma comunicativa, basti pensare all’equazione che solitamente in maniera automatica avviene nel pensiero comune tra il non riuscir a parlare e esser disabile o comunque il non saper comunicare. La comunicazione invece, come la letteratura insegna è di due tipi, verbale e non verbale e ciò che realmente ci riporta quotidianamente a tale dicotomia è una possibile discrepanza di tali aspetti; se una persona si rivolgesse con parole estremamente gentili, ma con la mimica facciale e con il comportamento dimostrasse invece una esplicita mancanza di rispetto, si presenterebbe in noi una immediata discrepanza cognitiva nel ricevere i due messaggi incongruenti. Il comportamento non verbale è pur sempre comunicazione, la prossemica, ovvero la posizione che occupiamo nello spazio, la postura e le posizioni che assumiamo rispetto alla presenza e alle parole dell’altro ne sono un chiaro esempio; veder il nostro interlocutore distogliere lo sguardo dal nostro e sbuffare non sarà per noi motivante per una nostra richiesta di intima confidenza. Chi come i bambini autistici non predilige invece il verbale rispetto al non verbale, diviene giorno dopo giorno così attento ed esperto nel “sentire” l’altro nel silenzio, che ci stupirà per quanto riesca ad esser in sintonia con i nostri stati d’animo senza che neanche questi siano del tutto consci a noi stessi. Non sentir il bisogno di ascoltare parole per capire gli altri è una cosa fondamentale dell’esser empatici, la parola è per lo più scelta, filtrata dal pensiero e la valenza sociale di ciò che possiamo dire ricade sull’idea che gli altri si fanno di noi, per cui perchè un bambino autistico dal sentire chiaro nel silenzio dell’altro, 18
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dovrebbe pensare che per esser compreso debba necessariamente parlare? L’attenzione alla parola a cui siamo abituati nella società è per il significato che essa assume nel contesto in cui siamo, per il destinatario a cui ci rivolgiamo, per il valore che per noi stessi riveste. La parola diviene importantissima per ognuno di noi al momento in cui si diviene consapevoli che parlando possiamo farci capire, far arrivare un messaggio chiaro al destinatario, per soddisfare un bisogno, in una richiesta di aiuto, nel soddisfare una volontà, nell’opporsi e nell’allontanare ciò che non gradiamo, diviene automatico il voler comunicare attraverso il verbale quando lo si vede realmente utile e comune canale. Durante lo sviluppo, il pianto verrà sostituito da un linguaggio appreso per imitazione e prove di errori attraverso ecolalie con le prime parole, espressioni di bisogni primari come “pappa” o “mamma”, accompagnate dal grande entusiasmo del genitore e nonni, per divenir sempre più ricco ed articolato in frasi dapprima molto strumentali per divenir con la crescita più “meta-comunicative”, ovvero caratterizzate dal piacere e dall’attenzione al comunicare. Percorso completamente diverso è quello invece dei bambini con marcate difficoltà comunicative come nello spettro autistico, dove il riuscir a verbalizzare avviene solitamente con più difficoltà per una poca attenzione al “verbale altrui”. Quà nasce l’esigenza da parte di chi vive e segue il bambino di motivare e premiare ogni suo tentativo di verbalizzazione. Nel concreto, nel caso in cui il bambino per ottenere qualcosa che non vogliamo che prenda, sforzandosi, riuscisse a verbalizzare, da parte nostra lo sbaglio più grande sarebbe opporsi alla richiesta senza dimostrare che il messaggio sia arrivato a destinazione; l’effetto immediato sul bambino sarebbe infatti il non riconoscere come funzionale la parola e automaticamente rinforzeremmo il suo non parlare. Il riconoscere funzionale uno strumento è la condizione per dar maggior rilievo emotivo alla motivazione che sta dietro il suo utilizzo, generando a tal punto un ciclo autorinforzante che vedrà come inversamente proporzionali sacrificio e motivazione. Nel disagio autistico il verbale è molto spesso caratterizzato da un uso ripetitivo di alcuni termini che apparentemente non hanno alcun legame con il contesto spazio temporale nel quale Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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son pronunciati, ciò che Uta Frith definisce “espressioni idiosincratiche”. Se cerchiamo però con attenzione di capire ciò che un termine vuole esprimere per quella persona, non fermandoci al significato letterale, scopriremo che niente è mai detto “a caso”. Dentro ad una parola ci son profumi, ricordi di gioie o paure, ognuno di noi associa più o meno spontaneamente una canzone ad un momento della propria vita particolarmente importante dal punto di vista emotivo, altrettanto può avvenire con le parole soprattutto nel caso di un funzionamento cognitivo che da predominanza ad un “pensiero associativo”; la necessità di concretezza facilita l’associazione di tutto ciò che è “invisibile” come un’emozione, una sensazione, un ricordo ad una etichetta verbale, concreta, riconosciuta per prima cosa da noi stessi e così condivisibile. Per questo motivo è facile sentire un bambino autistico nominare un personaggio di un cartone animato mentre fa un tuffo ma anche solo uno slogan pubblicitario di eccezionali sconti e liquidazione, per esprimere la propria soddisfazione nell’esser riuscito a compiere un’impresa di coraggio o per contenere ed elaborare le forte emozioni in seguito ad essa. Accade spesso che il bambino autistico attui un’inversione pronominale, ovvero scambi la prima persona con la seconda, oppure parli di sé in terza persona; ancora una volta affinchè non sia l’ennesima occasione di etichettare e obbligatoriamente riconoscere tratti sintomatici, dovremmo per una utile osservazione e comprensione far un passo indietro prima di varcar la soglia del giudizio e pensare a come noi ci rivolgiamo a lui. Considerando infatti che un altro aspetto caratterizzante il linguaggio “autistico” è l’ecolalia (ripetere ad eco frasi o parole pronunciate da altre persone), potremmo facilmente dedurre che se in una fase di apprendimento del linguaggio verbale il bambino tende a ripetere, anche nella normalità dello sviluppo, le parole che noi gli rivolgiamo, a maggior ragione sarà così per un bambino autistico. Applicando quella che si definisce “ecolalia immediata” infatti, ripeterà il pronome che noi indichiamo nel parlare a lui, ad esempio chiedere “cosa fa Michele?” può far sì che inneschi una risposta in terza persona e così via per le altre persone. Per questo motivo non dovremmo temere che il nostro modo di rivolgerci al piccolo divenga un potenziale danneggiamento 20
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del suo modo di esprimersi, rimanendo infatti consapevoli che il linguaggio lo si impara come ogni apprendimento dapprima per imitazione, diverrà per noi più semplice non cadere nelle solite correlazioni disturbo-tipicità. Ciò che consiglio è cercare di non “fissarci” per primi in una immutabile modalità di rivolgersi ad un bambino autistico, sia nel verbale, sia nel non verbale, sia nel proporre attività nell’arco della settimana; rispettare le sue peculiari necessità non vuol dir rinforzarlo nel vivere un “mondo autistico”, presentandogli stimoli e situazioni stereotipate e ripetitive. La mancata espressione di parole invece si trova alla base di stereotipie motorie come l’agitare le mani, il girare in tondo, il correre improvviso, oserei dire in maniera inversamente proporzionale, ovvero più l’uso della parola diviene acquisito in maniera funzionale all’espressione di una necessità ad esempio, più la consapevolezza di esser compresi ridurrà il livello emotivo e la conseguente attività motoria ad esso correlato. Ogni stereotipia infatti ha due componenti, una prevalente, che ne dà origine, a carattere emotivo ed una “automatizzata”, poiché una volta acquisita come “espressione” o “compensazione” diviene anche strumento di evasione, estraneamento ed isolamento e per cui facilmente ripetibile allo sfinimento. Il saper dar un senso accuratamente ad una stereotipia sta nel non fermarsi alla semplice lettura di essa come il disinteresse per gli altri o l’ambiente circostante o addirittura come una incapacità di connessione a tale rete di realtà, ma nel riuscire ad interpretare queste forme comportamentali per la loro reale funzione. Se ciò non avvenisse non ci limiteremmo ad un errore di interpretazione di una richiesta o necessità espressiva, ma cosa sicuramente più grave, non riconosceremmo le strategie, l’autonomia gestionale di un individuo; accettarla nella sua logica e precisione e plasmarla a qualcosa di più facilmente riconoscibile da tutti è invece il giusto percorso da fare. Continuare a non riconoscere il perchè un bambino gira in tondo in un contesto, soffermandoci a quanto ci sia di “autistico” in quel gesto, cercando conferme ad una diagnosi e ad un’etichetta, non fa altro che alimentare tale stereotipia, in quanto mera espressione di disagio. Serve invece abbassare le fredde barriere del giudizio, dal cuore e dalla mente non far partire niente da noi, limitarsi ad accogliere, senza neanche tendere le braccia, fermi, attenti nella Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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presenza ma non nel pensiero; il capire verrà di conseguenza al sentire. Se riuscissimo nel sentire empatico, capiremmo il disagio di chi abbiamo davanti, senza parole, proveremmo a parlare sottovoce dicendo che abbiamo capito che qualcosa non va bene, che siamo pronti a far quello che è meglio per migliorare la situazione, in ascolto, di colpo il bambino smetterebbe di girare, non per miracolo, solo perchè avremmo creato una connessione con il suo bisogno, senza richieste, senza aspettative, tra cuore e cuore. Naturalmente ciò che possiamo e dobbiamo aspirare a fare è dopo aver compreso la funzione di una stereotipia riuscire a modellarla a qualcosa di sicuramente più “leggibile” per chiunque possa imbattersi per la prima volta in una manifestazione del genere; di pari passo dovremmo lavorare sull’altro polo, ovvero su tutti coloro che non sanno, che non conoscono né il bambino né tantomeno le sue necessità e peculiarità, cercando di infondere una consapevolezza profonda, che vada al di là di una semplice trasmissione nozionistica che serve per categorizzarlo ed inquadrarlo come facente parte di una certa classe di disturbi o sindromi. Soltanto grazie alla consapevolezza di ciò che una persona vive, possiamo divenire empatici nei suoi confronti, dimostrarci sensibili verso di lei e verso la sua famiglia, abituata a lottare, a dover pretendere diritti e aiuti, che se non dovuti grazie ad un articolo o legge, non arriveranno mai se non accompagnati e guidati spontaneamente dal cuore di chi invece conosce e motivato intrinsecamente vorrà aiutare, senza leggi né articoli, accordi o contratti caduti dal cielo, solo da persona a persona. Il passaggio tra il disagio, il benessere e un aumento delle abilità e competenze del bambino è quasi immediato, secondo una catena di invisibili passaggi, che se tenute di conto le premesse della condizione iniziale di “sofferenza”, divengono di colpo logici e chiari. Ricordando quanto il non sentirsi omologato agli altri nel percepire, nel sentire, nel comunicare, sia motivo di rinforzo di chiusura e evitamento dei contesti di condivisione, l’esser conosciuti e riconosciuti nei bisogni, nelle manifestazioni di tali bisogni, nelle abitudini, nei modi di fare, di essere e di sentire, farà si che cada quell’enorme barriera di paure e angosce, grazie ad una nuova consapevolezza riguardo al non essere più così diverso agli occhi degli altri, etichettato senza voler esser conosciuto 22
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davvero. Riuscire ad attivare una connessione con un bambino autistico è una delle esperienze più profonde che si possa fare, sentiremmo per la prima volta l’importanza del comunicare, la bellezza della condivisione di uno sguardo, la profondità di un silenzio, la dolcezza del suono di una parola, come il ticchettio della pioggia dopo una lunga siccità, per un genitore mai così atteso, mai così desiderato. Spesso trovandomi di fronte a grandi progressi dei piccoli che seguo, mi trovo a dover ricordare ai genitori di non perder mai la consapevolezza della condizione da cui i propri figli son partiti, non per continuare a ricordarli nella sofferenza, ma per dare sempre grande importanza alle loro quotidiane conquiste, rinforzando i successi senza dar per scontato niente. Laddove esiste una debolezza non dobbiamo mai abbassar la guardia, rimanendo attenti e pronti ad entusiasmarsi per qualsiasi tentativo di esposizione e performance superiore; percepire nell’altro una sincera approvazione è ciò che rende salda l’idea nascente di una nostra autostima, di una autoefficacia, a maggior ragione se si considera l’età dello sviluppo.
6. Egocentrismo e consapevolezza di sé Delle persone autistiche il più grande luogo comune, conoscenza diffusa e primaria, è che siano persone egocentriche all’ennesima potenza, ipotizzando come causa lo scarso interesse verso il prossimo o la sfiducia ed evitamento di tutto ciò che è altro da loro; ciò che la Frith ipotizza come fattore base di tale egocentrismo è la mancanza di ciò che lei definisce un “sè visibile”, di una prospettiva dall’alto di tutti quei sé racchiusi in ognuno di noi, che porterebbe ad un perdersi nella frammentazione o al non riconoscersi nell’altro, in quanto poco uniti al proprio interno. Secondo la psicologia della Gestalt, (corrente psicologica nata in Germania agli inizi del XX secolo, particolarmente interessata alla percezione) e del concetto della già citata “coerenza centrale”, nell’uomo esiste la tendenza naturale ad avere una visione di insieme anche nei contesti più complessi e ricchi di sfaccettature e stimoli; i soggetti autistici invece, essendo meno dipendenti, se si voglia, dall’influenza del contesto, focalizzano grazie ad una modalità di percezione e di elaborazione dell’informazione di Edizioni Psiconline © 2015 - Riproduzione vietata
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tipo “bottom-up” ovvero dal particolare al generale, ogni singolo particolare componente dell’unità totale. Così avverrebbe rispetto ad una visione interiore del proprio sé, nelle varie sfaccettature, in una sorta di egocentrismo che definirei “minoico”, dalle caratteristiche di un intricato labirinto, dove il sé difficilmente riesce a vedere qualcosa di diverso dalla propria immagine riflessa nei tanti specchi che rappresentano le proprie passioni, i propri bisogni, le proprie abitudini; diretta conseguenza sarà una forte modalità introspettiva dell’essere, silenziosa e riflessiva, catartica e rumorosa, ma in ogni caso non istantaneamente responsiva con l’esterno se non nell’allontanare qualsiasi cosa che abbia valore negativo per la persona o nell’avvicinare ciò che ricalca il suo forte interesse. La comune elaborazione dell’informazione, di tipo “topdown” invece, è ciò che potremmo definire una modalità deduttiva, ovvero da una consapevolezza generale trarre conclusioni sul particolare; in essa l’attenzione al particolare è successiva ad una visione di insieme che colora ogni piccolo elemento si trovi al suo interno, un chiaro e concreto esempio della differenza tra i due processi di elaborazione è la diversa procedura nel disegnare per un bambino autistico rispetto alla norma. Guardando disegnare un bambino autistico infatti, ognuno di noi può notare quanto, sia l’ordine nel quale compaiono le singole parti del disegno e l’evidenza che a loro viene data, evidenzino tipicità rispetto al fare comune di un bambino coetaneo; la produzione grafica può ridursi alla realizzazione di solo alcuni particolari, senza tener conto minimamente dell’insieme globale di cui fanno parte, come una sola finestra per rappresentare una casa, come una sorta di “sineddoche grafica”. Lo stesso vale per il modo di fotografare, o di far riprese video, un riflesso della luce su una piegatura della stoffa, un angolo della porta dove appare ben evidente un nodo del legno, un piede della persona che si trova davanti all’obbiettivo, saranno i bersagli più comuni per un “operatore autistico”. Se pensiamo ad una così particolare processazione, dagli organi di senso all’elaborazione delle informazioni, possiamo comprendere quanto altrettanto frazionata sarà la visione di ciò che un soggetto autistico vive, sente, semplicemente è e di ciò che sia l’altro; apparirà evidente la necessità per un soggetto autistico di utilizzare un pensiero di tipo associativo che lo faciliti nel denominare certe situazioni e certi contesti associandoli a nomi 24
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