Prevenire il suicidio. L'importanza di una corretta informazione

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Punti di Vista

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Candida Cilli

Prevenire il suicidio L’importanza di una corretta informazione

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Prima Edizione: 2013 ISBN 9788898037131 © 2013 Edizioni Psiconline - Francavilla al Mare Psiconline® Srl 66023 Francavilla al Mare (CH) - Via Nazionale Adriatica 7/A Tel. 085 817699 - Fax 085 9432764 Sito web: www.edizioni-psiconline.it e-mail: redazione@edizioni-psiconline.it Psiconline - psicologia e psicologi in rete sito web: www.psiconline.it email: redazione@psiconline.it I diritti di riproduzione, memorizzazione elettronica e pubblicazione con qualsiasi mezzo analogico o digitale (comprese le copie fotostatiche e l’inserimento in banche dati) e i diritti di traduzione e di adattamento totale o parziale sono riservati per tutti i paesi. Finito di stampare nel mese di Aprile 2013 in Italia da Atena.net srl di Grisignano (VI) per conto di Edizioni Psiconline® (Settore Editoriale di Psiconline® Srl) Edizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata


INDICE

Prefazione Introduzione Il suicidio e l’esperienza vita-morte La prevenzione del suicidio Il rischio del suicidio e l’esperienza della morte La posizione innovatrice dell’analisi ed il TS nel processo analitico Alcuni esempi clinici Osservazioni finali Conclusioni generali Bibliografia

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Vivere naturalmente non è mai stato facile A. Camus

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PREFAZIONE

L’intenzione di questo lavoro non è soltanto quella di riferire l’esperienza annosa ed egregia dell’autrice nello studio dei tentati o riusciti suicidi, quanto e soprattutto quella di individuare nella società odierna la cause che sono “al di fuori” dell’Io autodistruttivo ed in primis quelle che comunemente vanno sotto il nome di “mass media” (radio, televisione, stampa) alle quali si deve dare grande responsabilità. La superficialità, la forza ed insieme la leggerezza con cui oggi si parla di suicidio al grande pubblico di lettori ed ascoltatori, distolgono dal dovere di individuare di esso le profonde, esatte, complesse cause che lo provocano o peggio addirittura tendono a strumentalizzare questo atto estremo per giustificare, allarmando , la situazione di crisi economico sociale attualmente in atto. Anche non dando la dovuta importanza agli studi statistici che garantiscono il non aumento del numero dei suicidi in questo periodo difficile del nostro Paese, è un fatto evidente che essi si susseguono con una frequenza ed una modalità che non rende onore all’importante ruolo dei mass media e che anzi lo rende in un certo senso corresponsabile. Infatti tali notizie date in modo così tragico, violento ed emotivamente coinvolgente, senza una profonda spiegazione dei tanti motivi che inducono l’uomo a pensare o a mettere in atto il suicidio, indizi radicati nel tempo, profondi, male elaborati e magari per nulla condivisi con chi sta loro attorno, devono accompagnare il servizio informativo

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ed evitare in tutti i modi che esso invece venga recepito come modello da imitare, come estrema ratio da perseguire da parte di coloro che sono in particolari difficoltà e quindi più fragili. Ciò pertanto che mi sento di sostenere è un serio etico invito da parte dei mass media ad un maggior rispetto verso tutto ciò che riguarda le problematiche del mondo intero e di ciascun essere vivente. Essi avrebbero l’obbligo, quando non possono tacere, allora di approfondire le notizie che vogliono trasmettere, facendo un’informazione corretta, delicata ed attenta alla complessità della vita di ogni uomo ed offrendo addirittura la prospettiva necessaria di ricorrere ai vari aiuti per chi si trova in difficoltà. Dovrebbero cioè far notare l’esigenza di maggiori centri di terapia psicofarmacologiche o psicoterapeutiche, del sorgere di gruppi di aiuto guidati per i singoli, ma anche per seguire le loro famiglie, indirizzati alla rieducazione alla vita , imparando ad affrontarne anche i suoi dolori. Questo dovrebbero dire ed auspicare coloro che vogliono fare informazione perché in ultima analisi, come ben scrive il sociologo Bauman “ è la consapevolezza della fine che infonde ogni momento che la precede di un meraviglioso significato. Non tanto perché ci dà il significato ultimo della vita, quanto perché ci incita e ci costringe a riempire le nostre vite di significati... e ci spinge a cercare nuovi inizi”. Dott. Marco Sostero Specialista in Neuropsichiatria

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INTRODUZIONE

Questo lavoro è il tentativo di sviluppare una maggiore comprensione delle tematiche auto-aggressive che molto frequentemente mi si sono presentate nella pratica clinica , negli ospedali e nelle Unità sanitarie locali. Soprattutto nell’attività di reparto tra prove ed errori, discussioni, acquisizioni teoriche e pratiche, confronti con altri Servizi si è strutturato piano piano un approccio clinico sempre più attento ai problemi relazionali in pazienti che sembravano tutti votati a fare della psicosi una scelta esistenziale. Nelle frequenti riunioni tra psichiatri, psicologi, infermieri, giovani medici tirocinanti pur nella evidente accettazione di tale modalità tra discussioni e vivaci scambi di opinioni si intravedeva una certa inquietudine se il suicidio veniva più volte proposto come soluzione alle proprie difficoltà. Personalmente avevo sperimentato turbamento ed ansia nel rapporto con la prima paziente affidatami che aveva più volte tentato di uccidersi. Già nei primi colloqui all’interno delle cliniche avevo percepito che la mia difficoltà veniva da un vissuto che era un misto di sentimenti contrastanti: condanna e pena come reazione alla stessa aggressività stimolatami dalla paziente. In estrema ratio, quindi, una valutazione negativa da cui mi difendevo con molta fatica in un percorso interno che era di inquietudine, condanna, pena sia pure legittima per le sofferenze e l’instabilità emotiva alla base della tensione autodistruttiva.

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In seguito, con sempre maggiore frequenza mi imbattei o mi vennero affidate pazienti che esprimevano tematiche autoaggressive, talvolta solo come esordio in fase adolescenziale o, ancora più spesso, in età matura. Nella pratica psichiatrica ospedaliera verificavo che tali pazienti potevano suscitare reazioni emotive particolarmente intense nel personale di assistenza che si traducevano in una sorveglianza più stretta, in una posologia particolarmente accurata, in una certa tensione nel rapporto interpersonale. Del resto io stessa di fronte alle pulsioni suicidarie, nonostante l’analisi personale ed il training didattico non ero immune da un forte coinvolgimento emotivo e sperimentavo tutta una vasta gamma di sentimenti. Nacque così il progetto di affrontare più da vicino il rapporto con i pazienti suicidari. Mi vennero affidati parecchi pazienti con tale problematica e sempre con una prima fase di approccio operativo direttamente in clinica. Mi è sembrato fondamentale iniziare questo mio studio dalle modalità con cui in generale l’analista si accosta al problema del suicidio. L’uccisione di se stessi, l’atto con cui ci si dà la morte di propria volontà non può che porci nella antitesi vita-morte e nella necessità della prevenzione e della valutazione delle conseguenze dannose e negative di un evento la cui natura presenta sempre aspetti inquietanti ed enigmatici. Di fronte ad un fatto essenziale e profondo come il suicidio non si può cedere alla tentazione di rinchiudersi entro angusti parametri medici e psichiatrici. Bisogna invece cercare di tenere aperte tutte quelle possibilità e tutte quelle ipotesi che possano aiutare a comprendere ciò che questa “morte agli altri” pone nella sua infinita gamma di variazioni e di sensi. Solo in questo modo mi è stato possibile affrontare lentamente l’esperienza della morte ed il vissuto che ne ha l’analista nel suo 12

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lavoro. In seguito ho cercato di ordinare e riassumere i contributi recati alla comprensione del suicidio da studiosi di diverse discipline, ma soprattutto di tentare una esplicitazione del rapporto suicidio-psicanalisi con una rivisitazione degli scritti di Freud e di Jung che hanno messo la morte al centro della loro opera e di altri filosofi, sociologi o analisti - che ne hanno sentito la fascinazione. E solo alla fine di questo inizio di percorso-excursus ho potuto cominciare ad esplicitare con minore impasse alcune considerazioni sul TS in itinere nella processualità analitica. Una breve disamina di alcuni casi clinici ha così completato questo mio tentativo di comprensione psicologica del fenomeno e delle sue ripercussioni nella relazione analista-paziente.

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IL SUICIDIO E L’ESPERIENZA VITA-MORTE

Il suicidio è - come dice Alvarez1 - un mondo chiuso con una sua logica irresistibile anche se agli occhi esterni una logica sembra mancare. La contrapposizione più immediata ed ovvia è l’antitesi vitamorte. Oggi il vissuto della morte e non solo nei pazienti è spesso permeato di freddezza ed impersonalità per la conoscenza che ne viene consentita solo attraverso la lotta condotta da medici e macchinari e tra infiniti problemi burocratici. L’esperienza viva e profonda della morte è allontanata dal complesso apparato suddetto e resa impersonale ed asettica come le sue macchine, ma nello stesso tempo è impoverita e sterilizzata anche nell’esperienza umana di coloro che vi assistono e/o vi partecipano. Negli ospedali, nelle cliniche non si ha tempo di interrogarsi e talvolta si è fatalmente vinti dalla tecnica, si è presi negli ingranaggi, ci si sente impotenti di fronte alle diagnosi degli specialisti, alle loro previsioni e decisioni. Il malato diventa così una proprietà alienata e la civiltà con le sue macchine e la sua burocrazia allontana dall’uomo che muore, dalla possibilità di leggergli sul viso sgomento, angoscia oppure coraggio e speranza. Quando tutto l’apparato cessa di funzionare dopo l’artificioso prolungamento di una pseudo-vita vegetativa e viscerale, si 1 A. Alvarez, Il dio selvaggio, Rizzoli Milano 1975

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è ancora protetti per un po’ - i medici nelle loro ansie, i parenti nella accettazione della ineluttabile fine . ma in seguito il dolore esplode in modo imprevedibile e siamo pieni di profonda ed irrazionale paura di fronte a qualcuno che muore. Forse salvi dal rimorso, ma con mille rimpianti per la colpa di sopravvivere, per la morte che ci svela la singolarità unica ed irripetibile di ognuno di noi. Talvolta è solo un individuo tra tanti, ma poiché non facciamo mai tutto il possibile per nessuno, sono molte le negligenze, le omissioni, le astensioni di cui ci sentiamo responsabili. Del resto la morte non può essere integrata alla vita, nè si può pretendere di comportarsi in modo razionale di fronte a qualcosa che non lo è: nella confusione dei propri sentimenti ognuno cerca di cavarsela come può. Solo raramente l’amore, l’amicizia, la solidarietà umana vincono la solitudine della morte e la paura che riesce ad evocare. Una vastissima letteratura di origine popolare tenta di esorcizzare tale angoscia, ma la morte resiste ed è quella delle danze macabre, quella beffarda e sghignazzante dei racconti del terrore e del vampirismo; quella delle favole e del materiale collettivo da cui traggono modelli comportamentali umani quella disumana e straniera che viene da luoghi lontani. L’uomo civilizzato con le sue macchine e la sua burocrazia rivela ancora la sua irrazionalità, la sua primitività di fronte ad una morte che è ancora, come in passato, l’ultimo nemico della natura in cui si è sopraffatti quando le forze fisiche calano dalla fame, dal freddo, dal pericolo. Non si muore per essere nati o per avere vissuto, ancora oggi si muore “per qualche cosa”, per fatti brutali che lacerano il rassicurante e banale quotidiano: per ognuno di noi la morte è solo “un caso fortuito” ed “una indebita violenza”. Così come per i primitivi la morte ed il male si associano e si confondono e come dice la Von Franz ripensando a queste primordiali condizioni naturali, non è difficile comprendere come vi sia un’intima connessione fra l’essere sopraffatti dal male, dal 16

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nemico, l’essere divorati e la morte. È come se la vita umana fosse una luce radiante che tiene a bada i leoni, le tigri e anche gli altri esseri umani; ma quando la luce si offusca e la vitalità cala, allora l’oscurità irrompe e si impadronisce di noi. L’ultima battaglia è sempre, a livello fisico, una sconfitta, un soggiacere al lato oscuro”2. La persona che muore diventa così portatrice di questa forza estranea, di questa oscurità, anzi diventa oscurità e male come presso i popoli primitivi che tentavano di elaborarne il vissuto con pratiche esorcistiche tese a placare gli spiriti maligni o con l’allontanamento e la distruzione del cadavere stesso: “... alcune tribù indiane dell’America settentrionale e meridionale non toccherebbero mai un cadavere. Un moribondo viene posto in un tipi separato e, appena è morto, la sua capanna viene chiusa e i vivi si tengono distanti da lui. Il fenomeno della morte e i cadaveri scatenano una paura terrificante, primordiale”3. Fatti del genere appartengono a tipi di cultura diverse dalla nostra, ma è possibile comunque intuirne il senso e soprattutto il significato affettivo. La morte infatti non è solo un dato del mondo esterno: ha una forte risonanza presso i popoli primitivi proprio perché il morto sembra portare con sé la proiezione dei sentimenti ostili di coloro che restano in vita e così - come ci ricorda Jung - i primitivi spiegavano il dolore dei vivi, il disamore per la vita, le malattie psichiche ed organiche che potevano prendere l’avvio da un lutto: “... la maniera di esprimersi simbolica o metaforica corrisponde ad una mentalità primitiva la cui lingua non conosce astrattezze, ma soltanto analogie naturali ed innaturali ... Il primitivo 2 M.L.Franz, L’ombra e il male nella fiaba, Bollati Boringhieri, Torino 1995, p.162 3 Ibidem, p. 161

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vive nel suo mondo con una tale partecipation mystique che tra oggetto e soggetto non esiste affatto quella assoluta differenza che c’è nel nostro intelletto razionale. Ciò che avviene fuori di lui avviene anche in lui e ciò che avviene in lui avviene anche fuori di lui”4. Dal punto di vista psicologico il dialogo tra i vivi ed i morti ben esemplificato nelle lamentazioni funerarie ci evidenzia il conflitto emotivo alla base - i nostri atteggiamenti amorosi anche più teneri ed intimi contengono una qualche sia pur lieve componente ostile capace di provocare l’inconscio desiderio di morte - e quindi la sostanziale ambivalenza del rapporto con l’oggetto della teoria freudiana5. Ma è ancora la Von Franz che ci chiarisce cosa accade quando la morte di qualcuno che amiamo ci fa perdere il contatto con la realtà e consente ad emozioni e sentimenti di sprofondare nell’inconscio dove attivano contenuti collettivi che hanno un effetto negativo sulla coscienza. “... Il morto attira gli altri nella tomba ... Razionalmente si potrebbe dire che l’importo di energia psichica da noi investita in quella persona, si volge contro di noi, diventando distruttiva ...l’energia rifluisce sul soggetto, ma non trova alcun impiego e tutta l’energia non spesa rischia di avere un effetto pericoloso. Queste forze rendono inconsci, dissociano la personalità finché non si trovano nuovi oggetti per l’adattamento e la canalizzazione e la situazione comincia a migliorare... Nelle società primitive può assumere la forma di una furia cieca e allora si cerca un capro espiatorio, ...prende forma l’idea che 4 C.G.Jung, La struttura della Psiche, Opere vol. VIII, Boringhieri Torino 1976,pp.166,174 5 S. Freud, Considerazioni attuali sulla vita e sulla morte, Opere 1015-17, Boringhieri Torino 1976, vol. VIII, p. 141

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la persona non sia morta di morte naturale, ma di magia nera.... Nella nostra società ciò può provocare un’accusa contro il dottore o dispute spaventose sulla divisione dell’eredità...per abreagire l’eccedenza di libido... così devono scoprire che il medico o l’infermiere sono il diavolo in persona”6. Tutto ciò è facilmente riscontrabile nella implacabile routine degli ospedali e delle cliniche dove l’agonia7 e la morte sono fatti quotidiani e spesso medici ed infermieri vengono aggrediti dai familiari per loro negligenze presunte. Quindi quanto era già presente nella cultura greca ed egizia e nelle pratiche magiche degli antichi come manifestazione inquietante e primitiva del male e della morte e ancora oggi viene indagato negli studi antropologici sulle società primitive, nel folklore e nelle fiabe, ci evidenzia una sorta di trasformazione dell’essere umano in un demone. L’ostilità è ancora più accentuata nel suicida che in effetti viene vissuto come il fantasma più malefico, la personificazione di tutto ciò che viene considerato inaccettabile e malvagio8. Il suicida costringe in tal modo ad un confronto col problema del male già richiamato dalla morte, ma soprattutto con l’aggressività e con la pulsione di morte. La letteratura da sempre pone una particolare attenzione allo scenario del suicidio che tuttora è circondato da molta oscurità e da molti fraintendimenti : nell’antichità classica veniva valutato come atto atto eroico e sublime (cfr. i suicidi di Socrate, Demostene, Catone, Seneca) o come atto rivendicativo della libertà, ma già dal Cristianesimo era ritenuto un’offesa a Dio e la Chiesa medioevale lo puniva con processi e confisca dei beni. 6 M.L. Von Franz, op. cit. p. 128 7 Parola greca che significa ‘lotta’: per la vita, per respirare, ma originariamente lotta con il nemico invisibile, con la morte ultimo nemico. 8 E. Durkeim, Il suicidio, Rizzoli, Milano 1987, p. 88

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È sufficiente ricordare le pene terrificanti inflitte da Dante ai Suicidi nell’Inferno con i loro corpi che penzolano come fantasmi dall’albero mostruoso in cui sono stati trasformati. Furono gli Illuministi a rivendicare il diritto dell’uomo di disporre della propria vita, ma già alla fine dell’800 Durkeim toglieva ogni aspetto di romanticismo al suicidio che veniva visto come un “atto rivendicativo di una libertà, soprattutto di amore, repressa dal conformismo e dalla prevaricazione secondo la linea che va da Goethe e da Schiller fino ad Anna Karenina di Tolstoi ed oltre”9. Con la filosofia la contestazione etica del suicidio aveva fatto emergere riflessioni diverse: alcune di natura specificamente teologica (come in Agostino e Tommaso d’Aquino o in Kierkegaard nella sua concezione profondamente religiosa del vivere e del morire), altre di natura più distaccata e razionale (come in Aristotele che contesta all’uomo il diritto di sottrarsi alla patria ed alla società e in Kant che ne fa “un fatto mostruoso” da condannare drasticamente) e altre ancora di natura più radicalmente esistenziale (come in Sartre che lo definisce “un’assurdità che fa precipitare la vita nell’assurdo”). L’interpretazione etica con gli stoici che in Seneca trovavano il loro emblema nella filosofia della morte libera, gli epicurei che facevano del suicidio una metafora di libertà, fino al Cinquecento francese con Montaigne e poi con i grandi moralisti francesi Montesquieu, Rousseau, Voltaire per i quali il suicidio è lecito da ogni punto di vista, porta ad una assolutizzazione della soggettività, alla apologia della morte volontaria che poi in Nietzsche raggiungerà la massima esaltazione. Toccherà a Karl Jaspers nella sua “Filosofia” arrivare ad una 9 Ibidem p. 40

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maggiore distanza emotiva con l’affermazione che la libertà dell’individuo consiste nella scelta del proprio destino e che tale scelta è determinata dalla situazione particolare di ciascuno. Con la Sociologia - (l’opera di Durkeim nel 1897 è un fondamentale punto di riferimento - e con la Psicanalisi - Freud nel 1917 con “Lutto e malinconia” introduce la tesi della prospettiva psicodinamica) il campo veniva sgombrato da pregiudizi morali e ci si interrogava oltre che sulla liceità o meno del suicidio stesso o sulle sue chiarificazioni culturali, come condanna o giustificazione, sul contesto relazionale in cui esso si colloca o sullo stravolgimento su cui si fonda il senso della vita e della morte. In definitiva il suicida crede di ottenere una vita dopo la morte e quindi, proprio mentre se la dà, nega la morte medesima. Nei colloqui clinici con pazienti che hanno effettuato un TS l’ambiguità di fondo su questo tema è fortemente marcata: la morte e l’atto autolesivo non sono consequenziali. In qualche modo è un omicidio attenuato perché ci si rende competitivi con la morte stessa, ci si rende simili alla morte, pensando di avere una vita di ricambio, alternativa, deliberatamente ignorando che l’unico modo per poterla vivere è proprio quella di affrontarla , sia pure con lotte e sacrifici. Non è la morte l’idea dominante nel suicida, ma il desiderio di affermazione, il voler essere almeno per una volta il più forte nell’arte di manipolare la morte medesima. Da tutto ciò il vissuto nel collettivo dei suicidi come invidiosi dei vivi, pieni di risentimento e di vendetta, vaganti in uno stadio intermedio tra la vita e la morte come sono stati ben descritti nell’Inferno Virgiliano: contrariamente a tutte le altre anime i suicidi sarebbero pronti a sopportare le più dure fatiche e la stessa miseria pur di tornare in questo mondo, ma, nonostante questa loro ardente brama di vita, devono restare per sempre nell’Inferno: “non paghi di essersi tolta la vita, ma disposti a tornarvi ad ogni costo pur soffrendo i più duri stenti, ma il Fato s’oppone e la trista palude dall’onda esecrabile li lega, li stringe e li fascia per Edizioni Psiconline © 2017 - Riproduzione vietata

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nove volte lo Stige”10. Il suicidio si fonda, dunque, su una strumentalizzazione dell’idea di morte per uno scopo che non è il morire e ciò spiega l’invidia per i vivi e l’energia vitale non ancora esauritasi che diventa ostile. In Virgilio permangono elementi affettivi per cui le anime suicidarie sopravvivono negli arbusti che germogliano dal corpo come risarcimento per la morte violenta, in Dante invece è accentuata l’ostilità e la trasformazione in demoni maligni e le anime vengono chiuse in una dura prigione da cui non ci si può divincolare “non frondi verdi, ma di color fosco; non rami schietti, ma nodosi e ‘nvolti ; non pomi v’eran ma stecchi con tosco”11. La boscaglia infernale dantesca accentua ancora di più il parallelismo dei simboli della vita con quelli della morte; chi tolse la vita a se stesso non solo non deve avere nessuna apparenza vitale, ma in ogni suo aspetto deve rispecchiare l’immagine della morte: le fronde non sono verdi, ma cineree e gli alberi non portano frutta, ma spine velenose poiché dall’anima che spense il proprio corpo non può che germogliare morte ed infine gli alberi non sono dritti e lisci perché le anime dei suicidi nello sforzo di divincolarsi dalle piante che le rinserrano, li rannodano e li contorcono. Tutto è fuori natura ed in assoluta opposizione ad essa, eppure Dante ne vede ancora l’aspetto umano: piante che parlano e sanguinano ed altro non desiderano che riabilitare la loro memoria nel mondo. 10 Virgilio, “Eneide”, canto VI, A. Signorelli, Roma 1967 11 Dante Alighieri, “La Divina Commedia”, Inferno canto XIII, A. Signorelli, Roma 1967

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